🅐🅡🅣🅔🅢🅤🅞🅝🅞

Recensioni musicali di Silvano Bottaro

immagine

Di tanto in tanto capita di ascoltare un album di cui non si ha voglia di parlare temendo un confronto tra di esso e le proprie parole. Questo succede quando un disco comunica qualcosa non appena comincia a suonare e subito uno si sente partecipe delle emozioni dell’artista e gli regala candidamente le proprie, e anche dopo aver ascoltato un solo brano hai la certezza che tutto il resto sarà buono. Questo è uno di questi.

Vicini al trentesimo anno di attività (si sono formati nel 1984), i Yo La tengo pubblicano il loro sedicesimo album in studio che porta il bel titolo di Fade ovvero “dissolvenza”.

Il trio composto da Ira Kaplan (chitarra, piano, voce), Georgia Hubley (batteria, pianoforte, voce) e James McNew (basso, voce), non ha mai amato la luce dei riflettori dello show business e proprio per questo non hanno mai avuto un grande successo commerciale diventando quindi una band di culto.

Tra le band più interessanti degli ultimi vent’anni, i Yo La Tengo hanno la peculiarità di avere creato un “sound” personale frutto di vari stili. Una sommatoria sonora intensa e colorita, carica di riffs strumentali e vocali. Una musica che appare spazializzata in seno ad un discorso netto e curato con particolare abilità specialmente nel fondere l’acustico con l’elettrico. Relegate in parte le chitarre in favore ad una sezione di archi e fiati, il suono è più omogeneo, delicato e romantico. I brani, in tutto dieci, sono sempre piuttosto centrati in questa ottica e l’assenza di “pecore nere” è un altro punto a favore del collaudato e acquisito professionismo della band.

Un album fluido, piacevole, coeso, ricco di dettagli, tra i più completi e riusciti che la band abbia registrato.

#duemilatredici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

A sette anni dall’ ultima loro pubblicazione “Rebel, Sweetheart”, i Wallflowers tornano con una nuovo lavoro chiamato “Glad All Over”, loro sesto album che segna una decade di esistenza o meglio, di permanenza, nel pianeta musicale.

I Wallflowers sono caratterizzati dalla presenza di Jakob Dylan, uno che di canzoni ne “mastica” qualcosa visto che, molto probabilmente, il DNA gioca a suo favore. Ovviamente, l’essere un “songwriting” è nel sangue, i testi ne sono la testimonianza.

Due brani del CD; “Misfits and Lovers” e il singolo “Reboot the Mission” sono caratterizzati dalla presenza di Mick Jones, una presenza determinante soprattutto nel secondo brano citato, dove il suono è praticamente riconoscibilissimo e riconducibile ad un grande e unico gruppo: i Clash.

Il resto delle canzoni riportano il disco a un suono più familiare ai Wallflowers, un suono non certamente originalissimo ma comunque non mancante di energia e sentimento. Undici brani originali ti buona fattura senza (a parte il singolo sopra detto) particolari colpi di fulmine ma non per questo noiosi e privi di emozione.

Jakob Dylan è uno dei pochi figli di padri famosi che è riuscito a crearsi una sua personale carriera senza rimanere all’ombra della figura paterna. Si è ritagliato un suo personale stile di scrittura e canto, ed è soprattutto per questo che i Wallflowers hanno ancora motivo di esistere.

Un buon disco quindi, ed anche se, non scalerà le classifiche di opinione per gli “esperti” musicali, avrà sicuramente un buon successo di vendita visto che il singolo viene trasmesso in continuazione dalle radio.

#duemiladodici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Quarto album per questi “Orsi grigi”, giovane band americana attiva dal 2004.

Dopo “Veckatimest”, uscito nel 2009, album che ha avuto notevole successo di critica e di pubblico, i Grizzly si sono presi una pausa, un periodo non proprio di riposo visto che, nel frattempo, hanno avuto esperienze personali, “momenti” utili per capire cosa fare del proprio futuro o meglio cosa fare dei Grizzly Bear. Il risultato è questo Shields, una costola del precedente “Veckatimest”, meno incisivo, ma più equilibrato.

Dieci sono i brani presenti; scritti, suonati e cantati da tutti e quattro i musicisti del gruppo. Le sonorità si aggirano in territori indie-folk (come i precedenti) con qualche strizzatina d’occhio alla psichedelia e soprattutto al pop, senza però guastare.

I brani registrati in presa diretta dimostrano una raggiunta maturità stilistica e sonora. Abbandonato un certo “sperimentalismo” presente nei dischi precedenti, l’ascolto risulta assai piacevole senza sconfinare nell’”easy” e, pur mantenendosi su atmosfere “leggere”, il disco è ricco di melodia e di buoni spunti sonori. Shields è sicuramente la dimostrazione di un cambiamento avvenuto nei Grizzly, il disco è più solare, più diretto e maturo.

Credo che il i Grizzly Bear avranno ancora molto da dire sempre che il “pop” non gli da troppo alla testa e si facciano mangiare dal “music business”. Insomma possono riservarci ancora buone cose.

#duemiladodici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Ed eccolo ancora qui l’ultrasettantenne Bob Dylan, con il suo nuovo disco “Tempest”, il trentacinquesimo, in uscita a cinquant’anni giusti dal suo primo album “Omonimo” datato 1962. Difficile poter valutare con precisione la portata dell’influenza che ha avuto il Dylan di quegli anni. I suoi pezzi divennero inni al di là della sua volontà. Blowin’ in the wind, A hard rain, The times they are a changin’, Mr. Tambourine man, furono i pezzi giusti al momento giusto. Quei brani fecero più o meno l’effetto di un’esplosione di consapevolezza. Musicalmente ha spazzato via ogni stereotipo, cambiando continuamente direzione, affermando con determinazione di sentirsi soprattutto un artista libero di scrivere quello che più gli piaceva, sminuendo di molto l’aspetto rigorosamente militante della sua prima produzione. La sua storia si svolge tutta all’insegna di un continuo ciclo di morti e rinascite nel tempo. E’ il personaggio più contestato, indagato, amato e odiato di tutta la storia del rock, sempre aspramente contraddittorio, scomodo, di quelli che mettono a disagio l’interlocutore.

Il Dylan di oggi, giustamente, è più riflessivo sui temi della vita. I testi infatti parlano soprattutto della vecchiaia e della morte. Se musicalmente non vincerà il premio per l’originalità anche in questo il disco dividerà il pubblico tra chi lo loderà come un capolavoro e chi invece lo rilegherà tra la solita “solfa”.

Personalmente l’aggettivo che più incarna tutto il lavoro è: affascinante, affascinante e tutti i suoi sinonimi. Affascinante come un panorama, suggestivo come un tramonto, piacevole come un profumo. Ecco, in questi aggettivi è racchiuso il valore dell’album.

Le dieci canzoni che lo compongono sono un continuo cambiamento di umore, naturalmente dettati dalle sonorità influenzate dai testi.

Ottima apertura con “Duquesne Whistle” considerando il suo precedente Together Through Life del 2009, che mancava di po’ di “sostanza” questo brano mette già subito quell’energia che i suoi fan aspettavano. “Soon After Midnight” è una piacevole passeggiata con un testo dolce e sussurrato al contrario di “Narrow Way” che ha delle belle sonorità blues…ate. “Long and Wasted Years” con un accattivante riff chitarristico mette in luce la sua intensa voce corposa. Il successivo trio: “Pay In Blood” rispecchia i suoi classici, canta e suona a briglia sciolta con un testo diretto e spietato e un “suono” Dylan…iato, “Scarlet Town” ricorda il suono di Modern Times e “Early Roman Kings” con la fisarmonica di David Hidalgo, ci riportano a un Dylan “conosciuto” ma per nulla scontato. Le ultime tre canzoni di Tempest concludono ottimamente l’album. “Tin Angel” è un racconto narrativo di un triangolo amoroso che fornisce ottimo materiale per gli analisti dei testi di Dylan, simboli e significati nascosti abbondano inverosimilmente. La title track “Tempest” è una metafora sulla vita, su come siamo tutti inconsapevolmente (o consapevolmente n.d.r.) responsabili del nostro destino. Chiude l’album “Roll On John”, una contemplazione sulla morte del suo vecchio amico John Lennon, virando tra i suoi elementi biografici e frammenti dei suoi testi.

Tempest è un ottimo album e ci mostra ancora una volta un Dylan presente, riflessivo e per niente stanco. Le sue tipiche intuizioni e la sua destrezza sono ancora attive, e, ancora una volta, riescono a capovolgere tutte le aspettative, regalandoci dieci brani senza tempo. Sorprendendo e affascinando allo stesso tempo.

#duemiladodici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Con i primi due album, in cui l’influenza “situazionista” di Robert Wyatt era determinante, la formazione era giunta a rappresentare il movimento “underground” inglese alla pari con i Pink Floyd di Syd Barrett.

Nelle uscite successive, sotto la guida del tastierista Mike Ratledge, la musica viaggerà con decisione sempre maggiore verso lidi jazz-rock, sino a che il gruppo perderà ogni contatto con le proprie origini.

“Third” è dunque l’attimo in cui le due anime della formazione, quella improvvisativa e psichedelica di Wyatt e quella da partiture scritte da Ratledge riescono per l’ultima volta a convincere.

Al trio formato da Wyatt, Ratledge e dal bassista Hugh Hopper, genio dello strumento, si uniscono il sassofonista Elton Dean, i fiati di Lyn Dobson, Nick Evans e Jimmy Hastings ed il violino elettrico di Rab Spall.

La struttura dell’album, che usci doppio (vinile), è molto semplice: un brano per facciata.

“Facelit” di Hopper è un “collage” di nastri da varie esecuzioni dal vivo dello stesso brano, ed è un’ottima introduzione al clima dilatato ed ipnotico dell’incisione.

“Slightly all the time” di Ratledge è un gioiello. Uno scorrevole tema jazzato viene esposto, ripreso, rallentato, accelerato in un gioco senza fine. Nella sezione centrale, il piano elettrico crea un “pattern” ripetitivo su cui i fiati tessono meraviglie, ed il finale guidato dal saxello di Dean è lirico sino allo spasimo.

“The moon in June” è la facciata di Robert Wyatt. Suonato, cantato (unico brano cantato del disco) ed inciso in quasi completa solitudine, con un piccolo aiuto da Hugh Hopper al basso e da Ratledge per un assolo di organo. L’elemento ribelle ed anarchico del gruppo qui sfodera una composizione notturna, ubriaca e profondissima, in cui il canto raggiunge vette sublimi. Per molti “The moon…” rappresenta il momento più alto non solo dei Soft, ma dell’intero movimento di Canterbury.

“Out-bloody-rageous” di Ratledge, giocata sull’intervallarsi di “loops” rileyani di organo e di serrati episodi strumentali, dà invece chiari indizi della direzione che il gruppo prenderà dopo il licenziamento in tronco di Wyatt.

L’incrocio tra il clima “naif” degli esordi e l’attrazione di Ratledge per i lidi del “Miles Davis elettrico” produce un frutto strano e delizioso, da portare sulla classica isola deserta subito dopo lo spazzolino da denti.

Third è un messaggio al cielo.

#millenovecentosettanta

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Anche se sono passati dieci anni dall’ultimo disco a suo nome “Get Rhythm”, Ry Cooder non ha mai smesso di perseguire i propri interessi di musicista. Colonne sonore a parte, ha smesso da molto di pensare ai dischi in modo tradizionale. E’ stanco, disilluso e scontento: non gli interessa più il mondo occidentale, la società consumistica, lo show biz in cui, per anni, ha cercato invano di fare “cultura”.

Ry Cooder ama la musica, quella vera, incontaminata e pura e, oggi come oggi, non trova spazio in America: le case discografiche non sono interessate a dei prodotti alternativi di questo genere, non sono facili da vendere, non attraggono i giovincelli, non sono, radiofonicamente parlando, stimolanti. E lui sbattendosene altamente, ha continuato per la propria strada.

Ha inciso con Ali Farka Toure il bellissimo “Talking Timbuktu”, poi si è preso la sua bella pausa. Ha pensato e meditato a lungo, ed ha spostato i suoi interessi verso Cuba. Il calore ed i colori della musica cubana, della musica latina in generale, lo hanno sempre attratto: ma un conto è avere degli interessi, ben altro quello di riuscire a penetrare la musica locale, facendola propria, pur restando sempre in un ambito strettamente tradizionale. E con “Buena Vista Social Club” Cooder ha toccato realmente una delle vette della sua carriera.

In questo disco, oltre al suo sapiente ed unico tocco chitarristico, abbiamo un manipolo di musicisti straordinari che seguono a bacchetta le sue direttive, pur rimanendo ancorati alla propria tradizione. Ed il risultato è un disco sfavillante in cui i suoni ed i colori dell’isola castrista vanno a braccetto con intuizioni tipicamente cooderiane. I brani sono tutti classici della tradizione cubana, consigliati per lo più da Segundo e Gonzales, oppure da Juan De Marcos Gonzales.

Spiega Ry: “Come il blues, questa musica non è mai stata distrutta dalla commercializzazione. Non esiste un business musicale in questa musica, è ancora pura come quando è nata. I musicisti suonano con gioia, con partecipazione. E’ una musica piena di cuore, di anima, non fa parte del mondo moderno. Questa musica ti parla in maniera naturale, cosa che non esiste più in quella moderna. A Cuba la musica è un tesoro da trovare: se cerchi con attenzione ne trovi le tracce, ed io ho trovato tutto”.

I quattordici brani del disco: Chan Chan, De Camino a la Vereda, El Cuarto de Tula, Pueblo Nuevo, Dos Gardenias, ¿Y Tú Qué Has Hecho?, Veinte Años, El Carretero, Candela, Amor de Loca Juventud, Orgullecida, Murmullo, Buena Vista Social Club, La Bayamesa, sono di una bellezza disarmante, grazie a Cooder & Co., che hanno saputo dare un saggio della loro bravura e ci hanno regalato un disco emozionate e profondo al tempo stesso, prezioso come un gioiello di inestimabile valore.

#millenovecentonovantasette

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Se Van Morrison partecipasse al premio Oscar sicuramente gli dovrebbe essere assegnato quello alla carriera 1963–2013 ovvero 50 anni di musica ad alto livello, con una produzione discografica sterminata nella quale c’è questo meraviglioso album.

Too Long In Exile è un disco interamente blues e di ottima fattura. Un altro lavoro che conferma la bravura dell’irlandese che può risultare personaggio schivo ma che sicuramente è un compositore di gran talento nonché leggenda della musica rock.

I 14 brani di Too Long In Exile evidenziano la capacità di penetrare il blues nella sua essenza non disdegnando però di esplorare sonorità più jazzate. L’anima nera del musicista esplode così come la sua voce, la più nera tra le bianche in “Bigtime Operators”.

Il disco vede l’illuminante partecipazione di John Lee Hooker e sembra di sentire in sottofondo il Mississsipi scorrere mentre duettano in “Wasted Years” o mentre insieme scandiscono il nome di “Gloria” cavallo di battaglia di Morrison rivitalizzato dalla presenza del “grande vecchio”.

Il blues si trasforma in jazz in una manciata di canzoni regalandoci dei momenti splendidi sotto il profilo musicale ed anche emozionale; aspetti questi che raggiungono il massimo nel lungo e conclusivo brano.

Nell’album sono presenti quattro blues “standar” (tra gli altri il più conosciuto “Good Morning Little Schoolgirl”) tutti interpretati con estrema abilità, nonché in modo personale. “Too Long In Exile” conferma che il blues è l’ambito musicale all’interno del quale Van Morrison si muove con maggiore disinvoltura regalandoci musica ad alto livello e facendo forse dimenticare la ripetitività di alcuni episodi dell’irlandese.

Consigliato, anzi imperdibile.

#millenovecentonovantatre

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Una colonna sonora scarna e spesso struggente, enigmatica nel suo protendersi oltre i confini dell’emotività e incredibilmente magnetica nella sua tensione sottile, quasi surreale. Una stanza spoglia, un uomo con le sue tastiere, essenzialmente pianoforte e organo, qualche sporadico intervento di chitarra e percussioni, una voce carismatica nel suo incedere ai limiti del recitativo. Questo, e molto altro ancora, è Music For A New Society, capolavoro solista dell’ex-mente creativa dei Velvet Underground.

Non un album rock, come Cale ne ha realizzati pure di ottimi, ma un album che vive di poetica rock filtrata attraverso una lente intimista, la stessa di Tim Buckley, di Nick Drake, dell’inarrivabile Springsteen di Nebraska: Music For A New Society è il lucidissimo delirio del cuore di un artista schivo e inimitabile, di uno stratega dell’eclettismo e della sensibilità, di un straordinario “mago” di suoni che trascendono l’esperienza comune per rivelarsi in tutta la loro intensità di contenuti, la loro sobrietà di forme, il loro fascino austero eppure passionale.

Strappa lacrime a applausi Music For A New Society, un disco che solo il cinismo e la desolante mercificazione dei nostri tempi possono aver subito condannato all’onta dei “dimenticati”. Ma, si sa, i geni sono spesso incompresi.

#millenovecentoottantadue

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

A veder la copertina non attira per niente questo album della Welch. Seduta di traverso su un divano da quattro soldi, lo sguardo se ne va da un’altra parte e il vestito a fiori sembra un insulto, voluto e volontario, a chi insiste ancora sull’importanza del look, dell’apparire, del mostrarsi. Nessuna concessione, neanche uno sfondo a nascondere quella che sembra la parete di una baita dietro di lei. Dentro, è lo stesso: i suoni sono rarefatti, acustici e legati alla sonorità della chitarra e del banjo, oltre alla voce di Gillian Welch, che però è un capitolo a parte. Una struttura scheletrica, minimale, scarnissima. Poco importa: in Time (The Revelator) scorrono bluegrass, old time, ballate, canzoni che sembrano leggere leggere nella strumentazione, ma evocano paesaggi gotici. Dieci canzoni e la musica è quella: prendere o lasciare. Spiccano, sopra le altre, Revelator, My First Lover, Elvis Presley Blues (che è uno dei più bei omaggi all’onnipresente fantasma e mito americano) e I Dream A Hitghay, sogno in po’ particolare che però chiude in maniera eloquente questo disco.

La Welch è senza dubbio il “parallelo” più credibile a Lucinda Williams, c’è una differenza di elettricità ma, personalità, voce, coraggio, coerenza sono gli stessi: Gillian Welch riduce al minimo la distanza tra canzone d’autore e canzone popolare nel senso che la sua interpretazione è tanto rispettosa e competente degli schemi, musicali e non solo, della folk song, quanto personalissima nella pratica.

#duemilauno

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit

immagine

Devo sinceramente ammettere che i Phosphorescent sono stati la più bella scoperta di questo duemilatredici, anche se questa band statunitense originaria di Athens in Georgia è attiva da un decennio e questo Muchacho è il loro sesto album. Ascoltati per caso in una radio on-line, fin dalle prime note ho capito di aver trovato uno di quei gruppi che ti rimangono dentro, e così sono andato alla scoperta dell’intero album di questo ennesimo gruppo. Traccia dopo traccia erano sempre più soddisfacenti, non chiedetemi perché le ballate di Matthew Houck colpiscano la mia emotività in maniera così forte e lascino un segno che decine di altri musicisti non hanno capacità di incidere nel profondo neppure dopo decine d canzoni. Chiamatelo “colpo di fulmine” se volete.

I Phosphorescent se la cavano proprio bene sia dal punto di vista musicale che vocale: riescono ad imprimere ai loro pezzi pathos e sensibilità e l’ascolto è stimolato da diverse contaminazioni: rock, folk, elettronica con l’uso di fiati, archi, percussioni, chitarre ed elettronica.

E’ francamente difficile citare qualche pezzo che si elevi decisamente tra gli altri, probabilmente solo “A Charm/A Blade” e “The Quotidians Beasts” sono i più “orecchiabili”, la produzione è molto omogenea e ben caratterizzata su buoni livelli. Insomma, dieci ballate che confezionano un album piacevole e importante, da ascoltare con attenzione perché suggestivo e di notevole valore artistico.

#duemilatredici

HomeIdentità Digitale Sono su: Mastodon.uno - Pixelfed - Feddit