Gippo

Gippo – Un blog gestito dal Comitato Yamashita

Prima di mettermi a scrivere per questo blog, ho voluto caricare almeno un videogioco. Si tratta di un videogame piuttosto classico nella forma e nella sostanza, con uno stile un po' retrò (è in pixel art) e con delle meccaniche già viste in centinaia di altri giochi (è un platform). Si chiama Zombie Hams e, a parte il fatto che non si tratta di zombie interi ma solo di prosciutti, non ci vedo molte novità. Ne ho di più originali ma questo secondo me è il più bello e quello che mi è costato più fatica: ci sono una decina di quadri giocabili, un boss finale, un level design un minino “studiato” e una discreta curva di difficoltà. La grafica è così così. Scrivo ciò non per dire quanto sia 'cool' il gioco ma per spiegare come faccia parte anche io di quanto andrò ad analizzare in questo post: insomma, mi sono sporcato le mani e, prima di predicare bene, ho razzolato. Bene o male non so, ma ho razzolato. Facciamo allora un passo indietro.

Un passo indietro

Si può scrivere una storia dei videogiochi attraverso la successione temporale delle console e i progressi tecnici del PC. Avendo vissuto soprattutto il gaming sul PC, sono però maggiormente titolato per narrare quest'ultimo lato di storia videoludica. Il primo lato (le console) si articola in salti tecnologici coincidenti con l'uscita delle varie macchine da gioco che si sono succedute sul mercato. Solo in apparenza la storia del gioco su PC sembra più lineare ma le discontinuità e i salti tecnologici non sono stati certo assenti (il più clamoroso è dato dall'avvento delle schede grafiche 3D) pur se talvolta fanno riferimento alle singole pietre miliari del videogame che si sono rivelate in grado di “sfruttare la potenza di calcolo del PC”. Per questo talvolta il software sembra avere il ruolo principale. Se però guardiamo più attentamente il quadro generale, notiamo come sia sempre l'hardware a giocare, nel lungo periodo, il ruolo di primo piano nell'innovazione. Quando smette di innovarsi l'hardware, generalmente finisce anche la novità sul lato software, specie per quanto concerne il videogame. Talvolta però, come vedremo, ci sono innovazioni hardware che non possono essere convenientemente sfruttate. Internet, social media e applicazioni web evolutesi fra addictiveness e colonizzazione commerciale sono un altro par di maniche che non tratteremo.

Un passo di lato

Facciamo ora un passo di lato. Forse sarà capitato a tutti di sentire l'aggettivo 'postmoderno'. Postmoderno vuol dire: il declino del moderno. L'era postmoderna non riesce ormai più a produrre nulla di nuovo e allora celebra il revival, il ricordo, il tributo e ciò che il miei amati blog di sincromisticismo chiamano “il risaputo storico”. In quest'ottica il film “Ritorno al futuro parte 2” assume valenza profetica: l'ennesimo seguito del film “Lo squalo” e il bar del futuro in cui Marty McFly ritrova la celebrazione delle icone del passato (cioè il suo presente) sono proprio un simbolo del postmoderno così come descritto in precedenza.

Un saltino sul posto

Ad un certo punto nell'evoluzione tecnologica del PC, lo sviluppo hardware, pur non arrestandosi, è giunto ad un vicolo cieco per via del software: sviluppare giochi mainstream AAA era diventato sempre più complesso, quindi costoso. Il livello di dettaglio richiesto dal 3D aveva raggiunto proporzioni impressionanti. La meraviglia data dallo sfruttamento delle nuove tecnologie si era affievolita. Ok, gli oggetti, finemente modellati e ricoperti di texture fantastiche, si potevano muovere con una fisica ultrarealistica... ma non era lo stesso senso di meraviglia del passaggio dal 2D al 3D. E, come insegnano gli esperti di marketing, l'unica qualità che conta è la qualità percepita. Se non è percepita (oltre che, nel caso del gioco, funzionale al gioco stesso) allora non conta. In questo clima 'postmoderno', in cui la novità pare essersi eclissata, spunta fuori il fenomeno indie.

Un (falso) passo in avanti

Quando esce il fenomeno indie nel mondo dei videogiochi, è già ormai prepotentemente avviato il declino dei videogiochi stessi. Era già diventato chiaro che l'hardware poteva fare ancora passi avanti ma il software non li poteva sfruttare più in ambito videoludico. Il videogioco era sempre stato uno dei motori dell'innovazione tecnologica; ad un tratto dimostrava di non stare più al passo. Per cui, arrivano i “giochini indie”. Sono le persone a partecipare alla creazione del gioco e a cercare di rivitalizzare l'industria. E laddove non ci riescono per limiti tecnici, le persone devono diventare il gioco attraverso la fruizione: è così che il multiplayer prende il sopravvento sul singleplayer. I giochi (post)moderni, per tagliare i costi e creare dipendenza, puntano tutti sul mettere a confronto (o uno contro l'altro) gli utenti. Non tutti, intendiamoci, ma il successo del multiplayer è innegabile. E dal punto di vista creativo, ovvero quello del gamedev indie? Beh, anche lì si è cercato, ad un certo punto di creare delle success stories o meglio, si è partiti dai prodotti più validi creati nell'ecosistema indie per promuovere un culto della personalità dell'indie developer. Ciò che ne è originato è stato quanto segue: – Molti hanno pensato di innovare le meccaniche di gioco ma non sono riusciti a sfuggire ad un'estetica che omaggiasse il revival, il remake e il 'risaputo storico': in quest'ottica si inseriscono tutti i lavori bidimensionali, specie in pixel art, specie quelli che si richiamano all'estetica delle vecchie console. E sappiamo quanto lo sguardo al passato sia indice di postmoderno. – In tanti hanno preso d'assalto i portali e i market (Steam in testa) e hanno svenduto il videogioco ad una logica subalterna a Youtube che imponeva di fare spettacolo in modo classico, con il gioco 'per ridere o scioccare'. Oppure si sono buttati sui temi alla moda: zombie, survival, open world non rifiniti ecc. In parole povere la perdita definitiva del concetto di videogioco come 'frontiera del possibile'. – Alla fine qualcuno è rimasto ma molti hanno capito che creare un videogioco non è come scrivere un romanzetto o fare un video su Youtube. Mancando un introito, tanto valeva allora giungere direttamente al video su Youtube senza passare per il contenuto. – La promessa di un mercato di massa dei creatori si è infranta contro le intrinseche difficoltà tecniche del videogame (quindi tempo e spesa) e contro un mercato saturatosi in fretta in cui emergere e ottenere visibilità era diventato un lavoro a parte (quindi era estremamente arduo metterci tecnica e autopromozione assieme).

Tutto questo mi fa talvolta pensare che il fenomeno indie non sia stato altro che un grande epitaffio del videogioco che fu. Videogioco che sembra aver trovato la sua forma definitiva, i suoi generi, le sue meccaniche base, nonostante la presenza di qualche scappatella indie simpatica. Sì, simpatica ma della stessa valenza di un addio al celibato prima del matrimonio combinato con le regole di una industria ipersatura. Per cui possiamo tranquillamente dire che, dopo l'ultimo sussulto di vitalità indie, il videogioco è irrimediabilmente defunto.

Questa è la conclusione logica a cui vi ho condotto e con la quale spero vi troviate d'accordo. E quindi? Quindi niente, ho già in mente il mio nuovo gioco, retrò e postmoderno al punto giusto.

Purtroppo quando si scrive un blog si devono fare affermazioni definitive, spero che almeno apprezziate che non abbia profetizzato la fine del capitalismo.

Nel prossimo post parlerò di come rivoluzionare il mondo del videogioco, oppure recensirò Clash Royale.

Gippo for Comitato Yamashita

Purtroppo non sono mai riuscito ad entrare nell'ottica necessaria a sviluppare oggigiorno un gioco serio e con qualche possibilità riuscita nel mercato. Questo è derivato dalla mancanza di tempo, fede, competenza tecnica (d'altrone è solo un hobby) ma anche dall'incapacità di lavorare e autopromuovermi assieme. A ciò si aggiunga che ho sempre preferito creare da solo.

Lavorare e autopromuoversi vuol dire anche sviluppare un devlog, cioè un blog che parli dello sviluppo del gioco stesso. Forse la mia è superbia o mancanza di realismo ma quando mi metto a creare un videogame spero sempre che sia una cosa innovativa e geniale (anche quando il risultato finale lascerebbe credere il contrario) e, soprattutto, che la release sia basata anche un po' sull'effetto sorpresa.

E' del poeta il fin la maraviglia / chi non sa far stupir vada alla striglia!

Quando sviluppo il gioco, essendo un qualcosa per cui non percepisco (nè veromilmente percepirò) alcun denaro, vorrei anche un po' divertirmi io stesso. Il senso di curiosità che si genera dal non sapere dove il gioco che faccio andrà a parare è per me benzina essenziale nel generare il piacere e il divertimento connesso al gamedev. Sì, lo so, sono un viziato. Sono solo l'utente di un tool di sviluppo e non un creatore. Scelgo di ignorare che tutto quel che nella vita vale la pena fare ha un prezzo e costa sangue, sudore e lacrime.

Avete presente la scena. Una coppia di attori parla sorridente alla TV della commedia che hanno appena girato, di fronte ad un presentatore in brodo di giuggiole. Dopo il trailer accattivante, il presentatore dice: “Accidenti, sembra proprio un film divertente!” “E' vero!” dice l'attore-A “E ti dirò di più: ci siamo divertiti pure a girarlo!” “Già!” conferma con un sorriso a 88 denti l'attrice-B “Che risate sul set!” “Risate sul set?” commenti tu “Allora è senz'altro una stronzata autoreferenziale. L'arte non nasce mai dalla felicità! Guardate Kubrick: ha bullizzato la sua attrice perché recitasse meglio la parte in Shining!” “Sì, ma questa sarebbe una commedia, mica un thriller...” prova timidamente a difendersi l'attore-A. “E' uguale!” sbotti tu “Io pago e voi dovete quantomeno soffrire! O pensavate di non farlo pagare, il prezzo del biglietto?” E mogi mogi i due attori lasciano lo studio.

Per il videogioco, è un po' come per le altre opere dell'ingegno. Quanto più l'autore è in grado di scomparire, tanto più l'opera può dirsi riuscita. Quanto più la sua presenza appare ingombrante, tanto più l'opera sminuisce.

Sviluppare un videogioco bello implicherebbe l'avere un costante feedback con l'utente finale, il giocatore. Ascoltare le sue richieste, coglierne alcune e sì, cassarne altre, ma mai ignorare del tutto i suoi bisogni, i suoi desideri. Non ascoltare letteralmente tutto quello che dice ma sempre sforzarsi di interpretare i suoi intimi aneliti.

Invece io (e molti come me) tendo a diventare nascisista: aspiro a che il giocatore mi accetti per come sono, che apprezzi le mie arguzie, che tolleri che sia io e non lui quello sul piedistallo.

E' un errore. Se ritengo stucchevoli gli attori che si divertono sul set del loro film, perché devo aspettarmi che i giocatori non facciano lo stesso con me? Il giorno in cui riuscirò a creare un Patreon e a comunicare per filo e per segno i miei progressi e ad adottare, nel limite del ragionevole, tutti i suggerimenti... beh, forse quel giorno non lontano potrò creare un bel gioco. O almeno un gioco moderno secondo gli standard attuali. O almeno tirarci su due lire per la pizza.

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Un programmatore di giochi è un po' come Dio. Dio, d'altronde, è un programmatore di giochi, il migliore. Quando si sono cominciati a superare gli scogli e i limiti iniziali dello sviluppo di videogiochi, subentra per alcuni una sensazione di onnipotenza. Ma il più delle volte si è schiacciati dalle miriadi di possibilità e si rimane vittima di quella che è una vera e propria maledizione divina. Per capire di cosa sto parlando, occorre tornare a considerare il programmatore capo. Come chi? Dio!

Il programmatore capo è un tipo permaloso e ritiene giustamente di essere il migliore ma (Dio mi perdoni) le scritture che narrano il suo carattere descrivono quella che per i nostri standard sarebbe una persona essenzialmente insicura di sé, poco empatica e, soprattutto, incapace di condividere il suo potere e la sua conoscenza fino in fondo.

Molti miti di molti le religioni raccontano un peccato capitale che non può essere perdonato: tentare di farsi simili a Dio. Questo audace tentativo nasce sempre da un primo semplice atto che consiste nel tentare di ampliare la propria conoscenza.

La Genesi sta lì a raccontarcelo. Adamo ed Eva non commettono altro peccato che quello di mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male. Questo vuol dire che il male esisteva già e l'unica cosa che mancava era la consapevolezza.

Come può la consapevolezza essere un peccato, una maledizione?

Eppure Dio ha programmato così e la cosa funziona anche se può sembrare un loop un po' grezzo. Altri episodi ci dicono che il programmatore capo non esita a metter mano al codice e a tagliare e ricominciare da capo quando non funziona (leggi: diluvio universale). Altri ancora ci dicono che Dio è molto geloso del proprio codice e ci ha fatto a sua immagine e somiglianza e liberi di scegliere e di decidere ma solo fino al punto in cui questo non contrasti con il codice che ha creato e di cui, purtroppo, talvolta non abbiamo piena coscienza.

Ad esempio, a Babele, non sapevano che Dio aveva fatto un piano regolatore che vietava gli edifici più alti di un certo numero di metri. Dio è un programmatore geloso e se la prende sempre quando non apprezziamo l'eleganza del suo codice. Ad esempio, dalle parti di Sodoma e Gomorra, Dio, vedendo quanto accadeva, sbottò irato:

“Avete cominciato a testare un uso alternativo per quell'orefizio di cui avevo elaborato quell'elegante ed esclusiva funzione digestiva?!? Ingrati! Muorite! Zap!!!”

Che tali episodi attingano ad un fondo di realtà non c'è alcun dubbio a mio avviso. E non pensate che siano una prerogativa della nostra religione: Prometeo, Tantalo e i miti greci ci raccontano la stessa storia. Dio o la Natura o Chi-volete-voi punisce sempre invariabilmente colui che vuole ficcare il naso nel codice o provare usi alternativi. Al punto che ho dei dubbi perfino sulla Teoria dell'Evoluzione. Mutazioni positive? Finora le ho registrate solo negli X-Men. La natura sembra punire tutto ciò che si discosta dall'Oggetto Uomo così com'è stato definito all'inizio (anzi: alla sesta pagina) del programma. Alcuni saggi nostrani hanno tentato di sintetizzare la maledizione della conoscenza nel seguente motto:

Beata la 'gnoranza che te fa stà be' de testa, de core e de panza!

Ricollegandomi quindi all'attività di programmatore di giochi, devo rilevare che purtroppo nemmeno qui si sfugge alla regola. Appena si acquisisce abbastanza competenza, arriva immancabile la maledizione.

E così: 1. Qualcuno comincia a concentrarsi solo sul codice, diventa un feticista del codice e tutto ciò che riesce a concludere è la pubblicazione di uno shader come asset da scaricare sull'Unity Store. 2. Molti smettono di giocare perché non hanno più tempo e devono programmare i giochi. Ma nel farlo perdono il contatto con la natura del prodotto che vogliono creare e alla fine ripiegano su qualche progetto più piccolo. 3. Qualcuno prova ancora a giocare a videogame ma scopre con raccapriccio che ha completamente perso la sospensione d'incredulità. Quando ruba una macchina in Grand Theft Auto immagina il codice che c'è dietro... e non c'è più gusto né magia. Sullo schermo del suo monitor sfrecciano tanti modelli 3D e non più nemici, veicoli, alberi e animali. Che formato saranno? Obj? 3ds? Li avranno creati con Maya, Blender o altro? Ci sarà qualche programmino open source che possa fare al caso mio?

Insomma, la conoscenza, come sempre si paga. A questo punto potrei fare una lunga disamina del complottismo alimentato dal rifiorire del moderno culto neognosico, ma mi fermo qui. E mi vado a fare una partita. Con un'amara consapevolezza: una volta fuori dal paradiso perduto, Dio mette a guardia un angelo perché l'uomo non vi rientri. Ma magari Gesù è venuto proprio per questo e, come dice San Paolo, è nella speranza che siamo stati salvati. La speranza di farci almeno una partita tranquilla.

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Adesso non ricordo l'autore di quella cinica battuta per la quale non valeva la pena di scrivere un libro perché era più conveniente comprarsene uno. Un cinismo tanto più insopportabile quanto più ci si rende conto che può essere applicato a una vasta gamma di creazioni artistiche di questi tempi moderni ipercommerciali e saturi di merci, non ultime quelle denominate “videogiochi”. Eppure, in questi anni '10 che volgono al termine, indie game development was a thing, la produzione amatoriale (e non) di videogiochi indipendenti è stato un fenomeno forse di nicchia ma che ha vissuto il suo chiaro momento di gloria. Riconosci il momento di gloria quando appaiono le star e le success stories: cito Mojang di Minecraft e quell'altro tizio che ha fatto Flappy Bird prima di finire nel dimenticatoio alla velocità della luce (e tornerò, forse, un giorno sulla questione delle success stories).

Ma cos'è dunque che ha spinto tanti programmatori, artisti e pretenziosi game designer a tentare la strada dell'indipendenza nello sviluppo dei videogiochi? Cosa ha rispolverato l'antico mito del garage/scantinato come tempio creativo del self-made man dei videogame? Non parlerò per gli altri ma solo per me stesso e spiegherò quali sono secondo me le motivazioni che spingono a creare un gioco. Esse sono soprattutto 7 (e aggiungo en passant che ho creato un blog alle soglie del 2020 soprattutto per poter utilizzare i pronomi “esso”, “essi” ed “egli”):

Motivo 1 – Poter dire: l'ho fatto anch'io

La grande maggioranza, se non la totalità dei creatori di giochi sono stati in passato fruitori di giochi. E' quindi quasi naturale cogliere l'occasione di creare un videogame quando questa si presenta per la prima volta. E l'occasione si è presentata in passato sotto forma di tool sempre più user friendly in grado di agevolare il processo realizzativo permettendo addirittura di creare un videogame “senza scrivere una riga di codice”. Questa è stata la motivazione che ha spinto molti a creare il “primo gioco”, quello che non si scorda mai. Da lì in poi, a seconda delle difficoltà e dell'evoluzione nelle proprie competenze, si può approdare ad altre motivazioni.

Motivo 2 – Poter dire: guardate quanto sono bravo

Ad esempio, ci si può montare la testa. Oppure si possono richiedere conferme (siamo esseri in costante ricerca di approvazione). Oppure, molto più prosaicamente, si può creare qualcosa che dimostri quanto si è geniali, capaci, efficaci non solo a se stessi, ai nostri vicini, ai nostri amici ma anche alle aziende che ci assumeranno e copriranno di soldi. Forse c'è anche questo nella creazione di giochi, anche se il fenomeno indie non era collegabile in modo esplicito a questa idea ma al suo esatto contrario.

Motivo 3 – Making a living out of it ovvero farsi (o sognare) un introito monetario indipendente

Parliamoci chiaro: i treni passano e tutti noi stiamo lì alla stazione ad attendere la next big thing. Per un po', nel corso di questi famigerati anni '10, è sembrato che il treno da cogliere fosse quello dello sviluppo di videogiochi. Idea non malvagia, a dire il vero. Difatti, viviamo in una società più ludica (ma non per questo meno competitiva, diceva quello). E poi, parliamoci chiaro (bis): si fa di tutto per non lavorare. Come biasimare chi ci prova, pur se con mezzi assurdi e improbabili tipo la creazione di videogames?

Motivo 4 – Cazzeggiare con amici reali o virtuali e interagire con le community indie

L'uomo è un animale sociale. L'uomo ha voglia di comunità. Io so che se volessi diventare un idraulico, non dovrei essere allettato dall'idea collegata ad una iconografia porno-vintage a base di casalinghe vogliose e insoddisfatte ma mi basterebbe entrare in una community di idraulici che postano topic del tipo: “Guardate che otturazione al tubo che ho fatto! Una roba di classe...”. Chi è stato fortunato ha avuto uno o più amici nella vita reale con cui coltivare l'hobby. Gli altri hanno avuto forum e community di indie gamedev. Per non parlare delle jam...

Motivo 5 – Indulgere nell'onanismo organizzativo

Questa è una motivazione un po' triste ma ammetto che mi è capitato di indulgere nell'onanismo organizzativo. Lo confesso qui anziché al sacerdote. Si parla di onanismo organizzativo quando ci si compiace di come si è bravi ad organizzare un progetto, nella fattispecie una creazione videoludica. Si tratta di una cosa analoga al motivo 2 ma con una dimensione più solitaria e masturbatoria. Come è noto, se si indulge troppo nell'onanismo organizzativo, si rischia di diventare ciechi.

Motivo 6 – Essere un tizio tosto e predestinato al game devlopment

Qualcuno riceve in sogno la visita dell'arcangelo Michele il quale gli preannuncia l'imminente costituzione di una innovativa start-up con la quale il prescelto diventerà milionario creando giochi. Inutile girarci intorno: qualcuno fa le cose perché sa quello che fa in generale, incluse tutte le mosse di qui al successo. Non si parla solo di talento ma di carattere e mezzi.

Motivo 7 – Creare la simulazione che non c'era

Ho collocato in ultimo questo motivo essenzialmente per via della locuzione latina dulcis in fundo. Il gioco nasce come simulazione fin dalla tenera infanzia: si gioca a guardie e ladri, a nascondino, al dottore (ehm...). Si gioca per confrontarsi con la realtà in modo non troppo diretto perché nessuno vuole dosi troppo forti di realtà (altrimenti non esisterebbero le ore di sonno) e allora il gioco è un luogo sicuro, il luogo dell'immaginazione, in cui poter affrontare i problemi concreti che verranno o elaborare le possibilità che si possono cogliere. Il videogioco, nello specifico, dà forza e concretezza a questa capacità di immaginare, ci fa immergere in mondi che non osavamo elaborare con un livello di dettaglio così alto. Il videogioco è simulazione pure quando non lo è in modo specifico come definizione di genere (ad es. le simulazioni di volo): anche un platformer simula un'avventura. La componente simulativa ha giocato un ruolo importante nello sviluppo dell'epopea indie: c'era l'idea di riprendere in mano i campi lasciati inesplorati dall'industria dei titoli AAA. Putroppo però simulazione mi fa anche venire in mente Goat Simulator, simbolo di manierismo indie apparentemente scanzonato, dove il creare un gioco “per ridere”, adatto alla visualizzazione e alla condivisione di Youtube, si è rivelato un'arma a doppio taglio nello sviluppo di una creatività aderente alla funzione originaria del gioco, che è finito così incatenato così al like, all'achievement, al ranking.

Se dobbiamo rimetterci a creare giochi, credo che dovremmo ripartire in modo onesto e disinteressato da quest'ultimo motivo: simulare una realtà che ci sta stretta in modo un po' più sano, fantasioso, indipendente da questo contesto social opprimente e iperinflazionato.

Ecco io ho detto tanti bei propositi, cosa in cui sono bravissimo. Ora, se possibile, fate voi qualcosa di concreto...

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Ultimamente mi sembra di vivere una fase dell'esistenza in cui pare diventato urgente cambiare qualcosa, non solo di me stesso ma anche della società in cui vivo. Ho sempre trovato velleitari fenomeni come l'open source, i no-logo (ricordate Naomi Klein?), i commerci etici e solidali, le istanze ecologiste. Mi sono sempre trovato abbastanza d'accordo con psicologi, filosofi e gente che passava di là per dirmi: “Il vero cambiamento possibile è solo quello dentro di te! Tu per primo devi cambiare! (Sempre che ci riesci... eh, eh!)”. Ma adesso non ce la faccio più a pensare ad un cambiamento solo personale e mi vengono in mente tanti altri slogan tipo “Nessuno si salva da solo”. Sì, perché il bello della nostra età liquida e postmoderna è che si può sentire tutto e il contrario di tutto quindi basta avere un'opinione o un'idea, per quanto buffa o estrema o assurdamente convenzionala, che trovi subito frasi, motti, autori, professori di Princeton, scrittori di Baci Perugina che la supportano o l'hanno già supportata decenni fa e ti danno quel minimo di appoggio psicologico necessario per dirti che sei nel giusto. E questo vale anche per il contrario dell'idea originaria. I professori di Princeton stanno lì apposta. Chiudendo questa lunga digressione, mi sono chiesto spesso come cambiare e verso quale direzione andare quando si vuol cambiare. La prima cosa da fare, a mio avviso, è quella di guardare cosa si è stato fino ad un determinato momento e tentare delle strade diverse, anche se non necessariamente opposte.

Questo almeno può darci una prospettiva nuova: quella che esiste la possibilità di poter scegliere.

Il titolo di questo post esprime il concetto, poi non adeguatamente sviluppato e nemmeno accennato, che finora io sia stato un programmatore-criceto e che forse sia giunto il momento di uscire dalla ruota. In realtà il programmatore non è stato il mio mestiere ma l'approccio alla vita e la mentalità sono state decisamente informatiche.

Una mentalità fatta di “pigrizia fisica” che impone un approccio metodico al problema generale prima della soluzione puntuale del problema specifico. In parole povere: prima si fa l'engine per creare la visual novel, poi si scrive il testo della visual novel. Ma spesso, con questo approccio capita che la visual novel non c'hai più voglia mica di scriverla, dopo aver smanettato sul cavolo di engine generico per visual novel che alla fine potresti pure caricarlo su github e chiamarlo “Gippo V.N. star engine”.

Ecco, forse è arrivato il momento di concentrarsi sui contenuti e meno sui contenitori.

Lo scrivo perché ho scoperto, su un vecchio DVD di backup, che avevo fatto anni fa un engine per visual novel in Darkbasic per il quale avevo scritto pure i testi e creato le immagini per la novella visuale. Invece recentemente con Love2d, dopo il codice ben rifinito, non ho nemmeno abbozzato un accidenti di storia. Lo so, è una profonda allegoria, forse un po' forzata. In fondo, potrebbe semplicemente trattarsi di classica crisi di mezza età...

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