D͏i͏-s͏p͏e͏n͏s͏a͏

D͏i͏-s͏t͏r͏i͏b͏u͏z͏i͏o͏n͏i͏ D͏i͏-g͏i͏t͏a͏l͏i͏ D͏i͏-v͏e͏r͏s͏i͏f͏i͏c͏a͏t͏i͏

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Nel vasto panorama della musica tutta, ci sono dei musicisti, cantanti o per meglio dire “distributori sonori” che si inoltrano in un angolo del nostro cuore e ci rimangono per molto tempo, a volte per sempre.

Frank Zappa è uno di questi. Conosciuto in età adolescenziale, ero più attratto dalla sua estroversione umana che per una reale emozione sonora. Poi con il tempo ho cominciato ad apprezzare anche i suoi dischi e maturato l’idea che la sua musica, oltre a non essere banale, aveva un’ossatura profonda e soprattutto personale.

Il duca della prugne, così era chiamato Frank Zappa, dal brano omonimo che comparve nel suo celebre secondo album “Absolutely Free”. Nessuno prima di lui fu maestro della sovversione musicale, il più illuminato e multiforme dei musicisti generati dalla rivoluzione degli anni sessanta. La parte più ludica e irriverente della cultura rock, l’esempio indomabile di una coscienza scomoda e indigesta al perbenismo americano. Alla cultura rock, Zappa ha insegnato cinismo e parodia, una visione fortemente laica e demitizzata della realtà, mescolando musica e rumori, parole e gemiti, telefonate e sirene. Con pari dignità dimostrava che si poteva eseguire un jodel tirolese e Stravinskij, un chicchirichi e il jazz.

Come per tutti i grandi della musica del nostro tempo, continueremo a domandarci se sia stato o meno un raro, isolato genio del bricolage musicale, oppure un perfetto prodotto della sua epoca, di quegli anni sessanta e settanta così sbeffeggiati dai suoi dischi. Di sicuro Zappa innalzò a suo modo un canto di dolore per una gioventù costretta a rivedere le proprie scelte di vita per sopravvivere. Rifiutava le mode e le etichette e diventò, suo malgrado, il re della controcultura statunitense, attraverso performance, dischi, e persino poster (il più celebre dei quali lo ritrae seduto sul gabinetto del suo appartamento). I suoi testi sono un’esplicita condanna dell’ipocrisia borghese e dell’intero stile di vita americano. Sono dissacranti e irriguardosi, sono una clamorosa dichiarazione di libertà assoluta, un appello ai giovani a liberarsi di certe mode, della musica idiota e, soprattutto, a non accettare di essere considerati solo in quanto “consumatori”.

#Dimusica

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Difficile è collocare un personaggio singolare come Ry Cooder, musicista, produttore, chitarrista, compositore, interprete, che dagli anni Settanta alla fine del secolo percorrerà in lungo e in largo le strade della musica, dal rock al country, dalla musica cubana a quella araba, dalle colonne sonore al pop, dal jazz al blues.

Secondo lo schema tradizionale, non è un cantautore, non è un rocker, né un campione del pop. Sfugge, per natura, alle etichette e alle definizioni, ma il suo lavoro di recupero delle tradizioni musicali, quella americana in particolare durante gli anni Settanta, e il suo lavoro di musicista e produttore, avranno grandissima influenza. Come ha scritto su “Rolling Stones” Jon Landau: “Cooder è alla perpetua ricerca della nota magica, del sound giusto al momento giusto”.

Interprete sopraffino della tradizione musicale americana, nei primi anni della sua avventura musicale si concentrava sul repertorio più vicino al blues e al tex-mex, ma già verso la fine degli anni Settanta l’eclettismo delle sue scelte ne fa un preziosissimo outsider, in grado di muoversi liberamente tra generi e stili mantenendo saldissima la propria ispirazione, la capacità di far diventare diverse dall’originale le composizioni sulle quali lavora con certosina precisione.

I suoi album degli anni Settanta sono un incredibile catalogo dei linguaggi della musica popolare americana: da “Ry Cooder” (1970), intriso di folk e di blues, a “Into the Purple Valley” (1972), da “Paradise and Lunch” (1974) a “Chicken Skin Music” (1976), Cooder esplora la musica folk e il tex-mex, il blues e il rhythm’n’blues, la canzone e il gospel, per approdare al jazz con “Jazz” (1978) e alle origini del rock’n’roll con “Bop Till You Drop” (1979), primo disco nella storia della musica ad essere stato registrato totalmente in digitale. Negli anni Ottanta dedicherà molto del suo lavoro alla realizzazione di colonne sonore, girerà per il mondo collaborando con musicisti di estrazione e cultura diversissime, africani, indiani, arabi, per approdare al successo planetario, negli anni Novanta, quando farà scoprire al mondo intero la magia della musica cubana con “Buena Vista Social Club”. Negli anni duemila sono da rilevare i suoi “Chavez Ravine” (2005) e “My Name Is Buddy” (2007), ma soprattutto alla collaborazione con Mavis Staples in “Well Never Turn Back” (2007). Nel decennio che va dal 2008 al 2018 Cooder pubblica quattro dischi: I, Flathead (2008), Pull Up Some Dust and Sit Down (2011), Election Special (2012) e The Prodigal Son (2018) non sempre all'altezza delle aspettative ma sempre degli di nota, grazie soprattutto alla non banalità e alle loro motivazioni. Alle stesso tempo continuano le collaborazioni con la pubblicazione di cinque dischi: Hollow Bamboo (con Jon Hassell e Ronu Majumdar) (2000), Mambo Sinuendo (con Manuel Galbán) (2003), il bellissimo San Patricio (con The Chieftains) (2010), Live in San Francisco (con Corridos Famosos) (2013) e l'ultimo di quest'anno Get on board (con Taj Mahal) tra le migliori uscite del 2022.

#Dimusica

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Nel vasto panorama della musica tutta, ci sono dei musicisti, cantanti o per meglio dire “distributori sonori” che si inoltrano in un angolo del nostro cuore e ci rimangono per molto tempo, a volte per sempre.

Mostro sacro della chitarra, geniale musicista della metà degli anni sessanta, il suo suono rimarrà presente per decenni e decenni. Nonostante la sua vita musicale durò una manciata di anni, le sue produzioni musicali rimangono tutt’oggi la ricca testimonianza della sua genialità. Di sicuro una cosa c’è: un prima e un dopo Hendrix.  Jimi Hendrix irruppe sulla scena del rock come una meteora incandescente che trasformò l’idea stessa della chitarra elettrica. A tutti gli effetti è stato un musicista simbolo di quegli anni. Nessuno meglio di lui ha incarnato un tratto ineliminabile degli anni Sessanta, ovvero quella sensazione di rincorsa creativa. Tutto correva, i cambiamenti sembravano a portata di mano, gli eventi si succedevano ad un ritmo febbrile. Questa ebbrezza collettiva, Hendrix cercò di interpretarla in una stravolta improvvisazione sonora. I suoi “voli” solistici sembravano sfuggire ai consueti piani narrativi musicali. Le sue invenzioni, i furori creativi, le visioni folgoranti, imponevano continue sfaccettature. Sempre “in fuga” tra progetto e spontaneità, caos e ordine, allo stesso tempo. Capirne oggi la portata è più difficile, perché ormai tutto è già stato assimilato, digerito, trasformato in ovvio, ma, se pensiamo a quel tempo, quando per la prima volta ci si rese conto del suo “potere”, il suono di quella chitarra dal sapore del nuovo, è assai diverso. Jimi Hendrix ebbe la forza e la capacità di raccogliere il blues fin dove là era arrivato e di scaraventarlo nel futuro. La sua è stata una corsa sfrenata, sregolata, il cliché dell’artista votato all’autodistruzione, tipico del passaggio tra i sessanta e i settanta. Hendrix, meticcio come il rock, nero e bianco allo stesso tempo, era padrone di una tecnica stupefacente, il blues scorreva liberamente tra le corde della sua chitarra e cosciente di questo stette al gioco infiammando le platee con un repertorio coreografico che diventò parte integrante del suo mito. La sua Fender Stratocaster era, di volta in volta, la proiezione del suo membro, compagna di torridi amplessi elettrici, suonata coi denti, i gomiti, gli abiti etc. Hendrix aprì la strada ad un utilizzo totale dello strumento, rivelando ai chitarristi nuove possibilità, più funzioni: accompagnamento ritmico, assoli, pure sonorità. Gli sono bastati tre dischi, a parte le miriadi d’incisioni collaterali, per fissare questa rivoluzione. Tre album che non assomigliavano a nulla di conosciuto, tre dischi dove il rock stesso abbatteva con fulminea rapidità i propri confini. Hendrix partiva dal blues e lo trasformava, mettendo insieme jazz e canzone, rock e rumore, fondendo l’arte dell’improvvisazione propria dei grandi del jazz, a quella del rock. Hendrix sognava, immaginava, non si limitava a suonare. Era un musicista solo, visionario, creativo, pronto a volare sempre più in alto, a bruciarsi le ali con ignote prospettive, capace di abbandonare anche quel rock che gli aveva dato energia, denaro, successo.

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Nel vasto panorama della musica tutta, ci sono dei musicisti, cantanti o per meglio dire “distributori sonori” che si inoltrano in un angolo del nostro cuore e ci rimangono per molto tempo, a volte per sempre.

Billy Bragg l’ho conosciuto con la pubblicazione del suo primo disco nel 1983. Da quell’anno non l’ho più perso di vista anzi, lo vidi molto bene quando a metà anni ottanta “vissi” un suo concerto sotto il palco all’ex Foro Boario di Treviso con altre poche decine di persone. Bragg infatti, non lo conosceva ancora nessuno in Italia.

Esponente della canzone di protesta degli anni ottanta (nato nel 1957, vero nome Steven Williams) è una sorta di Bob Dylan inglese vent’anni dopo. Cresce col primo punk inglese, ama i clash e ha idee vicine a quelle del partito laburista. La sua peculiarità è soprattutto la sua lingua lunga, schietta e incisiva, le frecciate al potere. La stampa inglese lo definirà Billy il terribile.

E’ Peter Jenner, manager dei Pink Floyd e dei Clash, che gli procura un contratto. Bragg ne esce con sette brani solo chitarra e voce, tra queste A New England entra nelle classifiche indipendenti inglesi. A questo punto Bragg pubblica un (mini) disco “Life’s a riot with spy vs. spy” nel ’83, che balza al primo posto delle classifiche indipendenti ed entra in quelle nazionali. A questo successo seguono lunghi mesi di tournees in tutta Europa e america. E’ del ’84 il suo primo vero disco “Brewing up with Billy Bragg”.

Da quel momento la fama dell’artista cresce vertiginosamente e Bragg è sempre in prima fila a tutte le manifestazioni a sfondo sociale e politico. Seguono altri dischi negli anni a venire, arricchendosi in più di arrangiamenti strumentali. Ma è con il suo settimo album “Workers playtime” dell’ 88 che Billy si dimostra un artista ormai maturo. Ottime composizioni, musicalmente interessanti (She’s got a new spell) una su tutte.

Nel decennio a venire se la sua scelta “militante” è sempre in prima linea, non così è musicalmente parlando. Il “tono” musicale diventa senza dubbio un pretesto per esprimere le proprie accuse a tutto il sistema politico e sociale.

Più tardi accompagnato dai Wilco, esce “Mermaid Avenue” I e II. Bragg mette in musica le ultime liriche scritte da Woody Guthrie e ancora una volta riesce a sorprendere. Testi e musica finalmente vanno a braccetto. Il cantautore e i Wilco compongono melodie superbe su testi pregnanti.

Quello che affascina di Bragg sono le sue canzoni agrodolci sulla vita quotidiana, le sue ballate di vita domestica. Nella sua spartana semplicità riesce a fondere con talento melodico ora confessioni adolescenziali ora meditazioni profonde. Provate ad ascoltare: The Short Answer, Must I Paint You A Picture e Valentine Day Is Over, ve ne accorgerete, sono dei veri gioielli.

#Dimusica

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Nel vasto panorama della musica tutta, ci sono dei musicisti, cantanti o per meglio dire “distributori sonori” che si inoltrano in un angolo del nostro cuore e ci rimangono per molto tempo, a volte per sempre.

Il triplo disco in vinile “The Koln Concert”, mi fu regalato da un carissimo amico per i miei diciotto anni. Siamo nel settantasette e gli echi d’oltralpe del Punk cominciano a farsi sentire.

Jarrett è sulla scena musicale dal ’67 e ha già all’attivo oltre dieci album.

Jarrett è un pianista impeccabile, vero teorico del tocco e del suono. Nel jazz vero e proprio ha lavorato in periodi diversi, negli anni settanta con il quartetto americano con D. Redman, C. Haden e P. Motian, poi con Jan Garbarek, e dal 1983 nello splendido trio con G. Peacock e J. Dejohnette, ancora oggi in attività. Ma la leggenda di Jarrett è cresciuta soprattutto per la sua attività solista, dove il jazz è solo una parte del tutto. L’inizio è con ‘Facing You’, del 1972, da allora in poi realizza dischi e concerti in perfetta solitudine, nei quali alterna composizioni, riletture e fantastiche improvvisazioni, in una “formula” che ha convinto e coinvolto un pubblico forte e appassionato, spesso malinconico, indubbiamente romantico, ma soprattutto dall’intensità magica con la quale egli riesce a rendere l’ascoltatore partecipe dell’atto della sua creazione, improvvisata in un’atmosfera di profonda sospensione. Il culmine del successo arriva con l’album doppio “The Koln Concert”, realizzato nel 1975, uno dei dischi più venduti di tutta la storia del jazz, gioiello sonoro magnificamente rappresentativo di queste lunghe improvvisazioni introspettive, legate da un flusso ininterrotto nel quale nuclei di idee si trasformano in altri in un incessante racconto del pensiero.

#Dimusica

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1) Lo stomaco ha paura quando non fai colazione.

(2) I reni hanno paura quando non bevi 10 bicchieri d'acqua in 24 ore.

(3) La cistifellea ha paura quando non dormi dopo le 23 e non ti svegli all'alba.

(4) L'intestino tenue ha paura quando mangi cibo freddo e in ritardo.

(5) Il colon ha paura quando mangi più cibo fritto e piccante.

(6) I polmoni si spaventano quando inspiri fumo, aria sporca e fumo di sigaretta.

(7) Il fegato ha paura quando mangi fritto pesante, spazzatura varie e fast food, bevi alcool.

(8) Il cuore ha paura quando mangi cibo con tanto sale e colesterolo.

(9) Il pancreas ha paura quando mangi tanto zucchero e dolce.

(10) Gli occhi sono spaventati quando ti siedi molto al telefono e al computer al buio.

(11) Il cervello ha paura quando inizi ad avere pensieri negativi.

Prenditi cura di diverse parti del corpo e non spaventarle. Tutti questi organi non sono disponibili sul mercato. Sono costosi e molto probabilmente non possono permettersi un sostituto tempestivo. Quindi mantieni i tuoi organi sani.

#Divita

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Lo sguardo è ghiacciato non bruciarti stai sotto il mantello cucito per te dagli anziani  e mentre raschi il vetro raccogli tutto il peso dell’attenzione tra le scapole e poi lancia lanciale lontano le belle parole.

Non voglio parole che mi spieghino e nemmeno che sgroviglino né chiariscano. Non voglio parole che mi riempiano e nemmeno che mi facciano sentire sciocca e con poca scuola alle spalle. Non voglio parole che complichino senza un cuore al centro. Non voglio parole che si diano arie. Ho bisogno di parole leggere eppure capaci di sfamare e dissetare, parole che mi domandino tanto, tutta la testa da mozzare e un cuore ingenuo da allenare al passo delle bestie nella foresta, vigile e sempre a casa, eppure sempre in pericolo. Voglio parole disobbedienti ma anche candide. Parole capriole e parole solletico, parole lampi, fulmini e tuoni, parole aghi che cuciono e parole che strappano la stoffa del discorso.

Parole silenziosissime che non svegliano i bambini della notte. Parole che conoscono i ring e non sferrano mai colpi bassi. Ma toccano. Rintoccano. Fanno percepire la pelle e vibrare le ossa. Le ferite si acquietano sotto le parole di fuoco, si riconoscono della stessa natura. Ho bisogno di parole che mi cercano, cercano la mia oscurità, non la mia chiarezza e si accovaccino con me, con me respirino affannate nell’oscurità. Parole che sappiano aspettare. Parole che mi diano uno spintone verso quello che ancora non oso sapere. Parole compagne del silenzio. Una ogni tanto. Poi tre passi. Ancora una. E sei passi. Parole che vedano i tuoi occhi e i tuoi capelli, come cadono per un nonnulla e come gli occhi si arrossino scrutando il buio. Parole che conoscano gli sforzi. Per non dire. Per dire tutto. Per dire senza far male. Per velare. Per dire quello che tu taci. Per dire quello che sottintendi. Parole che accarezzino quello che taci per viltà e per paura e non lo condannino a decifrarsi ma bisbiglino solo: “Ci sei. Io ti sento.”

Ho bisogno di parole che mi ascoltino.

Ora è tempo per me di salutare le parole.

Chandra Livia Candiani #Divita

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Non è mio mestiere salvare tutti, salvarli da se stessi, portare via i loro dolori, le loro solitudini, le loro delusioni, la loro rabbia, le loro paure, le loro ansie, la loro tristezza. Non sono più schiavo della mia colpa. I sentimenti non sono più un errore, o un segno del mio fallimento, ma preziose energie che volevano muoversi. Non devo vergognarmi di me stesso. Ho il diritto di dire no e si, e anche quello di dire non lo so. Il diritto di restare, e il diritto di andarmene via. Il diritto di prendermi il mio spazio. Il diritto di dire la mia verità. Il diritto di decidere con chi passare il mio tempo. Il diritto della mia fede. Di parlare la mia verità. Il diritto di essere proprietario del mio cuore. Dove gentilezza non significa più punire o esaurire me stesso per salvare o guarire gli altri, ma amare me stesso a sufficienza per ergermi nel mio pieno potere e ascoltare gli altri senza prendere su di me le loro pene... Queste persone non vogliono veramente te, vogliono l’idea di te. La lezione più liberatoria che imparerai mai è che: nessuno può farti sentire felice. E tu non sei responsabile della felicità degli altri. Sei libero.

(cit. Jeff Foster) #Divita

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Dove torno a rimbalzare disordinatamente da Facebook al blog e viceversa

Tanti amici hanno già deciso o stanno decidendo in questi giorni di mettere i piedi fuori dal meta-flusso di Facebook, per non lasciarsi contagiare dalle sue acque torbide, per non farsi trascinare dalla corrente e per fare in modo che i loro dati e le loro emozioni non siano sfruttati per fini commerciali. Altri, semplicemente, riducono progressivamente la loro esposizione ai social cercando di liberarsi in modo morbido dall’assuefazione.

Io, invece, per il momento, ci resto ancora del tutto invischiato. Forse perché mi illudo di navigare a pelo d’acqua e di governare la rotta a mio piacimento. Sento, in qualche modo, di essermi mitridizzato. E poi, mi ripeto fino all’autoconvincimento che osservare il fenomeno dall’interno serve a farmi capire meglio le nuove generazioni e la deriva che sta prendendo la mia.

Eppure, tante volte, vedendomi dal di fuori, mi sento come un tossico che mentre assume la sua dose ripete a se stesso e al mondo io-smetto-quando-voglio.

E allora, vado dicendo in giro che restare in questo magma liquido mi serve pure per confrontarmi con amici, conoscenti e sconosciuti vicini e lontani; anche se constato ogni giorno che ci vuole molta pazienza per dibattere in uno spazio polarizzato, aggressivo, viscerale e umorale come il Faccialibro. Tanto più quando si intraprende una discussione in un gruppo pubblico o privato, dove, nella moltitudine, ognuno sembra perdere il suo senso del limite, il rispetto per l’altro e il valore della propria responsabilità personale. Un po’ come accade nei fenomeni di violenza collettiva (guerre, genocidi, lotte tra bande rivali, stupri di gruppo, tifoserie da stadio, atti di bullismo e di teppismo perpetrati da una massa di persone più o meno indistinta), dove, dal gregge, vengono fuori i ruggiti dei leoni da tastiera che si sentono protetti dalla distanza, dalla complicità della propria bolla di amici virtuali e, talvolta, anche dal loro relativo anonimato.

Alla luce di questa somma indistinta di ragioni e sensazioni, ritengo e ripeto spesso che era molto meglio quando si navigava nella “blogosfera“, quando, cioè, si interagiva, ognuno dal proprio blog personale, con un gruppo di persone che, di solito, era molto più limitato e circoscritto di quello degli attuali social. Mi pare che tra i blogger ci si leggesse reciprocamente con più attenzione, che i commenti fossero più ragionati, che le comunità fossero più salde. E poi si era più padroni dei propri post e perfino dell’impaginazione e della grafica dei testi pubblicati. (Sarà per questo che mi ostino a tenere vivo il mio vecchio blog in parallelo con i miei spazi feisbukkini e tante volte il Faccialibro lo uso anche come un trampolino per far rimbalzare i miei venticinque più affezionati lettori dal social ad aitanblog.wordpress.com).

Insomma, diciamo che resto nel Faccialibro per vedere l’effetto che fa, ma anche per alimentare il mio personale narcisismo e, proprio per questo, mi spiace quando alcuni dei miei amici decidono di andare via e finiscono per lasciarmi più solo tra la folla sterminata del meta-coso.

Questo, naturalmente, non vuol dire che non capisca e non rispetti fino in fondo la scelta di chi lascia, né che non senta anch’io l’esigenza di tenermi per qualche tempo lontano da questa sovrabbondante autorappresentazione pubblica (l’io che parla a un voi) per tornare a praticare con maggiore intensità una comunicazione a tu per tu.

Non a caso, un giorno sì e l’altro pure avverto l’esigenza di disconnettermi per far sì che il tempo pubblico che passo su FB non eroda il mio spazio privato. Disconnettermi per riconnettermi con me stesso e con il mondo reale, insomma.

Anche perché temo che, sotto sotto, continuiamo a restare invischiati nei social perché ci risulta molto più facile e meno impegnativo fare dichiarazioni sulla pace universale in rete che prenderci cura di chi ci sta vicino (il prossimo), e più facile anche comunicare a una massa indeterminata di persone che chiamare un amico in difficoltà o parlare con chi si sente solo o abbattuto. Ma, soprattutto, so bene che per tutti noi è meno faticoso e più comodo fare parte di una comunità virtuale che fare comunità (e agire) nel territorio in cui viviamo.

Qualche tempo fa scrivevo in un altro contesto che “per noi boomers il mondo sembra essere tutto dispiegato sul Faccialibro e difficilmente siamo indotti ad affacciarci su quello che succede fuori dalla sua rete protettiva. Se ci debbono dire qualcosa, che lo dicano sul muro sicuro di quella bacheca. Anche perché fuori da quel microcosmo, considerato che non troveremo i nostri pollicioni, i cuoricini, gli abbracci e le faccine, non riusciremmo più ad esprimere un nostro giudizio, una nostra emozione o un pensiero personale.”

Insomma, la nostra bolla di “amici” di Facebook è diventata la nostra “comfort zone” e, il più delle volte, abbiamo poca o nessuna intenzione di uscirne. Sarà per questo che tendiamo a riversare in rete gioie, tragedie e dolori, che finiscono per diventare (in modo più o meno in/consapevole) dei meccanismi acchiappalike.

Perché, è inutile negarlo, se si scrive qua sopra, si cerca il consenso (o almeno la reazione) dell’altro; per quanto si tratti di un altro indistinto, moltiplicato per il numero degli “amici” che si hanno in bacheca. E il fatto stesso di scrivere a un voi indistinto e mobile fa adeguare il tono e lo stile della nostra comunicazione alla molteplicità degli interlocutori, rischiando anche un appiattimento di forma e contenuti. (Di questo io credo di essere abbastanza consapevole da selezionare in modo quasi automatico quello che voglio scrivere sul blog, quello che destino alla mia bacheca pubblica, quello che metto nella pagina dei vicini di aitan e quello che destino a gruppi di carattere più “politico” o, al contrario, a singoli amici ai quali sono legato da un rapporto di comunicazione più intima e personale. Magari anche fuori dalla rete, nel mondo extra-virtuale.)

Tuttavia, poi mi dico che, alla fine dei conti, anche uno scrittore di libri di carta (come un utente dei social) scrive ad un voi indistinto. Nessuno mette fuori le sue parole in forma scritta solo per rileggersele da solo (anche perché perfino l’io che rilegge i suoi propri testi, a distanza di tempo, risulterà sempre diverso dall’io del momento in cui li stava scrivendo). Umberto Eco sosteneva che “c’è una sola cosa che si scrive solo per se stesso, ed è la lista della spesa. Serve a ricordarti che cosa devi comperare, e quando hai comperato puoi distruggerla perché non serve a nessun altro. Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno”.

Il problema, certo, è che quel qualcuno, in un social network, per quanto indistinto, può essere più condizionante del pubblico dei lettori di carta. Perché in Facebook, anche se hai 5mila amici, ogni potenziale lettore ha un nome e un cognome (per vero o fittizio che sia). E, se fai il medico e parli di ospedali, finisci inevitabilmente per pensare che ti leggeranno anche gli infermieri, i pazienti, i colleghi e il primario. E poi quel qualcuno che ti legge sulla “tua” pagina Facebook ha diritto di parola su quello che scrivi e può interagire con te. E spesso lo fa (lo farà) in modo spiacevole, aggressivo o adulatorio.

Il mezzo, insomma, non è innocente. Nelle sue dinamiche chiunque entri resta invischiato (irretito), anche se con differenti gradi di consapevolezza, di disumanizzazione e di dipendenza. Fino alla perdita di controllo sulla propria vita e all’isolamento come deriva esistenziale.

Il rischio della disumanizzazione (e anche quello dell’alienazione) diventa ancora più forte nelle nuove generazioni. Noi boomers conosciamo la comunicazione dello spazio e del tempo extravirtuale; sappiamo che esiste anche una comunicazione a tu per tu non amplificata e deformata dalla rete. Il rischio è che le nuove generazioni conoscano solo questa modalità comunicativa io a voi e che non sappiano più cosa voglia dire avere una propria privacy, o sussurrarsi parole all’orecchio.

Sì è creato, insomma, un terribile circolo vizioso: ci isoliamo dal mondo, viviamo collettivamente come degli arcipelaghi legati dal mare che ci separa, e poi, navigando in quelle stesse acque, cerchiamo continue conferme che gli altri abbiano letto (e gradito) i messaggi che abbiamo lanciato senza mettere un preciso destinatario sulle nostre bottiglie da naufraghi. E quando non ci leggono (o non gradiscono) cresce in noi la frustrazione e lo sconforto.

Ma, beninteso, questo non è solo un problema dei millenials, di quelli della generazione Z o dei nativi digitali.

È brevissimo il passaggio dall’hikikomori adolescente che si chiude in una stanza di fronte a uno schermo al kodokushi (la morte solitaria) del cinquantenne ritrovato cadavere putrescente in una casa trasandata in cui si accumulano rifiuti tristezza e solitudine.

La mancanza di parole per dire agli altri il proprio disagio, lo sfaldamento di ogni relazione con un’altra singola persona a favore di una pseudocomunicazione con un gruppo indistinto di altri che più che interlocutori diventano “pubblico”, la rappresentazione falsata di se stessi attraverso lati buoni, labbra a culo di gallina, fotoritocchi e avatar non fanno che aumentare la nostra solitudine, fingendo di colmarla.

Un processo di disumanizzazione e alienazione che rischia di aumentare l’insoddisfazione e renderci peggiori.
Soprattutto quando è più forte la distanza tra la nostra vita virtuale (iperattiva) e la nostra vita extra-virtuale (passiva, spenta o inesistente).

Forse il segreto consiste nel presentarsi per quello che si è ed usare un linguaggio simile sia quando si è dentro che quando si è fuori dalla rete. Senza fotoritocchi, abbellimenti, trucchi, citazioni prive di fonte, appropriazioni indebite, risate stampate sulla faccia e ricerca spasmodica del lato buono.
Essere autentici. Presentarsi per quello che si è, con i propri difetti, le proprie mancanze, i propri pregi e le proprie contraddizioni. Rispettare gli altri, non alzare la voce e rispettarsi. Essere gentili. Mettersi in ascolto. Togliersi la maschera e restare umani! Anche quando si scrive e ci si rappresenta da dietro uno schermo protettivo, al riparo della rete.

Aitan (https://aitanblog.wordpress.com) #Divita #Diconnessione

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Oggi ho letto Anna Maria Ortese, Corpo celeste.

E adesso ricopio qui le sue parole perché non avrei parole così battenti e dirette per dire quello che preme.

“So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata, come l’uomo chiede di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto non utile. Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere, e della dignità di ogni essere – al di là di tutte le barriere – e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro.

C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi sia nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti. Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bambini amati e vecchi sereni, e donne al di sopra dell’utile. […] Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi.

Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie – può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.”

Non avere vergogna di difendere con parole scarne e semplici il bene della diversità, della svariatezza, dell’interdipendenza degli esseri, rispetto a un pensiero che guarda solo all’intricatezza umana e non osa richiami a partire da sé, come invece fanno gli asini ragliando. Considerare l’altro che non può parlare un testimone del nostro disastro, della nostra cieca voracità, della nostra passione di essere in primo piano e ridurre così tutto il resto a nostro sfondo. Imparare da animali e alberi e minerali come stare al mondo con l’umiltà delle creature, l’onesto essere precari in vita. Non raccontarsi la storia come vogliono i tiranni del pensiero, non infilarsi una maschera e lasciarla diventare nostra pelle.

Imparare a stare nascosti. In disparte. Tornare a giocare. Fare della innocua follia una legittima risorsa. Stare fermi e zitti a guardare e ascoltare. Smettere di far paura a tutti gli altri esseri e agli umani che non stanno in riga. Smettere di parlare solo con chi ci fa eco. Lasciarci vedere brutti come siamo, crudeli come siamo, per fiducia nella trasformazione e nella bontà fondamentale, quella che non lo fa apposta. Non cercare scuse, ma smettere e rammendare. Farci domande, tante domande e aspettare silenziosi che arrivino le risposte, aspettare tutta la vita e forse scoprire che la nostra esistenza così com’è e come siamo è la risposta, e non le parole con cui ricopriamo il nostro spavento raccontando la storia della storia della storia. Sapere che la paura che gli animali hanno di noi è la stessa che noi abbiamo della nostra nuda solitudine. Lasciare che la nostra vera storia non occhieggi soltanto nel disastro.

Non confessarla, ma offrirla con dignità perché è il nostro ponte più solido verso la storia degli altri. Rianimare la storia tatuata nel corpo, nella voce, negli sguardi. Non ignorare quello che bussa nelle buie notti e stenderlo al sole di giorno. Entrare nel nostro mancare e conoscerlo anziché riempirlo costantemente di futilità. “Lei non sa chi sono io.” Oh sì che lo so e mi si stringe il cuore sapendolo. Le opere sono gradini in discesa non in salita. Rivoluzionare la coscienza, non essere un carattere, ma un fiume, con tanti affluenti, e agire partendo dall’attesa e dal silenzio. Intonarsi alle azioni, riconoscendo le intenzioni. Risvegliarci ogni momento. Cosa cerchiamo quando anziché annusare le scie e poi seguirle corriamo dietro alle illusioni umane di appropriazione e accumulo, di ascesa? Restare fedeli alla sete senza confonderla con l’evaporazione dell’acqua. Quando disseto curo la mia arsura. 

Di riuscirci prego.

Chandra Livia Candiani #Divita

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