Il dolore è un sentiero che dobbiamo percorrere da soli. Andare da uno specialista del dolore – un medico, un prete, uno psicoterapeuta – vuol dire affidare a qualcuno il compito di far rientrare il proprio dolore in una narrazione: ossia di renderlo comune: e dunque falso. Perché tutto ciò che è sociale è falso, radicalmente incapace di verità. E tutto ciò che è vero è indicibile, perché irrimediabilmente singolare. Come la direzione, il verso-dove di questo dolore – che non è stanchezza, non è debilitazione, non è depressione, non ha alcun nome sociale, non è scritto su nessun libro: perché è mio. Perché sono io.
Non vogliamo essere felici. Vogliamo stare in una storia: individuale, collettiva, cosmica.
Nulla disgusterebbe più di un romanzo i cui protagonisti fossero, dall'inizio alla fine, felici; e così la nostra vita. La felicità arriverà alla fine, dopo mille avventure; e allora il romanzo cesserà. Terminata la storia, i personaggi escono di scena. Se li si riporta in scena, occorre che accadano altre avventure: nell'Odissea di Nikos Kazantzakis Odisseo dovrà rimettersi in viaggio per non morire di noia accanto a Penelope.
Vogliamo una storia. La felicità iniziale, poi la caduta, mille sofferenze, l'esilio, la lotta, la conquista, e poi ancora la perdita, e ancora la lotta, e la speranza, e la riconquista, e la vittoria finale, che sarà domani, non oggi – e un domani che non arriva — non deve arrivare mai.
Religione è ridurre il cosmo intero ad una narrazione, sottoporre tutto al potere di una storia. Bereshit è la parola che apre la prospettiva di senso della religione, che è sempre una prospettiva narrativa. E poiché all'altro capo c'è la liberazione finale, ogni religione è minacciata dal non senso: perché non c'è nulla che spaventi di più di una felicità priva di storia. Il Paradiso è anche peggio della morte. Il Paradiso è la dimensione nella quale appare il non senso di Dio stesso, in cui riaffiora la domanda che in realtà nemmeno la storia può tacitare: perché? Ecco, ora siamo ricondotti a Dio, ora siamo con Dio leholam. Ma: perché? Perché è Dio e non piuttosto il nulla? Cos'è questo Dio di diverso dall'essere stesso, da questo enigma per sfuggire al quale ci gettiamo nella storia?
La nostra visione del mondo è, oggi, astorica. Il cosmo che ci mostra la scienza non è riducibile a nessuna narrazione. Di qui l'importanza delle filosofie che fin dall'antichità hanno indicato la via di abitare il mondo, piuttosto che ridurlo a una narrazione: le filosofie ellenistiche, Lucrezio, Spinoza ecc. Ma sono filosofie della felicità: e noi non vogliamo essere felici.
In un giardino un albero troncato: e intorno fioriscono, magnifici, tulipani di diversi colori. Fiorire intorno a un'assenza. Quello che abbiamo da fare qui, più o meno.
Non c'è nulla che ci aiuti a trascendere il nostro io più che la considerazione della nostra morte, della nostra insignificanza nell'universo, del nulla che ci serra da ogni lato. Ma la religione giunge a rassicurarci: il nostro caro io è in realtà il centro stesso dell'universo, perché Dio lo ama. La religione non è che narcisismo cosmico-storico. Fatta eccezione per la mistica. Che però, quando è autentica, è sempre ateistica: Gott ist wahrhaftig nichts. L'ateo è solo un religioso che ha percorso il cammino fino in fondo.
La tensione tra religione e filosofia è la tensione tra storia e sistema. La religione inserisce la vicenda umana – e le dà senso – in una narrazione. In principio Dio creò il mondo, poi ha fatto altre cose; c'è stata la caduta, ma c'è la salvezza. Come ogni storia che funzioni, la vicenda umana inizia con l'idillio, poi si complica, trova il dramma: e quindi si risolve nella pace. La filosofia passa dal piano storico-narrativo al piano cosmico. Pone l'essere umano in relazione con l'universo, in una apertura orizzontale che non ha sviluppo alcuno. La filosofia per eccellenza è, da questo punto di vista, quella di Spinoza.
A mezzo tra la religione e la filosofia sono quei sistemi che combinano narrazione e riflessione sistematica sulla natura delle cose. Pitagora e Platone (la cui filosofia non è che uno sviluppo del pitagorismo), il Samkhya, Hegel, eccetera.
La realtà umana si dispiega in forma narrativa, il mondo no. Le religioni cercano di rispondere a questa scissione. Creano storie che cercano di piegare il mondo intero alla forza del racconto.
Quanta incoscienza occorre per portare avanti senza sbavatura la propria finzione? Come è possibile essere coerenti con il proprio sé fino alla fine? Non lo è: e si soffre, senza sapere perché. Si soffre del proprio non essere. Bello è soffrirne con scienza. Spezzarsi consapevolmente, consapevoli d'essere spezzati. Versarsi fuori, rigarsi di sangue e lacrime, stare nell'ebbrezza dello smembramento: farsi vasti e inutili come il mondo intero, e spezzarsi ancora, e ancora.
L'essere hegeliano è come qualcuno che si svegli un giorno in una stanza, senza sapere nulla di sé o del mondo. Chi sono io? Perché sono qui? Perché sono?
Questo essere così tragicamente gettato in sé stesso cerca disperatamente per la stanza tracce di sé: una foto, una pagina di diario. Qualcosa che gli dica chi è, da dove viene, dove va. E lo trova, dice Hegel. Andando fuori, anzi internandosi, dice: e pare di vederlo sorridere, mentre lo scrive. Trova un'essenza che è il suo passato, ma un passato non temporale. Wesen, gewesen.
Cosa troviamo noi, sul cui dramma è esemplato quello dell'essere? I più pigri, un fondamento, un'origine — un'essenza, in effetti. Dio, da cui proveniamo. Quelli che non si accontentano di soluzioni illusorie frugano in un intrico di atomi, di cellule nervose, di sinapsi. E scoprono che ciò che è più intimo, ciò che è più proprio, il sé che si sta interrogando e sta cercando ansiosamente la sua essenza, la sua origine, il suo fondamento e la sua ragione, non è nulla di reale; nulla che sia oltre qualche processo fisico, l'azione di qualche meccanismo fisico-chimico-elettrico. Il sé, alla ricerca di un fondamento, vede con sconcerto che il suo stesso interrogarsi è illusorio, perché illusorio è lui stesso in quanto interrogante. Trovata chiusa la porta dell'essenza, è ricacciato verso la prima opposizione: essere, non essere. La prima, tragica consonanza: essere è non essere.
E nel fondo del tragico, sente, è a volte la gioia.
Quello che chiamiamo io è una lucetta che a intermittenza si accende nella stanza di quel che siamo. E ogni volta che è accesa, ha la convinzione illusoria di essere sempre stata accesa e di essere l'intera stanza.
Quello di Thich Nhat Hanh è un buddhismo senza nibbida. I sutra insegnano che bisogna provare disgusto, nibbida appunto, nei confronti delle nostre sensazioni, del nostro corpo, delle nostre percezioni, della nostra stessa coscienza (Anattalakkhana Sutta, SN 22, 59). Si potrebbe tradurre — poiché il disgusto è una forma di avversione, e l'avversione non è un fattore di risveglio — indifferenza; si tratta del distacco che viene dal non provare più alcun attaccamento verso qualcosa.
Un lettore occidentale non può che esserne sconcertato. Indifferenza verso le sensazioni? Verso il corpo? Perfino verso la coscienza, il nostro sacro cogito? È una cosa inaudita; e il traduttore pudicamente renderà con “sereno disincanto”.