Gippo

Gippo – Un blog gestito dal Comitato Yamashita

Allora, innanzitutto un chiarimento: da una rivoluzione noi avremmo molto da perdere e quando dico noi, intendo soprattutto io e i miei conti corrente. Però la gente è insoddisfatta, qualcosa bolle in pentola, siamo nati virili maschi alfa e come tali ci sembra nostro dovere guadagnarci da vivere costruendo trappole per lepri e tirando frecce ai capretti selvatici a scopo sopravvivenza. E poi rimescolare un po' le carte in tavola prima di raggiungere la vecchiaia è una prospettiva che può fornire occasioni insperate di successo e quel guizzo vitale che sembra mancare in questi tempi postmoderni. Sarò sessista e maschilista ma voglio rivolgermi proprio alle persone, come me, di sesso maschile.

Partiamo allora dall'idea che la società attuale sia una sorta di grande videogioco strategico/gestionale basato sull'accumulazione di risorse che, a loro volta, servono a creare strutture che, a loro volta, creano unità combattenti o nuove unità costruttrici o addirittura torrette laser. Vabbè dai, facciamo un passo indietro: diciamo che la vita non è proprio come Starcraft, però teniamo per buono il discorso delle risorse che generano strutture e quant'altro e lasciamo fuori l'elemento bellico. Partiremo pure da un’altra considerazione: l’unica rivoluzione riuscita è stata quella borghese/industriale partita nel 1700, una rivoluzione di natura essenzialmente economica. In quest’ottica uno strategico in tempo reale, con la sua gestione delle risorse, può essere un’ottima metafora per la nostra epopea prossima ventura.

Innanzitutto chiediamoci: qual è l'obiettivo del gioco? E qual è la strategia che vogliamo attivamente perseguire per sovvertire lo status quo? Infine: come procedere?

Punto 1: le risorse

Molti vedono un problema nella cattiva distribuzione delle risorse e, in particolare, nel fatto che di queste ultime se ne abbia meno di quante se ne potrebbero effettivamente avere, soprattutto considerato il livello tecnologico dell’attuale società.

Così arriviamo alla domanda fondamentale: quali sono oggi le risorse strategicamente meritevoli di appropriazione e accumulo? E cosa vogliamo ottenere da esse? Ognuno ha una sua risposta. Io ho la mia: vorrei avere quantomeno libertà, autonomia e indipendenza. Cioè non devo raccomandarmi a nessuno per pigliare quei due soldi a fine mese e non devo stare sotto il cappio dello Stato che può decidere in ogni momento che da domani quello che ho accumulato diventa carta straccia in virtù del bene superiore della nazione.

Torniamo così alle risorse. Quali sono le risorse, in quest'ottica?

Come ci insegna Fausto Brizzi in “Poveri ma ricchissimi”, capolavoro del cinema italiano del 2017 con Christian De Sica, la prima cosa che ti tolgono è la corrente elettrica. Quindi, andando meno nello specifico, abbiamo bisogno di energia autonoma, dobbiamo uscire dalla rete, out of the grid.

Sfortunatamente, l’energia elettrica è un po’ complicata da ottenere. Dobbiamo accontentarci di quella termica all’inizio. Quindi: alberi, boschi, legna da ardere. Funziona così pure in Warcraft: c’è la miniera e il bosco da cui attingere. La miniera lasciamola perdere per ora, abbiamo appena abbandonato le molli ricchezze capitaliste, non mi sembra il caso di infierire con una vita dentro cunicoli claustrofobici.

Punto 2: allocazione delle risorse

In un gioco RTS (real time strategy) si costruiscono strutture, quindi abitazioni ed edifici per la lavorazione delle risorse. Ma anche unità. Cosa intendiamo per unità? Innanzitutto altri esseri umani come noi e di questo parleremo nel punto 3. Ma anche unità lavoratrici non umane. Stavo pensando in particolare a dei robot, lo dicono tutti che alla fine verranno i robot e ci toglieranno tutto il lavoro (che la cosa sia vista con fiducia o sfavore). Beppe Grillo non parla d’altro e quelli che gli stanno intorno non ce la fanno più a sentire ‘sta storia.

Poiché i robot intesi comunemente nel linguaggio odierno hanno la brutta tendenza ad arrugginirsi, guastarsi e utilizzare energia elettrica ormai off limits, pensavo di assoldare robot biologici semisenzienti. In altre parole: buoi, cavalli e animali da fattoria in genere. Niente elettricità e un po’ di erba ogni tanto. Potremmo utilizzare le loro deiezioni per concimare i campi, realizzando un esempio di economia circolare forse non inedito, ma efficace. Già, a proposito di campi, un'altra risorsa imprescindibile è, ovviamente, il cibo. Ma comunque dobbiamo costruire archi e frecce per cacciare e integrare l’economia agricola, oltre a difenderci dalle possibili invasioni. Non abbandoneremo mai del tutto la caccia perché con l’agricoltura prima o poi va a finire che si ritorna ad accumulare, a ingrandirsi, ad espandersi più del necessario.

Punto 3: come partire e sviluppare la strategia di una società alternativa

Come insegna ogni buon RTS, all’inizio è meglio trovarsi un posticino tranquillo tranquillo e un po’ isolato. Non dobbiamo nemmeno mandare qualche scout a ispezionare di nascosto il mondo circostante perché lo conosciamo (è per questo che abbiamo deciso di costruire una società alternativa). Com’è noto, il quartier generale iniziale ha bisogno di tempo per svilupparsi e non bisogna farsi scoprire altrimenti vengono in massa con la loro tecnologia superiore e ci radono al suolo senza pietà, come abbiamo fatto anche noi in tante partite a videogiochi contro le basi nemiche più deboli. Dobbiamo quindi isolarci.

L’isolamento produce evoluzione, la globalizzazione produce estinzione (M. Crichton)

In seguito dobbiamo scegliere la strategia di sviluppo. Lasciate che vi dica una cosa: secondo me se si decide di risalire l’albero tecnologico e raggiungere la complessità delle unità più avanzate, non si va da nessuna parte. Il nemico ha una tecnologia, un’organizzazione e una struttura troppo più elevata anche delle nostre più ottimistiche potenzialità autarchiche. Abbiamo solo una speranza: la strategia Zerg rush ovvero produrre tante unità semplici, basiche che fanno affidamento sulla forza del numero. Per fare questo abbiamo bisogno di unità femminili, giacché sono le uniche in grado di procreare. Qui viene il problema. Dobbiamo convincere queste unità a rinunciare alle stories di Instagram, all’estetista e ai beni di lusso. Poi abbiamo bisogno che siano giovani (a 25 anni un’unità femminile viene già definita dalla scienza una ‘primipara attempata’ ai fini procreativi) e che sfornino unità una dietro l’altra come se non ci fosse un domani. Infine, è necessario che il frutto del loro ventre venga allevato e indirizzato alla difesa e alla promozione della nostra neonata società e non alla sbornia serale del week-end. Come portare a compimento quest’opera di persuasione nei confronti dell’altra metà del mondo? Come educare i nostri giovani virgulti isolandoli dalle lusinghe della perniciosa società ordocapitalista e imperialista? Dovremo inventarci una religione...

Ecco, da qui, grossomodo, si può andare avanti a vista.

Ma forse, ho sbagliato a prendere ad esempio questi strategici classici basati sull’accumulazione di risorse… forse dovevo considerare Total Annihilation, un RTS dove si usano anche i rottami che generano dalla distruzione delle vecchie strutture e unità…

Beh, la mia prima strategia l’ho abbozzata, magari è un po’ troppo rigida, ma giocando si impara e c'è sempre spazio per un miglioramento, sperando che la curva di difficoltà non risulti troppo ostica.

Male che vada, attendiamo la patch o l'espansione per bilanciare le fazioni. Anche se non è chiaro chi dovrebbe occuparsi di questo bilanciamento...

Gippo for Comitato Yamashita

Immaginatevi un'isola lontana lontana. In quest'isola ci sono due gruppi sociali: il gruppo A e il gruppo B. Il gruppo A è impegnato nella raccolta delle noci di cocco, il gruppo B si dedica invece alla pesca dei merluzzi. La loro attività è di tipo economico perché è volta a soddisfare dei bisogni. Nello specifico, quelli di sopravvivenza. Un giorno quelli del gruppo A si stufano di mangiare noci di cocco e quelli del gruppo B di mangiare merluzzi. Per questo cominciano a commerciare noci di cocco in cambio di merluzzi. Essendo le noci di cocco meno deperibili dei merluzzi, quindi maggiormente “tesaurizzabili” (cioè risparmiabili e accumulabili), si sceglie di pesare ogni merce in termini di noci di cocco: un chilo di merluzzi vale 8 noci di cocco, ad esempio. Nasce così il DENARO. Nel caso della nostra isola, la prima forma che assume il denaro è quindi quella di “noci di cocco”. Gli scambi crescono, la tecnologia evolve, i prodotti si ampliano. Per le loro caratteristiche di divisibilità, di portabilità e, come già detto, di capacità di tesaurizzazione, emerge poi come nuova forma di denaro quella rappresentata dai metalli. I metalli sono utili e hanno un “valore merce” innegabile: possono essere utilizzati per creare attrezzi e gioielli e, senza citare motti e proverbi, sappiamo come possano piacere al mondo femminile e quindi, di riflesso, stimolare l'impegno di quello maschile. E' anche comodo sceglierli come forma di denaro perché, come detto sono frazionabili comodamente grazie alla divisibilità in unità di peso (uno o dieci grammi, ecc.). Inoltre sono più facilmente trasportabili e tesaurizzabili, sicuramente più di un camion di noci di cocco. In virtù di queste caratteristiche, essendo stati scelti come forma di denaro, assumono anche un valore di scambio. Ma per il momento non preoccupiamoci di questo. Concentriamoci invece sul fatto che l'uomo ha inventato il denaro che, per la nostra isola, nel momento in cui scriviamo, è rappresentato da pezzetti d'oro. Tutto va a gonfie vele ma ci sono alcuni problemi che affliggono la gente comune che appartiene ai gruppi A e B: i falsari. Questi ultimi usano del denaro falso fatto con metalli scadenti e più facili da reperire che manda all'aria tutto il sistema di scambi e di fiducia (ricordiamoci questa parola) messo su con tanta fatica. Cosa succede allora? Arriva da un paese lontano un soggetto impiccione chiamato Stato. Questo decide di farsi garante del denaro, attraverso la Zecca dello Stato. I pezzi d'oro diventano monete d'oro, hanno le zigrinature ai lati e una serie di stampe che ne rendono molto più difficile la falsificazione. Beh, lo Stato fa anche altre cosette: sicurezza, strade, leggi di civile convivenza... il tutto su larga scala, dove non possono arrivare le primordiali comunità. Con l'intervento dello Stato va tutto a gonfie vele di nuovo. Ma rimane un problema ancora: i delinquenti. Ok, i soldi non si possono più falsificare tanto facilmente ma si possono sempre rubare. I mercanti prendono delle belle botte in testa durante i loro viaggi, risvegliandosi senza i preziosi incassi per i quali lavorano. Il commercio crea benessere e, se viene penalizzato, ciò è un male per tutta la società. Per questo viene in aiuto un nuovo soggetto che fa da intermediario. Chiamiamolo Banca. La Banca prende in deposito il denaro e crea una serie di prodotti finanziari che eliminano una serie di inconvenienti del denaro “solido” e rinsaldando il meccanismo della fiducia attraverso il quale si consolida tutta l'espansione dell'attività economica. Al posto delle monete di metallo, viaggiano gli assegni e le lettere di credito. E, di nuovo, va tutto bene finché, sulla nostra scena non appare un individuo inquietante. Giunge un giorno di tempesta, su di una carrozza trainata da enormi cavalli neri come la pece ed entra in banca fra lampi e tuoni. E' un'entrata in scena talmente eclatante che richiede un capitolo a parte. E' il Misterioso Stregone.

L'AVVENTO DEL MISTERIOSO STREGONE

Questo individuo inquietante si presenta di fronte al direttore generale della Banca e punta i occhi magnetici su quelli del pavido funzionario. “Mi dica la situazione depositi alla data attuale!” tuona autoritario. Il direttore della Banca, soggiogato dal suo carisma e sintomatico mistero, non può che obbedire e gli presenta il seguente quadro:

GRUPPO A: 1000 monete d'oro GRUPPO B: 1000 monete d'oro

“Bene!” – dice compiaciuto – “Ora mi faccia un piacere: prenda la penna e scriva ciò che segue”

MISTERIOSO STREGONE: 1000 monete d'oro

La volontà del direttore di banca, pur vacillante, ha un sussulto. “Ma così potrà ritirare e utilizzare dei soldi non suoi! E cosa accadrà” piagnucola “se il Gruppo A e il Gruppo B decidono di ritirare tutto il loro denaro e io non glielo posso dare?” “Lei sa bene che questo non avverrà mai, soprattutto ora che l'economia va bene e i depositi sono in crescita” “Ma... almeno mi vuol dire che ci vuol fare con questi soldi?” “Obbella! Li spendo!” “Sì, ma come?” Il Misterioso Stregone tace e si fa serio. “La metà li darò ai poveri.” Il direttore di Banca, che in fondo in fondo ha una coscienza, tira un muto sospiro di sollievo. Il Misterioso Stregone non sembra una cattiva persona. Usa questo denaro per darlo ai poveri, assolve una lodevole funzione sociale. No? “E l'altra metà?” – chiede il direttore di Banca più rinfrancato. “L'altra metà” – risponde il Misterioso Stregone – “La userò per promuovere il mio sport preferito: Stappachiappa”.

DEFINIZIONE DI STAPPACHIAPPA TRATTA DA WIKIPEDIA: Stappachiappa è uno sport inventato da un Misterioso Stregone che consiste nel tentare di stappare una bottiglia di birra solo con l'aiuto dei muscoli locati in corrispondenza delle natiche.

“Ma...” balbetta il direttore. “Niente ma” replica il Misterioso Stregone “vedrà che si troverà bene, lasci fare a me”.

GLI ANNI PASSANO

Come suggerisce il titolo di questo capitoletto, gli anni passano e il Misterioso Stregone, coi suoi soldi, inizia a concretizzare gli effetti delle sue spese sulla società. I poveri prendono i soldi e lo votano, cosicché il Misterioso Stregone, una volta eletto, possa riprelevarli di nuovo attraverso le tasse. E lo sport Stappachiappa? Non ha subito vita facile. Inizialmente la gente si chiede: ma che senso ha provare a stappare le bottiglie di birra col culo? Ma poi nascono nuovi mestieri oltre a quelli antichi creati col vecchio modo di pensare e produrre. I bambini cominciano a sognare di diventare, da grandi, campioni di Stappachiappa perché guadagnano bene e sono famosi. I grandi scoprono nuove frontiere del giornalismo, scrivendo della “gloriosa millenaria lotta delle natiche umane contro i tappi delle bottiglie di birra”, e promuovendo ulteriormente lo sport. Qualcun altro si mette a vendere tute dotate di un buon grip nella zona derrière. Insomma, si sviluppa un certo indotto. E tutti si scordano di mangiare noci di cocco e merluzzi. O quantomeno lo danno per scontato. Finché...

TRADIMENTO! RIVOLUZIONE!

Il meccanismo che sembrava poter funzionare in eterno smette di funzionare: non tutti sono felici e si creano molte differenze sociali e sacche di povertà a dispetto delle politiche redistributive. Così tutti si accorgono all'improvviso, come per magia, dei magheggi del Misterioso Stregone. “L'avevo capito io che uno che inventa uno sport chiamato Stappachiappa era solo un maniaco pervertito!” dicono i soliti abituèe del “te l'avevo detto!”. Il Misterioso Stregone è sotto accusa. Portato su una pubblica piazza per la decapitazione però si difende. “Stolti!” tuona col suo indomito orgoglio stregonesco “Pensate che io vi abbia fatto del male? Che abbia procurato dei danni alla società? Siete fortunati che vi sia capitato io che ho distribuito soldi ai più poveri e ho impedito loro di diventare briganti. Io che vi ho allenato in modo giocoso a stringere le vostre natiche per evitare di avere sorprese alle vostre spalle! Sapete cosa avviene nelle altre isole?” I membri del pubblico giunti per l'esecuzione in piazza si guardano in faccia gli uni gli altri, in silenzio. Non hanno la risposta a quella domanda. Sono rimasti talmente tanti anni a cogliere noci di cocco e a pescare merluzzi che non hanno mai sentito il bisogno di chiedersi cosa avvenisse al di fuori della loro isola. “Ebbene” continua il Misterioso Stregone “Ve lo dico io! Là i miei colleghi hanno utilizzato i miei stessi espedienti ma non hanno indirizzato il denaro ai poveri o allo sport. Nossignore. Hanno costruito bombe termonucleari e allestito eserciti con cui un giorno verranno qui da voi, sottomettendovi. E se anche rinuciassero alla violenza più bruta, sappiate che hanno investito in settori strategici dell'economia che consentiranno loro di spazzarvi via dal mercato solo con la forza dei loro prezzi e con la qualità dei loro prodotti! Altro che merluzzi e noci di cocco...” A quelle parole il popolo riflette. Il Misterioso Stregone è antipatico ma forse è uno dei meno peggio. O no? Qualunque sia il responso sulla sua moralità, un giorno l'isola si troverà di fronte altre isole e con l'avanzare della tecnologia le distanze si annulleranno... E allora cosa accadrà? Il popolo però vacilla solo per un attimo. Insomma, si sono mossi da casa per vedere un'esecuzione capitale e sarebbe brutto rinunciarci solo per due parolette messe in fila in un momento di intima e ben celata disperazione. Che il misterioso stregone (togliamo la maiuscola) venga impiccato! Ma prima si tolga quel cappuccio che copre costantemente il suo volto, il quale, immerso nella penombra, lascia solo baluginare i due occhi fiammeggianti. Così il boia allunga una mano e scopre l'arcano. E il volto che emerge è... quello del direttore di Banca! Scopriamo così che si tratta de

IL CLASSICO VECCHIO ESPEDIENTE NARRATIVO DEL RISVEGLIO DALL'INCUBO

Il direttore di Banca si risveglia madido di sudore. Ha appena sognato di essere su una pubblica piazza, in attesa di essere giustiziato da una folla inferocita. Si solleva dal letto e beve un sorso dal bicchiere d'acqua che tiene sempre sul comodino, ogni notte. Sua moglie dorme tranquilla di fianco. I suoi figli sono silenziosi nell'altra stanza. Asciugandosi il sudore dalla fronte, tira un sospiro. Ma il sollievo non è lo stesso di quando si risveglia dall'incubo in cui lo insegue un gorilla assassino con la faccia di Carlo Marx. Non è del tutto sollevato perché la situazione “è quella che è”, come si suol dire. No, non c'è stato (e non c'è) alcun Misterioso Stregone. E così i ricordi riaffiorano. Era tutto cominciato con qualcuno che chiedeva un prestito. La Banca gliel'aveva concesso, in cambio di un giusto tasso di interesse. D'altronde, si diceva una volta, stava tutto lì, in quel tasso di interesse, il reddito della Banca. Poi i prestiti sono aumentati e anche la quantità e la qualità dei debitori. E' arrivato anche lo Stato a far debiti. E il direttore di Banca era contento. Tutti erano contenti. Tutti erano d'accordo. Sembrava un'ottima idea. “E' ancora un'ottima idea” bisbiglia il direttore di Banca con un filo di voce, a rischio di svegliare la moglie. Certo oggi bisogna un po' registrarla, raffinarla, forse rivederla. Già, manca una trovata risolutiva che quadri tutto. O forse, manca solo lui: un Misterioso Stregone da osannare e impiccare alla bisogna.

FINE

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Ripropongo una vecchia recensione fatta per un blog. A quei tempi c'era un video con due ex Take That (“Shame”) che si richiamava a Brokeback Mountain e Twilight coi suoi vampiri scintillanti andava per la maggiore. A quei tempi era solo un post politically uncorrect, oggi potrebbe rivendicarlo l'alt-right o finire sul blog di Maurizio Blondet. Sembrano passati due secoli e le cose sono peggiorate...

Freddy Krueger

“A nightmare on Elm Street” è un videogioco del 1989. “A nightmare on Elm Street” (d'ora in poi ANOES) è inoltre una sottospecie di action-rpg top-down che entra di diritto a far parte delle recensioni mancate di G.... essenzialmente perché nell'anno di pubblicazione G.... ancora non esisteva. Molte cose ancora non esistevano. Ad esempio non c'erano nemmeno i Take That ignorati dagli adolescenti odierni e i cui echi lontani sopravvivono blandi oggigiorno solo nelle persone del noto ufologo Robin Williams e del “cicciobombo dei Take That” Gary Barlow, recentemente insieme in un singolo con annesso video dalle atmosfere tipicamente country-gay. A chi si chieda di cosa tratti il videogioco in questione solletichiamo la fantasia con la seguente domanda: vi dice niente “Nightmare”, la nota serie di film horror che tanto spopolava negli anni 80? A quei tempi (io facevo le elementari) noi bambini pensavamo tutti che il mostro con la faccia brutta e le unghie a lama affilata si chiamasse effettivamente “Nightmare” e desse il suo nome ai titoli della serie. Sebbene ci fosse qualche intellettuale in erba a precisare con la sua aria da saputello che “nightmare” in inglese vuol dire “incubo” con chiaro riferimento ad una trama che vedeva tale Freddy Krueger tornare a vendicarsi nei sogni, molti lo isolavano con crudeltà, forse perché, se gli avessero dato spago, sarebbero stati costretti ad ammettere di non aver mai visto i film ma semplicemente il trailer pubblicitario. Solo così si poteva continuare a raccontare versioni fantastiche delle vicende cinematografiche, versioni in cui il carismatico “Nightmare” faceva cose talmente terribili che persino i veri sceneggiatori sarebbero inorriditi. “A nightmare on Elm Street” (d'ora in poi ANOES, lo prometto) non è solo il titolo del videogioco ma anche del lungometraggio originale, cosa che un bambino italiano vissuto negli anni 80 non avrebbe potuto accettare. Francamente l'unica cosa notevole del videogame è la schermata iniziale dove c'è il fantastico ghigno di Nigh... di Freddy Krueger che agita le unghie nel modo beffardo che l'ha consacrato mito. Roba da far schiattare tutta la classe di invidia di fronte al PC 286. Oggi tuttavia vi consigliamo di non esibire schermate del genere se non ad una fiera del modernariato. Il gioco è molto buffo. C'è un ministage iniziale in cui si corre per una città piena di case molto simili l'una all'altra, accorgimento questo semplice ma geniale per creare una straniante sensazione di claustrofobia e, soprattutto, far risparmiare un sacco di tempo ai grafici. Vagando dunque per le strade deserte con il cattivone alle calcagna (ovviamente l'urbanista locale ha ben pensato di strutturare le vie in forma di labirinto) occorre trovare la casa di Freddy Krueger, compito questo alquanto banale visto che l'abitazione è distinta dalle altre grazie alle finestre lampeggianti. Una volta dentro, una suora (!) ci dirà un paio di parole di circostanza circa la necessità di combattere il male, dando inizio al gioco vero e proprio. L'architetto della casa, che probabilmente è anche l'urbanista della città, ha creato un dedalo inestricabile di stanze e corridoi all'interno dei vari piani, con tanto di leve e muri nascosti, nonché chiavi lasciate in bella mostra e ben distanti dalla serratura di riferimento. Ovviamente si scende sempre più in basso, di piano in piano, accumulando livelli, bevendo tazze di liquidi per recuperare salute, raccogliendo mazze da baseball per picchiare scheletri e fantasmi. Non ho ben capito l'obiettivo finale, comunque credo che si incontri Freddy, anche se non ci sono arrivato. A questo punto potrei dare una lettura psicologica di matrice edipica relativamente all'entrare nella casa per uccidere il mostro, ma preferirei astenermi. Mi piace invece sottolineare che negli anni 80 i cattivi erano veramente cattivi e non c'era spazio per comprensioni o immedesimazioni. “Nightmare” era carismatico finché si voleva ma rappresentava il male e andava combattuto. Noi ragazzi comuni che dovevamo combattere il male, spesso cavandocela (o soccombendo) senza l'aiuto dell'autorità, rappresentavamo indiscutibilmente il Bene, come ben sancisce la figura della suora di “A Nightmare on Elm Street” (purtroppo non me la sento più di promettere che d'ora in poi sarà abbreviato in ANOES). Oggi invece tutti 'sti vampiri di quel Pattinson lì hanno creato confusione, alimentando il cosiddetto “pensiero debole” tipico dei nostri tempi incerti: una volta l'unica forma di interazione consentita con i malvagi succhiasangue e il loro amici lupi mannari, diavoli, abomini a quattro zampe, mostri, fantasmi, assicuratori e extraterrestri era semplicemente la soppressione. Però mi accorgo che sto generalizzando troppo perché negli anni 80 c'era anche roba tipo “E.T.” in cui gli alieni erano buoni. Insomma, forse è tutta colpa di Spielberg. Inclusa la passione per l'ufologia di Robin Williams.

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Avendo una certa età, sono abituato ad associare l’idea di procurarmi un gioco con quella di comprare una scatola colorata con un supporto fisico dentro e, se va bene, pure un piccolo manuale: un vecchio concetto che risale alla fine del ventesimo secolo e ai primi anni Zero. Ho speso dei bei soldi in passato per procurarmi quelle scatole che fanno parte della mia collezione che, suppongo, oggi, in tempi di digital download, non abbia più alcun valore. Eppure, se mi chiedete di spendere 0,99 euro per comprare una personalizzazione grafica per un personaggio, ho la tentazione di sputarvi in faccia. La mia abitudine di spesa prevede 50 euro per una scatola col gioco completo e non pochi euro per rendere più bello il mio personaggio o facilitarmi il gioco in sé. E poi, non esiste il mondo dei mod per questo? Il modello economico alla base dei giochi per cellulare prevede proprio microtransazioni e viene detto freemium, cioè, il gioco è gratis (free) ma se vuoi la vita più facile, oppure procurarti più in fretta le risorse limitate espresse dalla valuta di gioco, oppure mostrare quanto sei figo con una personalizzazione del tuo avatar che sa tanto di perversione del meccanismo di selezione naturale… ebbene, allora devi pagare. E’ più forte di me, deriva dalla mia cultura del videogioco: non posso pagare per avere vita facile. Ed è per questo che pensavo che il modello freemium non potesse attecchire con me. Beh, mi sbagliavo. Il modello freemium mi spinge invece ad esplorare il modo per capire come tirar fuori il massimo dal videogame senza sborsare una lira. Ed è un gioco nel gioco.

L’ho fatto per due-tre anni con Clash Royale, per cellulare. Vedevo gente che shoppava (noi giovani diciamo così e se non ci credete vi killo) ma perdeva e, in cuor mio, sghignazzavo malignamente. Io leggevo guide per risparmiare, per massimizzare, per ottimizzare. Poi, dal mio osservatorio privilegiato come F2p (free-to-play) potevo anche capire come poteva essere gestito il gioco dal punto di vista degli sviluppatori. E mi dicevo, ad esempio: come F2p questo gioco sta diventando troppo difficile a questo punto della ladder (scalata, letteralmente) e l’accumulazione di risorse è troppo lenta. Quindi pensavo:

*“Io sono un pazzo ossessivo compulsivo e rimango in trincea ma suppongo che frotte di millennials con la soglia di attenzione di un pesce rosso stiano fuggendo a gambe levate”. *

E non mi sbagliavo: di lì a poco un update rendeva il gioco più facile nella progressione. In generale, più il gioco perdeva appeal, più gli sviluppatori diventavano generosi.

Per chi è interessato a questi aspetti, i giochi freemium sono intriganti proprio nel capire come viene gestita nel tempo l’economia di gioco. In questo senso possono essere considerati come giochi aperti, con una componente sociale, quasi socio-economica, in continua, costante evoluzione. Molto spesso questo genere di giochi ha una natura competitiva, esemplificata da classifiche e ranking o arene gerarchiche. Insomma, come accennavo prima, sono uno specchio della società e, addirittura, possono aiutare a comprenderla meglio nei suoi elementi economici e a immedesimarsi in chi ha le chiavi per gestirla. Il F2p può essere identificato come la classe sociale più umile ma anche quella più numerosa, quella che fa volume e numeri, quella che, pur non contribuendo molto in termini monetari (anzi, pur non contribuendo affatto) ha un ruolo fondamentale, anche, non ultimo, quello di carne da macello per quella dei P2w (ovvero pay-to-win). E’ ovvio che i P2w vadano favoriti ma se non hanno nessuno da schiantare nel loro cammino glorioso potrebbero perdere il gusto del gioco e spendere di meno. D’altro canto i F2p potrebbero semplicemente smettere di giocare e questo non va bene: magari sarebbero diventati pure loro un giorno P2w, invece niente, hanno disinstallato e basta. E poi chi schiantano i P2w? Allora bisogna calibrare bene l’economia di gioco, promuovendo se possibile una specie di ”ascensore sociale”.

Notate un’ultima cosa: per mesi e mesi i giocatori più rumorosi fra i F2p e i P2w si sono lamentati che nel gioco mancassero delle opzioni, fosse blando il senso di progresso, fossero troppo alti i prezzi. Ma finché le whales (balene: i grandi acquirenti) e la maggioranza dei normali P2w continuavano a spendere, il gioco non cambiava. Poi, i forum si sono un po’ calmati o semplicemente riempiti di meme inutili e sembrava che andasse tutto alla grande, senza nemmeno un thread di lamentela (o rant). Però, con la riduzione degli acquisti, pur in assenza di proteste plateali, gli sviluppatori sono improvvisamente diventati molto liberali, hanno aggiunto più opzioni e contenuti e, oggi che il gioco è in fase calante, la progressione del giocatore è più rapida di quanto lo sia mai stata. Una metafora utile?

P.S: Volevo fare tutto un altro discorso ma alla fine è venuta fuori una roba politica e vagamente populista. E’ lo zeitgeist, credo.

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Non sappiamo esattamente come evolveranno gli anni futuri ma sembra che un po’ tutti siano coscienti di una cosa: così non può durare. La frequenza delle lamentele fra la gente ormai non può più rivelare soltanto un atteggiamento viziato e petulante; è l’indizio che ci indica come qualche presupposto su cui abbiamo fondato la nostra società negli anni passati sia destinato definitivamente a crollare. E la sensazione allarmante è che questo crollo travolgerà tutto.

Passo indietro

Un paio di settimane fa pubblicai un giochino, se vogliamo ‘mediocre’, su itch.io. Questo giochino, totalmente gratuito, ha collezionato la “bellezza” di 16 visualizzazioni in 4 giorni. Poi basta. Vero è che non c’è stata promozione e che la schermata iniziale è stata fatta volutamente con un titolo nel font Arial: il più banale e bistrattato font di tutto l’universo fontesco. Però questo giochino, oggi chiamato “Zombie Hams” non è nuovo. L’avevo pubblicato qualche anno addietro su un altro portale per giochi chiamato Game Jolt. In Game Jolt c’è una specie di condivisione dei guadagni pubblicitari per cui, a seconda delle impressions e del numero delle giocate, c’hai la tua piccola fetta di introito. Continuo a considerare questo giochino abbastanza carino, difatti ho registrato pure qualche sincero apprezzamento tra i commenti, oltre che molte più visualizzazioni rispetto a itch.io. Ma forse erano tempi diversi e, soprattutto, piattaforme diverse.

Qualche tempo prima avevo pubblicato su Game Jolt un altro gioco che aveva una teoria del complotto sia nel sottotitolo sia nella trama, facendo riferimento ad una nota vip americana: avevo preso questa teoria del complotto da quella cloaca che tutti conoscete chiamata 4chan e avevo deciso di fare la classica roba un po’ scioccante (se pur divertente nelle meccaniche di gioco: anche lì una sorta di platform/puzzle). Qualcuno aveva pure deciso di farci un video su Youtube: un aspirante youtuber destinato a rimanere tale, almeno ai fini del reddito e della qualifica da scrivere sulla carta d’identità. La cosa più importante però era quella di esser stato messo nella homepage del portale e, soprattutto, esserci rimasto per qualche giorno.

Dice un’antica maledizione cinese: possano i tuoi sogni avverarsi.

Al termine del mio soggiorno in homepage, i numeri della mia dashboard parlavano di migliaia di visualizzazioni e di giocate. Quelli del mio saldo in soldoni fisici arrivavano sì e no ad un paio di dollari. Così si inizia a fare due conti: se si vogliono almeno i soldi per la pizza, occorre promuovere, scioccare, pubblicare su molti portali, avere un portfolio di giochini di buon livello, curare i social, creare una reputazione online… Però… fermi tutti. Aspettate un attimo. Questo è una specie di lavoro a paga aleatoria! Allora ti vengono in mente, come dice Fabio Volo, i minatori e quelli che asfaltano le strade sotto il sole di agosto e dici a te stesso: “Sei un viziato! Fai i giochini e non sopporti nemmeno un po’ di sporco lavoro di promozione, di cura della tua presenza online! E poi, quanto ti aspetti da un giochino online?”. Così ripensi a quanto tempo ci hai messo a fare Zombie Hams. Diciamo che l’hai fatto nei ritagli di tempo e che non ci hai impiegato più di cinque ore. Diciamo che il tuo guadagno è di cento dollari (cifra ultraottimista, ma diciamolo). Converti in euro, togli il 30% di tasse, ci metti i 60 euri del commercialista che devi pagare perché non basta più il Cud avendo come unico introito il tuo lavoro “normale” ma c’occorre la dichiarazione dei redditi. Quanto hai guadagnato? Nulla: hai perso 5 ore e qualche spicciolo.

Parliamoci chiaro, siamo tutti a favore di un mondo che sappia muoversi anche al di fuori della logica del profitto. Ma non possiamo contemplare un mondo che ignori, in generale, le regole dell’economia. Quando lo facciamo, vengono fuori perversioni di ogni genere, tipo l’associazione nazionale per la promozione della filologia romanza e della provola affumicata nelle grotte di Castellana, ovvero cose per le quali nessuno nella vita sborserebbe una lira, tranne lo Stato e qualche politico compiacente. Tutto ciò che è gratuito, inclusi i principali social network (Zurkerberg, scelgo te!) s’è scoperto dopo che ha potuto consolidare la sua esistenza solo grazie allo Stato e all’aspetto strategico e di controllo cui la funzione lasciava presagire. Quante start-up avete sentito nominare nei vostri tg locali di questo o quel giovane che creavano un nuovo social network molto di nicchia? Io, qualche anno fa, sentivo spesso di queste presunte success stories ma poi mi dicevo: questo ha preso un piccolo finanziamento a fondo perduto elargito dallo Stato e dal politico compiacente. Difatti, molto onestamente il giovane spesso si accontentava del contributo pubblico senza ambire alla benevolenza del mercato. C’era pure qualcuna di queste start-up che faceva un bel social network per chi doveva portare a pisciare i cani. Ma alla fin fine, pensavi, conveniva creare un gruppo Facebook sugli “Esploratori di luoghi ove portare i nostri amici a quattro zampe alla minzione”. Perché in conclusione il banco vince sempre.

E’ una questione matematica, si chiama “rovina del giocatore”.: certi siti matematici vi spiegano come, anche in presenza di un gioco equo, la differenza nella disponibilità finanziaria conduce alla fine il giocatore a perdere tutti i suoi soldi, a meno che non esca prima dal gioco.

In un gioco equo contro un banco illimitato ogni giocatore e' destinato a perdere.

Ovviamente, se il gioco non è equo, le probabilità di terminare prima per insufficienza di fondi sono moooolto più alte.

Qual è la conclusione a cui si arriva seguendo questo percorso tortuoso e carico di digressioni? Semplice: prima o poi l’economia viene a reclamare il suo tributo in termini di razionalità. E alla fine tutti gli entusiasmi si smorzano contro i numeri che non sono a favore.

Questo, secondo me, crea il presupposto per l’agire delle forze del caos (rappresentate dalla maggioranza della popolazione mondiale) affinché si rendano conto che esiste un modo più semplice per vincere: puntare una pistola alla tempia del banco. Non passerà molto tempo prima che qualcuno ci arrivi. Poi un altro. Poi un altro ancora. Quella sarà la fine dei tempi.

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Oggi vorrei parlare delle visual novel. Di tutte le forme di videogioco, le visual novel rappresentano quella più ibrida: difatti sono una via di mezzo tra film e romanzo e, per questa loro caratteristica, annoveriamo anche una scarsa interattività nelle loro dinamiche.

Però le visual novel sono un genere molto vitale a livello di produzione amatoriale. Il sito di riferimento per chi ci si vuole cimentare è quello della Lemmasoft ed è collegato al tool di creazione open source chiamato Ren'py (parte del nome deriva dal linguaggio alla base del programma: il python). Ci sono anche altre alternative: io stesso ho programmato un motore per visual novel in Lua che però non ho messo online nè ho mai utilizzato in un gioco completo. Difatti programmare un motore di visual novel è un esercizio simpatico che può tornar utile per creare le 'sequenze di intermezzo' dei giochi più poveri, che sostituiscono i filmati con schermate statiche e testo.

C'era un ragazzo italiano (non mi chiedete il nome né altri riferimenti) che ha utilizzato questo Ren'py per farci una serie di giochi di discreto successo: si tratta di vari Rpg (perché il motore si presta anche a questo) con forti componenti narrative e un'ottima grafica. Sia per la narrativa, sia per il disegno dei personaggi si è rivolto ad una persona che ha conosciuto sul sito della Lemmasoft. Vi vorrei dire questo nome ma sinceramente non me lo ricordo né riesco a rammentare il nome della sua software house (mi pare Eagle-qualcosa o qualcosa-Eagle ma potrebbe essere un animale inglese diverso). Perché racconto questo? Per dire che la visual novel è, a mio avviso, un buon punto di partenza per chi volesse diventare un indie e, se si riesce a produrre un prodotto di qualità, leggasi buon character design e brillante scrittura nell'idioma di Albione, si ha un mercato di nicchia assicurato. Sì, insomma, è relativamente facile emergere rispetto ad uno sparatutto online. Ah, dimenticavo di dire che gli Rpg di questo ragazzo italiano (che ormai non è più un ragazzo) avevano il classico character design in stile 'anime' e qualche pruriginoso elemento ecchi. Cioè roba un po' sexy, romanticismo e garbate spruzzatine di sesso.

Un altro caso che vorrei citare e che mi è capitato giracchiando per Patreon (non devo spiegare cos'è Patreon, vero?) è quello di un tizio che sta sviluppando un gioco chiamato “Summertime Saga”: qui il contenuto è molto più zozzo e il tizio si fa suggerire dai suoi sostenitori in quali porcate i suoi personaggi dovranno essere coinvolti. Lo cito perché è una dinamica interessante, non tanto per l'aspetto sessuale (sex sells, non devo spiegare anche questo, no?) quanto per indicare come i personaggi dei giochi – belli, brutti, carismatici, antipatici, sexy, ripugnanti – rappresentino una via molto efficace e piacevole per interagire col pubblico e consentirgli di affezionarsi al gioco.

Questo mi fa venire in mente, ad esempio, un gioco come Fire Emblem Heroes per cellulare, videogame che è una roba semplice semplice (uno strategico/rpg a turni da giocare su mini-mappe spesso un po' ripetitive) il cui punto di forza è dato dagli elementi gatcha (cioè pescare il personaggio desiderato dal proprio pool di evocazioni) e dal flavour text che si abbina ai personaggi stessi che appaiono a tutto schermo rivolgendosi al giocatore proprio come in una visual novel. Fire Emblem Heroes, fra parentesi, è pieno di fanservice e di personaggi programmati nel design per essere considerati waifu o husbando dal mite adolescente/adultescente in perenne vuoto sentimentale (non devo spiegarvi cosa sia quel sottoinsieme di cultura otaku che risponde al nome di cultura waifu, vero?)

Concludendo, questo è quello che so sulle visual novel. Ovviamente il fatto che nei miei post non metta alcun link esterno, nè collegamento ipertestuale di alcun altro genere è una precisa scelta stilistica. Non è pigrizia. Ripeto, non è pigrizia.

Alla prossima.

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Nel precedente post avevo provato a ragionare su come le possibili innovazioni per il videogioco potessero venire dalla “contaminazione” con la realtà e avevo fatto un esempio: un'avventura grafica in cui per avanzare è necessario trovare un indizio in un luogo reale.

Oggi vi spiegherò perché, in verità, questo approccio non avrà successo per quanto riguarda il videgioco. In altre parole, mi smentisco da solo. In altre parole ancora, me la canto e me la suono.

Prima di tornare all'esempio di prima, vorrei dire brevemente che il videogioco (e il gioco in generale) nasce sempre come emulazione della realtà e come tentativo di semplificarla per affrontarla meglio. Emulazione della realtà non significa solo simultore di volo ma anche simulatore di battaglia astratto come può essere, a ben vedere, anche una partita a scopa.

Il gioco tende sempre verso la realtà ma sembra avere una sua funzione efficace solo nel momento in cui i due ambiti del gioco e della realtà rimangono separati: in altre parole quando si gioca si gioca, quando si fa sul serio si fa sul serio. Se c'è confusione, si attua anche una sorta di boicottaggio del gioco.

Torniamo così all'esempio e immaginiamo che per proseguire in un'avventura grafica ci sia la necessità di andare a leggere la scritta su un muro di Petrabbondante in provincia di Isernia.

Il gioco espande i suoi confini ma, a che prezzo? Chi di voi è disposto ad andare in Molise per completare un'avventura grafica? Però magari è possibile chiamare qualcuno del posto per farsi aiutare oppure girare un po' per il paese con Google Street View...

Alla fine non sarebbe male nemmeno questo piccolo sforzo esterno, potrebbe anche trattarsi di una novità piacevole e significativa, in grado, oltretutto di sviluppare naturalmente la socialità e di promuovere il turismo del bistrattato Molise.

Ed è qui che entra in campo un altro fattore che, come una maledizione biblica, impedisce al videogioco di espandersi in questo senso nelle nostre vite. Si tratta una caratteristica essenziale, connaturata all'informatica: la pigrizia.

Il giocatore è pigro. L'informatica nasce come sublimazione della pigrizia. Il mio professore di matematica, quando diceva che avevo una mentalità informatica, trovava un modo elegante per darmi del pigrone.

Per capirlo, basta vedere il caso di un videogioco che ha tentato l'impervia e avventurosa strada di innovare invadendo la realtà: Pokemon Go.

Pokemon Go era (ed è) un'app della Niantic che ci consentiva di catturare i nostri amati (?) mostriciattoli giapponesi direttamente nelle nostre strade e piazze, utilizzando il sistema Gps. Per un po' ne è venuta fuori una moda che ha riempito servizi di telegiornali e pagine di quotidiani: si potevano vedere gruppetti di bambini, adolescenti e adultescenti bighellonare col cellulare in mano (e fin qui nulla di nuovo) tentando di catturare roba virtuale sullo schermo. Li si vedeva addensarsi soprattutto vicino ai luoghi che la Niantic aveva designato come palestre: queste ultime, in genere, erano piazze o luoghi di interesse artistico o ancora luoghi di culto. Ricordo un trafiletto del giornale locale in cui si parlava di come gli abitanti di una via avessero cominciato a protestare a causa del chiasso che veniva su la notte per gli “allenatori di Pokemon” che si radunavano in una palestra situata proprio su quella strada. Se questo non vuol dire ampliare il confine del videogioco alla realtà!

Cosa è andato storto? Niente in particolare, tranne il fattore pigrizia. Passata la novità, è emerso che il non poter giocare quando uno voleva era un po' una scocciatura: bisognava scendere in strada e raggiungere i punti di interesse. Questo implicava una forzatura 'fisica' che diventava ben presto inaccettabile.

Controller come il Kinect o la stessa realtà virtuale possono attirare lo stesso curioso interesse riservato ai Pokemon sul mobile. Ma ballare la Zumba su XBox la prima volta è esaltante, a lungo andare affatica inesorabilmente. Lavorare stanca, diceva quello. E se ci vogliamo stancare abbiamo alternative più valide e affermate: lo sport, il sesso o la passeggiata senza meta o scopo definito da app.

Il giocatore è pigro e il videogioco è l'apoteosi della pigrizia, un surrogato che ci evita di salvare il mondo trucidando alieni con fucili mitragliatori col rischio di morire o correre una gara di Formula 1 con l'eventualità di schiantarci contro un muretto.

E allora cosa rimane al videogioco per innovarsi? Com'è possibile creare una fertile connessione ed, eventualmente, confusione con la realtà? A mio avviso, una strada possibile è quella di creare delle mitologie collegate al videogioco. Faccio un esempio prendendo spunto dalla letteratura: i miti di Chtulhu. Creando un'universo abbastanza realistico è possibile convincere qualcuno che il Necronomicon esiste davvero e possa essere reperito in qualche libreria di un qualche eccentrico e inquietante collezionista. Nel videogioco questa dinamica non è mai stata portata fino in fondo perché l'esigenza di creare regole stringenti e mondi chiusi ha finito col limitare la sua potenzialità. Ci ha provato Gta San Andreas con il suo Epsilon Project (che in Gta V è diventato un achievement come un altro) e ci hanno provato in generale i programmatori del passato che forse avevano ancora qualche autonomia creativa e che infilavano nei loro titoli i cosiddetti easter egg: elementi incongrui che invitavano a esplorare il mondo di gioco per aspettarsi qualche sorpresa.

Ecco, secondo me il videogame ha arrestato il suo sviluppo da questo punto di vista. Non ha la reputazione del libro, non riesce a creare una sua mitologia seria e autorevole. E da qui dovrebbe ripartire, creando un senso di mistero che prefiguri un possibile intervento sulla realtà. Tracciando una mappa indefinita (senza Gps) che ci accompagni, anche al di fuori del gioco stesso, verso l'obiettivo.

Come, quale obiettivo? L'OBIETTIVO!

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Oggi vorrei parlare un po' delle tendenze videoludiche e di una possibile innovazione per il mondo del videogioco.

Intendiamoci: qualche post fa avevo dichiarato che il videogioco è bello che defunto o, quantomeno, che è venuta meno la sua funzione come “frontiera dell'innovazione” in ambito tecnologico.

In realtà il videogioco continua ad esistere e proliferare come prodotto, per quanto ci sia un suo eccesso come per tutte le merci.

La mia analisi si dividerà in due: – da un lato parlerà delle tendenze in voga attualmente nel mainstream, cioè dei fenomeni sotto gli occhi di tutti; – dall'altro tenterà di indicare un possibile campo inesplorato, attraverso un'idea personalissima, quindi di nicchia, quindi non generalizzabile, quindi probabilmente campata in aria.

Cosa fa il mainstream: apertura, socializzazione, theorycraft, condivisione (ma solo apparente)

Sono venuto a contatto con un po' di giochi del mondo mobile ma le considerazioni valgono anche per il PC: rispetto all'esperienza chiusa dei tempi passati in cui si faceva uscire il titolo che era bello che 'finito' (tutt'al più si rilasciava qualche patch per i bug più vistosi) oggi il videogioco è aperto.

Aperto al feedback degli utenti, aperto alle modifiche in corsa, aperto a nuovi DLC (contenuti aggiuntivi scaricabili), a nuove espansioni, a nuovi modi di sfruttare il marchio, il logo, le dinamiche ludiche.

Per chi ha studiato marketing, i videogiochi seguono a pieno titolo il ciclo di vita del prodotto fino alla fase finale: diventare la cash cow da sfruttare per far soldi senza introdurre più innovazioni di rilievo, fino all'obsolescenza e al conseguente abbandono finale.

Di enorme importanza c'è la funzione social: i giocatori devono venire in contatto tra loro e tenersi legati all'abitudine ludica l'un l'altro, attraverso clan, gilde, chat ma anche per mezzo di una buona predisposizione del titolo al 'theorycrarft', cioè la possibilità di discutere e ragionare strategicamente delle meccaniche di gioco.

Quest'ultima facoltà concede al creatore di contenuti esterno (youtuber ma anche utente di reddit, social, forum) di ricavare dei follower dalla propria attività creativa ma anche all'utente normale di condividere la propria creazione amatoriale e cercare attraverso di essa il confronto con gli altri e la loro approvazione. Creando un mini 'indotto'.

Ad esempio, parlando di Clash Royale, i giocatori possono condividere i propri deck originali (finché non finiscono le combinazioni significative...). Prendendo Fire Emblem Heroes, si possono postare le proprie build personalizzate dei vari eroi (cioè le combinazioni di abilità e statistiche). Ragionando di sparatutto online si possono condividere tattiche o, alla peggio, le proprie personalizzazioni estetiche del personaggio. A proposito di personaggi in gioco, c'è poi anche la possibilità di emulare qualche accesa discussione 'politica' quando si parla di modifiche di bilanciamento, cioé il periodico aggiustamento delle statistiche delle unità in campo che testimonia, una volta di più, come il videogame non sia più un'entità fissa e immutabile nel tempo ma un argomento in continua evoluzione e un'occasione di spettacolo e discussione.

Come si vede, i titoli multiplayer sono decisamente avvantaggiati in questo habitat videoludico.

Cosa rimane da innovare e implementare: il fattore realtà.

In questo scenario, risulta difficile trovare qualcosa di nuovo con cui rivoluzionare questo mondo per fornire nuove tendenze di successo (qualunque accezione si voglia dare all'idea di successo). Comunque, ci provo. Riassumendo all'osso ho un'unica idea da sviluppare:

Ampliare i confini del videogioco verso la realtà

Sappiamo che la strategia mainstream è stata quella di gamificare i social e socializzare i game. Ciò secondo me produce degli effetti collaterali, delle tossine che sono in grado di erodere lentamente il mondo del videogioco e l'esperienza di intrattenimento. Ultimamente i videogiochi sono quasi tutti gratuiti, tranne quelli delle console: un prezzo più alto li butterebbe fuori dal mercato. D'altro canto esperti psicologi e stregoni della mente umana si devono ingegnare in mille modi per far spendere, creando attraverso un game design ad hoc un mondo solo apparentemente aperto, in realtà terribilmente isolato. Mi spiego: è vero che nel videogame moderno siamo tutti connessi uno all'altro, in contatto e in competizione tra noi... ma lo siamo sempre all'interno del mondo di gioco progettato per noi, con le regole definite e modificabili a piacimento dai programmatori. Non c'è spazio per un crossover con un altro gioco e, tantomento, con la vita reale. Ecco, l'idea, come detto, è che alla fine possa venir fuori una domanda di realtà da parte del giocatore, stanco di finzione, bugie, artifici, limitazioni del claustrofobico mondo videoludico.

Qualche tempo fa (ormai parliamo di anni) ricevetti una mail da Mozilla in cui veniva proposta una jam avente ad oggetto la creazione di giochi che interagissero con le immense informazioni del web. In altre parole, l'inserimento di elementi di gioco 'esterni' al gioco stesso ma essenziali per andare avanti. Trovai l'idea subito interessante ma poi mi dimenticai di quella mail. Ripensando ai giochi in cui mi sono imbattuto successivamente, mi viene in mente solo un survival horror indie in cui per superare una porta era necessario consultare un file di testo che l'eseguibile di gioco aveva creato sul mio computer e un gioco di corse che sfruttava Google Earth. Per il resto... nulla.

Pensate ad un'avventura grafica in cui dovete fornire un parola d'ordine che, vi dice il gioco, potete trovare solo sul muro di una casa in via Mazzini n.8 a Pietrabbondante in provincia di Isernia. Oppure (ipotesi piú probabile) sul terzo scaffale da sinistra di un esercizio commerciale che sponsorizza il gioco. E che, al completamento dell'avventura, riscattando il codice ricevuto, vi regalerà un buono sconto.

Ecco, io credo che una possibile innovazione possa essere quella di espandere le possibilità del gioco anche nella realtà concreta. Una soluzione difficile al momento sia da concepire, sia da implementare, ma con un rischio concreto: creare ancor più confusione tra reale e virtuale, in cui non è chiaro se sarà la realtà a irrompere nel gioco o il gioco a irrompere nella realtà. Per il momento esistono ancora i social e l'economia delle piattaforme a impregnare le nostre interazioni software col gusto dolceamaro della realtà (di mercato). Però non è detto che il contatto più stretto col reale debba essere per forza una dinamica negativa per il videogame. Vedremo... la confusione nei nostri tempi regna sovrana ed è difficile profetizzare qualcosa.

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Se il videogioco è defunto, come ho scritto nel mio ultimo post, questo vuol dire che abbiamo la libertà di scrivere una nuova pagina, una pagina ora bianca. Il videogioco non è defunto, in realtà non è ancora nato. Ha provato a uscire dal ventre della nostra creatività ma è stato risucchiato in una forma commerciale, vendibile, standardizzata. Qualche indie ha provato a uscire dalla forma ma la forma ha ripreso inesorabilmente il sopravvento. I portali e le piattaforme hanno fagocitato i tentativi del videogioco di emanciparsi dalla forma commerciale.

Non è vero che il ricorso all'estetica e alla meccanica dei vecchi giochi, che ha caratterizzato fortemente la dinamica del gamedev indie, sono stati l'epitaffio del videogame. Non è vero che il revival è un indice del postmoderno.

Il revival è un tentativo di regressione, è una sorta di viaggio nel tempo. Fare finta che il gioco non sia mai esistito, riprovare a percorrere nuovamente quei primi passi verso un futuro di speranza per una forma espressiva che poteva aiutare ad ampliare la sfera del possibile come e più della letteratura e del cinema messi assieme.

Il bambino regredisce per far capire alla sua psiche che la fase precedente l'ha assimilata bene, che ora può andare avanti. Può crescere.

Credo che questo possa essere l'unico modo di creare videogiochi oggi: come modo per consolidare le nostre esperienze per poter andare avanti e crescere verso nuove responsabilità.

La responsabilità di fare delle scelte dolorose e capire che comportarsi con i fenomeni culturali legati al videogioco nel modo che è stato utilizzato finora non condurrà da nessuna parte.

Smettiamola di fare giochi per farci dire: guardatemi quanto sono bello. Guardiamoci noi dentro e mettiamo con sincerità nel videogioco quello che abbiamo, stravolgendone la forma, rivoluzionandone la sostanza. Lo scopo è sempre quello della razza umana: usare l'immaginazione per influenzare il reale.

Questo post non supera né le 500 parole, né i 5000 caratteri. Sticazzi.

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Prima di mettermi a scrivere per questo blog, ho voluto caricare almeno un videogioco. Si tratta di un videogame piuttosto classico nella forma e nella sostanza, con uno stile un po' retrò (è in pixel art) e con delle meccaniche già viste in centinaia di altri giochi (è un platform). Si chiama Zombie Hams e, a parte il fatto che non si tratta di zombie interi ma solo di prosciutti, non ci vedo molte novità. Ne ho di più originali ma questo secondo me è il più bello e quello che mi è costato più fatica: ci sono una decina di quadri giocabili, un boss finale, un level design un minino “studiato” e una discreta curva di difficoltà. La grafica è così così. Scrivo ciò non per dire quanto sia 'cool' il gioco ma per spiegare come faccia parte anche io di quanto andrò ad analizzare in questo post: insomma, mi sono sporcato le mani e, prima di predicare bene, ho razzolato. Bene o male non so, ma ho razzolato. Facciamo allora un passo indietro.

Un passo indietro

Si può scrivere una storia dei videogiochi attraverso la successione temporale delle console e i progressi tecnici del PC. Avendo vissuto soprattutto il gaming sul PC, sono però maggiormente titolato per narrare quest'ultimo lato di storia videoludica. Il primo lato (le console) si articola in salti tecnologici coincidenti con l'uscita delle varie macchine da gioco che si sono succedute sul mercato. Solo in apparenza la storia del gioco su PC sembra più lineare ma le discontinuità e i salti tecnologici non sono stati certo assenti (il più clamoroso è dato dall'avvento delle schede grafiche 3D) pur se talvolta fanno riferimento alle singole pietre miliari del videogame che si sono rivelate in grado di “sfruttare la potenza di calcolo del PC”. Per questo talvolta il software sembra avere il ruolo principale. Se però guardiamo più attentamente il quadro generale, notiamo come sia sempre l'hardware a giocare, nel lungo periodo, il ruolo di primo piano nell'innovazione. Quando smette di innovarsi l'hardware, generalmente finisce anche la novità sul lato software, specie per quanto concerne il videogame. Talvolta però, come vedremo, ci sono innovazioni hardware che non possono essere convenientemente sfruttate. Internet, social media e applicazioni web evolutesi fra addictiveness e colonizzazione commerciale sono un altro par di maniche che non tratteremo.

Un passo di lato

Facciamo ora un passo di lato. Forse sarà capitato a tutti di sentire l'aggettivo 'postmoderno'. Postmoderno vuol dire: il declino del moderno. L'era postmoderna non riesce ormai più a produrre nulla di nuovo e allora celebra il revival, il ricordo, il tributo e ciò che il miei amati blog di sincromisticismo chiamano “il risaputo storico”. In quest'ottica il film “Ritorno al futuro parte 2” assume valenza profetica: l'ennesimo seguito del film “Lo squalo” e il bar del futuro in cui Marty McFly ritrova la celebrazione delle icone del passato (cioè il suo presente) sono proprio un simbolo del postmoderno così come descritto in precedenza.

Un saltino sul posto

Ad un certo punto nell'evoluzione tecnologica del PC, lo sviluppo hardware, pur non arrestandosi, è giunto ad un vicolo cieco per via del software: sviluppare giochi mainstream AAA era diventato sempre più complesso, quindi costoso. Il livello di dettaglio richiesto dal 3D aveva raggiunto proporzioni impressionanti. La meraviglia data dallo sfruttamento delle nuove tecnologie si era affievolita. Ok, gli oggetti, finemente modellati e ricoperti di texture fantastiche, si potevano muovere con una fisica ultrarealistica... ma non era lo stesso senso di meraviglia del passaggio dal 2D al 3D. E, come insegnano gli esperti di marketing, l'unica qualità che conta è la qualità percepita. Se non è percepita (oltre che, nel caso del gioco, funzionale al gioco stesso) allora non conta. In questo clima 'postmoderno', in cui la novità pare essersi eclissata, spunta fuori il fenomeno indie.

Un (falso) passo in avanti

Quando esce il fenomeno indie nel mondo dei videogiochi, è già ormai prepotentemente avviato il declino dei videogiochi stessi. Era già diventato chiaro che l'hardware poteva fare ancora passi avanti ma il software non li poteva sfruttare più in ambito videoludico. Il videogioco era sempre stato uno dei motori dell'innovazione tecnologica; ad un tratto dimostrava di non stare più al passo. Per cui, arrivano i “giochini indie”. Sono le persone a partecipare alla creazione del gioco e a cercare di rivitalizzare l'industria. E laddove non ci riescono per limiti tecnici, le persone devono diventare il gioco attraverso la fruizione: è così che il multiplayer prende il sopravvento sul singleplayer. I giochi (post)moderni, per tagliare i costi e creare dipendenza, puntano tutti sul mettere a confronto (o uno contro l'altro) gli utenti. Non tutti, intendiamoci, ma il successo del multiplayer è innegabile. E dal punto di vista creativo, ovvero quello del gamedev indie? Beh, anche lì si è cercato, ad un certo punto di creare delle success stories o meglio, si è partiti dai prodotti più validi creati nell'ecosistema indie per promuovere un culto della personalità dell'indie developer. Ciò che ne è originato è stato quanto segue: – Molti hanno pensato di innovare le meccaniche di gioco ma non sono riusciti a sfuggire ad un'estetica che omaggiasse il revival, il remake e il 'risaputo storico': in quest'ottica si inseriscono tutti i lavori bidimensionali, specie in pixel art, specie quelli che si richiamano all'estetica delle vecchie console. E sappiamo quanto lo sguardo al passato sia indice di postmoderno. – In tanti hanno preso d'assalto i portali e i market (Steam in testa) e hanno svenduto il videogioco ad una logica subalterna a Youtube che imponeva di fare spettacolo in modo classico, con il gioco 'per ridere o scioccare'. Oppure si sono buttati sui temi alla moda: zombie, survival, open world non rifiniti ecc. In parole povere la perdita definitiva del concetto di videogioco come 'frontiera del possibile'. – Alla fine qualcuno è rimasto ma molti hanno capito che creare un videogioco non è come scrivere un romanzetto o fare un video su Youtube. Mancando un introito, tanto valeva allora giungere direttamente al video su Youtube senza passare per il contenuto. – La promessa di un mercato di massa dei creatori si è infranta contro le intrinseche difficoltà tecniche del videogame (quindi tempo e spesa) e contro un mercato saturatosi in fretta in cui emergere e ottenere visibilità era diventato un lavoro a parte (quindi era estremamente arduo metterci tecnica e autopromozione assieme).

Tutto questo mi fa talvolta pensare che il fenomeno indie non sia stato altro che un grande epitaffio del videogioco che fu. Videogioco che sembra aver trovato la sua forma definitiva, i suoi generi, le sue meccaniche base, nonostante la presenza di qualche scappatella indie simpatica. Sì, simpatica ma della stessa valenza di un addio al celibato prima del matrimonio combinato con le regole di una industria ipersatura. Per cui possiamo tranquillamente dire che, dopo l'ultimo sussulto di vitalità indie, il videogioco è irrimediabilmente defunto.

Questa è la conclusione logica a cui vi ho condotto e con la quale spero vi troviate d'accordo. E quindi? Quindi niente, ho già in mente il mio nuovo gioco, retrò e postmoderno al punto giusto.

Purtroppo quando si scrive un blog si devono fare affermazioni definitive, spero che almeno apprezziate che non abbia profetizzato la fine del capitalismo.

Nel prossimo post parlerò di come rivoluzionare il mondo del videogioco, oppure recensirò Clash Royale.

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