Solarpunk Reflections

Le mie idee su storie, politica ed ecologia.

La settimana prossima andremo a votare in una delle elezioni contemporaneamente più importanti e meno impattanti degli ultimi anni.

Un passo alla volta però; “andremo a votare” cosa significa?

Io e molti altri miei coetanei di fatto non potremo votare: tra chi è all'estero e chi è fuori sede per studi o lavoro avrà negata questa possibilità. Il numero di italiani all'estero è passato da circa 3 milioni nel 2006 (il doppio della Sardegna) a 5.5 milioni nel 2020 (l'equivalente del Lazio, o dell'intera Finlandia). Un numero simile sono gli studenti fuori sede, soprattutto chi ha lasciato i paesi del sud per studiare a Torino, Milano, Bologna.

La nostra generazione ha già votato con i piedi. Ci siamo lasciati l'Italia alle spalle, se non moralmente almeno fisicamente.

E prima che puntiate il dito contro il nostro “abbandono”: lo avete fatto anche voi, pur non muovendovi di casa. Alle ultime elezioni politiche il 30% non ha votato; fino al 55% degli italiani ha ignorato le elezioni amministrative e regionali.

Anche voi avete abbandonato l'Italia.

O forse, è stata l'Italia ad abbandonare noi?

Forse sono stati trent'anni di berlusconismo, populismi inconcludenti e governi tecnici mai neutri, a farci perdere fiducia nel voto? Forse sono stati trent'anni di politiche destinate sempre agli anziani e mai ai giovani ad aver fatto fuggire una generazione? E forse la generazione che non è fuggita è stata completamente alienata dalla manipolazione mediatica che Mediaset ha inaugurato, il “panem et circensem” che in chiave moderna diventa “TG5 e Paperissima”.

Forse sono stati trent'anni di tagli alla scuola, all'educazione e alla cultura, di pressioni estreme da parte di genitori e società a non intraprendere studi letterari perché “non si trova lavoro”, a farci scivolare lentamente verso una nuova minaccia fascista? Perché, qualsiasi sia la vostra opinione sugli attuali partiti di destra, La Russa che dichiara che “siamo tutti eredi del D*ce” e la Pausini che si rifiuta di cantare Bella Ciao, almeno il timore dovrebbe venire a tutti. E i nostri nonni, che nel dopoguerra hanno lasciato più testimonianze possibili per evitare che ripetessimo questo errore, cosa penserebbero? Che li abbiamo abbandonati al passato, noncuranti del futuro. Chi non studia la storia è destinato a ripeterla.

Certo, andate a votare se potete, non è mai troppo tardi e non è mai inutile.

Ma non è neanche sufficiente.

Fascismo o non fascismo, dobbiamo ripensare il nostro rapporto con uno stato che lentamente ci sta privando di diritti che i nostri nonni hanno lottato per conquistare, dalla scuola alla sanità, dall'acqua all'informazione, lasciandoci a noi stessi mentre la crisi climatica si avvicina.

Lo sanno già gli abitanti dell'Aquila, di Amatrice, di Ancona e di tutti gli altri paesi che sono stati colpiti da catastrofi, a cui lo stato ha voltato le spalle. Lo sanno già i paesi del sud, sempre più vuoti e aridi, la manifestazione dell'abbandono prima politico e poi, per necessità, degli abitanti stessi. Votare, da un lato o dall'altro, non cambierà queste dinamiche che proseguono ininterrotte da trent'anni.

Dobbiamo ripensare il nostro rapporto con i nostri compaesani e concittadini, perché quando l'emergenza non sarà lontana dagli occhi ma nei nostri paesi, lo stato non sarà presente.

“Immaginare il meglio, prepararsi al peggio”, diceva Gramsci; a distanza di cento anni, le sue parole sono ancora più pesanti.

  • Andrea “Clockwork” Barresi

Un paese di cinquanta abitanti nell'Alto Monferrato.

Questa è sempre stata la culla troppo stretta in cui sono cresciuto, tra le piccole scuole di campagna e il profondo senso di frustrazione nell'interagire coi miei pochi e troppo diversi coetanei. Avevo cuore e mente proiettati nella scienza, guardavo le stelle mentre tutti erano legati alla terra. Non li capivo, e loro non potevano capire me.

Sei anni a Torino per l'università, poi tre anni a Varsavia per il dottorato.

E ora che torno nei luoghi della mia infanzia solo per l'estate, solo per vacanza, mi rendo conto di quanto mi manchi tutto, di quanto in realtà anche io faccia parte di questa terra, inscindibilmente e inestricabilmente. Le stradine scalcinate attraversate in bici, i vecchi campanili, le sagre di paese, le colline incoronate di vigneti e le notti fresche con l'eco dei grilli.

Parte di me è ormai troppo lontano. Il sogno di trasferirmi in Finlandia è ancora forte, ma non sarà mai nulla senza una comunità viva come quella che, nonostante i dieci anni di assenza, mi accoglie ancora e sempre come se fossi a casa.

Ma l'altra parte sa che anche dall'altro lato del continente posso ancora essere tra di loro, fare qualcosa per aiutare un piccolo paese di campagna che, come molti in Italia, sta inevitabilmente scivolando verso l'abbandono e l'inarrestabile invecchiamento. Questa parte di me sa perfettamente che siccità come queste mettono a dura prova un paese di anziani, e la crisi climatica incombe sui miei compaesani con molta più prepotenza di quanto minacci le mura sicure di Varsavia o Helsinki.

Però posso fare qualcosa, posso fare la mia parte.

Posso aiutare il mio paese a costruire gli strumenti necessari per resistere e rinascere. Dall'indipendenza energetica alla permacultura, dalla raccolta di pioggia alle assemblee di paese, ho tutte le conoscenze e le idee per affrontare il destino della mia terra natia e per dare forma a un futuro nuovo, che non lasci indietro nessuno.

Perché nonostante i miei rami possano estendersi fino all'Artico, le mie radici rimarranno sempre qui.

  • Andrea “Clockwork” Barresi

[💾 ENGLISH BELOW]

Tutti amiamo il kebab. Non c'è niente da fare: da Torino a Catanzaro, da Cagliari a Venezia, il kebab è il piatto etnico più amato in Italia, e in alcuni paesi europei è addirittura uno dei piatti nazionali (ad esempio in Germania, grazie alla forte componente turca). Eppure ci sono molti motivi sociali ed economici per cui questo cibo (e chi lo cucina!) dovrebbe essere apprezzato ancora di più di quanto già non lo sia.

1) E' estremamente personalizzabile e inclusivo. Con salsa piccante o senza, con cipolla o senza, con carne di vitello o di pollo, panino o wrap, falafel per i vegetariani: ogni kebabbaro ha le sue specialità e le sue scelte. Alcuni hanno anche la sfoglia senza glutine per i celiaci!

2) E' accessibile a tutti. Ci sono molti altri ristoranti etnici altrettanto popolari (sushi, texmex, thai, cinese, etc), ma nessuno unisce il gusto al prezzo come il kebab. Anche i ceti meno abbienti possono sempre permettersi un'uscita per un kebab.

3) I kebbabari sono amichevoli. Tutti noi conosciamo almeno un Ahmed, Ali Baba o Samir nella nostra città, non mentiamo! I kebabbari infatti si fanno sempre chiamare per nome e cercano un rapporto amichevole col cliente. Alcuni (fanno rap)[https://www.youtube.com/watch?v=EuUg-BYQDCk] e sono (ospiti d'onore alle feste di maturità)[https://www.youtube.com/watch?v=sU4D6AItQho]. Gli anni dell'università a Torino passati da El Shesh, che ci regalava i dolcini al cocco e i tè alla menta quando andavamo spesso? Indimenticabili.

4) Supporta e integra le famiglie straniere in Italia. Molti stranieri nordafricani e mediorientali, spesso a causa di un razzismo diffuso delle generazioni precedenti e di leggi che rendono l'inclusione difficile, faticano a mettere radici nelle città italiane. Grazie ai kebabbari, i giovani hanno sviluppato un punto di vista radicalmente diverso e vedono la cultura araba come più vicina; un processo di integrazione che senza questo legame del cibo tipico sarebbe assai più arduo.

5) Fast food senza catene. Mentre McDonald, BurgerKing, Subway e altri colossi del fast food cercano di tappezzare le città con pratiche finanziarie abusive, i kebabbari sono tutti piccoli proprietari che sfuggono alla logica egemone dei loro rivali. Spesso a conduzione familiare, sono una forma di microimpresa che molti non hanno più il coraggio o la possibilità di proporre, eppure resiste nonostante le premesse avverse: i kebabbari esisteranno anche dopo il crollo del capitale!

6) E' sempre diverso. Città che vai, kebab che trovi! Non ci sono mai due kebabbari uguali e ognuno ha le sue tecniche, le sue salse, i suoi segreti. Ognuno di noi ha un kebabbaro preferito, tutti diversi, e in visita ad altre città è un consiglio sicuro e affidabile.

7) Perfetto per ogni serata... anche alcolica! Serata giochi da tavolo con gli amici? Kebab! Serie TV e chill? Kebab! Appuntamento romantico? Kebab! Si beve? Kebab! Svegliato con i postumi della sbornia? Ebbene sì: il kebab risolve anche il peggiore problema delle uscite serali.

Se non avete mai assaggiato un kebab, è il momento di cercare il più vicino a voi e di farvelo amico. Se invece siete già appassionati: qual è il vostro kebabbaro preferito nella città dove vivete?

——– 💾 ENGLISH 💾 ——-

We all love kebab. There's just no way around it: from Helsinki to Sicily, from Warsaw to Lisbon, kebab is the most love ethnic dish in Europe, and in some countries it's also a national dish (think of Germany and its widespread Turkish community). Yet there are more economic and social reasons to appreciate this dish (and its cooks!) even more than it already is.

1) It's extremely customizable and inclusive. Spicy or not, with or without onions, with veal or poultry meat, loaf or wrap, falafel for the vegetarians: every kebab has its specialties and options. Some even have gluten-free bread for the celiacs!

2) It's accessible. Everyone can afford a kebab. Sure, there are many other ethnic restaurants that are just as popular (sushi, Vietnamese, texmex, thai, Chinese, etc), but none of them mixes flavor and price like the kebab does. Even the least wealthy can always go for a kebab.

3) Kebab shops are friendly. All of us know at least an Ahmed, Ali Baba or Samir in our cities, I bet! Kebab shopowners always use their first name and look for a friendly bond with their customers. Some even (rap)[https://www.youtube.com/watch?v=EuUg-BYQDCk] and get (invited to parties!)[https://www.youtube.com/watch?v=sU4D6AItQho] The years in Torino spent at El Shesh', who used to treat us with coconut cake and mint tea? Unforgettable.

4) Supports and integrates foreign families. Many Northern Africans and Middle Easterners, often because of widespread racism among older generations and laws that make inclusion harder, struggle to make their new cities their homes. Thanks to kebab shops, youth has developed a radically different opinion and see the Arab culture as closer than ever; an integration process that would be way harder without the bridge of this wonderful dish.

5) Chainless fast food. While McDonald, BurgerKing, Subway and other fast food titans scramble across cities to maximize their presence with abusive financial practices, kebab shops are small owners that slip away from the hegemonic logic of their rivals. Often family-run, they're a form of small-business that many lack courage or means to offer, and yet resists despite the disadvantaging premises: kebab shops will exist even when capitalism crumbles!

6) It's always different. The more cities you see, the more kebabs you find! There are never two same kebabs, and every shop has its own techniques, sauces and secrets. Every one of us has a favourite kebab, all of them are different and they're a surefire advice to people who's visiting your city.

7) Perfect for every night... even with booze! Tabletop night with friends? Kebab! TV series and chill? Kebab! Romantic date? Kebab! Drinking party? Kebab again! Hangovered? You guessed it: breakfast kebab can fix even that.

If you've never tried a kebab, it's time to find the closest one and befriend it immediately. If you're already a kebab believer: who's your favourite in the city you're in?

  • Andrea “Clockwork” Barresi

It's a common concept, easy to relate to, and quite straightforward: you hit me, I hit you. It holds whether we're talking about people or communities, small tribes or whole nations. Violent acts from an attacker generate violent responses from the attacked. Simple, right?

I'm afraid that’s only half of the picture.

Suppose I do not retaliate to the violence you bring forward, either by complying or leaving or just not doing anything. All these (clearly simplified and very catholic) scenarios do not alter the roles of attacked and attacker. The attacker, however, nets a win (your compliance) or a non-loss in other cases; they are materially incentivized to prolong his attack. We see that violence does not bring more violence from the victim, but from the oppressor.

There’s more.

Suppose now we're not isolated; more people are allowed to join our conflict. Which side are they on? Here things get more complicated, since different people have different views, but two examples shall do. On a small scale, outsiders are more likely to take the victim's side; they immediately recognize the direction violence flows, intervene to restore balance and possibly expel the initiator of violence. However, on a larger scale of, say, institutions and countries, the opposite happens. Everyone sides with the perceived powerful, seeking to take advantage of the victim. It happened with colonialism, it happened in post-WW2, it happend in Israel and yes, it's still happening now.

So what happens if you increase funding to armies and police, notable institutions that cannot operate no matter how tiny the amount of needed violence? More people and groups will feel emboldened to strike the victim. You get KKK, you get racial shootings, you get trans abuses. Violence breeds violence.

What happens if your country's politicians fund the fossil industries (who have perpetrated violence toward countless environments, countries and indigenous populations for more than 100 years)? You get increased murders of activists, oil crises (= unjustified economic violence towards consumers), climate apartheid and so on. Again, violence breeds violence.

It's just not in the retaliatory sense we would expect. There's no balance in violence. On a large scale, the deck is always stacked against the victim. The threat of “retaliatory violence” is a rhetorical construct to discourage the victim from taking up visibly violent actions to overcome the invisible violence that's oppressing them.

On a personal, human level, we seem to have innately understood this, and most times act accordingly. In this sense, the act of simply taking the blow can only work in small environments, where the victim knows they can rely on outside help to face the attacker. It's community and solidarity that restore the balance and break the vicious cycle triggered by violence.

However, on the political level, we seem stuck within this dilemma, prisoners of the cycles of violence that flow above us (and often against us, causing us direct harm), but we have no idea how to effectively take someone's side in order to stop that grand, faceless version of violence. Sure, we've come a long way with our technological progress in the last 200 years; but the social technology, the methods to deal with these dilemmas, are yet to be discovered (or at least made popular enough).

Until a cohesive, large-scale answer is deployed, violence will keep breeding violence.

  • Andrea “Clockwork” Barresi

Immaginate per un momento di avere una malattia cronica, iniziata come un piccolo fastidio ma che ora sta peggiorando con gli anni. Avete cercato una serie di medicine e terapie che potrebbero aiutarvi, ma cercando una soluzione affidabile vi dirigete all'ospedale. Il medico vi suggerisce... un rimedio omeopatico. Al vostro rifiuto, le infermiere si lamentano di come avete fatto sprecare tempo prezioso e di come non vi interessi la vostra stessa salute.

Può sembrare una barzelletta, ma ai miei occhi questo è lo stato della democrazia italiana, incarnato dall'ultimo, tragico referendum. Un voto che nessuno aveva chiesto su un fronte che difficilmente migliorerà la situazione decadente del nostro paese. La reazione dei media è immediata: il cittadino “si disinteressa della cosa pubblica”, “si perde la tradizione del voto” e altri mille allarmi paternalisti. Questi sono particolarmente dannosi sul lungo termine: aprono la strada per la ben nota retorica che favorisce il governo autoritario nelle situazioni in cui “il cittadino ignorante non sa governarsi”. Ci si avvicina sempre di più allo stato della malattia in cui i sintomi di fascismo diventano incurabili.

Al contrario, sono convinto che i cittadini si sarebbero prodigati per votare su questioni più centrali e vicine a loro, e i recenti mesi ne hanno viste dozzine: l'eutanasia, l'alternanza scuola-lavoro, l'acquisto di gas russo, la legalizzazione delle droghe leggere, il salario minimo, l'invio di armi in Ucraina, il DDL Zan e la patrimoniale. Un referendum su queste questioni critiche raggiungerebbe il quorum in tre ore.

Il punto cardine giace nella parola “interesse”: sono stati i cittadini a “perdere interesse” nel referendum e nelle elezioni amministrative, o è la classe politica attuale ad aver perso interesse nel cercare confronto con i cittadini che dovrebbe rappresentare? Dopotutto questo referendum sembra stato fatto con la precisa intenzione di disinteressare.

Il paziente non è incurabile. È intenzionalmente negletto.

Ma qui è dove la metafora clinica crolla: dopotutto un paziente non soddisfatto dalla cura proposta può, per quanto dispendioso o frustrante, cambiare ospedale o medico.

Il cittadino no.

Il cittadino rimane bloccato nel limbo elettorale, sul quale può avere effetto minimo nel ricambio della classe politica, e anche in quel caso viene limitato dall'offerta disponibile (nel caso attuale, sei sfumature di destre).

Questo post non ha una soluzione pronta; se l'avessi mi sarei candidato, dopotutto. Ha però una domanda su cui potete riflettere: esistono alternative? Possiamo trovare, o costruire, meccanismi attraverso i quali possiamo conquistare più diritti senza dover fronteggiare l'ostacolo della classe politica? E se l'ostacolo non può essere aggirato, come possiamo affrontarlo?

  • Andrea “Clockwork” Barresi

[🇬🇧 BELOW]

La scorsa settimana si è conclusa una conferenza di fisica teorica incentrata sui superfluidi, esattamente il fulcro del mio dottorato. Avrebbe dovuto essere la conferenza più interessante alla quale io abbia partecipato, eppure nel corso dei giorni ho realizzato che non sarebbe stato così.

Il luogo della conferenza incarnava puntualmente i problemi che sto per esporre: un hotel di ottima qualità in cima alla collina, distaccato dal paesino ai suoi piedi e accessibile solo in macchina o tramite una ripida salita. Così è la fisica attuale: completamente avulsa, incomunicabile e per questo incomprensibile.

Il cursus academicum

La carriera accademica prevede una serie di tappe molto rigide, non differenti dal cursus honorum latino, senza le quali è impossibile ricevere una posizione fissa in università rilevanti. Si inizia con la la laurea magistrale, senza la quale è impossibile accedere al dottorato; quest’ultimo è a sua volta un requisito imprescindibile per accedere ai post-doc, i famosi assegni di ricerca precari. Il nucleo di tutti i problemi risiede in questa serie di colli di bottiglia.

Non solo è quasi impossibile completare questo percorso nello stesso ateneo o nella stessa città, ma gli spostamenti da un paese all’altro e anche da un argomento all’altro sono fortemente incoraggiati dai professori e dalle istituzioni, citando allargamenti di orizzonti e accumulo di esperienza. Questo promuove una cultura spietatamente competitiva che, sotto la maschera della collaborazione con gruppi nuovi e vecchi, nasconde l’obiettivo cardine del successo a qualunque costo, della caccia senza scrupoli al prossimo assegno e poi alla cattedra da difendere con le unghie e con i denti.

Il reale effetto di questa struttura, contemporaneamente ordinata nella sua sequenzialità e caotica nei movimenti che impone, è che lå scienziatå viene costantemente e forzatamente sradicatå dal contesto locale della sua città e del suo gruppo di ricerca. Rende più arduo costruire legami collaborativi con altri esperti o banalmente stringere amicizie e imparare la lingua locale. Esperienza che ho provato sulla mia pelle e che ha disintegrato ogni aspetto della vita sociale che avevo costruito durante gli anni di università.

Per le donne è ancora più complicato: il dover saltare di assegno in assegno ogni due o tre anni rende la scelta di una gravidanza quasi impossibile, e questo ha l’effetto di autoselezionare le donne che decidono di dedicare meno tempo alla propria famiglia o non averla affatto. Come in molti altri sistemi, il cursus academicum è pensato da uomini e per uomini, e nonostante tutte le “soluzioni” per le donne nella scienza che i vari atenei stanno cercando di perseguire, nessuna risolve veramente il nodo dei trasferimenti forzati.

Scienza e comunità

Negli ultimi decenni, i progressi scientifici (non solo in fisica) sono stati più frequenti e significativi che in qualsiasi altro periodo storico, eppure in contemporanea la sfiducia verso la scienza e i suoi esperti è in continua crescita, tra novax e negazionisti climatici. È così sorprendente, alla luce del fatto che lå scienziatå è sistematicamente estromesso da qualsiasi comunità che non sia strettamente scientifica? Lå scienziatå viene relegatå a un ruolo puramente tecnico e quasi mai sociale (informare i cittadini, partecipare al dibattito pubblico, raccontare storie) o politico (nella creazione di programmi dei partiti o nei movimenti culturali). In questo modo si innesca il circolo vizioso che sempre di più porta la professione scientifica a essere vista, sia da scienziati che da non-scienziati, come fine a se stessa, slegata dal mondo reale e senza possibili applicazioni utili. In cima alla collina, lontana dal paese.

E a questo punto che mi chiedo, da quasi-scienziato: per chi è questa scienza? Come possiamo restituire la scienza alle comunità e riattivare la partecipazione scientifica in modo che la professione diventi attiva e proficua per tutti, e non solo per una cerchia ristretta di esperti?

—– 🇬🇧 ENGLISH 🇬🇧 —-

Last week I took part in a conference on theoretical physics, specifically about superfluids, the core of my current doctoral studies. It should’ve been the most interesting conference I’d ever been to, yet as the days went on I realized it wasn’t meant to be.

The place itself closely embodied the issues I’m about to discuss: a good quality hotel on top of a hill, secluded from the town at its feet and only accessible by car or through a steep uphill. Such is current physics: completely detached, uncommunicable and therefore incomprehensible.

The cursus academicum

To embark the scientific career, one is expected to go through a very rigid set of steps, not unlike the ancient cursus honorum of Latin times. Skipping one of these steps makes it almost impossible to reach a stable teaching position in a university. It begins with masters’, a requisite to access PhD positions; the latter is again a requisite to apply for post-docs, the infamous temporary research grants. The core of all issues resides in this series of bottlenecks.

Not only it’s almost impossible to complete this path in the same institution (or even in the same city), but on top of that moving from country to country and even from topic to topic are heavily encouraged by professors and evaluation committees, mentioning broadening horizons and experience in various branches. This promotes a ruthlessly competitive culture that, under the veneer of cooperation with new and old groups, hides the main goal of success at all costs, of hunting the next grant and so on until one lands a teaching position.

The real effect of this structure, at the same time ordered in its sequentiality and chaotic in the movements it requires, is that the scientist is constantly and forcibly eradicated from the local environment of their city and research group. It makes it unnecessarily harder to form cooperative bonds with other experts or even just making new friends and learning the local language. This experience is one I’ve had on my skin and it vaporized every aspect of the social life I had built through my university years.

Women have it even harder: jumping from grant to grant every two or three years makes the choice of childbearing almost impossible, and this has the effect of self-selecting the women that end up choosing to dedicate less time to their family or to have none at all. As in many other systems, the cursus academicum is thought and planned by men and for men. Despite all the “solutions” for women in STEM that many departments are chasing, none really addresses the core issues of forced relocations.

Science and community

In the last decades, scientific progresses (not only in physics) have been more frequent and impactful than in any other age. Yet at the same time mistrust towards science and its experts is constantly rising, among novax and climate deniers. Is it surprising, considering that scientists are systematically ejected out of whatever community that is not strictly scientific? The scientist is relegated by design to a purely technical role and devoided of social (informing citizens, taking part in public debates, telling stories) and political (creating party programs or cultural movements) agency. This triggers the vicious circle that brings scientific professions to be seen, by both scientists and non-scientists, as selfish, detached from the ordinary world and with no useful applications. On top of the hill, far away from the town.

This is where I ask myself, as a quasi-scientist: for whom is this science? How can we give science back to the communities and reactivate scientific participation by both citizens and scientists, so that the profession becomes active and prolific for everyone and not for a tight circle of experts?

  • Andrea “Clockwork” Barresi

Il 25 Aprile è quel giorno dell'anno in cui abbiamo la possibilità di ripetere con forza le origini antifasciste e pacifiste della nostra repubblica. Negli ultimi dieci anni però (e forse anche di più, ma sono troppo giovane per ricordare), nel dibattito pubblico questa festa nazionale è diventata “controversa”, segno che l'indirizzo dei media tradizionali e dei loro ospiti sta scivolando lentamente a destra, come vi siete già accorti tutti tra Salvini, Meloni e “governi tecnici” (= neoliberismo draghiano).

Quest'anno il dibattito è amplificato da un'invasione vera, una guerra prevaricatrice e immotivata che rompe il tranquillo standard quotidiano a cui eravamo abituati nell'Occidente. Il paragone tra i partigiani ai tempi de* nostr* nonn* e l'odierna resistenza ucraina è immediato, e tanti ne hanno già scritto profusamente tra critiche alla NATO e riferimenti all'ANPI.

Quello su cui voglio concentrarmi è un altro tipo di oppressione, più surrettizio e apparentemente inevitabile ma che dopo ottant'anni stiamo dissotterrando solo ora, nel 2022: i giganti fossili.

Vari settori, dall'agricoltura alla finanza, dall'energia ai trasporti, sono in larga parte dipendenti dai combustibili fossili. L'IPCC conferma con rigore inattaccabile che non possiamo più permetterci di emettere CO2, che dobbiamo letteralmente liberarci da questo ricatto energetico.

Eppure ancora molti non vedono questa situazione come oppressiva. Non sentono il bisogno né l'urgenza di essere liberati, non provano il timore di un regime, questa volta climatico e non politico, fatto di eventi estremi e non di leggi razziali, che diventerà progressivamente più severo e immiserente per la gran parte della popolazione italiana e mondiale.

Forse il totalitarismo fossile sta, lentamente, perdendo forza, tra massicci investimenti nelle rinnovabili e interruzione di molte centrali a carbone. Questo non basta a ostacolare le grandi compagnie petrolifere (Gazprom, Shell, BP, Exxon e anche ENI, che fu proprio protagonista del miracolo italiano nel secondo dopoguerra), che continuano e continueranno a fare i loro interessi, rallentare la transizione alle rinnovabili e costringendoci in ogni modo a sottostare al loro ricatto fossile.

E la domanda a cui non riesco a rispondere è: quand'è che, come * nostr* bisnonn*, ci renderemo conto che dobbiamo prendere la situazione in mano? Che quando l'alternativa all'oppressione sembra non esistere, sono i cittadini a lottare per la propria libertà, in questo caso energetica e climatica, per il diritto ad avere un futuro? Quanto, insomma, dovremo ancora aspettare sotto il giogo fossile prima di diventare partigiani climatici e sfidare faccia a faccia il sistema che a cento anni di distanza ci piega al servilismo in una nuova veste?

Le Camicie Nere avranno anche cambiato stile e volto, ma sono ancora lì. Un giorno sarà compito nostro salire sulle montagne, non per sfuggire alla polizia fascista ma alle alluvioni e alle siccità, e far fronte al regime fossile.

  • Andrea “Clockwork” Barresi

[🇮🇹 SOTTO]

The recent weeks have completely swallowed my attention into a maelstrom of news and updates from the Ukrainian front. Needless to say that this process is draining and anxiety-inducing, but with some effort I managed to redirect my social feeds in a way that provides me with more knowledge and insight instead of chaotic infoxication.

Above everything, this thread shocked me the most. I am absolutely aware that it might very well be fake or propaganda (as both sides of the invasion are trying to flood us Europeans in whatever possible way), but the reality is not unlikely to be much different from that short clip and the picture painted in the thread.

Imagine this: the government you did not vote for is oppressing another population for their own economic gain; as a consequence, the rest of the world turns its back on you and isolates your whole country from what little comfort you managed to find in your homeland. At the same time, you are given no alternative to choose for any better system; it's compliance or jail.

Russian people are of course under extreme duress here, and the purpose of sanctions is both targeting the oligarchs' pockets AND piss off the general population in the hope they will spark a revolution and topple the dictatorship. But as the thread says at some point: “sounds good, doesn't work”. The nature of sanctions does nothing to help the citizens pressure Putin's regime; instead it just makes them more miserable.

Untargeted sanctions just lead to genocide.

So Russian citizens are looking to salvage what's left of their comfort and dignity before it vanishes. They flock to the last western goods before the doors are closed. They have no tools to fight that system, and sanctions don't provide any either. And my immediate question is: are the Russian citizens the only ones that would act so selfishly?

No, they're not. We would likely do the same.

As much as I recognize the difference between the harsh Russian regime and whatever you deem to be a “western democracy”, the spirit is similar: none of us are given a real chance to choose what's best for us. We have a veneer of choice: what food to buy or what hospital to go to, but we don't have any say on what's criminal and what's not, how things are produced, how much we work or what's taught in schools. On that front, it's again compliance or isolation.

For the better part of my aware-life, being the thoughtful nerd most of you gamers are as well, I tried to rationalize and romanticize solitude and loneliness, in an attempt to be satisfied with what I had. It's only after two years of quarantine, the consequences of a war at our doorstep and the impending climate crisis that that romanticization falls off, crumbles and reveals what's behind: an invitation to stick to how things already are, to internalize them and accept what's wrong and deem it a personal failure. Individualization is the perfect way to deprive us of the tools to imagine or fight for a better, different world.

It doesn't have to be that way.

If you have ever felt alone in these two years, it's not because you haven't managed to deal with it, it's not because you're weak and faulty. It's because the solution was nowhere close to us. It's because we've been individualized and isolated without really noticing, until the smallest shock in the global status quo backfired immensely and hit us collectively.

Humans have evolved as social animals, in supportive communities based on contact and cooperation. The only way to get rid of this false dychotomy of “comply or isolate” is exactly by forming communities, by sharing knowledge and experiences, tools and emotions, purposes and ideas.

We need to be together again.

— 🇮🇹 ITALIANO 🇮🇹 —

Le ultime settimane hanno fagocitato la mia attenzione in un vortice di notizie e aggiornamenti dal fronte ucraino. Inutile dirlo: questo processo è estenuante e mi riempie di angoscia, ma con il giusto sforzo sono riuscito a reindirizzare il mio feed Twitter in una direzione che mi fornisce più conoscenza dei retroscena rispetto all'infossicante rumore di fondo delle bombe.

Sopra ogni cosa però, questo thread mi ha lasciato sconvolto. Sono assolutamente consapevole che può benissimo essere falso o propaganda (siccome entrambi i lati del conflitto stanno cercando di inondare noi europei in primis in ogni modo possibile), ma la realtà potrebbe non essere così distante da quella breve clip e dallo scenario dipinto nel thread.

Prova a immaginare: un governo che non hai votato sta opprimendo un altro popolo per il proprio guadagno personale; come conseguenza, il resto del mondo volta le spalle A TE e isola il tuo paese intero da quel poco sollievo che eri riuscitå a trovare nella tua terra natia. Allo stesso tempo, non ti è data nessuna alternativa per scegliere un sistema migliore: obbedire o prigione.

I cittadini russi sono ovviamente sotto estrema coercizione in questo momento, e lo scopo delle sanzioni è sia prendere di mira le tasche degli oligarchi che fomentare la popolazione, nella speranza che si accenda una rivoluzione che interrompa la dittatura. Ma come dice il thread ad un certo punto: “suona bene, non funziona”. La natura delle sanzioni non fa nulla per aiutare i cittadini a mettere pressione al regime di Putin; al contrario, li rende solo più derelitti.

Sanzioni non mirate portano solo al genocidio.

Perciò la risposta dei cittadini russi è ovvia: cercano di salvare ciò che è rimasto del loro comfort e della loro dignità prima che sparisca per sempre. Cercano di assicurarsi gli ultimi beni occidentali prima che le porte si chiudano. Non hanno mezzi per lottare contro quel sistema, e le sanzioni non gliene forniscono alcuno.

E la mia domanda immediata è: i cittadini russi sono gli unici che si comporterebbero così egoisticamente?

No, non sono gli unici. Anche noi faremmo così.

Nonostante riconosca la differenza tra il regime feroce di Putin e qualsiasi cosa tu chiami “democrazia occidentale”, lo spirito è simile: a nessuno di noi è data una possibilità genuina di scegliere cos'è meglio per noi. Abbiamo l'apparenza di una scelta: che pasta comprare al supermercato o a che ospedale farci visitare, ma non possiamo aprire bocca su ciò che è reato e ciò che non lo è, come produciamo i nostri beni, quanto lavoriamo o cosa si insegna a scuola. Su quel fronte, è di nuovo obbedire o prigione.

Per la maggior parte della mia vita consapevole, essendo il nerd pensieroso che probabilmente sei anche tu, ho provato a razionalizzare ed esaltare la solitudine in un tentativo di accontentarmi di ciò che avevo. E' solo dopo due anni di quarantena, conseguenze di una guerra dietro casa e avvisaglie della crisi climatica che quella romanticizzazione cade e rivela cosa c'è dietro: un invito a mantenere le cose come sono, ad internalizzarne le storture e accettarle come fallimenti personali e non sistemici. L'individualizzazione è il modo perfetto per toglierci gli strumenti per immaginare o combattere per un mondo migliore, diverso.

Non deve essere così per forza.

Se ti sei sentitå solå in questi due anni, non è perché non sei riuscitå a risolvere il problema, non è perché sei statå debole. E' perché la via d'uscita ci è stata nascosta. E' perché siamo stati individualizzati all'estremo senza rendercene conto, fino a che il minimo shock nello status quo globale ha fatto crollare tutto e ci ha schiacciato collettivamente.

Gli umani si sono evoluti come animali sociali, in comunità supportive basate sul contatto e la cooperazione. L'unico modo di liberarci di questa dicotomia ingannevole del “obbedienza o prigione” è esattamente formando comunità, condividendo conoscenze ed esperienze, strumenti ed emozioni, scopi e idee.

Abbiamo bisogno di stare di nuovo insieme.

  • Andrea “Clockwork” Barresi

First off: no, there won't be any war over Ukraine. It didn't happen with North Korea, it didn't happen with Iran, and it won't happen now. We are just immersed in American propaganda (at least on our side of Europe), and USA is in the midst of manufacturing consent, as usual. But we can get rid of that, hopefully.

Let's see how.

First off, Ukraine.

If you followed the events of Russian invasion of Crimea/Donbass in 2014, you should already be aware of two things: – This is not the first time Russia threatens conflict along the border; – Ukraine already managed to repel Russia on its own.

Let's not be disingenuous: Russia has a propaganda machine of its own, and these recent moves definitely have some geopolitical purpose towards Ukraine, first and foremost to pressure them into not joining NATO/EU and keep Ukraine as close to the Kremlin as possible. An outright invasion would probably end up with Ukraine doing exactly one (if not both) those, so it would be geopolitically disadvantageous for Russia to just walk in.

Secondly, the conflicts of the past six years ultimately proved not only a huge failure for the Russian side (since they managed to take much less than their intended objective, and at a great cost), but also strengthened Ukrainian democracy by electing a governing body that went beyond the west/east cultural differences. All this was done without requiring USA intervention in the slightest. It was Ukrainian people arming themselves and fighting off Russian-funded separatists. On their own accord.

But why is USA worried NOW, then?

The United States are (and I hope everyone realized that by now) an empire. And like all empires, they mainly need two things: consensus and expansion. Both things hinge on having an enemy or being the target of a threat: that allows the empire's wars to be seen as just and “holy” (in fact, the Crusades powered by the Catholic Church were probably the most notable example of this dynamic).

Cuba, Vietnam, Koreas, Iraq, Afghanistan, Syria: it happened multiple times in the last 70 years, and it always worked. The pattern should be clear by now. And given that USA are currently in the middle of a social (and climate) crisis, and their president is losing consensus after failing to deliver electoral promises such as student debt cancellation and Build Back Better policies, the one way to distract the citizens is, as usual, pointing them to a different enemy. Just as soon as their Military-Industrial Complex is receiving an increasing budget of more than 750 billion dollars and people are asking why are those money not being directed to solving the actual issues of the country (and possibly the entire world, given that the climate crisis could be tackled with half of that yearly expenditure.

So what's the problem with learning history?

History is, of course, violent. We all wish it wasn't, but wars and conflict happened (and happen) all the time. What I want to point your attention to, and I can't stress this enough, is not whether that conflict existed or not, but through what perspective we learn about it. Regardless of which corner of Europe or America you're reading this from, chances are that your public schools taught you history through a succession of events led by authorities or nations. So it's only natural that we're automatically interpreting every modern conflict as a head-to-head between personified countries, as if they were real people with clear, uniform objectives and opinions on the possession of land.

What this intrisically hides is every other conflict outside of war: people demanding well-being and representation, workers struggling for rights and citizens asking for easier lives out of poverty. After all, how does the average European or American citizen benefit from a war in Ukraine? Who makes that decision really, if not the small amount of people that are in charge and backed by industries and profits?

To prevent new war propaganda from invading our mental space, we need to re-learn how to read history. We need to use these attempts at swaying our minds to look up the history of the actual people that lived and live in those places in the last fifty or hundred years, and learn about their own conflicts, not their nation's. Nations are not people. People are people, and nothing else.

  • Andrea “Clockwork” Barresi

The public opinion is slowly but finally coming around the pitfalls and shortcomings of the new economic craze, but I still feel like we can make a further step... by exploring a particular event of the past. I'm not talking about the South Sea Bubble or the Tulip Mania that took place in the 1700s, albeit it should be somewhat impressive that we're still falling for the same economic shenanigans that came up 300 years ago.

I'm talking about stars.

As everyone knows, for the longest times mathematicians and men of knowledge were not bothered with prices, values and stocks; economy itself didn't exist as a discipline until the early Enlightenment. Before that, scholars used to turn their stares to the sky, trying to figure out the movements of planets and stars. There were many attempts to explain singular phenomena, but the first to successfully craft a comprehensive system that could account for everything people needed to know about the heavens was Ptolemy.

The Roman-Egyptian mathematician had found a way to savantly weave together observed celestial motion and Aristothelic knowledge: it was a stunning feat, corroborated by advanced math and precise predictions. It was too good to be wrong, so it spread like wildfire among ancient astronomers. The Geocentric Model was born.

The Middle Ages were especially fond of preserving past knowledge from the political chaos that was ravaging Europe, and scholars of the time did everything they could to uphold this cosmological model, at times attempting to improve it. Among its most dedicated fans was the Catholic Church, who adopted it as the most adherent to biblical events. Other models in the making (mainly Heliocentrism) were refused not much because of their inability to explain observations but because they contradicted the Bible. Its charm was evident, even from a religious perspective: the Man, God's most perfect creature, was at the center, and the rest of the universe revolved around him.

But as science developed, astronomers and mathematicians were starting to see the cracks in Ptolemy's ceiling: calculations didn't match, calendars were skewed and the stars were drifting off. There was something more. And so they added it, or tried to. Phases, epicycles, deferents, equants, orbits on orbits: every creative tool was deployed to plaster Geocentrism's cracks. They somehow worked, but at times they were self-contradictory and spawned more issues than they solved. Deep down, astronomers started to suspect that the Geocentric Model was irreparably flawed.

By then, the Catholic Church and the Papal State had already expanded their authority to the whole Europe, and they understood they could not allow any other cosmic model to undermine their position. The Church couldn't allow itself to be wrong. If one is wrong about the universe, how can they be right about politics? How could they then justify God's will?

Then, revolution came. At the hands of Kopernik, Brahe, Bruno, Kepler and Galileo, a new model was born: Heliocentrism. The Sun was now at the center; Man, relegated to orbit around it.

The Church could not allow any of that, and since synods and councils were not enough to disprove the wealth of observations supporting Heliocentrism, they resorted to the one tool of every authoritarian institution: violence. The Pope started to condemn, ban, threaten, excommunicate, arrest and execute any proponents of the new model: anyone who went against the current worldview was going against the Church as well, and they were better armed.

By now you should've noticed the analogy I'm trying to paint with this scientific example. A set of beliefs upheld by any authority can delay the onset of a revolutionary (or dangerous) knowledge, but it can never completely stop it or erase it. As soon as the authority weakens, the knowledge leaks. And vice versa, in a vicious (or virtuous) cycle.

So what's with cryptos again?

As Thomas Khun suggested in his The Structure of Scientific Revolutions, most instances of “progress” work in that same way: after a period of smooth sailing, anomalies appear and only after they propagate and plague the whole system, revolutions happen. The paradigm shifts.

Capitalism is the Geocentric Model — It's been great for those in power so far (mainly North Atlantic countries), but cracks are starting to show and none of the most creative tools that economists are coming up with seems to work against these anomalies. Some of their most recent installations, specifically free-floating currencies and cryptocurrencies, are starting to introduce more issues than they were supposed to fix, at times with unpredictable threats for the system itself. The Covid Pandemic has shown that healthcare systems working under profit logics were a massive failure in containing the disease and preventing deaths. The recent Kazakh Crisis, where free-market policies were enforced on the country and attracted the same bitcoin miners that eventually depleted its energy production and caused its neoliberal government to fall, is the peak example of this critical mismatch between the problem and the attempted solution.

Cryptocurrencies, just like the latest patches to cosmic motion proposed by geocentrists, rely on a layer of violence, albeit less explicit and not necessarily enforced by a single authority. It relies on a single, wealthy owner of mining factories finding enough people that are desperate enough to gamble their savings in the hope to make it big, baiting them through celebrities announcing their support while at the same time hiding, restricting or punishing the alternatives (such as gift economies or anything open source). It's subtle, psychological economic violence, and this is without even mentioning currency manipulations and the dreaded rug pulls.

But if this analogy holds true, we're hopefully due for some sort of cultural revolution beyond geocentric capital. Something that, despite delays and pushback from authorities, cement itself as the new system. This seems to be quite widely accepted, but what we don't know yet is: what will the paradigm shift to? What's our heliocentric revolution going to be? Can we make that happen, somehow?

  • Andrea “Clockwork” Barresi