🅐🅡🅣🅔🅢🅤🅞🅝🅞

Recensioni musicali di Silvano Bottaro

immagine

Notevole prova di maturità e sfoggio di evoluzione espressiva da parte degli Okkervil River, band statunitense formatasi nel 1998 è attiva discograficamente dal 2002. The Silver Gymnasium settimo album in studio, è un album intenso e gradevolissimo, che sicuramente farà aumentare il pubblico di ascoltatori.

La facilità di scrittura che The Silver Gymnasium evidenzia non può che colpire favorevolmente, tutte le canzoni scorrono senza forzature o momenti di noia, dando l’impressione che il lavoro di selezione sia stato piuttosto rigoroso. E’ indiscusso “il filo” marcatamente autobiografico del leader Will Sheff, i testi, dal canto loro, riflettono da varie argomentazioni tutte legate da un comune denominatore: l’adolescenza.

Suonato con eleganza e professionalità da musicisti di buon livello, l’album è prodotto e arrangiato da John Agnello che con gusto ha sottolineato la sua presenza, rendendo il disco quasi sicuramente il più fruibile di tutti. Quello che soprattutto colpisce e rende il lavoro “di ottima fattura” è l’ottima forza compositiva e la buona interpretazione. Difficile, ad esempio, scegliere il più bello degli undici brani del disco, tutti a modo loro coinvolgenti. O giudicare se sia meglio un brano invece che un altro. E’ l’album nella sua globalità a travolgere l’ascoltatore, a coinvolgerlo nei cinquanta minuti della sua durata. The Silver Gymnasium è un po’ nostalgico ma certamente suonato in modo impeccabile da un gruppo che reclama giustamente il suo posto nel “gotha” della musica dei nostri giorni.

#duemilatredici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Negli ultimi cinque anni, la musicista inglese Laura Marling ha inciso quattro album, nulla di straordinario si potrà pensare, ebbene, questa cantautrice ha 23 anni e il suo primo lavoro l’ha pubblicato a soli 18 anni.

Se nei primi dischi era inevitabilmente espressa una certa ingenuità, con questo quarto album, la Marling affina la sua musica in modo sottile e discreto. Once I Was an Eagle è un album molto intimo, dove anche i momenti più profondi e le sensazioni personali vengono espresse in maniera semplice, con un senso elegante, consapevole ed intenso.

Il suono è tipicamente folk, principalmente chitarre acustiche, pianoforti, archi e percussioni, tutti estremamente misurati con uno stile molto sommesso e silenzioso.

Sicuramente dotata, vista l’età, la usa forza è la voce che riesce a comandare sia nelle canzoni lente, sia in quelle energiche. Il raffronto con la giovane Joni Mitchell degli anni settanta è inevitabile ma, a onor del vero, riesce a fronteggiare a testa alta.

E’ un disco da ascoltare nei momenti di quiete Once I Was an Eagle, le sue canzoni sono una ricca miscela di suoni che nascono dalle radici folk, country, con delle spolverate rock, flamenco e influenze jazz. La Marling riesce a fondere in un tutt’uno musica e parole magnificamente, fornendoci un chiaro esempio di profonda musicalità.

Da incredibilmente giovane, questo album mostra una maestria artigianale di grande valore, il suo talento avrà spazio per crescere e splendere, visto che il mestiere della folk-singer lo fa dannatamente bene.

#duemilatredici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

I Donna the Buffalo nati nel 1987, hanno dieci album al loro attivo e con questo Tonight, Tomorrow and Yesterday festeggiano il loro quarto di secolo. In questi venticinque anni hanno preferito perfezionare il loro stile, renderlo più solido e maturo piuttosto che cambiare “spostandosi” in aree musicali adiacenti al loro consolidato sound, come dire “mai cambiare la strada vecchia per una nuova”. Il loro suono è un mix di cajun, zydeco, folk, con spruzzatine di ritmi reggae in salsa roots americana.

Tonight, Tomorrow and Yesterday e quanto sopra detto e conferma la loro coerenza musicale. Grazie a dei buoni riff chitarristici e un buon uso del violino e della fisarmonica, il risultato finale è che probabilmente questa è la loro migliore incisione. Ci sono dei brani solidi a dimostrazione di una sana maturazione, nulla di eclatante ma grazie ad una consapevolezza sonora, sicuramente sincera, riescono a convincere. Non scaleranno le classifiche, non faranno impazzire i fan ai loro concerti, non verranno ricordati per un’innovazione sonora, non brilleranno quindi nel firmamento musicale, ma alla fine tutto questo poco conta se in qualche modo riescono ad emozionare.

#duemilatredici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Trilok Gurtu è un sessantunenne (nel 2001) percussionista di Bombay (India) molto richiesto come session man dagli esponenti del jazz e della fusion dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. Notevole quindi è la sua partecipazione ai dischi e ai concerti di grandi della musica degli ultimi quarant’anni, da Don Cherry a Charlie Mariano, da Lee Konitz ad Archie Sheep, da John McLaughlin a Ralph Towner, da Jan Garbarek a Nana Vasconcelos.

Anche nei suoi dischi da solista, di solito alla testa di piccoli gruppi, Trilok Gurtu ha optato un mirabolante impasto sonoro dalle culture di svariati continenti. Basterebbe ascoltare la sua antologia “The Trilok Gurtu Collection (1997)” per constatare, attraverso una serie di brani incisi a suo nome tra il 1987 e il 1996, la vastità di spunti e l’efficacia del suo percussionismo.

In questo disco però il leader torna alle radici, ossia guarda soprattutto all’India in cui è nato e cresciuto: lo fa però non per fare solo musica etnica, bensì per far interagire quell’antica cultura con molte altre che gli sembrano vicine o comunque similari nella forma e nello spirito.

Trilok infatti si affida alla produzione di Wally Badarou, musicista del Benin, che gli suona pure le tastiere e gli affianca la conterranea Angelique Kidjo e Salif Keita del Mali, entrambi vocalist rispettivamente in Jhulelal e Have we lost our dream?. Questo spiega il generale livello afroindiano dell’intero disco, che in alcuni momenti (Passing by ad esempio) propende verso il tipico suono del leader alle tabla, mentre in altri brani la coesistenza di stili differenti è pressoché totale (con accenti funky in Ingoma).

E’ insomma un disco di world music, che passa in rassegna anche le doti strumentistiche di Gurtu su diversi fronti: oltre alle tabla indiane, lo si ascolta alla batteria, alla voce, alle percussioni, all’elettronica.

#duemilauno

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Nato dall’etichetta inglese più artigianale (all’epoca), la Virgin, frutto di un ottimo investimento, il disco scalò velocemente la classifica inglese, senza arrivare al primo posto perché le copie immesse erano poche e quindi furono subito esaurite, con i negozi d’importazione di tutto il mondo che facevano a botte per averne almeno una.

Eppure nonostante ciò Tubular Bells non è un disco commerciale, tutt’altro, è un disco con tante complessità piacevoli che difficilmente si riescono a capire con una recensione.

Mike Oldfield è il protagonista assoluto di tutti questi “solchi” (cinquanta minuti di suoni) sia come compositore che come esecutore, suonando praticamente tutti i venti e più strumenti che ivi compaiono: è proprio questa enorme varietà di strumenti la prima cosa che colpisce del disco: una vera celebrazione del suono nelle sue infinite possibilità.

Oldfield è come un grande imbuto teso ad imprigionare questo dono peculiare della musica progressiva che è la varietà dei suoni, l’emozione tonale, il perfetto rendimento acustico: da qui tutto questo patrimonio, raccolto e quindi manipolato, distorto, trasformato, esasperato o raddolcito diviene momento della sensibilità umana, istante creativo. Così la melodia, il ritmo, la composizione stessa nascono sul suono, per esso; con Oldfield ci si addentra in un profondo mutamento del concepire la composizione musicale: non più assoggettati alla monotonia degli strumenti usuali.

Così la “prima facciata” di questa variatissima suite raccoglie una serie di brevi, incisi, accattivanti flash musicali, ciascuno con i propri strumenti in una girandola emotiva di sensazioni espresse, di suoni incredibili: eppure in tutto questo variare, nell’improvviso succedersi delle melodie ai ritmi, della dolcezza più assoluta e del suono teso e lacerante, il mago Oldfield trova sottili fili conduttori, una trama di temi sovrapposti e intricati che procurano all’opera un nesso logico, il senso di una grande, maestosa progressione.

Questa progressione termina sinfonicamente nella passerella dei vari strumenti che lo stesso Mike presenta sorretto da una base ritmica di bassi spettacolari, il canto finale, simbolo della cristallinità, del poter racchiudere tutto in sé ricreando, è quello delle campane tubolari, le ispiratrici dell’opera.

La “seconda facciata” si presenta indubbiamente meno spettacolare, ma la continua varietà sonora, l’indugiare più a lungo sul modulo sonoro sprigionando in pieno la propria libertà espressiva, nulla tolgono anche a questa seconda parte. Oldfield, ormai padrone di tutti gli orizzonti musicali manifesta la sua misuratissima carica ironica incentrando il brano intorno al canto grottesco delle sue campane tubolari.

#millenovecentosettantatre

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Là, da qualche parte nella sconfinata metropoli chiamata New York City, incontriamo la musica di “Caveman”, secondo disco del quintetto omonimo, bellissimo intreccio fra voce di intensità emozionale e un tappeto sonoro le cui trame sono tese dagli efficaci e raffinati interventi delle chitarre e dal resto degli strumenti.

A differenza del loro primo sottovalutato album “Coco Beware” del 2011, disco con sfumature “folkeggianti”, “Caveman” si sposta verso sonorità più indie-rock convincendo e dimostrando una maturità, per quanto ancora in fase di ossatura, molto più marcata.

Gli uomini delle caverne non si sono ancora costruiti un vero e proprio “marchio estetico” ma la buona volontà è evidente nelle undici canzoni che compongono il disco. I brani sono ricchi di armonie chitarristiche a volte lente e caratterizzate da atmosfere malinconiche, a volte forti in un crescere lucido e lamentoso.

L’album è sicuramente assai riuscito con delle piacevolissime ballate, basti ascoltare: “In The City”, “Shut You Down”, “Never Want To Know” e “The Big Push”, per rendersene conto, quattro brani di grande spessore, che alzano il valore del disco di una spanna rispetto alla media dalle uscite di questo duemilatredici.

Un disco consigliato e che sicuramente entrerà nel podio della mia classifica annuale.

#duemilatredici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Non è mai stato un disco vero e proprio, ma una sorta di esame collettivo: una seduta di psicanalisi di gruppo alla quale ogni ascoltatore (milioni e milioni) ha dato il suo contributo di “sangue, sudore e lacrime” percorrendo migliaia di volte i solchi del suo vinile, come se lungo il tragitto, spigolando tra “Triad” e “Ohio”, Cowgirl in the sand” e “On the way home”, avesse perso le chiavi di casa.

All’interno di 4 Way Street si poteva sfogliare il libro delle speranze. Ma letto nel maggio del ’71 (il disco uscì il 12 del mese, a un anno esatto da Dèja vu), quel libro sembrava già il libro delle illusioni: dalla persuasione allo sconforto la “Caravan of dreams” di Woodstock impiegò poco più di un anno e mezzo. Gli stessi argomenti, a obbiettivo mancato, suonavano decisamente più agghiaccianti. Ma probabilmente ancora più veri.

Proprio per il fatto che non poteva più cambiare niente (e forse per il fatto che niente, e mai, sarebbe potuto cambiare) parole e suoni di 4 Way Street divennero il simbolo del sogno di libertà che svanì in dissolvenza, come una canzone qualsiasi. O come una canzone precisa, dal titolo altrettanto preciso (Find the cost of freedom). La cruenta convention democratica di Ohio, la rabbiosa denuncia anti-razziale di Southern man, la non meno forte posizione di Cowgirl in the sand, le persistenti voglie acide della vecchia proposta di elevarsi a camminare “a otto miglia da terra” del Crosby “farmacologicamente mistico” erano già diventate messaggio ai posteri. I quattro cavalieri non cercavano in realtà alcuna apocalisse, ma in un certo senso, stracciando ogni vecchio criterio di perfezione concertistica, unendo errore agli assoli e irripetibili magie vocali, si costruirono la loro privata apocalisse.

4 Way Street aveva dunque la forza delle cose andate e la grinta disperata delle situazioni terminali. Conteneva i gesti di un popolo scatenato contro le picolezze del sistema: gesti consunti dalla sofferenza di non aver cavato un solo ragno dal buco attraverso i canali della rivolta. Ma i quattro cavalieri sembravano ancora talmente fieri di non aver ceduto, benchè sconfitti dalla storia, che 4 Way Street appare ancora adesso di una straripante vitalità ideologica e di una ammaliante bellezza musicale.

#millenovecentosettantuno

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

A quattro anni da Keep it Simple ultimo suo disco in studio, esce Born To Sing: No Plan B, album registrato interamente in presa diretta nel castello di Culloden in Irlanda e precisamente a Belfast sua città natale. Per questo lavoro, Morrison ha scelto e non a caso, l’etichetta jazz Blue Note. Il “suono” infatti, è prevalentemente influenzato di jazz, oltre che di soul e blues “toni” a lui sempre cari.

Nel sottotitolo dell’album Born To Sing: No piano B, è indicato il potere che la musica ancora possiede per questa leggenda vivente chiamato “The Man”. Nessun Piano B infatti, è la prova concreta che non esistono secondi piani, l’assoluta convinzione per questo quasi settantenne musicista con cinquanta anni di carriera alle spalle e trentacinque dischi pubblicati, che, la musica con l’”M” maiuscola ha ancora un valore assoluto, supremo, e che, se esistono mode e modi che in qualche modo vogliono distogliere la sua vera essenza, la musica quella “vera” esiste ancora, senza se e senza ma.

Da vecchio fan di The Man, sarò sincero, non mi aspettavo un buon disco come questo, il nostro infatti, ultimamente non brillava di buona luce e un suono mediocre e stantio aveva avuto il sopravvento.

Fin dal primo ascolto, il comun denominatore che lega i dieci brani del disco è la maestria con cui è strumentalmente suonato. La band di sei elementi e in particolare i fiati di Chris White e Paul Moran rispettivamente al sax tenore e alla tromba, danno un tocco di eleganza di notevole spessore.

Se quasi la metà dei brani: Going down to Monte Carlo, Retreat and view, If in money we trust e Pagan heart raggiungono i sette/otto minuti e sottolineano l’incommerciabilità dell’album le restanti: Open the door (To your heart), Born to sing, End of the rainbow, Close enough for jazz, Mystic of the East e Educating Archie, ci fanno capire e dimostrano un vecchio musicista in piena forma e con ancora voglia di suonare.

Don Was, megaproduttore e ora discografico di Van Morrison, nell’ unica intervista che lo scontroso irlandese ha deciso di rilasciare per l’uscita dell’album, gli ha chiesto: Di cosa parla la tua musica? Ecco la sua risposta: “Finisco sempre per scrivere di… chiamiamola energia, perché il senso delle parole cambia continuamente. Oggi il Rhythm and Blues non è più quello che intendevo io, e neppure il Soul. Neanche le religioni usano più le parole di un tempo. Oggi tutto serve a intrattenere la gente, a farli preoccupare con la Reality Tv, che è televisione fatta da gente che si comporta come se fosse vero. Così la gente non ha neppure il tempo di chiedersi: chi sono? Cosa penso veramente? Tutto serve a distrarre, anche la musica, a tenere la gente preoccupata perché non pensi. Ecco, è il contrario di quello che voglio fare io”.

La cosa che più colpisce nei testi è l’amarezza con cui Morrison osserva la crisi finanziaria ed economica globale. In diverse canzoni il senso di indignazione per il materialismo e l’avidità che hanno avvelenato la società è palpabile e questo fin dal primo brano. Un Morrison indignato quindi ma musicalmente brillante.

Nel “No Plan B” è racchiuso il suo “senso” di suonare e fare musica, proprio per questo, nonostante la miriade di dischi pubblicati e l’età che avanza, “The Man” non è mai banale, potrà non piacere, potrà non suscitare emozioni come invece succede ai suoi fan, ma, non sarà mai scontato e superficiale. Questo è quanto basta per renderlo, nonostante la sua nota antipatia, un grande musicista.

#duemiladodici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Dopo il non troppo brillante Valtari, album in certi momenti soporifero, i Sigur Ròs ritornano con una veste rinnovata e questa volta convincono.

Kveikur, il settimo album in studio della band islandese attiva dal 1994, si muove su strade più dinamiche ed effervescenti, evidenziando subito la diversità dai lavori precedenti, infatti, Kveikur è forse l’album più avventuroso dei Sigur Rós e può davvero essere visto come un nuovo inizio per la band. Kveikur è un album coraggioso con suoni a volte aggressivi, a volte dolci malinconici, ma che, in entrambi i casi, fa respirare un’aria di innovazione. Questo è da attribuirsi soprattutto alla partenza del membro fondatore Kjartan Sveinsson, il tastierista e polistrumentista di formazione classica che ha “fornito” quel suono particolarmente concentrato e profondo che gli ha finora caratterizzati. E’ difficile comprendere dove porti questo “spostamento” repentino, capire quindi quale direzione intraprenderanno, visto che, tante idee diverse, elaborate in così poco tempo, possono lasciare spaesati. Quello che conta comunque è che l’album si fa ascoltare, le nove composizioni del disco lasciano poco spazio alla monotonia e sono invece un susseguirsi di variazioni umorali. Dopo alcuni ascolti il giudizio e sicuramente più che positivo. I Sigur sembrano usciti dalla loro “gabbia” sonora che per certi aspetti li stava racchiudendo senza via d’uscita, ora è importante che chiariscano quale percorso artistico coltivare e su quello lavorare senza farsi prendere dai tentacoli del music-business.

#duemilatredici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Abbandonando una strada per certi aspetti sperimentale e originale, gli Editors con questo quarto album ne imboccano una più facile e meno rischiosa. La band britannica all’attivo da una decade, più che arrampicarsi, preferiscono discendere in sonorità già conosciute e di facile presa, non a caso, i riferimenti musicali a gruppi come i Depeche Mode e gli U2 non mancano. Probabilmente il gruppo sta vivendo un periodo un po’ confuso dove ancora non ha chiarito il suo percorso artistico, è da sperare solo che non imbocchi questa strada, potrebbe essere uno dei tanti modi per scomparire. “Io spero che mi sbaglio”.

In virtù di questo fatto, le undici canzoni che compongono il disco sono orecchiabili e di facile presa, strizzando così l’occhio ad un pubblico nuovo e più vasto. Molto piacevole ma privo di veri spunti eccitanti o degni di nota, le composizioni risultano tutt’altro che banali, con soluzioni armoniche raramente scontate ma, di nuovo, l’impatto è modesto. I brani pregevoli e gradevoli, scorrono senza lasciare segno, senza muovere il desiderio di ritrovare il pezzo preferito, semplicemente perché tutto suona così “perfettino”. Ottimo da ascoltare in auto o in momenti “easy”, sicuramente farà la gioia a molti nuovi fan ma lascerà il palato amaro ai più vecchi.

#duemilatredici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit