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Sono trascorsi quasi quarant’anni dalla sua prima pubblicazione “Hangin’ Around the Observatory” targata 1974, in mezzo ci sono vent’uno dischi, alcuni memorabili come Bring the Family del 1987 e il successivo Slow Turning del 1988, altri ottimi come Perfectly Good Guitar, Crossing Muddy Waters, Master of Disaster e The open Road, alcuni sufficienti, tra gli ultimi Same Old Mandel 2008. Ora, dopo la sua ultima prova Dirty Jeans and Mudslide Hymns dell’anno scorso, disco che non ho avuto il piacere di ascoltare, ritorna con questo Mystic Pinball ed è ancora buona musica.

Hiatt è un grande scrittore, le sue canzoni ne sono la testimonianza. La sua peculiarità è proprio quella di adattare il suono, le note alle parole dei testi che tanto facilmente e soprattutto bene gli riescono. Detto questo è chiaro che la musica non diventa primaria nel suo modo di comporre. Ha il grande dono di saper creare personaggi, di saper risaltare le loro debolezze, la loro disperazione e occasionalmente i loro momenti felici, e tutto questo riesce a farlo con un senso dell’umor assai marcato. Le sue canzoni sono fatte di parole e immagini contornate da musica e anche questo suo ultimo lavoro ne è il chiaro esempio.

In Mystic Pinball, Hiatt esplora i temi della quotidianità affettiva come l’amore, il tradimento, la perdita e la felicità. Temi che per un sessant’enne (compiuti il venti agosto scorso) possono risultare forse “fuori tempo” ma è la sua anima “giovanile” ad avere il sopravvento e probabilmente anche quella che lo fa rigenerare di volta in volta.

Dodici i brani presenti con ballate, chitarre e pianoforte tra i marcatori dell’album. Un disco nel suo genere senza particolari rivelazioni, senza nessun azzardo. Forse qualcuno si aspettava qualcosa di più, forse l’uscita dei suoi album andrebbe un po’ diradata, forse… va bene comunque.

I fans saranno contenti lo stesso, gli altri meno.

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Tirando in ballo il cane di Ponzio Pilato chiamato “Banga” (dal libro “Il maestro e Margherita” di Bulgakov), la nostra sacerdotessa del rock pubblica il suo undicesimo album. Disco di inediti (a parte un brano) che esce a otto anni da Trampin’ e a cinque da Twelve, album di solo cover.

Patti Smith pubblica un’album di canzoni, quelle classiche, quelle che seguono la “forma” vera, ballate che raccontano “storie” di persone, fatti e tragedie personali e sociali. Tra i brani infatti, troviamo riferimenti che vanno dal terremoto in Giappone alle scomparse di Amy Winehouse e Maria Schneider. Le dodici canzoni che compongono l’album sono costruite su testi importanti, sono riflessioni ed esperienze, cariche di poesia e di reale vita quotidiana. Dodici canzoni per dodici tributi, dodici omaggi a persone, amici, personalità e popoli che in qualche modo hanno colpito i sentimenti della poetessa e che poi ha messo in musica.

Apre il disco Amerigo, il riferimento è a Vespucci e alla sua scoperta del Nuovo Mondo. Bell’inizio con un “triangolo”: voce, pianoforte e violino, che fa ben sperare. April Fool, letteralmente “Pesce d’Aprile” è il singolo che è uscito guarda caso il primo di aprile. Il brano è un omaggio allo scrittore Gogol, nato in questo giorno. Il terzo brano Fuji-San è dedicato alle vittime dello tzunami che ha colpito il Giappone lo scorso anno. Il suono a sentori orientali/nipponici, naturalmente. This Is The Girl ha sapore decisamente “fifties” ed è il ricordo/tributo a Amy Winehouse, tragicamente scomparsa, l’anno scorso. Il quinto brano Banga, è il risultato di una breve crociera a bordo della Costa Concordia. Ottima canzone che ben descrive il moto ondoso dell’oceano. Altro tributo è Maria, canzone malinconica dedicata alla Schneider, anche lei scomparsa nel 2011 e molto amica della Smith. La seconda parte del disco inizia con Mosaic, i riferimenti sonori questa volta ci portano ai paesi dell’est e proseguono con Tarovsky (the second stop is Jupiter) brano dedicato al regista russo. Dall’est all’ovest con un altro omaggio: Nine, e questa volta è il turno di Johnny Deep omaggiato per il suo compleanno. Il secondo brano (decimo della scaletta) scritto durante la crociera a bordo della costa Concordia è Seneca, fisarmonica e violini la fanno da padroni. Siamo al penultimo brano del disco Constantine’s Dream (Sogno di Costantino), dedicato all’affresco di Piero della Francesca conservato all’interno della basilica di San Francesco. Conclude l’album After the Goldrush brano di Neil Young e unica cover del disco, bellissima versione con tanto di coro fanciullesco finale.

Buon disco Banga, molto fruibile e tra i più orecchiabili che la nostra sessantacinquenne abbia mai scritto ma non per questo è un lavoro superficiale ne tantomeno banale. E’ un disco a tutto tondo dove i testi e il suono vanno a braccetto, tutto condito da un’ ottima qualità. Brava Patti!

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A quattro anni da Keep it Simple ultimo suo disco in studio, esce Born To Sing: No Plan B, album registrato interamente in presa diretta nel castello di Culloden in Irlanda e precisamente a Belfast sua città natale. Per questo lavoro, Morrison ha scelto e non a caso, l’etichetta jazz Blue Note. Il “suono” infatti, è prevalentemente influenzato di jazz, oltre che di soul e blues “toni” a lui sempre cari.

Nel sottotitolo dell’album Born To Sing: No piano B, è indicato il potere che la musica ancora possiede per questa leggenda vivente chiamato “The Man”. Nessun Piano B infatti, è la prova concreta che non esistono secondi piani, l’assoluta convinzione per questo quasi settantenne musicista con cinquanta anni di carriera alle spalle e trentacinque dischi pubblicati, che, la musica con l’”M” maiuscola ha ancora un valore assoluto, supremo, e che, se esistono mode e modi che in qualche modo vogliono distogliere la sua vera essenza, la musica quella “vera” esiste ancora, senza se e senza ma.

Da vecchio fan di The Man, sarò sincero, non mi aspettavo un buon disco come questo, il nostro infatti, ultimamente non brillava di buona luce e un suono mediocre e stantio aveva avuto il sopravvento.

Fin dal primo ascolto, il comun denominatore che lega i dieci brani del disco è la maestria con cui è strumentalmente suonato. La band di sei elementi e in particolare i fiati di Chris White e Paul Moran rispettivamente al sax tenore e alla tromba, danno un tocco di eleganza di notevole spessore.

Se quasi la metà dei brani: Going down to Monte Carlo, Retreat and view, If in money we trust e Pagan heart raggiungono i sette/otto minuti e sottolineano l’incommerciabilità dell’album le restanti: Open the door (To your heart), Born to sing, End of the rainbow, Close enough for jazz, Mystic of the East e Educating Archie, ci fanno capire e dimostrano un vecchio musicista in piena forma e con ancora voglia di suonare.

Don Was, megaproduttore e ora discografico di Van Morrison, nell’ unica intervista che lo scontroso irlandese ha deciso di rilasciare per l’uscita dell’album, gli ha chiesto: Di cosa parla la tua musica? Ecco la sua risposta: “Finisco sempre per scrivere di… chiamiamola energia, perché il senso delle parole cambia continuamente. Oggi il Rhythm and Blues non è più quello che intendevo io, e neppure il Soul. Neanche le religioni usano più le parole di un tempo. Oggi tutto serve a intrattenere la gente, a farli preoccupare con la Reality Tv, che è televisione fatta da gente che si comporta come se fosse vero. Così la gente non ha neppure il tempo di chiedersi: chi sono? Cosa penso veramente? Tutto serve a distrarre, anche la musica, a tenere la gente preoccupata perché non pensi. Ecco, è il contrario di quello che voglio fare io”.

La cosa che più colpisce nei testi è l’amarezza con cui Morrison osserva la crisi finanziaria ed economica globale. In diverse canzoni il senso di indignazione per il materialismo e l’avidità che hanno avvelenato la società è palpabile e questo fin dal primo brano. Un Morrison indignato quindi ma musicalmente brillante.

Nel “No Plan B” è racchiuso il suo “senso” di suonare e fare musica, proprio per questo, nonostante la miriade di dischi pubblicati e l’età che avanza, “The Man” non è mai banale, potrà non piacere, potrà non suscitare emozioni come invece succede ai suoi fan, ma, non sarà mai scontato e superficiale. Questo è quanto basta per renderlo, nonostante la sua nota antipatia, un grande musicista.

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A sette anni dall’ ultima loro pubblicazione “Rebel, Sweetheart”, i Wallflowers tornano con una nuovo lavoro chiamato “Glad All Over”, loro sesto album che segna una decade di esistenza o meglio, di permanenza, nel pianeta musicale.

I Wallflowers sono caratterizzati dalla presenza di Jakob Dylan, uno che di canzoni ne “mastica” qualcosa visto che, molto probabilmente, il DNA gioca a suo favore. Ovviamente, l’essere un “songwriting” è nel sangue, i testi ne sono la testimonianza.

Due brani del CD; “Misfits and Lovers” e il singolo “Reboot the Mission” sono caratterizzati dalla presenza di Mick Jones, una presenza determinante soprattutto nel secondo brano citato, dove il suono è praticamente riconoscibilissimo e riconducibile ad un grande e unico gruppo: i Clash.

Il resto delle canzoni riportano il disco a un suono più familiare ai Wallflowers, un suono non certamente originalissimo ma comunque non mancante di energia e sentimento. Undici brani originali ti buona fattura senza (a parte il singolo sopra detto) particolari colpi di fulmine ma non per questo noiosi e privi di emozione.

Jakob Dylan è uno dei pochi figli di padri famosi che è riuscito a crearsi una sua personale carriera senza rimanere all’ombra della figura paterna. Si è ritagliato un suo personale stile di scrittura e canto, ed è soprattutto per questo che i Wallflowers hanno ancora motivo di esistere.

Un buon disco quindi, ed anche se, non scalerà le classifiche di opinione per gli “esperti” musicali, avrà sicuramente un buon successo di vendita visto che il singolo viene trasmesso in continuazione dalle radio.

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Quarto album per questi “Orsi grigi”, giovane band americana attiva dal 2004.

Dopo “Veckatimest”, uscito nel 2009, album che ha avuto notevole successo di critica e di pubblico, i Grizzly si sono presi una pausa, un periodo non proprio di riposo visto che, nel frattempo, hanno avuto esperienze personali, “momenti” utili per capire cosa fare del proprio futuro o meglio cosa fare dei Grizzly Bear. Il risultato è questo Shields, una costola del precedente “Veckatimest”, meno incisivo, ma più equilibrato.

Dieci sono i brani presenti; scritti, suonati e cantati da tutti e quattro i musicisti del gruppo. Le sonorità si aggirano in territori indie-folk (come i precedenti) con qualche strizzatina d’occhio alla psichedelia e soprattutto al pop, senza però guastare.

I brani registrati in presa diretta dimostrano una raggiunta maturità stilistica e sonora. Abbandonato un certo “sperimentalismo” presente nei dischi precedenti, l’ascolto risulta assai piacevole senza sconfinare nell’”easy” e, pur mantenendosi su atmosfere “leggere”, il disco è ricco di melodia e di buoni spunti sonori. Shields è sicuramente la dimostrazione di un cambiamento avvenuto nei Grizzly, il disco è più solare, più diretto e maturo.

Credo che il i Grizzly Bear avranno ancora molto da dire sempre che il “pop” non gli da troppo alla testa e si facciano mangiare dal “music business”. Insomma possono riservarci ancora buone cose.

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Ed eccolo ancora qui l’ultrasettantenne Bob Dylan, con il suo nuovo disco “Tempest”, il trentacinquesimo, in uscita a cinquant’anni giusti dal suo primo album “Omonimo” datato 1962. Difficile poter valutare con precisione la portata dell’influenza che ha avuto il Dylan di quegli anni. I suoi pezzi divennero inni al di là della sua volontà. Blowin’ in the wind, A hard rain, The times they are a changin’, Mr. Tambourine man, furono i pezzi giusti al momento giusto. Quei brani fecero più o meno l’effetto di un’esplosione di consapevolezza. Musicalmente ha spazzato via ogni stereotipo, cambiando continuamente direzione, affermando con determinazione di sentirsi soprattutto un artista libero di scrivere quello che più gli piaceva, sminuendo di molto l’aspetto rigorosamente militante della sua prima produzione. La sua storia si svolge tutta all’insegna di un continuo ciclo di morti e rinascite nel tempo. E’ il personaggio più contestato, indagato, amato e odiato di tutta la storia del rock, sempre aspramente contraddittorio, scomodo, di quelli che mettono a disagio l’interlocutore.

Il Dylan di oggi, giustamente, è più riflessivo sui temi della vita. I testi infatti parlano soprattutto della vecchiaia e della morte. Se musicalmente non vincerà il premio per l’originalità anche in questo il disco dividerà il pubblico tra chi lo loderà come un capolavoro e chi invece lo rilegherà tra la solita “solfa”.

Personalmente l’aggettivo che più incarna tutto il lavoro è: affascinante, affascinante e tutti i suoi sinonimi. Affascinante come un panorama, suggestivo come un tramonto, piacevole come un profumo. Ecco, in questi aggettivi è racchiuso il valore dell’album.

Le dieci canzoni che lo compongono sono un continuo cambiamento di umore, naturalmente dettati dalle sonorità influenzate dai testi.

Ottima apertura con “Duquesne Whistle” considerando il suo precedente Together Through Life del 2009, che mancava di po’ di “sostanza” questo brano mette già subito quell’energia che i suoi fan aspettavano. “Soon After Midnight” è una piacevole passeggiata con un testo dolce e sussurrato al contrario di “Narrow Way” che ha delle belle sonorità blues…ate. “Long and Wasted Years” con un accattivante riff chitarristico mette in luce la sua intensa voce corposa. Il successivo trio: “Pay In Blood” rispecchia i suoi classici, canta e suona a briglia sciolta con un testo diretto e spietato e un “suono” Dylan…iato, “Scarlet Town” ricorda il suono di Modern Times e “Early Roman Kings” con la fisarmonica di David Hidalgo, ci riportano a un Dylan “conosciuto” ma per nulla scontato. Le ultime tre canzoni di Tempest concludono ottimamente l’album. “Tin Angel” è un racconto narrativo di un triangolo amoroso che fornisce ottimo materiale per gli analisti dei testi di Dylan, simboli e significati nascosti abbondano inverosimilmente. La title track “Tempest” è una metafora sulla vita, su come siamo tutti inconsapevolmente (o consapevolmente n.d.r.) responsabili del nostro destino. Chiude l’album “Roll On John”, una contemplazione sulla morte del suo vecchio amico John Lennon, virando tra i suoi elementi biografici e frammenti dei suoi testi.

Tempest è un ottimo album e ci mostra ancora una volta un Dylan presente, riflessivo e per niente stanco. Le sue tipiche intuizioni e la sua destrezza sono ancora attive, e, ancora una volta, riescono a capovolgere tutte le aspettative, regalandoci dieci brani senza tempo. Sorprendendo e affascinando allo stesso tempo.

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(or What We Did On Our Summer Vacation)

A quattro anni dal loro ultimo disco “Saturday Nights and Sunday Mornings”, i Counting Crows ritornano con un nuovo lavoro e questa volta è un disco di cover, spiazzando ancora una volta i loro fan. Ad Adam Duritz & co. infatti, una cosa su cui non si discute è la libertà di “scelta”, in poche parole fanno quello che gli pare senza filtri e costrizioni di sorta. Questa loro “scelta” gli permette di spaziare non solo con dischi variegati; dal vivo, in studio, di cover ma soprattutto con i tempi da loro scelti in base alle loro esigenze e non quelli dettati dalle Majors di turno. Dimostrazione è la scelta dei quindici brani che non appartengono ad un repertorio di canzoni famose o di facile ascolto ma scelte tra quelle che più piacevano a loro. Come risponde Duritz in una intervista: “Io sono un grande credente di una semplice regola, che qui non ci sono regole”. Insomma un gruppo “indipendente” nelle scelte e nelle esecuzioni della serie “prendere o lasciare”.

Underwater Sunshine miscela quindici brani di artisti del calibro di The Byrds, Fairport Convention, Big Star e altri meno conosciuti. La bella voce di Duritz e il suono dei compagni, estremamente compatto e pulito, rendono impossibile la scelta delle migliori, tutte sono di buon livello con una manciata di ottime, comunque tutte ben riuscite.

In sostanza, Sunshine Underwater è un’omaggio alla musica degli altri e soprattutto alla musica in generale, un omaggio che, visto che la “personalizzazione” e la maestria con cui è suonato e arrangiato, lo rende uno dei lavori più belli della loro discografia.

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Dopo una pausa di quasi quattro anni (il suo ultimo lavoro “Red Letter Year” è del 2008) dovuti al matrimonio e alla maternità, la quarantunenne Ani DiFranco ritorna con un nuovo disco, il diciannovesimo: ¿Which Side Are You On?

Sono presenti alla realizzazione di questo album Pete Seeger, i Neville Brothers, il compagno e produttore del disco Mike Napolitano e molti altri musicisti di New Orleans, città di residenza della DiFranco.

Il “marchio” che ha sempre contraddistinto la folksinger americana è l’impegno politico, la libertà e l’autonomia di pensiero e di azione, proprio per questo non ha mai accettato compromessi con le major, pagando di persona l’esclusione dalle radio e dai riflettori mass-mediatici.

Combattente, idealista e coerente è da più di vent’anni sulla scena folk, dimostrando sempre un marcato talento, una coscienza sociale, uno stile e una voce evoluti e fuori dal coro.

Abbandonate le raffiche furiose, i riff energici di chitarra dei vecchi tempi, l’atmosfera generale è tranquilla, il “suono” è più tenero e riflessivo ma non per questo meno forte. I testi dei brani parlano di temi sociali e politici e gli argomenti non mancano: aborto, situazione economica, tensioni razziali e diritti delle donne. Le sue canzoni infatti, altro non sono che riflessioni personali su quello che gli accade attorno e, con sorprendente ironia e chiarezza, riesce a trasmettere in maniera semplice e diretta.

Nonostante i temi ricorrenti, considerando l’attuale clima politico e una sua dichiarazione: “Mi sento frustrata, politicamente disperata. Dopo aver scritto centinaia di canzoni, mi chiedo, oggi quanto posso spingermi oltre? Credo di aver superato una volta ancora i miei limiti nella politica e nell’arte, per vedere cosa la gente è pronta a sentire”, la DiFranco non dispera e lascia intravedere qualche spiraglio di cambiamento. I suoi testi e la sua musica sono più attuali che mai. Nel caos della protesta globale, la voce sincera, toccante e determinata della DiFranco riesce a farsi sentire, ed è certamente una che vale la pena ascoltare.

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Quante volte ci si chiede se un musicista ormai datato della scena artistica mondiale, con decine e decine di album pubblicati, abbia ancora qualcosa di nuovo da farci sentire? E’ molto probabile che, se il musicista non appartiene alla nostra sfera di preferenza, lo si liquidi subito, a volte ancor prima di ascoltarlo, con un bel “niente di nuovo”, “album inutile”, “ormai finito” ecc. ecc.; se invece è un nostro beniamino o ancor meglio apparteniamo alla sfera dei suoi fans incalliti, è molto probabile che il nostro giudizio sia “oscurato” dal classico velo affettivo che, per carità non è “pietoso”, ma senz’altro poco obbiettivo. Ecco, tutta questa premessa per arrivare a dire che, personalmente, pur appartenendo alla seconda sfera, quella dei fan incalliti e non da tempi recenti, serenamente affermo che Wrecking Ball è un buon album e il nostro sessantatreenne “The Boss” riesce a dirci ancora molto!

Un gradino al di sotto di Magic del 2007 e un gradino sopra di Working On a Dream del 2009, “Wrecking Ball” si colloca nella “via di mezzo”. Certo, siamo lontani dal suo ultimo capolavoro “The Rising” del 2002, escludendo quei due lavori leggermente atipici che sono l’acustico “Devils & Dust” del 2005 e quel folkloristico “We Shall Overcome: The Seeger Sessions” del 2006.

Gli album di Springsteen e di conseguenza i suoi testi rispecchiano sempre il periodo attuale e anche questo diciassettesimo album in studio “Wrecking Ball” ossia “palla demolitrice” non fa differenza. Se “Working On A Dream” portava un vento di speranza legata soprattutto all’ascesa di Obama alla presidenza Americana, “Wrecking Ball” riflette la società e il pensiero odierno ossia la recessione, la consapevolezza di vivere un periodo critico e difficile dovuto alla crisi economica che esaspera milioni di persone.

Un album per certi versi amaro quindi, dove non si risparmia nessuno, dai politici agli economisti, dagli amministratori ai banchieri, ma che al contempo, invita a non arrendersi, a continuare ad usare la rabbia, il motore che crea la forza per vincere. I temi sociali sempre in prima linea, ma non solo, anche storie di vita quotidiana, un “personale e politico” che si fondano in un tutt’uno. Un album che sottolinea alcuni aspetti negativi della vita come l’amarezza e la delusione ma che, come quasi sempre avviene, lancia un “messaggio” positivo e ottimista: sogno e speranza è ancora una volta il consiglio Springstiniano. Prendersi cura di noi per creare un futuro migliore per i nostri figli è il suo slogan preferito.

Le musiche ben amalgamate (come sempre) con il “senso” dei testi, creano tredici brani strutturalmente buoni. Si va da “We Take Care of Our Own” brano allegro e coinvolgente a “This Depression”, bellissima canzone lenta, probabilmente dedicata alla moglie Patti Scialfa, tra le più belle del disco. Da “Easy Money”, brano countrygheggiante a “Wrecking ball” altro ottimo brano con un riff tra i più orecchiabili. Dalla entusiasmante “Shackled and Drawn” a “Death to My Hometown”, un misto di celtico e gospel, terzo brano più bello del disco. Da “Swallowed Up”, brano testuale a “Land of Hope and Dreams” il brano più “springstiniano” dell’intero album. Se “Jack of All Trades” è un altro brano lento e riflessivo, “Rocky Ground” è un brano anomalo, una strana campionatura e una voce femminile lo rende il più innovativo del disco. “American Land” è una ballata energica mentre le ultime due: “You’ve got it” e “We are Alive” si mantengono nel “genere springstiniano” senza particolari emozioni.

Se la fisarmonica e il violino fanno riecheggiare il sound irlandese e il banjo è una reminescenza “seegeriana”, non bastano a far di questo Wrecking Ball un disco marcatamente folkanzi, è ancora il rock a fare da padrone. Il suono è energico, senza eccessi e, ancora una volta, chitarra, basso e batteria, riportano il Boss al stile classico a noi più caro. Non entrerà tra i Top della discografia Springstiniana questo “Wrecking Ball” ma resta comunque un buonissimo disco, per nulla scontato ne tantomeno noioso e banale e anzi, quello che più conta, non lascia trasparire il senso di “vuoto musicale” che, a dire il vero, colpisce molti musicisti non più in tenera età.

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