norise

Commento alla poesia Stanze di Felice Serino

STANZE

[ispirata leggendo Il corponauta – appunti di viaggio di uno spirito libero, di Flavio Emer]

io pensiero dilatato

a spolverare le stanze dell'oblio

sulle pareti la memoria

ancestrale

metteva in luce emozioni dipinte

su volti che furono me

rifluiva dai bui corridoi

degli anni il vissuto

a imbuto

mi perdevo come in sogno

nell'abbraccio di quelle figure che

accendevano il mio sangue

STANZE DAI SOFFITTI ALTI

Ombre cinesi sulle pareti della stanza, sui piani alti del cielo sui nembi delle nubi: profili di un volto nelle dormite del tempo, il volto di Felice Serino ora ragazzino ora maturo, ora bambino ora maggiorenne.

La vita si stampa nei cieli e noi aguzziamo l'occhio per vederla e lasciamo crescere le penne per afferrarla nel volo.

Non ci si possiede e allora la nostra anima trasborda, si libera delle staffe, si fa risucchiare dai cieli come spirale nell'imbuto. La carne non ha più debolezze se quell'istinto cattivo lo muove l'anima che non c'è. Se la testa e il cuore se ne sono andati insieme…

E' amaro e faticoso tornare da viaggio e rioccupare la cella del corpo, sappiamo però che sarà per poco perché il nostro indirizzo è andato oltre, il nostro sogno non è fermarsi mai.

Saper convivere, accettare e magari sorridere quando si pensa alla nostra “carne”, al nostro essere limite, devianza, beh, non è semplice. Ci vuole un allenamento costante, un equilibrio notevole.

Un'elasticità che passa la misura del nostro orgoglio, della nostra presunzione.

D'altronde è Dio che deve salvarci e non noi con le armi che non abbiamo. La volontà (unica arma) da abbinare alla fede, o il desiderio, chiamiamolo come ci pare, sono le nostre braccia tese che solo

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ACCOSTAMENTI A “CREATURA” DI FELICE SERINO

(riflessioni, riferimenti personali ed altro)

CREATURA

mi godo la luce

come farfalla

sul palmo della tua mano

Signore non posso

che offrirti il mio niente –

fragile creatura

ti devo una morte

Quante morti, per non pensare a quella ultima, abbiamo reso a Dio?!… e, quindi, quante resurrezioni!

C'è un'intuizione strabiliante in questa poesia.

Ovvero la figura della farfalla abbinata alla morte.

Qualche anno fa ho avuto il privilegio di seguire da vicino un ragazzino dodicenne malato di tumore (uno dei cancri più rari e tremendi).

L'ultima volta che l' ho potuto portare davanti casa, semi-seduto su una sdraio, ho assistito a questa scena. Aveva una piaga sul ginocchio sinistro e, mentre si stava meditando il rientro, un nuvolo di farfalle bianche (le cavolaie) andò a posarsi su di lui e a baciare quella ferita. Era coperto di farfalle, stettero in quel posto sacro, su quell'altare umano per minuti che sembravano eterni, prima di allontanarsi come uno sciame d'api venuto dal nulla.

Era il segno che stava per essere accolto, dopo la morte, da quella luce straripante che in quegli istanti particolari ci aveva invaso.

I giorni seguenti videro Samuele (così si chiamava) in coma. Un pomeriggio pensai che era il caso di portargli la comunione e pregare un po' insieme. In effetti si svegliò dal coma e pregò profondamente insieme a tutti i presenti (familiari e amici). Il mattino dopo sullo stradello che porta a casa sua trovai una cavolaia morta. Piombò dentro me il dolore della perdita assieme alla certezza consolante di avere un santo, ora presente, “solo” in maniera spirituale.

Le morti interiori a causa del male commesso sono l'offerta del nostro niente a Dio. Offerta per il rifacimento totale del nostro essere che cerca la vita nuova nella grazia.

La morte può essere intesa pure come liberazione dai pesi terreni, la zavorra che si stacca dal nostro corpo che acquista leggerezza e sale nel cielo pari a una farfalla e, delicatamente, va a cercare la mano che l'ha generato e vi si posa [per sempre].

C'è un altro significato che mi preme venga messo in luce. Quello che sta a dire: la mano del Signore mi ha salvato ora gli devo la vita (o meglio, quella gliela dovevo anche prima, ora gli “devo una morte”.

Andrea Crostelli

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TEMPO MALATO / DOLORE DI TEMPO

Frasi sulla poesia “IL PECULIO DI LUCE” (a Simone Weil) di Felice Serino

IL PECULIO DI LUCE

(a Simone Weil)

1.

(occhi come laghi

abbracciano da eco

a eco fremiti di vita)

ha mani che sfondano muri

di solitudine – amore

2.

germoglia grido di luce

da nuovo dolore

Tornano a te, come in un lago al centro della sua valle, gli echi della tua voce-dolore-di-tempo, di quando pronunciasti frasi o pensieri appena ieri, o tornano a te gli echi di chi, in un tempo più remoto, ti assomigliava nel suo “sentire”. Perché l'eco è un sentire che può arrivare dalle orecchie al cuore. Queste sono le “mani che sfondano muri” (e anni), mani prolungate in gesti d'amore e alzate in inni di lode.

L'eco della “luce” sorge come un grido potente di vittoria che abbatte mura di Gerico (la preghiera “funziona” quando uno non dubita che otterrà quel che chiede, anzi sa già di averlo ottenuto prima che questo accada), che stronca le resistenze nemiche più volitive, che smaschera la “notte” con le sue abissali contrapposizioni del bene e con l'offerta lieta delle proprie pene.

E' così che Felice Serino si specchia negli occhi di Simone Weil (intravede il suo sorriso come una mano tesa), è così che Felice Serino si specchia nella vita piena.

Andrea Crostelli

Breve commento alla poesia di Felice Serino

Se questo mondo

se questo mondo ti ha forse

deluso è perché ho lasciato

che ti perdessi e dal tuo

vuoto mi tendessi le mani

su me che sono Altro

roveto che arde e non consuma

scommetti pure la tua vita

non vergognarti di me che sono il giorno

ho offerto il mio Essere

carne e dio

al supplizio del legno

mia rivincita d'amore

sono il mattino che ti coglie

-cuore di madre

Dio è ben diverso da noi, è ALTRO.

Si può scommettere pure la vita su di lui ché mai ci farà vergognare di averlo sposato. La notte ci disorienta, IL GIORNO parla con la luce e la chiarezza. La notte ti uccide, IL MATTINO ti coglie vivo.

Questo mi fa pensare a un fiore che strappato dalla terra continua a vivere.

Andrea Crostelli

Riflessioni sulla poesia di Felice Serino

SPAESANO LE ORE DEL CUORE

i primi turbamenti i morsi

dell'amore – luce

d'infanzia come sogno scolora

dove l'orizzonte taglia il cielo

spaesano le ore del cuore

nel giorno alto

Quando t'innamori le budella sembrano contorcersi o un vuoto pieno ti sorprende con i suoi prendi e lascia. Sono “i morsi dell'amore” quelli che mangiano al posto tuo e ti tolgono l'appetito.

Ricordi dell'infanzia, luci che a tratti ritornano. C'è ora però una consapevolezza del mondo, uno sguardo maturo che si staglia all'orizzonte dove il vissuto va ad abbracciare la linea immaginaria dell'infinito.

La chiarità delle distanze non può che farci pensare che un giorno quella linea che ci separa dal cielo (l'orizzonte) si cancellerà.

E andremo verso la consapevolezza piena. In questo mondo che si allarga a dismisura “nel giorno alto”, in questo mondo che i nostri occhi perplessi a volte non riconoscono – come se la sua creazione avvenisse in quell'istante che lo si fissa – sperduti ci troviamo: agnellini che belano timidamente in un campo con le sue ampie vallate, gli strapiombi e le vallate ancora, dimentichi di noi stessi, rimpiccioliti fino all'estremo e rimessi nelle mani di Qualcun Altro dall'umiltà che ci salva.

Oh l'amore, quello che ci fa provare l'amore, è un bocciolo profumato di rosa che (per quanto duri poco) torna sempre fresco. Torna, con la sua magnificente indistruttibile novità.

Andrea Crostelli

A RISALIRE VORTICI

(a cura di Luca Rossi)

a specchio di cielo

cuore

a risalire vortici

di vita dispersa

(d'ore

ubriache)

vorresti tuffarti

nell'azzurro fonderti

con la luce

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell'Autore]

*

C'è un tempo durante il quale si svolge tutta l'azione che corre lungo i versi di questa poesia.

E' un momento ben preciso che corrisponde a una parentesi (forse della vita, ma nello scritto a un chiarimento del contesto) che l'autore pone esattamente a metà del suo scritto.

Sono le “ore ubriache” che dividono l'azione faticosa della risalita tra vortici di vita e la probabile e rapida discesa del tuffo.

Tra la salita e la discesa una pausa, un momento in cui riflettere per decidere.

Una vita dispersa che passa rapida, vorticosamente, dove il cielo è solo specchio di una realtà che forse, pur ritmando i tempi del cuore, è troppo veloce.

Cuore: parola isolata, posta in risalto, dello stesso colore del cielo in cui si riflette e in cui trova il suo complemento.

Restano le ore ubriache come momento in cui rimanere.

Trovare, all'interno di queste, il coraggio del tuffo per gettarsi definitivamente nell'azzurro che è passato, che è presente, che sarà futuro.

Posizione di stallo per rivivere senza rimpianti la luce, unico scopo dell'esistenza e dell'azione.

Unico motivo per il quale vale la pena tentare.

Storditi dal tempo e confusi; lasciare la fatica della salita per cadere in un qualche cosa che si è sempre voluto.

Dicembre 2000

AZZURRE PROFONDITA'

(a cura di Luca Rossi)

la testa affondata nel cielo (azzurre

profondità rivelano ombre

essere i corpi) – il foglio la mano un

vuoto –

mi levo dal sogno bagnato

di luce

[da Fuoco dipinto – 2002, edizione dell'Autore]

Felice Serino

*

Non c'è indugio nel chiederci se sia vero o meno ciò che questa poesia vuole esprimere.

Viviamo a lato di noi stessi senza conoscere la realtà che ci accompagna perché siamo solo ombre che non si levano al di sopra dell'oggetto di cui disegniamo l'immagine e non possediamo nulla che ci consenta di separarci da ciò da cui dipendiamo senza perdere la nostra identità, la nostra capacità di potere distinguere, di potere testimoniare una verità che è tutta un'esistenza, che ci consente di oggettivare il senso e la distanza che ci coinvolgono – senso come significato delle cose che il sogno racchiude e distanza come confine tra desiderio e realtà.

Ci leviamo dai sogni in cui siamo caduti bagnati ancora dai bagliori del giorno perché la notte ci creda solo figli della luce quando il sole rischiara l'oggetto da cui prendiamo forma.

Poi siamo pronti a scomparire per essere forse solo allora dei corpi la cui realtà non è altro che la notte in cui trovare rifugio.

Siamo il foglio sopra il quale scrivere una storia; siamo la mano che la descrive, ma siamo anche il vuoto, quel vuoto che ne seguirà non appena la nostra condizione muterà per rivelare quella diversità che ci portiamo dentro.

Siamo ombre che credono ai sogni da un lato (il corpo che vorremmo essere) e corpi che forse vivono solamente di illusioni dall'altro (l'ombra quale giustificazione dell'esistenza del corpo).

Corpi e ombre, ombre e corpi: due realtà per un'unica condizione che non chiede altro che di essere considerata per continuare a esistere.

Giorno di Pasqua 2001

Sono un mistero a me stesso

da me una distanza mi separa:

attraversa un incendio

la carne: per farla d'aria – vitreo

sperimento

mistero a me stesso

e il mondo m'è fuoco dipinto ¹

Da Fuoco dipinto, 2002

¹ verso da Maria Luisa Spaziani

Felice Serino

*

Felice Serino con la sua sintetica poesia merita, certamente, una particolare attenzione perché con voce profonda sa esprimere le sue visioni, fatte e approfondite anche scientificamente. L'essere mistero a se stesso è una genuina necessità del recupero di tensioni interiori, che il poeta con i suoi versi brevi pare voglia esprimere sentimenti di fuoco per distruggere e disperdere nell'aria il suo essere. La poesia di Serino è esaltante proprio per le osservazioni attente che coinvolgono ogni lettore nel mistero.

[giudizio critico dalla pagina web “Poeta e pittori del terzo millennio”]

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un pò ti cerchi un pò ti butti via…

GIOVINEZZA

Prati teneri, intenso verde,

caviglie agili, snelle

dal venticello gaio frustate…

palpiti e sussurri, risa;

acqua di ruscello

fresca, tersa

come i miei pensieri:

una tenera ansia da consumare.

Un altro Io era quello…

Lasciai lì le mie ceneri

sparse al vento.

_ _ _

Questa mia poesia è dell'anno 1967 e chiude una breve raccolta pubblicata sotto pseudonimo (da me ripudiata). Delle altre, è quella non da salvare ma che mi fa meno 'sorridere'…

Ma devo confessare che della mia giovinezza ho poco da sorridere: rivedo un ragazzo piegato sulla solitudine, forse un pò voluta (una vita incolore, un pò ti cerchi un pò ti butti via), preso nella spirale di una mania depressiva che mi spinse a un tentativo di suicidio.

Sono gli anni più belli? Dicono. Mah!; difficile la maturazione in quel periodo acerbo, età definita 'ingrata', quando non si hanno punti precisi di riferimento e manca l' affetto familiare, manca l'amore, un amore vero e pulito per cui ti alzi la mattina e ringrazi Dio di essere vivo… Un'età avvolta di fragilità esistenziale mascherata di aggressività; – tiri fuori le unghie anche se spesso te le rivolti ad affondarle nell'anima…

Pensare di morire a quell'età! Sta di fatto che il mio pensiero fisso sulla morte si rispecchiava in quelle poesie giovanili.

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Commento alla poesia di Felice Serino “La tua poesia”

Di Luca Rossi. Giugno 2003

LA TUA POESIA

quando un capriolare nel mare prenatale

ti avrà fatto ripercorrere a ritroso

la vita (tutta d'un fiato) azzerando l'Io spaziotempo –

allora leggerai la vera sola poesia aprendo

gli occhi sul Sogno infinito: la tua

Poesia cavalcherà in un' albazzurra i marosi

del sangue fiorirà negli occhi di un'eterna giovinezza

Da La difficile luce, 2005

*

La poesia scritta da Serino è tutta un inno alla giovinezza, ma non alla giovinezza in generale, bensì a quella dell'anima, la quale non si consuma ma resta sempre uguale, e che il tempo non dissipa con il suo correre inarrestabile; è un'indicazione sul modo di come fare per riappropriarsene, quando ormai i giorni sembrano non averne più memoria ed è pure un canto alla verità su cui si basa l'esistenza.

Aprendo la prima strofa con un verbo “montaliano”*, il poeta immerge fin da subito il lettore nelle acque di un mare che è origine, inizio, ora zero, epifania della vita, cioè quello del grembo materno, in cui la madre è ricordata, in modo traslato, un po' come la madre Terra, da cui tutto è generato. E non potrebbe essere altrimenti.

Per un attimo sembra che a un punto esatto dell'esistenza, facendo capriole, come è tipico dell'età infantile, colui che legge faccia ritorno a quel tempo originario, primordiale. E la vita rapidamente inverte il conteggio delle sue ore, dei suoi giorni, dei suoi anni fino a pochi istanti prima del suo nascere; un ritorno che è segnato dalla corsa rapida del pensiero che si fa viaggio, perché il “pensiero” è sinonimo per eccellenza di velocità che brucia lo “spaziotempo”, come lo definisce Serino, in cui l'essere vi si trova immerso.

Ed è in questo preciso punto che il poeta ci fornisce la chiave di lettura del testo; nel momento in cui dice (con parole che hanno un che di sapienziale e dal fascino indiscutibilmente bello, nel senso più ampio del termine) che solo allora “leggerai la sola vera poesia aprendo gli occhi sul Sogno infinito”.

Eleganza del verso e simbolismo indiscusso di tutta una rappresentazione di segni e concetti. E non è un caso se la parola poesia riportata nel procedere della lettura è scritta in carattere minuscolo la prima volta ed in maiuscolo la seconda; non si tratta di un errore, non è una distrazione di chi scrive e neppure una “licenza poetica”, in quanto la prima raccoglie la vita nel suo significato generale, quella sociale, magari vissuta superficialmente, banalmente, senza prestare attenzione ai segni criptati che ci provengono da un destino già scritto, mentre nel secondo si vuole fare esplicitamente riferimento alla vita del singolo, quella del lettore che diviene il vero protagonista del messaggio a cui il poeta vuole indirizzare il suo pensiero.

Meriterebbero questi primi due aggettivi e il sostantivo che ne segue alcuni approfondimenti, percepire il pensiero di chi scrive.

Il primo, vera, in quanto autentica, coerente con il proprio Io, con il proprio credo, che forse è andato perduto con l'avanzare degli anni. Ma è solo una percezione, un'intuizione a cui il poeta ci dice di porre attenzione.

Dopo tutta una vita spesa per “farci notare”, per non essere esclusi dal progresso nel quale se non si lascia un segno non si è nessuno, la riflessione stessa a cui siamo stati chiamati ci porta a fare un'analisi storica del nostro vissuto, interrogandoci sul fatto che sia stata proprio quella la via che volevamo percorrere,e che siamo stati costretti a calpestare, per fare “sentire” la nostra voce in mezzo alle voci di coloro che hanno voluto gridare di più per apparire, per sembrare, per affermarsi.

Ed è in quel momento che la verità si fa strada e si rivela per quella che è, nuda, scarna, senz'ombra, gettando quasi un alone di colpevolezza sulla propria coscienza che ci portava a credere di essere nella verità.

Sola, perché non ne esiste un'altra. Non esiste un'altra verità che può essere uguale alla nostra, confrontabile, similare, un io uguale all'altro col quale porre limiti e infiniti orizzonti da cui trascendono i progetti.

Non è confrontabile un vissuto con l'altro, per quanti errori o cose positive abbiamo compiuto all'interno della nostra vita.

Portiamo con noi una serie di prove da superare che forse non riusciremo a portare a termine, un'infinità di progetti che vedremo fallire, ma anche la speranza che forse qualcuno un giorno, fosse anche il fratello che proviene da lontano, il pellegrino per eccellenza (inteso in senso cosmopolita) possa comprenderle (nel senso etimologico del termine, prendere-con-sé).

Portiamo con noi anche le cose belle, compiute, quelle positive, costruttive, dalle quali però il più delle volte ci aspettiamo riconoscenza, e non dovremmo, perché la vera Poesia, e qui il sostantivo inevitabilmente viene riportato in caratteri maiuscoli, deve rimanere anonimo, noto solo agli occhi di Colui che tutto vede e di cui noi abbiamo conoscenza per fede e testimonianza teologica.

Qui il sostantivo acquista il suo vero significato, insindacabile, indiscutibile della creazione.

Difficoltà estrema quest'ultima (indicata dal poeta con riferimento ai marosi) dell'uomo, di cui la parola sangue ne rievoca chiaramente l'immagine e ne sottolinea l'unicità, quasi fosse una carta d'identità, e con la quale è chiamato a vivere senza mai perdere la sua vera bellezza, che il poeta recupera prima della chiusura, in direzione di un azzurro verso il quale cavalcare; colore di una giovinezza che fu, che continuò a essere e che sarà, ogni qual volta l'eternità ci chiamerà a volgere lo sguardo verso un mondo che adesso non è più, ma nel quale fino a un attimo prima eravamo vissuti.

  • Capriolare.