Gippo

Gippo – Un blog gestito dal Comitato Yamashita

Adesso non ricordo l'autore di quella cinica battuta per la quale non valeva la pena di scrivere un libro perché era più conveniente comprarsene uno. Un cinismo tanto più insopportabile quanto più ci si rende conto che può essere applicato a una vasta gamma di creazioni artistiche di questi tempi moderni ipercommerciali e saturi di merci, non ultime quelle denominate “videogiochi”. Eppure, in questi anni '10 che volgono al termine, indie game development was a thing, la produzione amatoriale (e non) di videogiochi indipendenti è stato un fenomeno forse di nicchia ma che ha vissuto il suo chiaro momento di gloria. Riconosci il momento di gloria quando appaiono le star e le success stories: cito Mojang di Minecraft e quell'altro tizio che ha fatto Flappy Bird prima di finire nel dimenticatoio alla velocità della luce (e tornerò, forse, un giorno sulla questione delle success stories).

Ma cos'è dunque che ha spinto tanti programmatori, artisti e pretenziosi game designer a tentare la strada dell'indipendenza nello sviluppo dei videogiochi? Cosa ha rispolverato l'antico mito del garage/scantinato come tempio creativo del self-made man dei videogame? Non parlerò per gli altri ma solo per me stesso e spiegherò quali sono secondo me le motivazioni che spingono a creare un gioco. Esse sono soprattutto 7 (e aggiungo en passant che ho creato un blog alle soglie del 2020 soprattutto per poter utilizzare i pronomi “esso”, “essi” ed “egli”):

Motivo 1 – Poter dire: l'ho fatto anch'io

La grande maggioranza, se non la totalità dei creatori di giochi sono stati in passato fruitori di giochi. E' quindi quasi naturale cogliere l'occasione di creare un videogame quando questa si presenta per la prima volta. E l'occasione si è presentata in passato sotto forma di tool sempre più user friendly in grado di agevolare il processo realizzativo permettendo addirittura di creare un videogame “senza scrivere una riga di codice”. Questa è stata la motivazione che ha spinto molti a creare il “primo gioco”, quello che non si scorda mai. Da lì in poi, a seconda delle difficoltà e dell'evoluzione nelle proprie competenze, si può approdare ad altre motivazioni.

Motivo 2 – Poter dire: guardate quanto sono bravo

Ad esempio, ci si può montare la testa. Oppure si possono richiedere conferme (siamo esseri in costante ricerca di approvazione). Oppure, molto più prosaicamente, si può creare qualcosa che dimostri quanto si è geniali, capaci, efficaci non solo a se stessi, ai nostri vicini, ai nostri amici ma anche alle aziende che ci assumeranno e copriranno di soldi. Forse c'è anche questo nella creazione di giochi, anche se il fenomeno indie non era collegabile in modo esplicito a questa idea ma al suo esatto contrario.

Motivo 3 – Making a living out of it ovvero farsi (o sognare) un introito monetario indipendente

Parliamoci chiaro: i treni passano e tutti noi stiamo lì alla stazione ad attendere la next big thing. Per un po', nel corso di questi famigerati anni '10, è sembrato che il treno da cogliere fosse quello dello sviluppo di videogiochi. Idea non malvagia, a dire il vero. Difatti, viviamo in una società più ludica (ma non per questo meno competitiva, diceva quello). E poi, parliamoci chiaro (bis): si fa di tutto per non lavorare. Come biasimare chi ci prova, pur se con mezzi assurdi e improbabili tipo la creazione di videogames?

Motivo 4 – Cazzeggiare con amici reali o virtuali e interagire con le community indie

L'uomo è un animale sociale. L'uomo ha voglia di comunità. Io so che se volessi diventare un idraulico, non dovrei essere allettato dall'idea collegata ad una iconografia porno-vintage a base di casalinghe vogliose e insoddisfatte ma mi basterebbe entrare in una community di idraulici che postano topic del tipo: “Guardate che otturazione al tubo che ho fatto! Una roba di classe...”. Chi è stato fortunato ha avuto uno o più amici nella vita reale con cui coltivare l'hobby. Gli altri hanno avuto forum e community di indie gamedev. Per non parlare delle jam...

Motivo 5 – Indulgere nell'onanismo organizzativo

Questa è una motivazione un po' triste ma ammetto che mi è capitato di indulgere nell'onanismo organizzativo. Lo confesso qui anziché al sacerdote. Si parla di onanismo organizzativo quando ci si compiace di come si è bravi ad organizzare un progetto, nella fattispecie una creazione videoludica. Si tratta di una cosa analoga al motivo 2 ma con una dimensione più solitaria e masturbatoria. Come è noto, se si indulge troppo nell'onanismo organizzativo, si rischia di diventare ciechi.

Motivo 6 – Essere un tizio tosto e predestinato al game devlopment

Qualcuno riceve in sogno la visita dell'arcangelo Michele il quale gli preannuncia l'imminente costituzione di una innovativa start-up con la quale il prescelto diventerà milionario creando giochi. Inutile girarci intorno: qualcuno fa le cose perché sa quello che fa in generale, incluse tutte le mosse di qui al successo. Non si parla solo di talento ma di carattere e mezzi.

Motivo 7 – Creare la simulazione che non c'era

Ho collocato in ultimo questo motivo essenzialmente per via della locuzione latina dulcis in fundo. Il gioco nasce come simulazione fin dalla tenera infanzia: si gioca a guardie e ladri, a nascondino, al dottore (ehm...). Si gioca per confrontarsi con la realtà in modo non troppo diretto perché nessuno vuole dosi troppo forti di realtà (altrimenti non esisterebbero le ore di sonno) e allora il gioco è un luogo sicuro, il luogo dell'immaginazione, in cui poter affrontare i problemi concreti che verranno o elaborare le possibilità che si possono cogliere. Il videogioco, nello specifico, dà forza e concretezza a questa capacità di immaginare, ci fa immergere in mondi che non osavamo elaborare con un livello di dettaglio così alto. Il videogioco è simulazione pure quando non lo è in modo specifico come definizione di genere (ad es. le simulazioni di volo): anche un platformer simula un'avventura. La componente simulativa ha giocato un ruolo importante nello sviluppo dell'epopea indie: c'era l'idea di riprendere in mano i campi lasciati inesplorati dall'industria dei titoli AAA. Putroppo però simulazione mi fa anche venire in mente Goat Simulator, simbolo di manierismo indie apparentemente scanzonato, dove il creare un gioco “per ridere”, adatto alla visualizzazione e alla condivisione di Youtube, si è rivelato un'arma a doppio taglio nello sviluppo di una creatività aderente alla funzione originaria del gioco, che è finito così incatenato così al like, all'achievement, al ranking.

Se dobbiamo rimetterci a creare giochi, credo che dovremmo ripartire in modo onesto e disinteressato da quest'ultimo motivo: simulare una realtà che ci sta stretta in modo un po' più sano, fantasioso, indipendente da questo contesto social opprimente e iperinflazionato.

Ecco io ho detto tanti bei propositi, cosa in cui sono bravissimo. Ora, se possibile, fate voi qualcosa di concreto...

Gippo for Comitato Yamashita

Ultimamente mi sembra di vivere una fase dell'esistenza in cui pare diventato urgente cambiare qualcosa, non solo di me stesso ma anche della società in cui vivo. Ho sempre trovato velleitari fenomeni come l'open source, i no-logo (ricordate Naomi Klein?), i commerci etici e solidali, le istanze ecologiste. Mi sono sempre trovato abbastanza d'accordo con psicologi, filosofi e gente che passava di là per dirmi: “Il vero cambiamento possibile è solo quello dentro di te! Tu per primo devi cambiare! (Sempre che ci riesci... eh, eh!)”. Ma adesso non ce la faccio più a pensare ad un cambiamento solo personale e mi vengono in mente tanti altri slogan tipo “Nessuno si salva da solo”. Sì, perché il bello della nostra età liquida e postmoderna è che si può sentire tutto e il contrario di tutto quindi basta avere un'opinione o un'idea, per quanto buffa o estrema o assurdamente convenzionala, che trovi subito frasi, motti, autori, professori di Princeton, scrittori di Baci Perugina che la supportano o l'hanno già supportata decenni fa e ti danno quel minimo di appoggio psicologico necessario per dirti che sei nel giusto. E questo vale anche per il contrario dell'idea originaria. I professori di Princeton stanno lì apposta. Chiudendo questa lunga digressione, mi sono chiesto spesso come cambiare e verso quale direzione andare quando si vuol cambiare. La prima cosa da fare, a mio avviso, è quella di guardare cosa si è stato fino ad un determinato momento e tentare delle strade diverse, anche se non necessariamente opposte.

Questo almeno può darci una prospettiva nuova: quella che esiste la possibilità di poter scegliere.

Il titolo di questo post esprime il concetto, poi non adeguatamente sviluppato e nemmeno accennato, che finora io sia stato un programmatore-criceto e che forse sia giunto il momento di uscire dalla ruota. In realtà il programmatore non è stato il mio mestiere ma l'approccio alla vita e la mentalità sono state decisamente informatiche.

Una mentalità fatta di “pigrizia fisica” che impone un approccio metodico al problema generale prima della soluzione puntuale del problema specifico. In parole povere: prima si fa l'engine per creare la visual novel, poi si scrive il testo della visual novel. Ma spesso, con questo approccio capita che la visual novel non c'hai più voglia mica di scriverla, dopo aver smanettato sul cavolo di engine generico per visual novel che alla fine potresti pure caricarlo su github e chiamarlo “Gippo V.N. star engine”.

Ecco, forse è arrivato il momento di concentrarsi sui contenuti e meno sui contenitori.

Lo scrivo perché ho scoperto, su un vecchio DVD di backup, che avevo fatto anni fa un engine per visual novel in Darkbasic per il quale avevo scritto pure i testi e creato le immagini per la novella visuale. Invece recentemente con Love2d, dopo il codice ben rifinito, non ho nemmeno abbozzato un accidenti di storia. Lo so, è una profonda allegoria, forse un po' forzata. In fondo, potrebbe semplicemente trattarsi di classica crisi di mezza età...

Gippo for Comitato Yamashita