Gippo

Gippo – Un blog gestito dal Comitato Yamashita

Non sappiamo esattamente come evolveranno gli anni futuri ma sembra che un po’ tutti siano coscienti di una cosa: così non può durare. La frequenza delle lamentele fra la gente ormai non può più rivelare soltanto un atteggiamento viziato e petulante; è l’indizio che ci indica come qualche presupposto su cui abbiamo fondato la nostra società negli anni passati sia destinato definitivamente a crollare. E la sensazione allarmante è che questo crollo travolgerà tutto.

Passo indietro

Un paio di settimane fa pubblicai un giochino, se vogliamo ‘mediocre’, su itch.io. Questo giochino, totalmente gratuito, ha collezionato la “bellezza” di 16 visualizzazioni in 4 giorni. Poi basta. Vero è che non c’è stata promozione e che la schermata iniziale è stata fatta volutamente con un titolo nel font Arial: il più banale e bistrattato font di tutto l’universo fontesco. Però questo giochino, oggi chiamato “Zombie Hams” non è nuovo. L’avevo pubblicato qualche anno addietro su un altro portale per giochi chiamato Game Jolt. In Game Jolt c’è una specie di condivisione dei guadagni pubblicitari per cui, a seconda delle impressions e del numero delle giocate, c’hai la tua piccola fetta di introito. Continuo a considerare questo giochino abbastanza carino, difatti ho registrato pure qualche sincero apprezzamento tra i commenti, oltre che molte più visualizzazioni rispetto a itch.io. Ma forse erano tempi diversi e, soprattutto, piattaforme diverse.

Qualche tempo prima avevo pubblicato su Game Jolt un altro gioco che aveva una teoria del complotto sia nel sottotitolo sia nella trama, facendo riferimento ad una nota vip americana: avevo preso questa teoria del complotto da quella cloaca che tutti conoscete chiamata 4chan e avevo deciso di fare la classica roba un po’ scioccante (se pur divertente nelle meccaniche di gioco: anche lì una sorta di platform/puzzle). Qualcuno aveva pure deciso di farci un video su Youtube: un aspirante youtuber destinato a rimanere tale, almeno ai fini del reddito e della qualifica da scrivere sulla carta d’identità. La cosa più importante però era quella di esser stato messo nella homepage del portale e, soprattutto, esserci rimasto per qualche giorno.

Dice un’antica maledizione cinese: possano i tuoi sogni avverarsi.

Al termine del mio soggiorno in homepage, i numeri della mia dashboard parlavano di migliaia di visualizzazioni e di giocate. Quelli del mio saldo in soldoni fisici arrivavano sì e no ad un paio di dollari. Così si inizia a fare due conti: se si vogliono almeno i soldi per la pizza, occorre promuovere, scioccare, pubblicare su molti portali, avere un portfolio di giochini di buon livello, curare i social, creare una reputazione online… Però… fermi tutti. Aspettate un attimo. Questo è una specie di lavoro a paga aleatoria! Allora ti vengono in mente, come dice Fabio Volo, i minatori e quelli che asfaltano le strade sotto il sole di agosto e dici a te stesso: “Sei un viziato! Fai i giochini e non sopporti nemmeno un po’ di sporco lavoro di promozione, di cura della tua presenza online! E poi, quanto ti aspetti da un giochino online?”. Così ripensi a quanto tempo ci hai messo a fare Zombie Hams. Diciamo che l’hai fatto nei ritagli di tempo e che non ci hai impiegato più di cinque ore. Diciamo che il tuo guadagno è di cento dollari (cifra ultraottimista, ma diciamolo). Converti in euro, togli il 30% di tasse, ci metti i 60 euri del commercialista che devi pagare perché non basta più il Cud avendo come unico introito il tuo lavoro “normale” ma c’occorre la dichiarazione dei redditi. Quanto hai guadagnato? Nulla: hai perso 5 ore e qualche spicciolo.

Parliamoci chiaro, siamo tutti a favore di un mondo che sappia muoversi anche al di fuori della logica del profitto. Ma non possiamo contemplare un mondo che ignori, in generale, le regole dell’economia. Quando lo facciamo, vengono fuori perversioni di ogni genere, tipo l’associazione nazionale per la promozione della filologia romanza e della provola affumicata nelle grotte di Castellana, ovvero cose per le quali nessuno nella vita sborserebbe una lira, tranne lo Stato e qualche politico compiacente. Tutto ciò che è gratuito, inclusi i principali social network (Zurkerberg, scelgo te!) s’è scoperto dopo che ha potuto consolidare la sua esistenza solo grazie allo Stato e all’aspetto strategico e di controllo cui la funzione lasciava presagire. Quante start-up avete sentito nominare nei vostri tg locali di questo o quel giovane che creavano un nuovo social network molto di nicchia? Io, qualche anno fa, sentivo spesso di queste presunte success stories ma poi mi dicevo: questo ha preso un piccolo finanziamento a fondo perduto elargito dallo Stato e dal politico compiacente. Difatti, molto onestamente il giovane spesso si accontentava del contributo pubblico senza ambire alla benevolenza del mercato. C’era pure qualcuna di queste start-up che faceva un bel social network per chi doveva portare a pisciare i cani. Ma alla fin fine, pensavi, conveniva creare un gruppo Facebook sugli “Esploratori di luoghi ove portare i nostri amici a quattro zampe alla minzione”. Perché in conclusione il banco vince sempre.

E’ una questione matematica, si chiama “rovina del giocatore”.: certi siti matematici vi spiegano come, anche in presenza di un gioco equo, la differenza nella disponibilità finanziaria conduce alla fine il giocatore a perdere tutti i suoi soldi, a meno che non esca prima dal gioco.

In un gioco equo contro un banco illimitato ogni giocatore e' destinato a perdere.

Ovviamente, se il gioco non è equo, le probabilità di terminare prima per insufficienza di fondi sono moooolto più alte.

Qual è la conclusione a cui si arriva seguendo questo percorso tortuoso e carico di digressioni? Semplice: prima o poi l’economia viene a reclamare il suo tributo in termini di razionalità. E alla fine tutti gli entusiasmi si smorzano contro i numeri che non sono a favore.

Questo, secondo me, crea il presupposto per l’agire delle forze del caos (rappresentate dalla maggioranza della popolazione mondiale) affinché si rendano conto che esiste un modo più semplice per vincere: puntare una pistola alla tempia del banco. Non passerà molto tempo prima che qualcuno ci arrivi. Poi un altro. Poi un altro ancora. Quella sarà la fine dei tempi.

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Oggi vorrei parlare delle visual novel. Di tutte le forme di videogioco, le visual novel rappresentano quella più ibrida: difatti sono una via di mezzo tra film e romanzo e, per questa loro caratteristica, annoveriamo anche una scarsa interattività nelle loro dinamiche.

Però le visual novel sono un genere molto vitale a livello di produzione amatoriale. Il sito di riferimento per chi ci si vuole cimentare è quello della Lemmasoft ed è collegato al tool di creazione open source chiamato Ren'py (parte del nome deriva dal linguaggio alla base del programma: il python). Ci sono anche altre alternative: io stesso ho programmato un motore per visual novel in Lua che però non ho messo online nè ho mai utilizzato in un gioco completo. Difatti programmare un motore di visual novel è un esercizio simpatico che può tornar utile per creare le 'sequenze di intermezzo' dei giochi più poveri, che sostituiscono i filmati con schermate statiche e testo.

C'era un ragazzo italiano (non mi chiedete il nome né altri riferimenti) che ha utilizzato questo Ren'py per farci una serie di giochi di discreto successo: si tratta di vari Rpg (perché il motore si presta anche a questo) con forti componenti narrative e un'ottima grafica. Sia per la narrativa, sia per il disegno dei personaggi si è rivolto ad una persona che ha conosciuto sul sito della Lemmasoft. Vi vorrei dire questo nome ma sinceramente non me lo ricordo né riesco a rammentare il nome della sua software house (mi pare Eagle-qualcosa o qualcosa-Eagle ma potrebbe essere un animale inglese diverso). Perché racconto questo? Per dire che la visual novel è, a mio avviso, un buon punto di partenza per chi volesse diventare un indie e, se si riesce a produrre un prodotto di qualità, leggasi buon character design e brillante scrittura nell'idioma di Albione, si ha un mercato di nicchia assicurato. Sì, insomma, è relativamente facile emergere rispetto ad uno sparatutto online. Ah, dimenticavo di dire che gli Rpg di questo ragazzo italiano (che ormai non è più un ragazzo) avevano il classico character design in stile 'anime' e qualche pruriginoso elemento ecchi. Cioè roba un po' sexy, romanticismo e garbate spruzzatine di sesso.

Un altro caso che vorrei citare e che mi è capitato giracchiando per Patreon (non devo spiegare cos'è Patreon, vero?) è quello di un tizio che sta sviluppando un gioco chiamato “Summertime Saga”: qui il contenuto è molto più zozzo e il tizio si fa suggerire dai suoi sostenitori in quali porcate i suoi personaggi dovranno essere coinvolti. Lo cito perché è una dinamica interessante, non tanto per l'aspetto sessuale (sex sells, non devo spiegare anche questo, no?) quanto per indicare come i personaggi dei giochi – belli, brutti, carismatici, antipatici, sexy, ripugnanti – rappresentino una via molto efficace e piacevole per interagire col pubblico e consentirgli di affezionarsi al gioco.

Questo mi fa venire in mente, ad esempio, un gioco come Fire Emblem Heroes per cellulare, videogame che è una roba semplice semplice (uno strategico/rpg a turni da giocare su mini-mappe spesso un po' ripetitive) il cui punto di forza è dato dagli elementi gatcha (cioè pescare il personaggio desiderato dal proprio pool di evocazioni) e dal flavour text che si abbina ai personaggi stessi che appaiono a tutto schermo rivolgendosi al giocatore proprio come in una visual novel. Fire Emblem Heroes, fra parentesi, è pieno di fanservice e di personaggi programmati nel design per essere considerati waifu o husbando dal mite adolescente/adultescente in perenne vuoto sentimentale (non devo spiegarvi cosa sia quel sottoinsieme di cultura otaku che risponde al nome di cultura waifu, vero?)

Concludendo, questo è quello che so sulle visual novel. Ovviamente il fatto che nei miei post non metta alcun link esterno, nè collegamento ipertestuale di alcun altro genere è una precisa scelta stilistica. Non è pigrizia. Ripeto, non è pigrizia.

Alla prossima.

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Nel precedente post avevo provato a ragionare su come le possibili innovazioni per il videogioco potessero venire dalla “contaminazione” con la realtà e avevo fatto un esempio: un'avventura grafica in cui per avanzare è necessario trovare un indizio in un luogo reale.

Oggi vi spiegherò perché, in verità, questo approccio non avrà successo per quanto riguarda il videgioco. In altre parole, mi smentisco da solo. In altre parole ancora, me la canto e me la suono.

Prima di tornare all'esempio di prima, vorrei dire brevemente che il videogioco (e il gioco in generale) nasce sempre come emulazione della realtà e come tentativo di semplificarla per affrontarla meglio. Emulazione della realtà non significa solo simultore di volo ma anche simulatore di battaglia astratto come può essere, a ben vedere, anche una partita a scopa.

Il gioco tende sempre verso la realtà ma sembra avere una sua funzione efficace solo nel momento in cui i due ambiti del gioco e della realtà rimangono separati: in altre parole quando si gioca si gioca, quando si fa sul serio si fa sul serio. Se c'è confusione, si attua anche una sorta di boicottaggio del gioco.

Torniamo così all'esempio e immaginiamo che per proseguire in un'avventura grafica ci sia la necessità di andare a leggere la scritta su un muro di Petrabbondante in provincia di Isernia.

Il gioco espande i suoi confini ma, a che prezzo? Chi di voi è disposto ad andare in Molise per completare un'avventura grafica? Però magari è possibile chiamare qualcuno del posto per farsi aiutare oppure girare un po' per il paese con Google Street View...

Alla fine non sarebbe male nemmeno questo piccolo sforzo esterno, potrebbe anche trattarsi di una novità piacevole e significativa, in grado, oltretutto di sviluppare naturalmente la socialità e di promuovere il turismo del bistrattato Molise.

Ed è qui che entra in campo un altro fattore che, come una maledizione biblica, impedisce al videogioco di espandersi in questo senso nelle nostre vite. Si tratta una caratteristica essenziale, connaturata all'informatica: la pigrizia.

Il giocatore è pigro. L'informatica nasce come sublimazione della pigrizia. Il mio professore di matematica, quando diceva che avevo una mentalità informatica, trovava un modo elegante per darmi del pigrone.

Per capirlo, basta vedere il caso di un videogioco che ha tentato l'impervia e avventurosa strada di innovare invadendo la realtà: Pokemon Go.

Pokemon Go era (ed è) un'app della Niantic che ci consentiva di catturare i nostri amati (?) mostriciattoli giapponesi direttamente nelle nostre strade e piazze, utilizzando il sistema Gps. Per un po' ne è venuta fuori una moda che ha riempito servizi di telegiornali e pagine di quotidiani: si potevano vedere gruppetti di bambini, adolescenti e adultescenti bighellonare col cellulare in mano (e fin qui nulla di nuovo) tentando di catturare roba virtuale sullo schermo. Li si vedeva addensarsi soprattutto vicino ai luoghi che la Niantic aveva designato come palestre: queste ultime, in genere, erano piazze o luoghi di interesse artistico o ancora luoghi di culto. Ricordo un trafiletto del giornale locale in cui si parlava di come gli abitanti di una via avessero cominciato a protestare a causa del chiasso che veniva su la notte per gli “allenatori di Pokemon” che si radunavano in una palestra situata proprio su quella strada. Se questo non vuol dire ampliare il confine del videogioco alla realtà!

Cosa è andato storto? Niente in particolare, tranne il fattore pigrizia. Passata la novità, è emerso che il non poter giocare quando uno voleva era un po' una scocciatura: bisognava scendere in strada e raggiungere i punti di interesse. Questo implicava una forzatura 'fisica' che diventava ben presto inaccettabile.

Controller come il Kinect o la stessa realtà virtuale possono attirare lo stesso curioso interesse riservato ai Pokemon sul mobile. Ma ballare la Zumba su XBox la prima volta è esaltante, a lungo andare affatica inesorabilmente. Lavorare stanca, diceva quello. E se ci vogliamo stancare abbiamo alternative più valide e affermate: lo sport, il sesso o la passeggiata senza meta o scopo definito da app.

Il giocatore è pigro e il videogioco è l'apoteosi della pigrizia, un surrogato che ci evita di salvare il mondo trucidando alieni con fucili mitragliatori col rischio di morire o correre una gara di Formula 1 con l'eventualità di schiantarci contro un muretto.

E allora cosa rimane al videogioco per innovarsi? Com'è possibile creare una fertile connessione ed, eventualmente, confusione con la realtà? A mio avviso, una strada possibile è quella di creare delle mitologie collegate al videogioco. Faccio un esempio prendendo spunto dalla letteratura: i miti di Chtulhu. Creando un'universo abbastanza realistico è possibile convincere qualcuno che il Necronomicon esiste davvero e possa essere reperito in qualche libreria di un qualche eccentrico e inquietante collezionista. Nel videogioco questa dinamica non è mai stata portata fino in fondo perché l'esigenza di creare regole stringenti e mondi chiusi ha finito col limitare la sua potenzialità. Ci ha provato Gta San Andreas con il suo Epsilon Project (che in Gta V è diventato un achievement come un altro) e ci hanno provato in generale i programmatori del passato che forse avevano ancora qualche autonomia creativa e che infilavano nei loro titoli i cosiddetti easter egg: elementi incongrui che invitavano a esplorare il mondo di gioco per aspettarsi qualche sorpresa.

Ecco, secondo me il videogame ha arrestato il suo sviluppo da questo punto di vista. Non ha la reputazione del libro, non riesce a creare una sua mitologia seria e autorevole. E da qui dovrebbe ripartire, creando un senso di mistero che prefiguri un possibile intervento sulla realtà. Tracciando una mappa indefinita (senza Gps) che ci accompagni, anche al di fuori del gioco stesso, verso l'obiettivo.

Come, quale obiettivo? L'OBIETTIVO!

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Oggi vorrei parlare un po' delle tendenze videoludiche e di una possibile innovazione per il mondo del videogioco.

Intendiamoci: qualche post fa avevo dichiarato che il videogioco è bello che defunto o, quantomeno, che è venuta meno la sua funzione come “frontiera dell'innovazione” in ambito tecnologico.

In realtà il videogioco continua ad esistere e proliferare come prodotto, per quanto ci sia un suo eccesso come per tutte le merci.

La mia analisi si dividerà in due: – da un lato parlerà delle tendenze in voga attualmente nel mainstream, cioè dei fenomeni sotto gli occhi di tutti; – dall'altro tenterà di indicare un possibile campo inesplorato, attraverso un'idea personalissima, quindi di nicchia, quindi non generalizzabile, quindi probabilmente campata in aria.

Cosa fa il mainstream: apertura, socializzazione, theorycraft, condivisione (ma solo apparente)

Sono venuto a contatto con un po' di giochi del mondo mobile ma le considerazioni valgono anche per il PC: rispetto all'esperienza chiusa dei tempi passati in cui si faceva uscire il titolo che era bello che 'finito' (tutt'al più si rilasciava qualche patch per i bug più vistosi) oggi il videogioco è aperto.

Aperto al feedback degli utenti, aperto alle modifiche in corsa, aperto a nuovi DLC (contenuti aggiuntivi scaricabili), a nuove espansioni, a nuovi modi di sfruttare il marchio, il logo, le dinamiche ludiche.

Per chi ha studiato marketing, i videogiochi seguono a pieno titolo il ciclo di vita del prodotto fino alla fase finale: diventare la cash cow da sfruttare per far soldi senza introdurre più innovazioni di rilievo, fino all'obsolescenza e al conseguente abbandono finale.

Di enorme importanza c'è la funzione social: i giocatori devono venire in contatto tra loro e tenersi legati all'abitudine ludica l'un l'altro, attraverso clan, gilde, chat ma anche per mezzo di una buona predisposizione del titolo al 'theorycrarft', cioè la possibilità di discutere e ragionare strategicamente delle meccaniche di gioco.

Quest'ultima facoltà concede al creatore di contenuti esterno (youtuber ma anche utente di reddit, social, forum) di ricavare dei follower dalla propria attività creativa ma anche all'utente normale di condividere la propria creazione amatoriale e cercare attraverso di essa il confronto con gli altri e la loro approvazione. Creando un mini 'indotto'.

Ad esempio, parlando di Clash Royale, i giocatori possono condividere i propri deck originali (finché non finiscono le combinazioni significative...). Prendendo Fire Emblem Heroes, si possono postare le proprie build personalizzate dei vari eroi (cioè le combinazioni di abilità e statistiche). Ragionando di sparatutto online si possono condividere tattiche o, alla peggio, le proprie personalizzazioni estetiche del personaggio. A proposito di personaggi in gioco, c'è poi anche la possibilità di emulare qualche accesa discussione 'politica' quando si parla di modifiche di bilanciamento, cioé il periodico aggiustamento delle statistiche delle unità in campo che testimonia, una volta di più, come il videogame non sia più un'entità fissa e immutabile nel tempo ma un argomento in continua evoluzione e un'occasione di spettacolo e discussione.

Come si vede, i titoli multiplayer sono decisamente avvantaggiati in questo habitat videoludico.

Cosa rimane da innovare e implementare: il fattore realtà.

In questo scenario, risulta difficile trovare qualcosa di nuovo con cui rivoluzionare questo mondo per fornire nuove tendenze di successo (qualunque accezione si voglia dare all'idea di successo). Comunque, ci provo. Riassumendo all'osso ho un'unica idea da sviluppare:

Ampliare i confini del videogioco verso la realtà

Sappiamo che la strategia mainstream è stata quella di gamificare i social e socializzare i game. Ciò secondo me produce degli effetti collaterali, delle tossine che sono in grado di erodere lentamente il mondo del videogioco e l'esperienza di intrattenimento. Ultimamente i videogiochi sono quasi tutti gratuiti, tranne quelli delle console: un prezzo più alto li butterebbe fuori dal mercato. D'altro canto esperti psicologi e stregoni della mente umana si devono ingegnare in mille modi per far spendere, creando attraverso un game design ad hoc un mondo solo apparentemente aperto, in realtà terribilmente isolato. Mi spiego: è vero che nel videogame moderno siamo tutti connessi uno all'altro, in contatto e in competizione tra noi... ma lo siamo sempre all'interno del mondo di gioco progettato per noi, con le regole definite e modificabili a piacimento dai programmatori. Non c'è spazio per un crossover con un altro gioco e, tantomento, con la vita reale. Ecco, l'idea, come detto, è che alla fine possa venir fuori una domanda di realtà da parte del giocatore, stanco di finzione, bugie, artifici, limitazioni del claustrofobico mondo videoludico.

Qualche tempo fa (ormai parliamo di anni) ricevetti una mail da Mozilla in cui veniva proposta una jam avente ad oggetto la creazione di giochi che interagissero con le immense informazioni del web. In altre parole, l'inserimento di elementi di gioco 'esterni' al gioco stesso ma essenziali per andare avanti. Trovai l'idea subito interessante ma poi mi dimenticai di quella mail. Ripensando ai giochi in cui mi sono imbattuto successivamente, mi viene in mente solo un survival horror indie in cui per superare una porta era necessario consultare un file di testo che l'eseguibile di gioco aveva creato sul mio computer e un gioco di corse che sfruttava Google Earth. Per il resto... nulla.

Pensate ad un'avventura grafica in cui dovete fornire un parola d'ordine che, vi dice il gioco, potete trovare solo sul muro di una casa in via Mazzini n.8 a Pietrabbondante in provincia di Isernia. Oppure (ipotesi piú probabile) sul terzo scaffale da sinistra di un esercizio commerciale che sponsorizza il gioco. E che, al completamento dell'avventura, riscattando il codice ricevuto, vi regalerà un buono sconto.

Ecco, io credo che una possibile innovazione possa essere quella di espandere le possibilità del gioco anche nella realtà concreta. Una soluzione difficile al momento sia da concepire, sia da implementare, ma con un rischio concreto: creare ancor più confusione tra reale e virtuale, in cui non è chiaro se sarà la realtà a irrompere nel gioco o il gioco a irrompere nella realtà. Per il momento esistono ancora i social e l'economia delle piattaforme a impregnare le nostre interazioni software col gusto dolceamaro della realtà (di mercato). Però non è detto che il contatto più stretto col reale debba essere per forza una dinamica negativa per il videogame. Vedremo... la confusione nei nostri tempi regna sovrana ed è difficile profetizzare qualcosa.

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Se il videogioco è defunto, come ho scritto nel mio ultimo post, questo vuol dire che abbiamo la libertà di scrivere una nuova pagina, una pagina ora bianca. Il videogioco non è defunto, in realtà non è ancora nato. Ha provato a uscire dal ventre della nostra creatività ma è stato risucchiato in una forma commerciale, vendibile, standardizzata. Qualche indie ha provato a uscire dalla forma ma la forma ha ripreso inesorabilmente il sopravvento. I portali e le piattaforme hanno fagocitato i tentativi del videogioco di emanciparsi dalla forma commerciale.

Non è vero che il ricorso all'estetica e alla meccanica dei vecchi giochi, che ha caratterizzato fortemente la dinamica del gamedev indie, sono stati l'epitaffio del videogame. Non è vero che il revival è un indice del postmoderno.

Il revival è un tentativo di regressione, è una sorta di viaggio nel tempo. Fare finta che il gioco non sia mai esistito, riprovare a percorrere nuovamente quei primi passi verso un futuro di speranza per una forma espressiva che poteva aiutare ad ampliare la sfera del possibile come e più della letteratura e del cinema messi assieme.

Il bambino regredisce per far capire alla sua psiche che la fase precedente l'ha assimilata bene, che ora può andare avanti. Può crescere.

Credo che questo possa essere l'unico modo di creare videogiochi oggi: come modo per consolidare le nostre esperienze per poter andare avanti e crescere verso nuove responsabilità.

La responsabilità di fare delle scelte dolorose e capire che comportarsi con i fenomeni culturali legati al videogioco nel modo che è stato utilizzato finora non condurrà da nessuna parte.

Smettiamola di fare giochi per farci dire: guardatemi quanto sono bello. Guardiamoci noi dentro e mettiamo con sincerità nel videogioco quello che abbiamo, stravolgendone la forma, rivoluzionandone la sostanza. Lo scopo è sempre quello della razza umana: usare l'immaginazione per influenzare il reale.

Questo post non supera né le 500 parole, né i 5000 caratteri. Sticazzi.

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Prima di mettermi a scrivere per questo blog, ho voluto caricare almeno un videogioco. Si tratta di un videogame piuttosto classico nella forma e nella sostanza, con uno stile un po' retrò (è in pixel art) e con delle meccaniche già viste in centinaia di altri giochi (è un platform). Si chiama Zombie Hams e, a parte il fatto che non si tratta di zombie interi ma solo di prosciutti, non ci vedo molte novità. Ne ho di più originali ma questo secondo me è il più bello e quello che mi è costato più fatica: ci sono una decina di quadri giocabili, un boss finale, un level design un minino “studiato” e una discreta curva di difficoltà. La grafica è così così. Scrivo ciò non per dire quanto sia 'cool' il gioco ma per spiegare come faccia parte anche io di quanto andrò ad analizzare in questo post: insomma, mi sono sporcato le mani e, prima di predicare bene, ho razzolato. Bene o male non so, ma ho razzolato. Facciamo allora un passo indietro.

Un passo indietro

Si può scrivere una storia dei videogiochi attraverso la successione temporale delle console e i progressi tecnici del PC. Avendo vissuto soprattutto il gaming sul PC, sono però maggiormente titolato per narrare quest'ultimo lato di storia videoludica. Il primo lato (le console) si articola in salti tecnologici coincidenti con l'uscita delle varie macchine da gioco che si sono succedute sul mercato. Solo in apparenza la storia del gioco su PC sembra più lineare ma le discontinuità e i salti tecnologici non sono stati certo assenti (il più clamoroso è dato dall'avvento delle schede grafiche 3D) pur se talvolta fanno riferimento alle singole pietre miliari del videogame che si sono rivelate in grado di “sfruttare la potenza di calcolo del PC”. Per questo talvolta il software sembra avere il ruolo principale. Se però guardiamo più attentamente il quadro generale, notiamo come sia sempre l'hardware a giocare, nel lungo periodo, il ruolo di primo piano nell'innovazione. Quando smette di innovarsi l'hardware, generalmente finisce anche la novità sul lato software, specie per quanto concerne il videogame. Talvolta però, come vedremo, ci sono innovazioni hardware che non possono essere convenientemente sfruttate. Internet, social media e applicazioni web evolutesi fra addictiveness e colonizzazione commerciale sono un altro par di maniche che non tratteremo.

Un passo di lato

Facciamo ora un passo di lato. Forse sarà capitato a tutti di sentire l'aggettivo 'postmoderno'. Postmoderno vuol dire: il declino del moderno. L'era postmoderna non riesce ormai più a produrre nulla di nuovo e allora celebra il revival, il ricordo, il tributo e ciò che il miei amati blog di sincromisticismo chiamano “il risaputo storico”. In quest'ottica il film “Ritorno al futuro parte 2” assume valenza profetica: l'ennesimo seguito del film “Lo squalo” e il bar del futuro in cui Marty McFly ritrova la celebrazione delle icone del passato (cioè il suo presente) sono proprio un simbolo del postmoderno così come descritto in precedenza.

Un saltino sul posto

Ad un certo punto nell'evoluzione tecnologica del PC, lo sviluppo hardware, pur non arrestandosi, è giunto ad un vicolo cieco per via del software: sviluppare giochi mainstream AAA era diventato sempre più complesso, quindi costoso. Il livello di dettaglio richiesto dal 3D aveva raggiunto proporzioni impressionanti. La meraviglia data dallo sfruttamento delle nuove tecnologie si era affievolita. Ok, gli oggetti, finemente modellati e ricoperti di texture fantastiche, si potevano muovere con una fisica ultrarealistica... ma non era lo stesso senso di meraviglia del passaggio dal 2D al 3D. E, come insegnano gli esperti di marketing, l'unica qualità che conta è la qualità percepita. Se non è percepita (oltre che, nel caso del gioco, funzionale al gioco stesso) allora non conta. In questo clima 'postmoderno', in cui la novità pare essersi eclissata, spunta fuori il fenomeno indie.

Un (falso) passo in avanti

Quando esce il fenomeno indie nel mondo dei videogiochi, è già ormai prepotentemente avviato il declino dei videogiochi stessi. Era già diventato chiaro che l'hardware poteva fare ancora passi avanti ma il software non li poteva sfruttare più in ambito videoludico. Il videogioco era sempre stato uno dei motori dell'innovazione tecnologica; ad un tratto dimostrava di non stare più al passo. Per cui, arrivano i “giochini indie”. Sono le persone a partecipare alla creazione del gioco e a cercare di rivitalizzare l'industria. E laddove non ci riescono per limiti tecnici, le persone devono diventare il gioco attraverso la fruizione: è così che il multiplayer prende il sopravvento sul singleplayer. I giochi (post)moderni, per tagliare i costi e creare dipendenza, puntano tutti sul mettere a confronto (o uno contro l'altro) gli utenti. Non tutti, intendiamoci, ma il successo del multiplayer è innegabile. E dal punto di vista creativo, ovvero quello del gamedev indie? Beh, anche lì si è cercato, ad un certo punto di creare delle success stories o meglio, si è partiti dai prodotti più validi creati nell'ecosistema indie per promuovere un culto della personalità dell'indie developer. Ciò che ne è originato è stato quanto segue: – Molti hanno pensato di innovare le meccaniche di gioco ma non sono riusciti a sfuggire ad un'estetica che omaggiasse il revival, il remake e il 'risaputo storico': in quest'ottica si inseriscono tutti i lavori bidimensionali, specie in pixel art, specie quelli che si richiamano all'estetica delle vecchie console. E sappiamo quanto lo sguardo al passato sia indice di postmoderno. – In tanti hanno preso d'assalto i portali e i market (Steam in testa) e hanno svenduto il videogioco ad una logica subalterna a Youtube che imponeva di fare spettacolo in modo classico, con il gioco 'per ridere o scioccare'. Oppure si sono buttati sui temi alla moda: zombie, survival, open world non rifiniti ecc. In parole povere la perdita definitiva del concetto di videogioco come 'frontiera del possibile'. – Alla fine qualcuno è rimasto ma molti hanno capito che creare un videogioco non è come scrivere un romanzetto o fare un video su Youtube. Mancando un introito, tanto valeva allora giungere direttamente al video su Youtube senza passare per il contenuto. – La promessa di un mercato di massa dei creatori si è infranta contro le intrinseche difficoltà tecniche del videogame (quindi tempo e spesa) e contro un mercato saturatosi in fretta in cui emergere e ottenere visibilità era diventato un lavoro a parte (quindi era estremamente arduo metterci tecnica e autopromozione assieme).

Tutto questo mi fa talvolta pensare che il fenomeno indie non sia stato altro che un grande epitaffio del videogioco che fu. Videogioco che sembra aver trovato la sua forma definitiva, i suoi generi, le sue meccaniche base, nonostante la presenza di qualche scappatella indie simpatica. Sì, simpatica ma della stessa valenza di un addio al celibato prima del matrimonio combinato con le regole di una industria ipersatura. Per cui possiamo tranquillamente dire che, dopo l'ultimo sussulto di vitalità indie, il videogioco è irrimediabilmente defunto.

Questa è la conclusione logica a cui vi ho condotto e con la quale spero vi troviate d'accordo. E quindi? Quindi niente, ho già in mente il mio nuovo gioco, retrò e postmoderno al punto giusto.

Purtroppo quando si scrive un blog si devono fare affermazioni definitive, spero che almeno apprezziate che non abbia profetizzato la fine del capitalismo.

Nel prossimo post parlerò di come rivoluzionare il mondo del videogioco, oppure recensirò Clash Royale.

Gippo for Comitato Yamashita

Purtroppo non sono mai riuscito ad entrare nell'ottica necessaria a sviluppare oggigiorno un gioco serio e con qualche possibilità riuscita nel mercato. Questo è derivato dalla mancanza di tempo, fede, competenza tecnica (d'altrone è solo un hobby) ma anche dall'incapacità di lavorare e autopromuovermi assieme. A ciò si aggiunga che ho sempre preferito creare da solo.

Lavorare e autopromuoversi vuol dire anche sviluppare un devlog, cioè un blog che parli dello sviluppo del gioco stesso. Forse la mia è superbia o mancanza di realismo ma quando mi metto a creare un videogame spero sempre che sia una cosa innovativa e geniale (anche quando il risultato finale lascerebbe credere il contrario) e, soprattutto, che la release sia basata anche un po' sull'effetto sorpresa.

E' del poeta il fin la maraviglia / chi non sa far stupir vada alla striglia!

Quando sviluppo il gioco, essendo un qualcosa per cui non percepisco (nè veromilmente percepirò) alcun denaro, vorrei anche un po' divertirmi io stesso. Il senso di curiosità che si genera dal non sapere dove il gioco che faccio andrà a parare è per me benzina essenziale nel generare il piacere e il divertimento connesso al gamedev. Sì, lo so, sono un viziato. Sono solo l'utente di un tool di sviluppo e non un creatore. Scelgo di ignorare che tutto quel che nella vita vale la pena fare ha un prezzo e costa sangue, sudore e lacrime.

Avete presente la scena. Una coppia di attori parla sorridente alla TV della commedia che hanno appena girato, di fronte ad un presentatore in brodo di giuggiole. Dopo il trailer accattivante, il presentatore dice: “Accidenti, sembra proprio un film divertente!” “E' vero!” dice l'attore-A “E ti dirò di più: ci siamo divertiti pure a girarlo!” “Già!” conferma con un sorriso a 88 denti l'attrice-B “Che risate sul set!” “Risate sul set?” commenti tu “Allora è senz'altro una stronzata autoreferenziale. L'arte non nasce mai dalla felicità! Guardate Kubrick: ha bullizzato la sua attrice perché recitasse meglio la parte in Shining!” “Sì, ma questa sarebbe una commedia, mica un thriller...” prova timidamente a difendersi l'attore-A. “E' uguale!” sbotti tu “Io pago e voi dovete quantomeno soffrire! O pensavate di non farlo pagare, il prezzo del biglietto?” E mogi mogi i due attori lasciano lo studio.

Per il videogioco, è un po' come per le altre opere dell'ingegno. Quanto più l'autore è in grado di scomparire, tanto più l'opera può dirsi riuscita. Quanto più la sua presenza appare ingombrante, tanto più l'opera sminuisce.

Sviluppare un videogioco bello implicherebbe l'avere un costante feedback con l'utente finale, il giocatore. Ascoltare le sue richieste, coglierne alcune e sì, cassarne altre, ma mai ignorare del tutto i suoi bisogni, i suoi desideri. Non ascoltare letteralmente tutto quello che dice ma sempre sforzarsi di interpretare i suoi intimi aneliti.

Invece io (e molti come me) tendo a diventare nascisista: aspiro a che il giocatore mi accetti per come sono, che apprezzi le mie arguzie, che tolleri che sia io e non lui quello sul piedistallo.

E' un errore. Se ritengo stucchevoli gli attori che si divertono sul set del loro film, perché devo aspettarmi che i giocatori non facciano lo stesso con me? Il giorno in cui riuscirò a creare un Patreon e a comunicare per filo e per segno i miei progressi e ad adottare, nel limite del ragionevole, tutti i suggerimenti... beh, forse quel giorno non lontano potrò creare un bel gioco. O almeno un gioco moderno secondo gli standard attuali. O almeno tirarci su due lire per la pizza.

Gippo for Comitato Yamashita

Un programmatore di giochi è un po' come Dio. Dio, d'altronde, è un programmatore di giochi, il migliore. Quando si sono cominciati a superare gli scogli e i limiti iniziali dello sviluppo di videogiochi, subentra per alcuni una sensazione di onnipotenza. Ma il più delle volte si è schiacciati dalle miriadi di possibilità e si rimane vittima di quella che è una vera e propria maledizione divina. Per capire di cosa sto parlando, occorre tornare a considerare il programmatore capo. Come chi? Dio!

Il programmatore capo è un tipo permaloso e ritiene giustamente di essere il migliore ma (Dio mi perdoni) le scritture che narrano il suo carattere descrivono quella che per i nostri standard sarebbe una persona essenzialmente insicura di sé, poco empatica e, soprattutto, incapace di condividere il suo potere e la sua conoscenza fino in fondo.

Molti miti di molti le religioni raccontano un peccato capitale che non può essere perdonato: tentare di farsi simili a Dio. Questo audace tentativo nasce sempre da un primo semplice atto che consiste nel tentare di ampliare la propria conoscenza.

La Genesi sta lì a raccontarcelo. Adamo ed Eva non commettono altro peccato che quello di mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male. Questo vuol dire che il male esisteva già e l'unica cosa che mancava era la consapevolezza.

Come può la consapevolezza essere un peccato, una maledizione?

Eppure Dio ha programmato così e la cosa funziona anche se può sembrare un loop un po' grezzo. Altri episodi ci dicono che il programmatore capo non esita a metter mano al codice e a tagliare e ricominciare da capo quando non funziona (leggi: diluvio universale). Altri ancora ci dicono che Dio è molto geloso del proprio codice e ci ha fatto a sua immagine e somiglianza e liberi di scegliere e di decidere ma solo fino al punto in cui questo non contrasti con il codice che ha creato e di cui, purtroppo, talvolta non abbiamo piena coscienza.

Ad esempio, a Babele, non sapevano che Dio aveva fatto un piano regolatore che vietava gli edifici più alti di un certo numero di metri. Dio è un programmatore geloso e se la prende sempre quando non apprezziamo l'eleganza del suo codice. Ad esempio, dalle parti di Sodoma e Gomorra, Dio, vedendo quanto accadeva, sbottò irato:

“Avete cominciato a testare un uso alternativo per quell'orefizio di cui avevo elaborato quell'elegante ed esclusiva funzione digestiva?!? Ingrati! Muorite! Zap!!!”

Che tali episodi attingano ad un fondo di realtà non c'è alcun dubbio a mio avviso. E non pensate che siano una prerogativa della nostra religione: Prometeo, Tantalo e i miti greci ci raccontano la stessa storia. Dio o la Natura o Chi-volete-voi punisce sempre invariabilmente colui che vuole ficcare il naso nel codice o provare usi alternativi. Al punto che ho dei dubbi perfino sulla Teoria dell'Evoluzione. Mutazioni positive? Finora le ho registrate solo negli X-Men. La natura sembra punire tutto ciò che si discosta dall'Oggetto Uomo così com'è stato definito all'inizio (anzi: alla sesta pagina) del programma. Alcuni saggi nostrani hanno tentato di sintetizzare la maledizione della conoscenza nel seguente motto:

Beata la 'gnoranza che te fa stà be' de testa, de core e de panza!

Ricollegandomi quindi all'attività di programmatore di giochi, devo rilevare che purtroppo nemmeno qui si sfugge alla regola. Appena si acquisisce abbastanza competenza, arriva immancabile la maledizione.

E così: 1. Qualcuno comincia a concentrarsi solo sul codice, diventa un feticista del codice e tutto ciò che riesce a concludere è la pubblicazione di uno shader come asset da scaricare sull'Unity Store. 2. Molti smettono di giocare perché non hanno più tempo e devono programmare i giochi. Ma nel farlo perdono il contatto con la natura del prodotto che vogliono creare e alla fine ripiegano su qualche progetto più piccolo. 3. Qualcuno prova ancora a giocare a videogame ma scopre con raccapriccio che ha completamente perso la sospensione d'incredulità. Quando ruba una macchina in Grand Theft Auto immagina il codice che c'è dietro... e non c'è più gusto né magia. Sullo schermo del suo monitor sfrecciano tanti modelli 3D e non più nemici, veicoli, alberi e animali. Che formato saranno? Obj? 3ds? Li avranno creati con Maya, Blender o altro? Ci sarà qualche programmino open source che possa fare al caso mio?

Insomma, la conoscenza, come sempre si paga. A questo punto potrei fare una lunga disamina del complottismo alimentato dal rifiorire del moderno culto neognosico, ma mi fermo qui. E mi vado a fare una partita. Con un'amara consapevolezza: una volta fuori dal paradiso perduto, Dio mette a guardia un angelo perché l'uomo non vi rientri. Ma magari Gesù è venuto proprio per questo e, come dice San Paolo, è nella speranza che siamo stati salvati. La speranza di farci almeno una partita tranquilla.

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Adesso non ricordo l'autore di quella cinica battuta per la quale non valeva la pena di scrivere un libro perché era più conveniente comprarsene uno. Un cinismo tanto più insopportabile quanto più ci si rende conto che può essere applicato a una vasta gamma di creazioni artistiche di questi tempi moderni ipercommerciali e saturi di merci, non ultime quelle denominate “videogiochi”. Eppure, in questi anni '10 che volgono al termine, indie game development was a thing, la produzione amatoriale (e non) di videogiochi indipendenti è stato un fenomeno forse di nicchia ma che ha vissuto il suo chiaro momento di gloria. Riconosci il momento di gloria quando appaiono le star e le success stories: cito Mojang di Minecraft e quell'altro tizio che ha fatto Flappy Bird prima di finire nel dimenticatoio alla velocità della luce (e tornerò, forse, un giorno sulla questione delle success stories).

Ma cos'è dunque che ha spinto tanti programmatori, artisti e pretenziosi game designer a tentare la strada dell'indipendenza nello sviluppo dei videogiochi? Cosa ha rispolverato l'antico mito del garage/scantinato come tempio creativo del self-made man dei videogame? Non parlerò per gli altri ma solo per me stesso e spiegherò quali sono secondo me le motivazioni che spingono a creare un gioco. Esse sono soprattutto 7 (e aggiungo en passant che ho creato un blog alle soglie del 2020 soprattutto per poter utilizzare i pronomi “esso”, “essi” ed “egli”):

Motivo 1 – Poter dire: l'ho fatto anch'io

La grande maggioranza, se non la totalità dei creatori di giochi sono stati in passato fruitori di giochi. E' quindi quasi naturale cogliere l'occasione di creare un videogame quando questa si presenta per la prima volta. E l'occasione si è presentata in passato sotto forma di tool sempre più user friendly in grado di agevolare il processo realizzativo permettendo addirittura di creare un videogame “senza scrivere una riga di codice”. Questa è stata la motivazione che ha spinto molti a creare il “primo gioco”, quello che non si scorda mai. Da lì in poi, a seconda delle difficoltà e dell'evoluzione nelle proprie competenze, si può approdare ad altre motivazioni.

Motivo 2 – Poter dire: guardate quanto sono bravo

Ad esempio, ci si può montare la testa. Oppure si possono richiedere conferme (siamo esseri in costante ricerca di approvazione). Oppure, molto più prosaicamente, si può creare qualcosa che dimostri quanto si è geniali, capaci, efficaci non solo a se stessi, ai nostri vicini, ai nostri amici ma anche alle aziende che ci assumeranno e copriranno di soldi. Forse c'è anche questo nella creazione di giochi, anche se il fenomeno indie non era collegabile in modo esplicito a questa idea ma al suo esatto contrario.

Motivo 3 – Making a living out of it ovvero farsi (o sognare) un introito monetario indipendente

Parliamoci chiaro: i treni passano e tutti noi stiamo lì alla stazione ad attendere la next big thing. Per un po', nel corso di questi famigerati anni '10, è sembrato che il treno da cogliere fosse quello dello sviluppo di videogiochi. Idea non malvagia, a dire il vero. Difatti, viviamo in una società più ludica (ma non per questo meno competitiva, diceva quello). E poi, parliamoci chiaro (bis): si fa di tutto per non lavorare. Come biasimare chi ci prova, pur se con mezzi assurdi e improbabili tipo la creazione di videogames?

Motivo 4 – Cazzeggiare con amici reali o virtuali e interagire con le community indie

L'uomo è un animale sociale. L'uomo ha voglia di comunità. Io so che se volessi diventare un idraulico, non dovrei essere allettato dall'idea collegata ad una iconografia porno-vintage a base di casalinghe vogliose e insoddisfatte ma mi basterebbe entrare in una community di idraulici che postano topic del tipo: “Guardate che otturazione al tubo che ho fatto! Una roba di classe...”. Chi è stato fortunato ha avuto uno o più amici nella vita reale con cui coltivare l'hobby. Gli altri hanno avuto forum e community di indie gamedev. Per non parlare delle jam...

Motivo 5 – Indulgere nell'onanismo organizzativo

Questa è una motivazione un po' triste ma ammetto che mi è capitato di indulgere nell'onanismo organizzativo. Lo confesso qui anziché al sacerdote. Si parla di onanismo organizzativo quando ci si compiace di come si è bravi ad organizzare un progetto, nella fattispecie una creazione videoludica. Si tratta di una cosa analoga al motivo 2 ma con una dimensione più solitaria e masturbatoria. Come è noto, se si indulge troppo nell'onanismo organizzativo, si rischia di diventare ciechi.

Motivo 6 – Essere un tizio tosto e predestinato al game devlopment

Qualcuno riceve in sogno la visita dell'arcangelo Michele il quale gli preannuncia l'imminente costituzione di una innovativa start-up con la quale il prescelto diventerà milionario creando giochi. Inutile girarci intorno: qualcuno fa le cose perché sa quello che fa in generale, incluse tutte le mosse di qui al successo. Non si parla solo di talento ma di carattere e mezzi.

Motivo 7 – Creare la simulazione che non c'era

Ho collocato in ultimo questo motivo essenzialmente per via della locuzione latina dulcis in fundo. Il gioco nasce come simulazione fin dalla tenera infanzia: si gioca a guardie e ladri, a nascondino, al dottore (ehm...). Si gioca per confrontarsi con la realtà in modo non troppo diretto perché nessuno vuole dosi troppo forti di realtà (altrimenti non esisterebbero le ore di sonno) e allora il gioco è un luogo sicuro, il luogo dell'immaginazione, in cui poter affrontare i problemi concreti che verranno o elaborare le possibilità che si possono cogliere. Il videogioco, nello specifico, dà forza e concretezza a questa capacità di immaginare, ci fa immergere in mondi che non osavamo elaborare con un livello di dettaglio così alto. Il videogioco è simulazione pure quando non lo è in modo specifico come definizione di genere (ad es. le simulazioni di volo): anche un platformer simula un'avventura. La componente simulativa ha giocato un ruolo importante nello sviluppo dell'epopea indie: c'era l'idea di riprendere in mano i campi lasciati inesplorati dall'industria dei titoli AAA. Putroppo però simulazione mi fa anche venire in mente Goat Simulator, simbolo di manierismo indie apparentemente scanzonato, dove il creare un gioco “per ridere”, adatto alla visualizzazione e alla condivisione di Youtube, si è rivelato un'arma a doppio taglio nello sviluppo di una creatività aderente alla funzione originaria del gioco, che è finito così incatenato così al like, all'achievement, al ranking.

Se dobbiamo rimetterci a creare giochi, credo che dovremmo ripartire in modo onesto e disinteressato da quest'ultimo motivo: simulare una realtà che ci sta stretta in modo un po' più sano, fantasioso, indipendente da questo contesto social opprimente e iperinflazionato.

Ecco io ho detto tanti bei propositi, cosa in cui sono bravissimo. Ora, se possibile, fate voi qualcosa di concreto...

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Ultimamente mi sembra di vivere una fase dell'esistenza in cui pare diventato urgente cambiare qualcosa, non solo di me stesso ma anche della società in cui vivo. Ho sempre trovato velleitari fenomeni come l'open source, i no-logo (ricordate Naomi Klein?), i commerci etici e solidali, le istanze ecologiste. Mi sono sempre trovato abbastanza d'accordo con psicologi, filosofi e gente che passava di là per dirmi: “Il vero cambiamento possibile è solo quello dentro di te! Tu per primo devi cambiare! (Sempre che ci riesci... eh, eh!)”. Ma adesso non ce la faccio più a pensare ad un cambiamento solo personale e mi vengono in mente tanti altri slogan tipo “Nessuno si salva da solo”. Sì, perché il bello della nostra età liquida e postmoderna è che si può sentire tutto e il contrario di tutto quindi basta avere un'opinione o un'idea, per quanto buffa o estrema o assurdamente convenzionala, che trovi subito frasi, motti, autori, professori di Princeton, scrittori di Baci Perugina che la supportano o l'hanno già supportata decenni fa e ti danno quel minimo di appoggio psicologico necessario per dirti che sei nel giusto. E questo vale anche per il contrario dell'idea originaria. I professori di Princeton stanno lì apposta. Chiudendo questa lunga digressione, mi sono chiesto spesso come cambiare e verso quale direzione andare quando si vuol cambiare. La prima cosa da fare, a mio avviso, è quella di guardare cosa si è stato fino ad un determinato momento e tentare delle strade diverse, anche se non necessariamente opposte.

Questo almeno può darci una prospettiva nuova: quella che esiste la possibilità di poter scegliere.

Il titolo di questo post esprime il concetto, poi non adeguatamente sviluppato e nemmeno accennato, che finora io sia stato un programmatore-criceto e che forse sia giunto il momento di uscire dalla ruota. In realtà il programmatore non è stato il mio mestiere ma l'approccio alla vita e la mentalità sono state decisamente informatiche.

Una mentalità fatta di “pigrizia fisica” che impone un approccio metodico al problema generale prima della soluzione puntuale del problema specifico. In parole povere: prima si fa l'engine per creare la visual novel, poi si scrive il testo della visual novel. Ma spesso, con questo approccio capita che la visual novel non c'hai più voglia mica di scriverla, dopo aver smanettato sul cavolo di engine generico per visual novel che alla fine potresti pure caricarlo su github e chiamarlo “Gippo V.N. star engine”.

Ecco, forse è arrivato il momento di concentrarsi sui contenuti e meno sui contenitori.

Lo scrivo perché ho scoperto, su un vecchio DVD di backup, che avevo fatto anni fa un engine per visual novel in Darkbasic per il quale avevo scritto pure i testi e creato le immagini per la novella visuale. Invece recentemente con Love2d, dopo il codice ben rifinito, non ho nemmeno abbozzato un accidenti di storia. Lo so, è una profonda allegoria, forse un po' forzata. In fondo, potrebbe semplicemente trattarsi di classica crisi di mezza età...

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