Spiegare e comprendere
Spinoza e Pascal. Il primo pretende di spiegare l'essere umano, il secondo cerca di comprenderlo.
Blog di Antonio Vigilante
Spinoza e Pascal. Il primo pretende di spiegare l'essere umano, il secondo cerca di comprenderlo.
L'essere umano, per Spinoza, può vivere in due modi: o secondo la ragione o secondo il desiderio (TP, II, 5: seu ratione, seu sola cupiditate ductus). In entrambi i casi, la sua azione si iscrive nelle natura. L'essere umano razionale non ha alcun primato sull'altro, sul desiderante. Est enim homo, sive sapiens, sive ignarus sit, naturæ pars. Entrambi sono parte della natura. Qualunque cosa si faccia, è parte della natura. Ma perché allora seguire la ragione e non piuttosto il desiderio?
L'essere umano, come qualsiasi essere vivente, cerca la potenza. Nel caso dell'essere umano, la potenza più grande è data non dalla cupiditas, ma dalla ragione. Chi segue la ragione è più potente di chi segue il semplice desiderio: humana potentia non tam ex Corporis robore, quam ex Mentis fortitudine æstimanda est (TP, II, 11). Ma questo potere della ragione non è a disposizione di tutti; non è in nostro potere seguire la ragione, così come non è in nostro potere avere un corpo sano (TP, II, 6).
La conclusione è che la natura ha fatto alcuni deboli, altri forti, e che i primi non possono fare nulla per fortificarsi. E poiché la ragione è anche la via per la libertà, la natura ha fatto alcuni liberi e altri schiavi — di sé, in primo luogo. Le conseguenze politiche di una simile visione non possono che essere terribili.
Spinoza dissolve l'aristotelismo spostando la sostanza al di là delle cose. Questa cosa qui, questa persona qui non sono sostanze, ma modi delle sostanza. La sostanza è ciò che può concepirsi per sé. Questo vuol dire che tutto il mondo che conosciamo è fatto di cose che non possono concepirsi per sé; e noi stessi siamo tali. Esattamente come nel buddhismo, ogni cosa esiste — e può essere pensata — solo grazie ad altro. In Spinoza resta una sostanza, ma rigettata nel fondo oscuro delle cose. Qualsiasi cosa se ne dica, è arbitraria. Partendo dal conatus, Schopenhauer potrà farne una Volontà cieca; ma il conatus non è che una espressione periferica di questo Inconosciuto Primo.
Si tratta, alla fine, dell'ipotesi di un Incondizionato che sia alla base del Condizionato. Ma questo è proprio, nel buddhismo, il nibbana. Ogni dhamma è condizionato. Ma dev'esistere un Asankhata Dhamma, un dhamma incondizionato.
Come nel buddhismo, in Spinoza la liberazione dal condizionato consiste nello spingersi oltre il mondo delle cose, consapevoli al contempo della necessità che caratterizza tutto ciò che è condizionato, inclusi noi stessi.
Tra gli aspetti che Deleuze considera rivoluzionari in Spinoza c'è la “trasvalutazione di tutte le passioni tristi”: “Quali che siano, in qualunque modo vengano giustificate, esse rappresentano il più basso grado della nostra potenza: il momento in cui siamo separati al massimo dalla nostra potenza di agire, alienati al massimo, in balia dei fantasmi della superstizione, delle mistificazioni del tiranno” (Spinoza. Filosofia pratica, Orthotes, Napoli-Salerno 2016, cap. II). Ma nel Trattato politico Spinoza afferma che la moltitudine è spinta ad associarsi non dalla ragione, ma per una qualche passione comune (sed ex communi aliquo affectu), come una comune speranza, o paura, o desiderio di vendetta. Si aspira allo stato civile per la paura della solitudine (solitudinis metus) (TP, VI. 1). Speranza, paura. Le passioni tristi per eccellenza. Tutto ciò che riguarda la società e la politica porta il segno di questa tristezza originaria. Se una gioia è possibile, va cercata altrove.
Difficile trovare nella storia della filosofia qualcosa di più cupamente pessimistico del Tractatus Politicus di Spinoza. È la riflessione di un uomo i cui amici sono stati linciati e squartati in piazza da una folla inferocita. E dunque: homines natura hostes, e questa loro natura feroce tende a venir fuori anche quando sono ristretti in una società civile (VIII, 12). Qualunque cosa l'essere umano faccia, fa parte della natura: che uccida o ami. Il sapiente e l'ignarus sono del tutto uguali davanti alla natura; quello che fa il primo non si distingue da quello che fa il secondo (II, 8). Nell'Etica ha indicato una via d'uscita, la possibilità di una vita libera e razionale. Ora sembra che la sua fiducia si scontri con un paradosso che non è diverso dal paradosso della fede cristiana. Perché per salvarsi occorre la fede, ma nessuno può acquisire da sé la fede; è grazia divina. Lo stesso vale per la ragione (ed è significativo che il paradosso emerga proprio in un passo in cui polemizza con i credenti). Alcuni, scrive, pensano l'essere umano come una creatura diversa dalle altre — veluti imperium in imperio concipiunt —, ma l'esperienza insegna quod in nostra potestate non magis sit, Mentem sanam, quam corpus sanum habere (II, 6). Non abbiamo il potere di rendere sana la nostra mente, più di quanto non abbiamo il potere di darci da soli la salute del corpo (un argomento che nell'Anattakhalana Sutta il Buddha usa per dimostrare che non c'è identità né nel corpo né nella mente). Nessuno può fare in modo che vi sia in lui ragione, se la ragione non c'è. Non si può scegliere la ragione più di quanto si possa scegliere la fede. E tutto quello che c'è da dire, alla fine, è che trahit sua quemque voluptas: ognuno è trascinato dal piacere.
Per vivere abbiamo bisogno di essere certi del nostro valore. Ma il nostro valore è affermato sempre dagli altri. Per vivere abbiamo bisogno di ottenere in qualche modo che gli altri ci diano valore. Questa è la fonte di ogni angoscia, la ragione della più profonda disperazione, il motivo per il quale, dietro la retorica dell'amore per il prossimo, cova in ognuno di noi un radicale odio per l'altro — l'odio che ogni schiavo prova per il proprio padrone. Un odio complicato, in quelli che sono più consapevoli — e dunque più sofferenti, perché qui auget scientiam auget et dolorem — dal sapere di essere essi stessi carnefici dell'altro, padroni, autori di soggettivazione sociale. È come se il nostro corpo dovesse conquistarsi di continuo, assumendo questa o quella posizione scomoda, l'ossigeno di cui ha bisogno. Potrebbe sopravvivere solo logorandosi giorno dopo giorno. E questo logoramento lento ma implacabile è la nostra vita in quanto esseri sociali — in quanto persone. Procurarsi scientemente la disapprovazione generale è un primo passo per scuotere la catena sociale. Il secondo è liberarsi dall'idea stessa di valore personale.
Ora. Questa immagine, questa sensazione, questa voce. Un suono. Un dolore. Un piacere. La vita che si dà, ora con una carezza, ora graffiando la pelle. Ora: io che vedo questa immagine, ho questa sensazione, provo questa voce. E dietro tutto questo la mia opacità. Il tempo che passa, la vita che diventa fragile, gli anni che si accumulano e premono. Il fastidio di essere me, l'impressione di essere chiuso in un guscio da cui non posso sfuggire. Qualunque cosa accada, accade a me, e questo rende miserabile qualunque cosa. Miserabile e dolorosa. Basterebbe lasciar accadere l'ora. L'immagine, la sensazione, la voce. Ognuna per sé, così come si presenta. Senza giudizio, senza opacità. Non l'occhio che guarda l'immagine, ma l'immagine che è nell'occhio. Bisognerebbe lasciarsi squarciare dal mondo. Essere io è soffrire. Quale oscura dannazione ci spinge a dire di continuo io?
Gli altri, in quanto tali, possono offenderci, umiliarci, straziarci, torturarci, perfino ucciderci. Ne hanno il diritto: sono altri, li abita la negazione. Quello che non hanno il diritto di farci è amarci.
L'io è uno scibbolet, ridicolo e fragile come tutto ciò che è sociale — a story told by an idiot. Quello che sono è un caos che non genera alcuna stella danzante. Un sussurro che cerca di farsi silenzio.
Alla fine dei nostri giorni ci verrà chiesto chi siamo. E noi, per dolorosa abitudine, balbetteremo qualche parola sulla nostra situazione sociale. E una risata ci seppellirà per sempre. Potremmo essere eterni, se non fossimo sociali.