GIOBBE – Capitolo 17

1Il mio respiro è affannoso, i miei giorni si spengono; non c'è che la tomba per me! 2Non sono con me i beffardi? Fra i loro insulti veglia il mio occhio. 3Poni, ti prego, la mia cauzione presso di te; chi altri, se no, mi stringerebbe la mano? 4Poiché hai tolto il senno alla loro mente, per questo non li farai trionfare. 5Come chi invita a pranzo gli amici, mentre gli occhi dei suoi figli languiscono. 6Mi ha fatto diventare la favola dei popoli, sono oggetto di scherno davanti a loro. 7Si offusca per il dolore il mio occhio e le mie membra non sono che ombra.

8Gli onesti ne rimangono stupiti e l'innocente si sdegna contro l'empio. 9Ma il giusto si conferma nella sua condotta e chi ha le mani pure raddoppia gli sforzi. 10Su, venite tutti di nuovo: io non troverò un saggio fra voi. 11I miei giorni sono passati, svaniti i miei progetti, i desideri del mio cuore. 12Essi cambiano la notte in giorno: “La luce – dicono – è più vicina delle tenebre”. 13Se posso sperare qualche cosa, il regno dei morti è la mia casa, nelle tenebre distendo il mio giaciglio. 14Al sepolcro io grido: “Padre mio sei tu!” e ai vermi: “Madre mia, sorella mia voi siete!”. 15Dov'è, dunque, la mia speranza? Il mio bene chi lo vedrà? 16Caleranno le porte del regno dei morti, e insieme nella polvere sprofonderemo?“.

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Approfondimenti

17,1-7. Giobbe, ancora, supplica, chiede a Dio di volgersi a lui, di impegnarsi in suo favore (v. 3), poiché, nonostante la sua prossimità con la morte (vv. 1.7), è circondato da gente che lo deride e lo tormenta (v. 2). Particolare è inoltre la constatazione di Giobbe di essere diventato un proverbio (v. 6), di presentare dei tratti così caratteristici di cui tutti parlano, e con disprezzo (cfr. Dt 28,37; 1Re 9,7). Rimane aperta la questione su chi lo ha reso così (v. 6a). Il soggetto infatti volutamente non è esplicito. Pertanto può trattarsi di Dio (cfr. Sal 44,14-15), oppure si riferisce all'empio, ai beffardi dei vv. 2.5a.6b. (cfr. Sal 69,11-12). Infine può alludere all'afflizione, che Giobbe ha rappresentato come testimone d'accusa menzognera, in 16,8. Riteniamo che vada rispettata la significativa apertura del testo con la pluralità di possibilità riguardo al soggetto. La tragedia di Giobbe è resa più profonda, infatti, dal continuo concorrere di una pluralità di eventi contrari.

vv. 8-16. In precedenza Giobbe aveva considerato lo sconcerto (cfr. 16,7) da lui destato all'interno della sua comunità, ma ora (v. 8) afferma che i retti, pur nello sgomento per la sciagura, si ergono contro le accuse degli empi. Contro l'insinuazione di Elifaz (cfr. 15,4) Giobbe asserisce che colui che è giusto, anche nella sventura (propria o che colpisce un altro), persiste nell'integrità e accresce la sua forza nell'attesa di Dio (v. 9; cfr. Is 40,31; Sal 64,11). Invece, fra tutti coloro che, come gli amici di Giobbe, si reputano rappresentanti e detentori della conoscenza (v. 10; cfr. 15,9-10; Is 5,21) non si troverà un saggio. Le considerazioni di Giobbe sollevano delle questioni, sottese alla dinamica che la Disputa va evidenziando, di grande rillievo dal punto di vista gnoseologico e pertinenti all'evoluzione del dibattito sapienziale in Israele, a cui il libro di Giobbe offre un contributo essenziale. In particolare esse prospettano un confronto fra la conoscenza dell'uomo, anche riguardo a Dio, intesa come processo aperto ad apprendere dall'esperienza e dalle provocazioni dell'esistenza e della storia (come per Giobbe), o come un corpo ormai stabilito e regolato di informazioni e di cognizioni (come per gli amici di Giobbe). Le parole di Giobbe riaffermano che per lui la vita è il limite invalicabile entro il quale l'uomo raggiunge il suo significato e può godere della relazione con Dio (cfr. Sal 88,11-13), e per questo la morte, con il suo carattere definitivo, desta in lui un profondo sconforto.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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