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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

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Dopo l’ottimo Hight Violet e lasciati per il momento i loro progetti personali, ritorna una delle mie band preferite: The National.

Attivi dal 2001 con il disco Omonimo e successivamente con Sad Songs for Dirty Lovers, è con Alligator che cominciano la scalata verso la notorietà. Con i successivi Boxer e il sopra citato Hight Violet e grazie ai consensi di critica e pubblico, i The National vengono definitivamente consacrati nell’olimpo della musica degli anni duemila. Le due coppie di gemelli: Dessner & Devendorf, la voce bellissima e inconfondibile di Matt Berninger, riescono ancora una volta a farsi apprezzare con i tredici brani che compongono l’album.

Per paradossale che vi possa apparire, gruppi come questo sono i più difficili da ‘inquadrare’ e ‘giudicare’ (ahi, che parolaccie). Perchè? Perché sono più scivolosi delle saponette, quando credi di esserti lavato davvero la schiuma dalle mani ti trovi sul palmo un segno profondo. E allora devi rifare tutto da capo.

Al primo ascolto di Trouble Will Find Me dà subito l’esatta misura del carisma posseduto dalla band di Cincinnati, che mostra di aver definitivamente affilato le proprie sonorità. Almeno un paio di composizioni sono da considerare capolavori, un’altra manciata sono di ottimo livello e le restanti non sono in nessun caso di serie B, e questo solo al primo ascolto, poi man mano che lo si approfondisce, ci si rende conto che si ha a che fare con un grande disco.

L’intero album scorre vellutato con l’attenzione concentrata sull’elemento melodico, sulla stesura di riff solidi e lineari e sulle sonorità delle chitarre elettriche, nobiliato dall’interpretazione vocale di grande pregio di Berninger.

Nella inspiegabile logica dei corsi e ricorsi, i The National sembrano voler ritornar con un passo alle radici del loro percorso musicale, recuperando quel modo di essere, spontaneo un po’ sanguigno, da giovani universitari, che segnò il loro esordio e allo stesso tempo, sembrano voler mettere un passo in avanti a mo’ di ‘rigenero’, come linfa vitale di rinnovamento.

E’ una mostra di quadri Trouble Will Find Me, è musica colorata, con alcune pennellate gioiose e altre meno, un’esposizione di arte pittorica con l’intento di raccontare la realtà attraverso i quadri/canzoni.

Un nuovo ottimo lavoro, robusto e affiatato, molto curato nel suono e nella lirica, un buon concentrato di tutti i dischi finora pubblicati, in poche parole un ‘the best’.

#duemilatredici

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Heart of Nowhere è il quarto album pubblicato in cinque anni di attività dalla band inglese Noah And The Whale.

Se dovessimo identificare la nostra quotidianità con delle canzoni “pop” è molto probabile che i suoni e soprattutto i testi potrebbero risultare frenetici se non addirittura volgari. La principale caratteristica dei Noah and the Whale invece, è quella di una “colonna sonora” tranquilla, semplice, umile, ma non per questo poco interessante, al contrario, i testi affrontano argomenti toccanti e a volte dolorosi e comunque mai banali. Una premessa necessaria perché ad un semplice e frettoloso ascolto è molto facile cadere in un giudizio di superficialità sonora che invece non meritano.

La prima impressione che colpisce è l’equilibrio, la componente umanistica con i testi che ben si amalgamano con i suoni. Testi che raccontano la quotidianità, cambiano umore all’improvviso, imprevedibilmente come succede nella vita di tutti i giorni. Suonato bene, cantato altrettanto bene, Heart of Nowhere è un buon album, uno di quei dischi che non hanno bisogno di stravaganza per distinguersi, ma che fanno proprio di questo il loro punto di forza. Un lavoro piacevole, pulito e sincero dove “testi & musiche” s’intrecciano come gli aspetti della vita e del vivere, con l’umiltà di farci riflettere sulla ricchezza e la profondità dei pensieri e delle azioni che esistono in noi e in quel che ci circonda. Questo è il loro modo di esprimersi: un buon sano folk-rock.

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Gli anni ottanta oltre ad essere ricordati per le grandi kermesse di beneficenza e per i riti del rock da stadio, sono ricordati per il sottobosco del rock statunitense che affonda le proprie radici nell’era del movimento punk che, nel corso del tempo si estremizzò in hardcore. Era un rock orgogliosamente minoritario, forte e indipendente. Gli artisti, le band fuori dagli schemi che avevano fecondato la scena americana di nuove idee, ponendo inconsciamente le basi per la sua rinascita furono parecchi, fra questi ci furono i Meat Puppets.

Questa è una doverosa premessa nei confronti di un gruppo che in quella decade ha sfornato una manciata di dischi uno più bello dell’altro, nei successivi anni ’90 si è mantenuta su un buon livello per poi sciogliersi nel duemila. Riformatosi nel 2007, il gruppo si è arrancato per rimanere a galla senza prendersi grandi lodi ne dalla critica ne dai fan.

A due anni dal buon Lollipop, Rat Farm, quattordicesimo album in studio, si mantiene allo stesso livello. E’ chiaro, dopo aver smesso quel loro vestito “punk-hardcore”, dopo quel viaggio e quella apoteosi che gli ha visti protagonisti in prima linea è difficile individuare motivi ispiratori sempre ammesso che esistano. E’ proprio questo il punto per cui i “veri” critici affondano il disco: “l’ispirazione”. In sostanza, checche ne dicano, il disco è piacevole e nella generalità dei brani ci sono una manciata di buone canzoni, dove tecnica strumentale e una certa creatività a livello di composizione non mancano. Insomma i Meat Puppets offrono con questo album l’ennesima dimostrazione, giustamente ambiziosa, di non sopravvivere sui propri allori.

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A due anni dall’ottimo I’ll Never Get Out of This World Alive, Steve Earle ritorna con una altro bel disco “The Low Higway”.

Quindicesimo lavoro in studio, l’album si mantiene nella sua collaudata sfera folk/country/rock, senza particolari peccati ne virtù. Niente di marcatamente nuovo quindi, ma dodici brani firmati da grande autore.

Da scrittore qual’è, (è uscito da pochi mesi un romanzo dal titolo “Non uscirò vivo da questo mondo”) il cinquantottenne cantautore statunitense, non ha difficoltà ad esprimere attraverso la forma artistica della “canzone” versi, pensieri e idee soprattutto sociali.

Da sempre impegnato politicamente Earle, attraverso i testi, sottolinea disagi e invia segnali di protesta, facendosi portavoce anche di chi voce non ha.

C’è in questo album tutto il succo dell’arte del musicista, il suo muoversi e il suo cantar vigorosamente accoppiando spunti ritmici a momenti melodici. Il banale avvicendarsi degli strumenti e l’incanto semplice e inatteso di una voce e una chitarra.

Non è difficile per certi aspetti portare alla mente il Springsteen di Devils & Dust o di Streets of Philadelphia e Cooder dell’ultimo “politico” Election Special, le similitudini non mancano. Se l’ispirazione è questa già risaputa, lungi dal copiare semplicemente, lungi dall’adagiarsi sul “già detto” e sullo stile “fatto e finito”. Steve Earle sa dipingere tutto di tinte personalissime, giungendo a una fusione strana di cento soluzioni che portano ad un mondo affascinante e soprattutto reale. Proprio per queste motivazioni qualcuno dice che sia il suo miglior lavoro dell’ultimo decennio, personalmente invece, nonostante l’incontestabile maturazione vocale, testuale e sonora, nonostante una serie di buone canzoni, profonde e di grande scrittura sociale e personale, nonostante tutto questo “alzi” qualitativamente il suo valore “cantautorale”, manca di quella fiera godibilità che, per esempio, caratterizzava il suo lavoro precedente.

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Come già in parte è avvenuto con Mr. Love and Justice, anche in Tooth and Nai, Billy Bragg abbandona il suo “essere” cantautore militante politico e sociale in favore di un suono e quindi di un risultato molto più riflessivo e intimo.

E’ evidente che in questi cinque anni di silenzio ha maturato esperienze personali, uno sguardo, un vissuto e un riequilibrio interiore che probabilmente negli anni passati aveva lasciato in stand-by.

Una sfera “bragghiana” mi si passi il termine, non nuova quindi ma sicuramente più profonda e matura. Lo si sente subito fin dai primi brani a cominciare dalla voce che, come non mai, raggiunge vertici di espressione notevoli.

Metà delle dodici canzoni sono musicalmente di ottimo livello, grazie alla poesia e ad un suono chiaro; sono tutte costruite su un’armonia dolce ed estremamente espressiva. Le restanti sono ascoltabili senza aggiungere e raggiungere nulla di particolarmente nuovo ed emozionante al Bragg che conosciamo.

E’ un racconto solitario “Tooth & Nail”, un’espressione che avvolge in punta di piedi senza colpo ferire: cullando dolcemente gli strumenti, lasciando che l’armonia venga da sola, sospinta unicamente dalla voce, grande saggia maestra.

Ancora una volta un disco che mostra palesemente lo sforzo di volersi ritagliare uno spazio di immagini interiori, luminose o scure. Una descrizione “testuale/sonora” della personalità, dell’umanità indicata da un semplice sorriso. Una comunicazione vera, mai banale.

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Anche col titolo del disco, Devendra, non smentisce il suo stile; il saper “giocare” con i doppi sensi. Mala infatti, soprannome della sua fidanzata serba Ana Kras, significa “tenera” in serbo e “cattiva” in spagnolo, lingua usata spesso dal cantautore.

L’atmosfera di questo suo nono disco, non si discosta di molto da quella a cui ci ha abituato in questo decennio; una base folk con varie escursioni psichedeliche, latinoamericane e soprattutto in quest’ultimo, un abbondante uso del suono elettronico.

Considerato il cantautore più freak ed hippie in circolazione, Mala è stato registrato a Los Angeles e, come nei precedenti lavori, ha usato uno studio familiare, con attrezzature che di fedeltà ne hanno ben poca. Basti ricordare che in passato usò (anche) la segreteria telefonica come registratore… sigh!

Disco fedele al suo “essere”, Mala è prodotto da lui stesso insieme al suo chitarrista Noah Georgeson. “La voce tremante” del folk, incide dodici brani che variano, testualmente e quindi umoralmente a trecentosessantagradi. I brani sono superficiali e profondi, allegri e tristi, seri e ironici. A volte calmi e sereni, a volte tesi ed inquieti. Tutti comunque quasi mai banali.

Sicuramente il suo album più facile da ascoltare, il cantautore venezuelano-americano, strizza l’occhio a un pubblico più vasto, usando di base un suono più “leggero” e meno “tortuso” dei precedenti.

Senza confini e sfuggendo a logiche sonore, il disco si fa ascoltare senza particolari difficoltà. Abbastanza carico di “particolari” nascosti, si deve ascoltarlo diverse volte per poterlo apprezzare e scoprirlo a fondo.

Mala (ancora una volta) racchiude tutta la sua filosofia, tutto il suo universo sonoro. E’ un disco coerente quindi, con il suo pensiero e con la sua vita. Un album sincero che a tutti, purtroppo, non è dato essere.

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“In tutte le cose c’è un ritmo che è parte del nostro universo. Ha simmetria, eleganza e grazia: le qualità in cui si coglie il vero artista. E’ il ritmo delle stagioni, il modo in cui la sabbia modella una cresta, sono i rovi e il profilo delle foglie. Noi crediamo di copiare questi disegni, di trasferirli nelle nostre vite e nella nostra società, di farne rivivere il ritmo, la danza che ci riconfortano. E tuttavia, un pericolo si nasconde nella perfezione finale. E’ chiaro che lo schema ultimo contiene la sua fissità. In questa perfezione ogni cosa procede verso la morte”. (da “Dune” di Frank Herbert)

Il nome del gruppo “Atoms For Peace” è preso da uno dei brani presenti in “The Eraser”, primo disco solista di Thom Yorke pubblicato nel 2006. “Amok” prima incisione degli Atoms è per meglio dire, il secondo disco solista del leader dei Radiohead.

Va detto innanzitutto che questo gruppo è formato, oltre al sopradetto Thom York, da Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers, da Nigel Godrich, produttore discografico considerato il sesto membro dei Radiohead e dalla sezione ritmica di Joey Waronker e Mauro Refosco.

La formazione è l’insieme di un’idea di un suono elettronico che sa di tecnologia, di danza, di terra. Un malgama perfetto.

Maggiormente monolitico ed ossessivo, meno spaziale e raffinato dei lavori precedenti (mi riferisco ai Radiohead), Amok, affronta la materia “suono” in chiave strettamente ritmica, cioè studiando nell’elettronica, le possibili evoluzioni del rock libero, svitato, iconoclasta: il punto di partenza può dirsi il generatore di onde sinosoidali, l’oscillatore stesso, cioè un apparato in grado di ripetere all’infinito una determinata armonia, la cui successione ossessiva costituisca la fonte sonora assieme alle percussioni. La tecnologia sfruttata in ogni sua possibilità, questa è la consapevolezza degli Atoms For Peace.

Nove composizioni elettroniche che conservano il ritmo come “parte del nostro mondo”, come il senso immutabile di un divenire: il suono nasce, pulsa e va ad imputridire per poi rinascere ed avere altro corso, per sé e per gli altri, con una limpidezza che lascia sbalorditi.

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Nick cave è un Grande musicista, questo va detto subito, ad onor del vero. Va detto soprattutto come riparo da pareri contrastanti e come salvaguardia di un “patrimonio” musicale tra i più interessanti degli ultimi trent’anni. Bisogna ricordare infatti che il nostro Nick, tra “Boys Next Door”, “Bad Seeds”, “Grinderman”, “Warren Ellis” e alcune colonne sonore, ha inciso ventisei dischi, quasi uno all’anno, mica bazzecole.

Quindicesimo con i Bad Seeds, a cinque anni dall’ottimo Dig!!! Lazarus, Dig!!! (2008), Push the Sky Away è un disco tranquillo e riflessivo con una manciata di brani di ottimo livello. Se per certi aspetti (personalmente) mi ricorda quel capolavoro mai superato di The Good Son (1990), l’album vive di propria luce, di personale autonomia. Nelle nove canzoni che compongono il disco, Cave, indossando i panni del songwriter, riesce a trasmettere sensazioni intense, cariche di atmosfere, a volte orchestrali, a volte rarefatte, tutte comunque dettate dalla peculiarità vocale, la sua.

Un disco rilassato quindi, disteso e soprattutto distaccato da quei suoni che ci aveva fatto conoscere con la prima ottima prova dei Grinderman del 2007 e l’ultima meno brillante del 2010 sempre targata Grinderman.

Le melodie dolci e pacate, con alcuni brani quasi folk, “confine” sonoro a cui Cave non si è mai particolarmente legato, non piacerà molto, senz’altro, agli amanti del Cave “elettrico” dove rabbia, energia e furore prevalgono nei padiglioni auricolari. Questo è un Cave ordinato e sereno, dove la liricità ha il sopravvento… un disco “fratello” di Murder Ballads, di Nocturama e del sopracitato The Good Son.

Bisogna ascoltarlo diverse volte per farsi coinvolgere dalle tonalità oniriche, commoventi e intense, di cui Cave è maestro, solo così ci si renderà conto della profondità di questo lavoro.

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“Il classico non tramonta mai”, questo è il sottotitolo che più calza a questo “Coming Out Of The Fog”, quinto lavoro dei Arbouretum, band di quattro elementi provenienti da Baltimora. La struttura del disco infatti, è di un classico “suono” rock degli anni ’70, nulla di avanguardistico, rivoluzionario quindi, ma solo blues, folk, rock e psichedelia, niente di più, semplicemente. Un “semplicemente” però di classe, suonato con stile e coraggio, con un occhio rivolto al passato e uno al futuro. Un perfetto equilibrio che genera un “gioco” sonoro particolarmente autentico.

Gli otto brani che si succedono nel disco creano una atmosfera intensa e, a parte qualche momento di noia, nel complesso l’album risulta piacevole. Se il suono delle ballate portano inevitabilmente a un “parallelo” con Neil Young e i suoi Crazy Horse, ascolto dopo ascolto gli Arbouretum riescono a convincere, ritagliandosi un angolo, una sfumatura originale nel panorama odierno della musica.

Una buona prova quindi, un disco umile suonato con sincerità e con grande amore e rispetto verso quella colonna portante della musica che porta il nome di “rock”.

Ascolta: https://songwhip.com/arbouretum/coming-out-of-the-fog

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Lady From Shangai titolo di un famoso film di Orson Welles del 1947 è l’ultima fatica dei Pere Ubu. Numero quindici della loro discografia, esce a trentacinque anni di distanza da quello che rimane il loro capolavoro, fondamentale, primo disco pubblicato “The Moder Dance”, targato 1978.

Un’altra opera difficile e complessa uscita da quell’eclettico creativo sessantenne David Thomas, mente e voce del gruppo, unico membro originale della band che, in questi trent’anni ha “danzato” su un tappeto musicalmente tecnologico, “moderno” e rumoreggiante di un suono d’avanguardia.

Asciutto, astringente, essiccato, spoglio, sono gli aggettivi che più si sprecano nel cercar di dare una connotazione “scritta” a questo album che Thomas dichiara come “musica da ballo”. Sia chiaro, qui di suoni ballabili non c’è n’è nemmeno l’ombra. Sono undici brani di rock sperimentale dove “deformazione & disarmonia” vanno per la maggiore. Un intreccio di suoni elettronici che si inerpicano in un percorso sinuoso e dissonante che difficilmente l’”orecchio” non abituato e preparato riesce ad affrontare. Un disco di intricata comunicabilità ma che a differenza di altri da loro incisi, è possibile individuare la sottile linea di demarcazione, e nel contempo di unione, esistente tra musica colta (o ritenuta tale) e quella maggiormente popolare ed in ciò dinamica, più facilmente godibile e allo stesso tempo attraente. Il coraggio di mantenere intatto il carattere di una non falsa avanguardia e di non dare nulla per ovvio e scontato, è la peculiarità di quel geniaccio di David Thomas e i suoi Pere Ubu.

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