D͏i͏-s͏p͏e͏n͏s͏a͏

D͏i͏-s͏t͏r͏i͏b͏u͏z͏i͏o͏n͏i͏ D͏i͏-g͏i͏t͏a͏l͏i͏ D͏i͏-v͏e͏r͏s͏i͏f͏i͏c͏a͏t͏i͏

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A me piacciono tantissimo le poesie tradotte da altre lingue, perché sono ancora più improbabili delle poesie nella lingua dell’autrice o dell’autore e l’improbabilità che diventa possibile è una mia grande passione, fa tremare i bordi della realtà, la sconfina e le fa accogliere variazioni prima impensabili.

Quest’estate, grazie al mio amico RaiMondo, libraio in fondo alla città di Napoli, che l’ha pubblicata, e me l’ha mandata, leggevo Louise Glück e in Averno c’era scritto così: 

[…] la morte non può farmi male più di quanto tu mi abbia fatto male, amata vita mia.

E pensavo: “Già, e invece che estraneo inavvicinabile abbiamo fatto della morte.”

Qualche volta, quando ci succede qualcosa di terribile, soprattutto se siamo piccoli, si cade fuori dalla storia e anche, qualche volta, dalla condizione umana. Un bambino che soffre moltissimo è perturbante e dunque cancellabile. Si diventa estranei a tutto e a tutti, anche alle parole, perché il terribile è spesso indicibile, anche alle immagini perché è inimmaginabile, non fa immagine, per questo non si dorme. Quindi l’estraneo non è che sia inavvicinabile, è che è caduto fuori dalla storia mentre noi siamo lì a decidere cosa ci stia e cosa sia da buttare fuori, cosa sia confacente e cosa sia eccessivo. (Per favore, non soffrire troppo, se no ti cancello.) Anche la morte è caduta fuori dalla condizione umana, anche la morte è eccessiva, solo il suo nome è rimasto, tutto impolverato da secoli e secoli di storia, ma è il suo nome, non è l’esperienza della morte. Scriveva Marina Cvetaeva di se stessa: “Esagerata, esagerata, cioè come nell’ora della nostra morte.”

Mi sono ricordata due video di Bill Viola che venivano mostrati in contemporanea, in uno una donna (credo la moglie) partoriva, in un altro una donna (credo la madre) moriva. La nascita era agitatissima, urlata, rosso sangue, la morte lentissima, silenziosa, bianca lenzuolo: una clessidra bucata, la sabbia che a poco a poco andava perduta.

E pensavo: “Ma se noi la smettessimo di considerare la morte un muro invalicabile solo perché non la conosciamo o ci siamo dimenticati di averla conosciuta, e non vediamo oltre il muro, avremmo una grande avventura in cui arrischiarci. Un’avventura di decifrazione e di segni sottili e di educazione al sentire e al percepire oltre l’apparenza. La discontinuità non è inabitabilità. E saremmo liberi. Chi ci ricatterebbe più? Quale minaccia di eterna condanna ci impedirebbe di esplorare? Quali risposte convenzionali? Quale malattia ci toglierebbe ogni prospettiva? Quale isolamento non sarebbe occasione per avvicinarla e annusarla?”

Non vuol dire perdere la scandalosità della morte, non sentire lo strappo, non vivere il mistero squassante dell’assenza, vuol dire però sapere che fa parte della vita. Come nel bosco, non esiste pezzetto di bosco senza vita e senza morte, abbracciatissime. In autunno, soprattutto, il bosco profuma di morte, di vivo che si trasforma attraversando la morte. Ribellarsi al pensiero convenzionale dell’orrida falciatrice che si insinua in noi. Stare immersi nel mistero. Imparare a soffrire, a dire addio e anche a svanire. Gli occidentali credono che tolga la voglia di agire. Non è vero, è che le azioni si aspettano con attenzione e cura. Sono intuizioni in movimento. Non ci si preoccupa più tanto, ma ci si occupa, tantissimo.

Se si perde il mito della vita felice e del benessere a tutti i costi, se si mette l’accento sul cambio di ritmo e non sull’illusione della stabilità, allora si attraversano tante variazioni di cui fanno parte anche la morte e le sue sfumature, i suoi presagi che non sono minacce, ma assaggi di altra dimensione, di spaesatezza. 

La morte continuerebbe a fare un male bestiale, ma ci guiderebbe i pensieri, le parole, le azioni, le illuminerebbe di consapevolezza, saremmo meno nello spreco e più nell’essenziale e nell’improvvisazione. Perché lo straniero deve essere per forza un nemico? Nella Bibbia non era spesso un angelo travestito? E cosa c’è di più straniero della morte? Piano piano, zitta zitta, io la avvicino, la annuso, la mangiucchio, la assaporo. Le do delle possibilità, di asilo, di parola, di sorpresa. Stiamo a vedere cosa ne verrà fuori da questa spaventata e avventurosa relazione. 

Chandra Livia Candiani – #Divita

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Ho contato i miei anni ed ho scoperto che ho meno tempo da vivere da qui in avanti di quanto non ne abbia già vissuto.

Mi sento come quel bambino che ha vinto una confezione di caramelle e le prime le ha mangiate velocemente, ma quando si è accorto che ne rimanevano poche ha iniziato ad assaporarle con calma.

Ormai non ho tempo per riunioni interminabili, dove si discute di statuti, norme, procedure e regole interne, sapendo che non si combinerà niente… Ormai non ho tempo per sopportare persone assurde che nonostante la loro età anagrafica, non sono cresciute.

Ormai non ho tempo per trattare con la mediocrità. Non voglio esserci in riunioni dove sfilano persone gonfie di ego.

Non tollero i manipolatori e gli opportunisti. Mi danno fastidio gli invidiosi, che cercano di screditare quelli più capaci, per appropriarsi dei loro posti, talenti e risultati.

Odio, se mi capita di assistere, i difetti che genera la lotta per un incarico maestoso. Le persone non discutono di contenuti, a malapena dei titoli. Il mio tempo è troppo scarso per discutere di titoli.

Voglio l’essenza, la mia anima ha fretta… Senza troppe caramelle nella confezione… Voglio vivere accanto a della gente umana, molto umana.

Che sappia sorridere dei propri errori. Che non si gonfi di vittorie. Che non si consideri eletta, prima ancora di esserlo. Che non sfugga alle proprie responsabilità. Che difenda la dignità umana e che desideri soltanto essere dalla parte della verità e l’onestà.

L’essenziale è ciò che fa sì che la vita valga la pena di essere vissuta. Voglio circondarmi di gente che sappia arrivare al cuore delle persone… Gente alla quale i duri colpi della vita, hanno insegnato a crescere con sottili tocchi nell’anima.

Sì… ho fretta… di vivere con intensità, che solo la maturità mi può dare. Pretendo di non sprecare nemmeno una caramella di quelle che mi rimangono…

Sono sicuro che saranno più squisite di quelle che ho mangiato finora. Il mio obiettivo è arrivare alla fine soddisfatto e in pace con i miei cari e con la mia coscienza. Spero che anche il tuo lo sia, perché in un modo o nell’altro ci arriverai…”

Mario Andrade #Divita

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Che succederebbe se un giorno risvegliandoci scoprissimo di essere in maggioranza?

Che succederebbe se all’improvviso un’ingiustizia, una qualsiasi, venisse ripudiata da tutti, da tutti noi, da tutti non da alcuni, da pochi, ma da tutti?

Che succederebbe se invece di essere così divisi ci moltiplicassimo, sommandoci tra noi sottraendoci al nemico che ci sbarra la strada.

Che accadrebbe se ci organizzassimo e allo stesso tempo affrontassimo senz’armi, in silenzio in moltitudini, in milioni di sguardi, la faccia degli oppressori, senza lodi né plausi, né sorrisi, senza pacche sulle spalle, senza sigle di partito, senza slogan?

Che succederebbe se io chiedessi di te che sei lontano, e tu di me che sono lontano, e entrambi degli altri che sono molto ma molto lontani e gli altri di noi anche se siamo lontani?

Che succederebbe se il grido di un continente fosse il grido di tutti i continenti?

Che accadrebbe se abbattessimo le frontiere e marciassimo e marciassimo e marciassimo e continuassimo a marciare?

Che accadrebbe se bruciassimo tutte le bandiere per conservare soltanto una, la nostra, quella di tutti, o meglio nessuna perché non ne sentiamo il bisogno?

Che accadrebbe se per un istante smettessimo di essere patrioti per diventare esseri umani?

[Mario Benedetti (Paso de los Toros, 14 settembre 1920 – Montevideo, 17 maggio 2009)]

(Trad. Milton Fernandez) #Divita

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Come ti chiami? Mi chiamo essere e dicono che io sia umano, ma di umano ho ormai ben poco. Un tempo il mio nome era apprezzato e condiviso dalla comunità alla quale appartenevo, adesso ognuno di noi è sconosciuto all’altro, invisibile ai suoi occhi, messo da parte, scartato se inservibile.

Ma di quale comunità parli? Dove si trova? Si trova sul pianeta chiamato Terra che in molti hanno distrutto, nel corso del tempo, trasformandolo nella Terra di nessuno. Una Terra senza più futuro, a causa dell’egoismo, dell’ingordigia di quanti si sono arricchiti a dismisura, spesso in modo fraudolento, affamando, portando alla disperazione milioni di altri esseri umani inermi, costretti a fuggire dai loro paesi d’origine.

Non avete chi vi possa sostenere, supportare, guidare? Esiste qualcosa di simile, la chiamano politica. I suoi esponenti dovrebbero agire per il bene della collettività, anteponendo i loro interessi personali a quelli degli esseri umani che rappresentano. Un tempo era così. Adesso urlano, urlano, urlano, e se non urlano non agiscono, celandosi dietro ad un indefinito, ambiguo, atteggiamento di “attesa” di qualcosa che non si potrà mai concretizzare davvero senza un intervento fattivo nei confronti di tutti quegli altri esseri umani che soffrono, si disperano, subiscono. Non capisco…

Quali sono questi interessi da salvaguardare? Vedi, sulla Terra occorre mangiare per poter sopravvivere. Servirebbe, quindi, che a tutti fosse offerta la possibilità di poterlo fare, distribuendo le risorse in modo equo ed offrendo a tutti il lavoro. Servirebbe, anche, che l’accesso all’istruzione fosse garantito in modo equanime.

E poi…garantire una buona sanità pubblica, dare il giusto peso alla scuola, alla ricerca, proteggere l’ambiente, riconoscere i diritti più elementari, senza discriminazioni di sorta nei confronti di chi abbia un orientamento sessuale, religioso diverso dagli altri.

Beh, forse ti ho confuso con tutte le mie ciance ma, vedi, qui da noi siamo davvero ridotti al lumicino e penso che, se continueremo così, saremo senz’altro destinati all’estinzione. Dici che posso espatriare sul tuo pianeta? Il mio fa ormai acqua da tutte le parti e credo, ahimè, che il countdown finale sia già in atto…

-3 -2 -1… Ci vediamo su Marte!

Anna Neri #Divita

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I cani non muoiono. Non sono capaci. Si sentono stanchi e vecchi, ma non muoiono. Se così non fosse, non vorrebbero sempre andare a spasso, anche quando le loro vecchie ossa dicono “No, no, non è una buona idea. Non andiamo a spasso”. Macché, i cani vogliono sempre andare a spasso. Sono fatti così, loro.

Una passeggiata con te è tutto per loro. Hanno bisogno di te e della cacofonica sinfonia dei profumi del mondo. Le cacche dei gatti, gli odori lasciati dagli altri cani, un osso di pollo dimenticato e… te. Tutto questo rende il loro mondo perfetto e in un mondo perfetto non c’è posto per la morte.

La verità è che i cani ogni giorno hanno più sonno.

Anche se hai studiato in una famosa università dove ti hanno insegnato che cosa sono i quark, i gluoni e il keinesianismo, è tutto inutile. L’umanità crede di sapere tutto, ma sembra ignorare che i cani non muoiono mai.

Se pensi che il tuo cane sia morto, non è vero, si è semplicemente addormentato nel tuo cuore. Quando si sveglia dice: ”Grazie, per questa cuccia calda proprio vicino al tuo cuore, il posto migliore del mondo” e scodinzola come un pazzo, per questo senti un dolore al petto e piangi continuamente.

Per tutta la vita lui è stato un Buon Cane, questo lo sapete tutt’e due. E’ faticoso essere sempre un buon cane, soprattutto quando diventa vecchio e le ossa gli fanno male e si ritrova a sbattere il muso per terra e non vorrebbe più uscire nemmeno a fare pipì, magari perché piove, ma lo fa lo stesso perché è un buon cane.

Capisci, una volta che il cane si è addormentato nel tuo cuore, inizierà a dormire sempre più a lungo. Ma non abbatterti! Non è “morto”. Dorme nel tuo cuore e di solito si sveglia quando meno te lo aspetti. I cani sono fatti così.

Mi dispiace per le persone che non hanno un cane che dorme nel loro cuore. Non sanno che cosa si perdono! Ora scusatemi, devo andare a piangere.

[Ernest Mountague, trad.] #Divita

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Ho incontrato gente a cui il punk ha cambiato il modo di vivere. Mi sento come se avessi letteralmente incontrato ognuno di loro! Ed è la stessa storia anche per tutti loro: abbiamo cambiato il loro modo di pensare e influenzato le decisioni che hanno preso nella vita. Non è stata una faccenda di massa, la folla che assalta il palazzo. Piuttosto, un sacco di individui che hanno afferrato qualcuna delle cose che stavamo strombazzando.

Coi Clash è stato come scendere agli inferi e ritornare. Non puoi immaginare cosa abbiamo passato per fare i dischi che abbiamo fatto. Abbiamo dato il 110 per cento, ogni giorno. Ma quando incontri questa gente, persone che ti dicono che hai avuto qualche effetto sulla loro vita, allora senti che ne valeva assolutamente la pena.

Joe Strummer #Dimusica

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Le notti registrano tutto quello che ho perduto, lasciato a Milano o spazzato via dal virus, e poi svolgono il nastro impresso nei sogni. Ho perduto due gruppi di meditazione, trentaquattro persone. Da tanti anni incontravamo la meditazione insieme, con avvicendarsi di persone diverse ma con la stessa passione. Due sere alla settimana per sentire il diritto di cittadinanza del silenzio e della lentezza, del sentire del sottosuolo, dell’esitazione. Ho perduto la scuola, centinaia di bambine e bambini a cui portare semi di poesia e spuntavano parole indelebili dai più muti, dai non visti. Come J. che per una poesia sugli alberi, ha scritto solo, con scrittura tremolante: Lattuga.

E ho lasciato la mia casa piena di libri, la mia coinquilina amica, che sapeva di me e io di lei, i libri che ti vengono in mente in un preciso momento e non puoi aspettare, le finestre e tutta la piccola cattiveria umana che mi ha circondato nelle strade e nei negozi. E le vie, le piazze, le fontanelle vedovelle nascoste nei parchi, i passi sotto la luna con paura di donna e avventura di bambina. Le tante vite che ho vissuto, i morti, la famiglia che è scivolata via. La persona che sapeva ascoltarmi e accogliermi senza correzioni. L’illusione che ti dà la città di poter sempre fare un nuovo incontro, di poter sempre iniziare da capo. Mentre la campagna è realtà della ripetizione. 

Io ho perso una vita e adesso ne ho un’altra. Di notte lo so. Certe volte detesto la mia forza di scampata, quel farcela senza neanche mettercela tutta, farcela e basta, quasi non costasse sforzo, quasi seguendo un calco.

Ma oggi ho letto questi versi di Anna Achmatova: “Veglia su altri l’insonnia-infermiera,” ah quindi l’insonnia si prende cura di me. Eh sì, mi fa uscire tutti i veleni inghiottiti di giorno in silenzio facendo finta di niente, poi ecco che di notte bussano alle palpebre e io le apro e vedo. Questo è un buon tempo per vedere, che è una forma del pensare ma senza capitano. Lasciare che i pensieri arrivino e osservarli come sono, brutti se sono brutti e belli se sono belli, senza discutere, senza credergli. Ma non pilotarli. Si trasformano da soli, se è il loro tempo. 

Mi accorgo che spesso vivo senza entrare davvero nel tessuto del vivo, come un po’ distratta, come se avessi sempre altro da fare, poi di notte, per non soccombere, diventa necessario entrare nelle stoffe della vita: vuol dire imparare a sentire. È una forma di conoscenza diversa dal pensare, è pensare sentendo i pensieri nel corpo. Arrivano i pensieri e noi li respiriamo, possono fare molto male o molto bene ma il respiro è un distillatore preciso, assaggia e tiene solo l’essenziale e si impara così a non scegliere, a sentire tutto salendo in groppa al respiro.

Non accidentalmente però, se no verremmo sbalzati via, ma con saldezza, entrare nel respiro come in un’altra dimensione e poi non perdersi. Lasciare che i pensieri, le faccende, i temi e i problemi arrivino al cospetto del respiro che ci entra fiero e pacato e ne apre la trama, assapora, vede e sente. E avvertire anche uno sfondo. I pensieri hanno sempre uno sfondo e il più delle volte sta lì paziente e spassionato lasciandoli passare. “Sfondo, posso appoggiarmi un pochino a te e guardarli passare anch’io?”

“Ma certo!” risponde sempre lo sfondo.

Chandra Livia Candiani #Divita

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In questo paese io vivo così. Mi alzo presto e lavoro tutta la mattina, traduco, scrivo, studio e leggo.

E poi, dopo pranzo, comincio a sentire il richiamo del bosco. Una volta che ho fatto finta di non sentirlo, è arrivata una poiana a mugugnare fin sopra il vicolo dove abito. Ho un testimone. Ho dovuto dire: “Scusa, il bosco è arrivato fin qui a chiamarmi, devo andare.” Il bosco sta a non più di cinque minuti a piedi dalla cascina in cui vivo. Spero quindi che i vigili saranno clementi. Ha molta acqua, proprio tanti ruscelli, e alberi, soprattutto castagni, e muschio tantissimo. Ci sono anche gli ontani bianchi. E le querce. Poi in primavera ha avuto tanti fiori e foglie da smarrirsi, quasi non lo riconoscevo, perché sono arrivata che era ancora inverno. D’estate è stato zeppo di zanzare e tafani, è stata dura non frequentarlo per un po’, poi ho deciso di portarmi uno zampirone e di  sventolarmelo davanti alla faccia e alle spalle, un po’ faticoso, ma me la sono cavata.

Ho visto un sacco di animali finché noi umani dovevamo sparire in casa, ho visto: rospi e ramarri, una cerva, vari cerbiatti, cinghiali e cinghialini, un ratto, volpi, aironi, poiane, ghiandaie, cornacchie e gazze, un serpente. Quasi tutti avevano un punto di domanda negli occhi. 

Ora si sta spogliando, il bosco, fa rumore, mi fa fare dei soprassalti. Sono caduti vari alberi per il diluvio. L’albero con cui ho più confidenza, ma una confidenza da scolara a Maestro, è un vecchissimo ciliegio selvatico. Alto che ti fa male il collo a guardarlo e largo, molto largo. Lo abbraccio e appoggio l’orecchio al tronco e dopo un po’ mi lascia degli insegnamenti. Mi ha detto di guardare i ruscelli e imparare a ruscellare. Mi ha detto, dopo una brutta ferita da taglio al cuore, di lasciar salire tutte le memorie e il male e le bruciature, senza spavento perché sarebbero finite presto. Mi ha anche detto nel frattempo di stare ferma, ma come un albero, non come un sasso.

In genere, mi dice di lasciare gli umani sospesi, di non inseguirli in cerca di spiegazioni. Quando non riuscivo più a scrivere perché avevo un killer di precisione che mi sparava alle parole, mi ha detto: “Lasciati essere diversa da tutti quanti.” È tornata la poesia.

Io qui ho solo il bosco, perché non so guidare e quindi faccio casa bosco casa. Non mi sento mai sola. Certi dicono: “Ma fai sempre lo stesso percorso?” Beh no, ce ne sono almeno quattro ma io ne prediligo uno. Comunque, è una corbelleria credere che ci possa essere un sentiero sempre uguale, cambia continuamente ed è una sorpresa a ogni passo. Nel bosco imparo a guardare e ad ascoltare. All’inizio mi ha sgridato molte volte perché ci andavo con in testa un mucchio di persone e guardavo solo dentro di me. Allora ho imparato a lasciare tutti a casa e a guardare fuori o se porto qualcuno con me è per farlo guarire insieme a me. Perché nel bosco non c’è niente da fare, fa tutto lui o loro che siano, ti guariscono, ti trasformano e meno fai, più possono lavorarti.

Nel bosco canto e ballo, tanto non c’è nessuno e comunque prima mi guardo intorno.  I primi mesi ho fatto anche la spazzina del bosco, ho raccolto tutta la plastica, il ferro, la carta che c’era. Ho tolto tante bottiglie di plastica bianca infilate su paletti e dopo il mio compagno mi ha detto: “Oddio Chandra, hai tolto i confini degli appezzamenti dei contadini…” Finora però non mi ha detto niente nessuno. Non so se sull’autocertificazione potrei scrivere ‘spazzina dei boschi’.

E poi c’è il capitolo asini. Prima di tutti, Pippo che ho ribattezzato Pippo Magique, perché è veramente veramente magico. È un grande asino bianco. Assomiglia molto  a un unicorno. Certe volte mi corre incontro a tutta velocità ragliando al cielo. Altre volte fa quasi finta di non vedermi. Una volta si è messo a correre in diagonale e io ho corso seguendo un’altra diagonale, poi abbiamo virato e ci siamo abbracciati. Un’amica mi ha detto: “Sono testimone di aver visto un asino che ti abbracciava e non solo tu che abbracciavi un asino.” Non lo vedo da un po’, il suo padrone lo tiene segregato ora, in un prato inaccessibile e recintato. Sembra proprio che io debba imparare a perdere.

Non come opposto di vincere ma di tenere.

Per ora la città non mi manca affatto, se mi chiamano persone un po’ serie o ciniche, la magia del bosco trema, vacilla, ma poi torna in piedi, salda, appena ritorno a essere bosco insieme al bosco. Forse anche scriverne è un rischio, forse. 

Cerco di ricordarmi il più spesso possibile di dedicare tutte le meraviglie a chiunque mi venga al cuore. Come una carezza, che non si sa da dove venga. Faccio un elenco improvvisato e invio. Alle 18,30 ogni sera medito, qualcuno da lontano medita con me. Sento il respiro, lo seguo e lo assaporo, e invio il bene a tutti gli esseri che sono in emergenza. Gli esseri, non solo le persone. Tanti fili sottili coprono il mondo e io ne faccio parte.

Chandra Livia Candiani #Difilosofia #Divita

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In questo momento, mi spaventa parlare e tanto più scrivere. Se dico che non voglio collaborare con i contagi e sto attenta a non andare in giro per non mettere a rischio gli altri ma anche me che sono vecchina e ho avuto varie polmoniti, mi abbaiano che però le persone devono lavorare, che chiudere i bar uccide chi ci lavora, che c’è chi vive di teatro, che i piccoli ristoranti … “Eh lo so”, rispondo timidamente a occhi bassi. Come se non lo sapessi … ma si sa che se dici una parola restano in disparte tutte le altre. Mi sento in colpa di essere delicatamente viva e di non uscire di scena per lasciare spazio a chi è forte e “il covid è solo un’influenza”.

Se dico che la vita non può più essere ‘normale’ e che la rinuncia non è un danno permanente e forse insegna anche qualcosa e fa salire tutto l’incompiuto che stava assopito in noi, sbraitano che gli adolescenti non possono più toccarsi e diventeranno tutti autistici. Se accenno genericamente ai bambini, inveiscono che ci sarà una generazione di ignoranti. Spavento.

Eppure, Marina Cvetaeva che ha vissuto sempre con la febbre a quaranta e a 200 all’ora, in un’epoca feroce, scriveva che tutta la sua poesia nasceva dalla Rinuncia. Con la erre maiuscola. Una forza vitale, sembrerebbe.

Va beh, sai cosa? Io sto zitta. Ma come sarà una scrittura zitta? E se scrivo dal mio minuscolo punto di vista, dal bosco e dalle foglie, mi sento di mettere in piazza, tra gli inferociti, la delicatezza di una vita che si preserva a stento.

Se parlo di come la meditazione mi insegna a non dividere il bene dal male e ad accogliere tutto così com’è con compassione e con il senso del non permanere delle condizioni, mi ammoniscono che no, bisogna trovare sempre il positivo e il significato profondo e agire. Oppure che un vero poeta ha solo la poesia e non si mette a fare il salvatore. Veramente io mi sento un ciarlatano.

Ci sono anche quelli che non dicono niente, ma spariscono, perché disapprovano, e non si accorgono che le opinioni sono i travestimenti dei nostri attaccamenti, giusti o sbagliati che siano, ma perché renderli delle prese di posizione anziché dire: “Non posso farne a meno”?  Ho già vissuto periodi in cui parlare era sempre un rischio, di colpo diventavi un nemico per una parola scorretta, non eri dalla parte giusta.

E poi c’è stata anche l’infanzia, un padre che ti lasciava scegliere di bere il caffelatte da qualunque tazza, tranne la sua. Solo che la sua cambiava. Senza preavviso. Non sbagliare era un vero azzardo. E dopo erano guai.

Insomma, lo smarrimento è sempre stata la mia Via, e finire dalla parte sbagliata anche. E tacere pure. Un silenzio non quieto né sereno, ma la bocca cucita perché qualsiasi cosa dici sbagli.

Il fatto è che le cose sono complesse e se vedi un lato ne manchi un altro e non ho parole rotonde.

Tutto sommato, credo che ascolterò e basta, lascerò dire a ognuno la sua e intanto respirerò. Certe volte, così facendo, qualcuno mi dice: “Grazie, mi fa bene parlare con te.” 

“A me invece fa bene respirare,” penso io, un po’ malinconicamente.

Chandra Livia Candiani #Difilosofia #Divita

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E così sta ricominciando. Abbiamo ricostruito per un po’ lo scenario di una vita ‘normale’ e ora si ricomincia con l’emergenza, con il non poter più fare come se. 

Sono fortunata, non ho mai avuto una vita normale. Sempre fatto tanta fatica in tutto. Quelli come me erano da schivare perché sono quelli scassati che ti ricordano la fragilità e l’andare a pezzi, quelli che vedono il re nudo.

Adesso che il re è evidentemente nudo non si può rivestirlo.

Da otto mesi vivo in campagna, ma non basta, ho deciso di non tornare. Perché man mano è salita la solitudine gigante in cui vivevo. Quanto mi faceva male passeggiare facendomi timidamente largo tra i corridori. Una volta una signora dietro di me si è messa a sbuffare e poi mi ha detto: “Ma lei non tiene la carreggiata, va di qui e poi di là!” “Ma sono a piedi!” le ho risposto io esterrefatta, pensando mi avesse scambiata per un mezzo di trasporto. Quale poi? Sono piccolissima. Un monociclo?

Ora vivo in un piccolo paese piemontese, un paese senza case di villeggiatura ma con parecchie case abbandonate. In questi mesi ho sentito e pensato tanto e non ho dimenticato niente. Certe volte vedo delle immagini di Milano, strade qualunque, slarghi trafficati, qualche chiesa, sono pezzi di me rimasti lì, momenti di consapevolezza che non sono partiti con me. Forse.

Qui c’è il bosco, il mio Maestro. Non ho più nessuna vita sociale, tanto non ne ero capace. Qualche amica e amico sì però, ci si scrive o ci si telefona. Anche qualche parente cattivo che non ha capito di aver perso il bersaglio: sono andata via!

Per un po’ mi hanno fatta sentire vile, una scampata, ma ora i pensieri degli altri non pesano più così tanto. Perché gli alberi mi parlano. E anche gli asini, più che altro gli asini mi corrono incontro e ci abbracciamo, soprattutto uno, Pippo Magique.

Non trascuriamo gli altri regni, ci sono gli alberi dovunque siamo, qualche animale c’è sempre ovunque, se non altro i cani salvavita delle città. Sono stanchi, un saluto gli fa bene.

Non trascuriamo il respiro, c’è ancora, non è garantito, fa bene ricordarlo, sentirlo, lasciarlo libero, prolungare un po’ l’espirazione, imparare a lasciare. Ogni respiro insegna a lasciare. Inspirare prende, ma sa farlo da sé, espirare invece lascia, esce nel mondo, insegna a mollare la presa.

Nel bosco porto sempre con me la mascherina, se incontro qualcuno (è raro, ma nei periodi in cui si può prendere qualcosa, castagne, funghi, spuntano gli umani) se li incrocio anche per pochissimo, mi infilo la mascherina e gli sorrido, un po’ come un tempo gli uomini che alzavano il cappello, un segno di rispetto, per la comune fragilità.

Imparare a salutarci, a onorarci perché stiamo passando.

Chandra Livia Candiani #Difilosofia #Divita

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