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DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

Capitolo XXXIV – La distribuzione del necessario

1 «Si distribuiva a ciascuno proporzionatamente al bisogno», si legge nella Scrittura. 2 Con questo non intendiamo che si debbano fare preferenze – Dio ce ne liberi! – ma che si tenga conto delle eventuali debolezze; 3 quindi chi ha meno necessità, ringrazi Dio senza amareggiarsi, 4 mentre chi ha maggiori bisogni, si umili per la propria debolezza, invece di montarsi la testa per le attenzioni di cui è fatto oggetto 5 e così tutti i membri della comunità staranno in pace. 6 Soprattutto bisogna evitare che per qualsiasi motivo faccia la sua comparsa il male della mormorazione, sia pure attraverso una parola o un gesto. 7 E, nel caso che se ne trovi colpevole qualcuno, sia punito con maggior rigore.

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Approfondimenti

1-5: Si deve dare secondo il bisogno Il capitolo inizia con la risposta alla domanda posta dal titolo: «Se tutti debbano ricevere il necessario in uguale misura»; L'ideale della prima comunità cristiana di Gerusalemme (At 4,35) diventa per SB un criterio. Il cammino monastico non è anarchico né livellatore; i monaci non sono fatti in serie o con lo stampo. L'abate, che deve dare ai monaci il necessario (RB 33,5), deve considerare le varie personalità; non che deve fare preferenze (v. 2), ma tener conto delle debolezze (v. 3). Ancora una volta SB è dalla parte dei più deboli (cf. anche RB 37,2-3; 55,21; ecc.): più che esigere molto o il massimo da tutta la comunità, nella legislazione si parte dalla necessità dei meno dotati.

Nei versetti seguenti appare se lo spirito di povertà e di distacco si pratica in nome dell'amore verso il Signore che non guarda i suoi interessi o se si pratica per un motivo esterno, meschino e invidioso; cioè: chi necessita di meno, ringrazi Dio e non si lamenti credendosi non considerato o disprezzato e sentendosi invidioso per le delicatezze verso gli altri (v. 3); chi necessita di più, non si insuperbisca credendo di essere il preferito o il più meritevole, ma si umili perché le speciali attenzioni sono un segno della sua debolezza e della carità del monastero nei suoi riguardi.

In tutto il brano è evidente l'influsso di S. Agostino (Reg 9,54-55). La Regola di Agostino non si occupa solamente della distribuzione del necessario, ma soprattutto delle relazioni tra i fratelli che potevano provenire dalla casta dei ricchi (la minima parte) o dai ceti inferiori (la maggior parte). Tutto il capitolo risente delle idee, del vocabolario, della fine psicologia del grande spirito di Agostino.

5: e così tutte le membra saranno in pace. Bellissima frase, di evidente parallelo con RB 31,19: “affinché nessuno si turbi o si rattristi nella casa di Dio”. È il richiamo alla PAX benedettina.

6-7: Condanna della mormorazione Nonostante le così nobili e ragionevoli osservazioni, SB sa che i monaci rimangono uomini e, come tali, sono portati ad essere invidiosi. Per questo, a proposito della disuguale – però giusta! – distribuzione del necessario, cioè delle cose in dotazione al singolo monaco, – cose quindi diverse e in misura diversa –, introduce una severa condanna del vizio della mormorazione. SB insisterà altrove (cf. RB 40,8-9) contro la mormorazione, “cancro delle comunità”. Si notino le forti espressioni con l'accumulo di termini: “ante omnia” (soprattutto); “pro qualiscumque causa” (per qualsiasi ragione); “in aliquo qualicumque verbo vel significatione” (in qualsiasi parola o altro gesto). Le rivendicazioni, il malcontento, l'acidità nel monastero sono veramente l'antitesi della PAX che invece deve regnare. La carità insomma, e solo la carità, rende possibile “l'utopia” di avere tutto in comune, secondo il meraviglioso – e purtroppo di breve durata – esempio della prima Chiesa di Gerusalemme.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXXIII – Il «vizio» della proprietà

1 Nel monastero questo vizio dev’essere assolutamente stroncato fin dalle radici, 2 sicché nessuno si azzardi a dare o ricevere qualche cosa senza il permesso dell’abate, 3 né pensi di avere nulla di proprio, assolutamente nulla, né un libro, né un quaderno o un foglio di carta e neppure una matita, 4 dal momento che ai monaci non è più concesso di disporre liberamente neanche del proprio corpo e della propria volontà, 5 ma bisogna sperare tutto il necessario dal padre del monastero e non si può tenere presso di sé alcuna cosa che l’abate che l’abate non abbia dato o permesso. 6 «Tutto sia comune a tutti», come dice la Scrittura, e «nessuno dica o consideri propria qualsiasi cosa». 7 Se poi si scoprisse qualcuno che si compiace in questo pessimo vizio, bisognerà rimproverarlo una prima e una seconda volta 8 e, nel caso che non si corregga, infliggergli il dovuto castigo.

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Approfondimenti

1-4: Il vizio della proprietà È uno dei capitoli più duri della Regola, una pagina energica, radicale, in cui SB porta a conseguenze estreme l'insegnamento di Cassiano: il monaco non deve possedere nulla di proprio, ed è in totale dipendenza dalla volontà dell'abate. Senza mezze misure SB esordisce all'inizio del capitolo con una frase secca: «Nel monastero bisogna soprattutto strappare fin dalle radici questo vizio» (v. 1). Già la tradizione monastica anteriore riconosceva concordemente la povertà come elemento essenziale dello stato monastico; e la condanna della proprietà privata è uno dei temi più comuni nelle Regole monastiche e nei trattati di spiritualità: così Pacomio, Basilio, Agostino, Cassiano. Però le espressioni così forti di SB hanno un parallelo solo in alcune frasi virulente di S.Girolamo. Notiamo in questo capitolo: «nessuno ardisca» (v. 2); «nulla nel modo più assoluto; nulla insomma» (v. 3). La ragione di ciò è detta nel v. 4: poiché il monaco si è dato integralmente a Dio, ormai a lui non appartengono più né la sua volontà né il suo corpo, tanto meno quindi i beni esterni e materiali. Nel testo originale latino c'è un gioco di parole (forse un po' troppo sottile); letteralmente sarebbe: «perché i monaci non hanno sotto la loro volontà né i propri corpi, né le proprie volontà» (cioè i propri desideri).

5-6: Il vero senso della povertà monastica La povertà monastica si esprime in termini di dipendenza dall'abate. Si notino le due espressioni del v. 5: «tutto sperare» «dal padre del monastero» (= l'abate; però non è fuori luogo ricordare in questo contesto che anche del cellerario viene detto: “sia come un padre per tutta la comunità”, RB 31,2). L'altro aspetto della povertà: ciò che si ha, reputarlo come bene comune del monastero, non come proprio (v. 6); e viene citato l'ideale della comunione dei beni della Chiesa di Gerusalemme (At 4,32: la citazione è con qualche adattamento).

7-8: Penalità per i trasgressori Un capitolo così deciso e radicale non poteva non terminare con le sanzioni contro chi «va dietro a questo pessimo vizio» (vv. 7-8).

Oggi si deve intendere che il monaco abbia molte cose a suo uso personale con il permesso implicito del superiore; cioè anche se il superiore non ha dato direttamente un libro o un capo di vestiario o il computer portatile, si suppone il suo benestare e la sua benedizione per un certo spazio in cui il monaco responsabilmente usa le sue cose.

  • La vocazione di Antonio il Grande cominciò con la pratica letterale delle parole di Gesù: «Va, vendi quello che hai...» (Mt 19,21);
  • una delle note qualificanti del monachesimo era lo spogliamento totale, per vivere nella semplicità e nel distacco più assoluto;
  • ancora oggi per il monachesimo hindu e buddhista farsi monaci significa spogliarsi veramente di tutto, non avere assolutamente nulla.

I monaci cristiani oggi dovrebbero interrogarsi:

  • Le nostre camere non sono rifornite un po' troppo?
  • Non diventiamo forse troppo esigenti o alla ricerca di tante piccole cose, anche non strettamente necessarie?
  • La nostra povertà – di cui facciamo ora un voto esplicito – a che cosa veramente si riduce?

Nonostante tutti i cambiamenti dei tempi, lo spirito del voto di povertà rimane sempre lo stesso: il distacco reale e sincero da tutti i beni temporali ed esterni, anche minimi, per avere libero il cuore ed aderire esclusivamente a Dio.

Oggi, i monaci sono chiamati, molto più che una volta, a dare una testimonianza anche collettiva di povertà. A questo, il mondo di oggi è molto sensibile (fanno problema le grandi proprietà e le vistose costruzioni dei seminari e degli istituti religiosi...). È bene che non solo il singolo monaco nella semplicità della sua stanza, nel vestito, negli oggetti di suo uso, ma anche tutta la comunità dia conventualmente testimonianza dello spirito e della pratica della povertà, tenendo conto del luogo in cui è situato il monastero. Così è bene che superiori, singoli monaci, comunità tengano in considerazione che due terzi dell'umanità non hanno di che procurarsi il necessario sostentamento, anzi vivono in condizioni sub-umane; di fronte alla povertà, non sono che inezie che dovrebbero diventare motivo – per dirla con SB, c. 40,8 – «di benedire Dio e non mormorare», perché danno modo ai monaci, in forza del Corpo Mistico, di condividere più intimamente le sofferenze dei fratelli più poveri.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXXII – Gli arnesi e gli oggetti del monastero

1 Per la cura di tutto quello che il monastero possiede di arnesi, vesti o qualsiasi altro oggetto l’abate scelga dei monaci su cui possa contare a motivo della loro vita virtuosa 2 e affidi loro i singoli oggetti nel modo che gli sembrerà più opportuno, perché li custodiscano e li raccolgano. 3 Tenga l’inventario di tutto, in maniera che, quando i vari monaci si succedono negli incarichi loro assegnati, egli sappia che cosa dà e che cosa riceve. 4 Se poi qualcuno trattasse con poca pulizia o negligenza le cose del monastero, venga debitamente rimproverato; 5 nel caso che non si corregga, sia sottoposto alle punizioni previste dalla Regola.

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Approfondimenti

I beni materiali e la povertà individuale Questa sezione comprende i capitoli: 32-34; 54-55; 57. La vita monastica, pur essendo soprannaturale nelle sue motivazioni e nel suo fine, è una vita incarnata. I monaci non sono angeli, hanno un corpo, hanno bisogno di cibo per nutrirsi, di vestiti per coprirsi, di strumenti per lavorare. Per cui nel monastero ci sono molte cose di cui non si può fare a meno. In questa sezione appare l'importanza che SB dà allo spogliamento individuale, alla disappropriazione. Per SB la povertà individuale è considerata anzitutto come dipendenza dall'abate: la rinunzia alla proprietà proviene dalla rinunzia alla propria volontà, idea collegata con quella, soprattutto di Agostino, della comunione fraterna dei beni, secondo il modello degli Atti degli Apostoli.

Le fonti di RB per questi capitoli sono RM, Cassiano e S. Agostino. La tendenza di RB è quella di abbreviare, oppure di riassumere in una formula generale molteplici norme e dettagli. Inoltre RB è più dura rispetto ai testi precedenti, con frequenti riferimenti alle pene (ce ne sono in tutti questi capitoli, anzi RB 32.33.34 terminano sempre con la menzione delle pene). Lo spogliamento individuale è inculcato con grande forza e vasto è il ruolo dell'abate in questa materia. Sotto l'influsso di Agostino, poi, SB ha uno spiccato senso della diversità delle persone (già visto anche nella sezione penale e in molti altri punti della Regola) e una cura delle relazioni fraterne che mancano in RM.

Gli oggetti del monastero Vediamo aleggiare in questo breve capitolo la preoccupazione e la scrupolosità per l'ordine e lo spirito di fede. Niente nel monastero è “profano”: l'ordine, la pulizia, la buona amministrazione devono regnare nel monastero, che è “casa di Dio” (RB 31,19) e in cui tutte le cose debbono essere viste, nella fede, come cose sacre (RB 31,10). Perciò ogni strumento deve stare al suo posto e ci debbono essere degli addetti che se ne occupano. L'abate stesso è il responsabile ultimo e tiene l'inventario di tutto. RM 17 prevede un solo custode al quale l'abate consegna gli oggetti; SB ha in mente una comunità più grande.

Lo spirito di fede e di povertà esigono che gli oggetti del monastero non siano lasciati sporchi e fuori posto (la RM ha una frase plastica quando dice che “gli attrezzi di ferro si arrugginiscono se non si rimettono a posto puliti”, RM 17,9); per cui chi manca, dopo essere stato ammonito come al solito, sia punito secondo le sanzioni previste dalla Regola (letteralmente: “sia sottoposto alla disciplina regolare”, v.5).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXXI – Il cellerario del monastero

1 Come cellerario del monastero si scelga un fratello saggio, maturo, sobrio, che non ecceda nel mangiare e non abbia un carattere superbo, turbolento, facile alle male parole, indolente e prodigo, 2 ma sia timorato di Dio e un vero padre per la comunità. 3 Si prenda cura di tutto e di tutti. 4 Non faccia nulla senza il permesso dell’abate 5 ed esegua fedelmente gli ordini ricevuti. 6 Non dia ai fratelli motivo di irritarsi e, 7 se qualcuno di loro avanzasse pretese assurde, non lo mortifichi sprezzantemente, ma sappia respingere la richiesta inopportuna con ragionevolezza e umiltà. 8 Custodisca l’anima sua, ricordandosi sempre di quella sentenza dell’apostolo che dice: «Chi avrà esercitato bene il proprio ministero, si acquisterà un grado onorevole». 9 Si interessi dei malati, dei ragazzi, degli ospiti e dei poveri con la massima diligenza, ben sapendo che nel giorno del giudizio dovrà rendere conto di tutte queste persone affidate alle sue cure. 10 Tratti gli oggetti e i beni del monastero con la reverenza dovuta ai vasi sacri dell’altare 11 e non tenga nulla in poco conto. 12 Non si lasci prendere dall’avarizia né si abbandoni alla prodigalità, ma agisca sempre con criterio e secondo le direttive dell’abate. 13 Soprattutto sia umile e se non può concedere quanto gli è stato richiesto, dia almeno una risposta caritatevole, 14 perché sta scritto: «Una buona parola vale più del migliore dei doni». 15 Si interessi solo delle incombenze che gli ha affidato l’abate, senza ingerirsi in quelle da cui lo ha escluso. 16 Distribuisca ai fratelli la porzione di vitto prestabilita senza alterigia o ritardi, per non dare motivo di scandalo, ricordandosi di quello che toccherà, secondo la divina promessa, a «chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli». 17 Se la comunità fosse numerosa, gli si concedano degli aiuti con la cui collaborazione possa svolgere serenamente il compito che gli è stato assegnato. 18 Nelle ore fissate si distribuisca quanto si deve dare e si chieda quello che si deve chiedere, 19 in modo che nella casa di Dio non ci sia alcun motivo di turbamento o di malcontento.

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Approfondimenti

“Cellerarius” viene da “cella”, termine che nella RB ha molti significati, secondo il contesto e il genitivo che lo accompagna; può essere: il “dormitorio” (RB 22,4), l'“infermeria” (RB 36,7), la “foresteria” (RB 53,21), il “noviziato” (RB 58,5), l'“abitazione del portinaio” (RB 66,2). Nella parola “cellerario” la radice “cella” allude al magazzini delle provviste, alla dispensa (chiamata “cellario” solo in RB 46,1). Presso gli antichi, si chiamava “cellario” il servo di fiducia che custodiva i viveri e li distribuiva agli altri conservi (a ciò si allude in Mt 24,45 e Lc 12,42). Più tardi nelle famiglie principesche ci sarà il “maggiordomo”. In SB il “cellararius” (nei monasteri si dice oggi “cellerario”, “camerlengo” o “economo”) è il monaco a cui è affidata la cura dei beni materiali del monastero e che pensa a distribuirli ai fratelli e a quanti altri beneficiano del patrimonio del monastero: ospiti e poveri.

Al tempo di SB era senza dubbio un personaggio importante. Ricordiamo che la Regola vuole che l'abate non si preoccupi troppo dei beni materiali (RB 2,33-36), ma pensi sopratutto al suo ufficio spirituale. Perciò alle cose temporali ci deve pensare il cellerario. Ma lo deve fare in modo religioso e spirituale: il suo modo di agire in questo campo influisce molto sulla pace e sull'armonia della comunità intera. Questo appare chiaro dal c. 31, che è uno dei più belli di tutta la Regola (completamente diverso dallo stile della RM); più che un elenco di obblighi derivanti dall'ufficio, vi troviamo delineata l'immagine ideale del monaco che ha questo incarico; è un piccolo trattato di spiritualità in cui l'interesse psicologico e morale domina e anima tutte le prescrizioni di carattere pratico.

1-2: Doti del cellerario Abbiamo anzitutto un elenco di qualità che il cellerario deve coltivare e di vizi che deve evitare. L'espressione non tardus, che alcuni traducono “non indolente, non pigro”, forse si interpreta meglio – sopratutto per la vicinanza con “prodigo” – nel senso della lentezza di chi dà a stento, di malavoglia, quindi: non avaro, non gretto.

“Sia come un padre”: il cellerario è il braccio destro dell'abate per ciò che riguarda sopratutto gli interessi e i bisogni temporali. Perciò SB vuole uno che sappia avere cuore e volontà di padre, come vuole per l'abate; difatti molte cose di questo “direttorio” del cellerario riecheggiano quello dell'abate descritto nel c. 64; e vi arieggia in genere lo stile della Prima Lettera a Timoteo (specie c. 3) e della Lettera a Tito.

“Si nomini”. Da parte dell'abate; ma anche qui, come per i decani, non si può escludere un qualche intervento da parte della comunitò (o un consiglio o la presentazione di alcuni candidati).

3-16: Ufficio del cellerario: rapporti con abate, fratelli, cose Il cellerario deve essere come un padre per tutta la comunità, quindi deve preoccuparsi di tutto e di tutti (v. 3), sopratutto avere una cura speciale per i più deboli: malati, fanciulli, ospiti, poveri (v. 9). Una virtù che gli viene molto raccomandata è l'umiltà (vv. 7.13.16), che dimostrerà nel non contristare i fratelli (v. 6): la sentenza è l'eco di una massima degli antichi Padri: “non contristare il tuo fratello, giacché sei monaco” (Vitae Patrum, 3,170); nel non disprezzarli nel caso che debba negare loro qualcosa (v. 7): l'espressione è presa da S. Agostino: “A chi non puoi dare ciò che ti chiede, non mostrare disprezzo; se puoi dare, dà; se non puoi, dimostrati affabile (Esposizione sul salmo 103,1.19); non potendo concedere la cosa richiesta, risponda con una buona parola, secondo il libro del Siracide 18,17 (v. 14); la razione di cibo che deve dare, la dia senza arroganza né indugio (v. 16), cioè senza farla piovere dall'alto, dandosi l'aria di padrone che, bontà sua, “si degna” di dare agli altri.

SB giunge a ricordare al cellerario la minaccia di Gesù contro chi provoca scandalo: non è poca cosa far soffrire i fratelli per il cibo e metterli nella condizione di adirarsi o di lamentarsi. Come all'abate, poi, SB ricorda al cellerario il giudizio di Dio (v. 9) e la ricompensa che lo aspetta, citando da 1Tim 3,13 (v. 8).

Riguardo alle cose del monastero, le consideri come “vasi sacri dell'altare” (v. 10): è un'idea molto viva nella tradizione monastica (S. Basilio, Reg.103-104; Cassiano, Inst. 4,19-20; Regula IV Patrum 3.28-29): se il monastero è la “casa di Dio” (RB 31,19; 53,22; 64,5), tutto ciò che contiene è dedicato al servizio di Dio, è sacro; alla luce di questo spirito di fede, il cellerario compie quasi un ministero sacro, in tal modo il suo ufficio acquista nobiltà inimmaginata.

17-19: Disposizioni in aiuto del cellerario Se il cellerario ha tanti pesi, è bene che gli si procuri un po' di respiro. Anzitutto, se la comunità è numerosa, abbia degli aiuti (v. 17) e poi i fratelli devono ridurre al minimo i fastidi, non importunandolo a tutte le ore, ma in orari stabiliti (v. 18), di modo che “nessuno – né i fratelli né il cellerario – si turbi o si rattristi nella casa di Dio” (v. 19): “conclusione mirabile e giustamente celebre di un capitolo consacrato alla più materiale delle mansioni!” (DeVogue).

SB ha in odio la tristezza (si ricordi il detto al Goto, in II.Dial.6: “Ecco, lavora e non rattristarti!”): essa era annoverata dagli antichi monaci tra i vizi capitali. Si tratta, evidentemente, di quella tristezza che nasce dallo scontento, dall'insoddisfazione, dal rancore. Se il monastero è l'Eden riconquistato, se è la dimora di coloro che, chiamati da Dio, volontariamente hanno scelto Cristo come unico scopo dell'esistenza e vivono quindi nella vita nuova dello Spirito, non c'è posto per l'acidità, la scontentezza, l'insoddisfazione.

È questo il senso della “PAX” benedettina (lo scriviamo sui nostri ingressi), termine molto denso che racchiude tanti significati: essa deve essere l'atmosfera abituale del monastero.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXX – La correzione dei ragazzi

1 Ogni età e intelligenza dev’essere trattata in modo adeguato. 2 Perciò i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di comprendere la gravità della scomunica, 3 quando commettono qualche colpa siano puniti con gravi digiuni o repressi con castighi corporali, perché si correggano.

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Approfondimenti

Correzione dei ragazzi o di adulti di scarsa intelligenza Il titolo non abbraccia tutto il contenuto del capitolo perché, oltre ai fanciulli di minore età, include anche gli adolescenti e gli adulti di scarsa intelligenza, insomma tutti coloro che “non comprendono il valore della scomunica ” (v. 2): in questi casi la scomunica sarebbe non solo inutile, ma dannosa; allora si usano digiuni o battiture “perché si correggano” (v. 3): si noti sempre il fine medicinale della pena.

Nella RM viene indicata l'età dei 15 anni quale limite per le battiture (RM 14,79-87); negli adulti le battiture sono previste solo per motivo oggettivo: colpe enormi commesse. Invece in RB le battiture inflitte agli adulti sono determinate da un motivo soggettivo: il colpevole non comprende la scomunica.

Il principio generale di sapiente governo e di sana pedagogia posto al v.1 giustifica il capitolo e le deduzioni pratiche e semplici che ne derivano. Notiamo che la pena delle battiture era, a quei tempi, un fatto comune tra i monaci e i chierici (come anche tra gli alunni in genere).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXIX – La riammissione dei fratelli che hanno lasciato il monastero

1 Il monaco, che, dopo aver lasciato per propria colpa il monastero, volesse ritornarvi, prometta anzitutto di correggersi definitivamente dalla colpa per la quale è uscito 2 e a questa condizione sia ricevuto all’ultimo posto per provare la sua umiltà. 3 Se poi uscisse di nuovo sia riammesso fino alla terza volta, ma sappia che in seguito gli sarà negata ogni possibilità di ritorno.

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Approfondimenti

Il “dramma” si prolunga in un “terzo atto”: chi di propria iniziativa abbandona il monastero. La RB prevede ed ha fiducia che costui si converta e riprenda il retto sentiero; se sollecitasse la sua riammissione, gli si apriranno le porte del monastero, a due condizioni (sconosciute nel parallelo di RM 64):

  1. che prometta seriamente di correggersi di quei vizi per cui se ne andò via;
  2. che sia messo all'ultimo posto nella comunità per provare la sua umiltà e, in ultima analisi, la sincerità della sua conversione. Lo stesso stabilisce la Regola di Pacomio (Reg. 136).

Se tornerà ad uscire, potrà essere riammesso fino a tre volte, secondo il procedimento evangelico delle tre ammonizioni (cf. Mt 18,15-17), ma poi basta: seguitare ad uscire ed entrare sarebbe poco serio e, in certo modo, burlarsi di Dio e dei confratelli. Colui che abusa di questa triplice possibilità di riabilitarsi, sarà escluso definitivamente dalla società cenobitica. S. Basilio non permetteva più l'ingresso al disertore, nemmeno come ospite di passaggio (Reg. fus. 14).

Possiamo notare che questa linea di condotta seguita per chi se ne usciva dal monastero, doveva valere probabilmente anche per gli espulsi del capitolo precedente.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXVIII – La procedura nei confronti degli ostinati

1 Se un monaco, già ripreso più volte per una qualsiasi colpa, non si correggerà neppure dopo la scomunica, si ricorra a una punizione ancor più severa e cioè al castigo corporale. 2 Ma se neppure così si emenderà o – non sia mai! – montato in superbia pretenderà persino di difendere il suo operato, l’abate si regoli come un medico provetto, 3 ossia, dopo aver usato i linimenti e gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle Scritture divine e, infine, la cauterizzazione della scomunica e le piaghe delle verghe, 4 vedendo che la sua opera non serve a nulla, si affidi al rimedio più efficace e cioè alla preghiera sua e di tutta la comunità 5 per ottenere dal Signore che tutto può la salvezza del fratello. 6 Se, però, nemmeno questo tentativo servirà a guarirlo, l’abate, metta mano al ferro del chirurgo, secondo quanto dice l’apostolo: «Togliete di mezzo a voi quel malvagio» 7 e ancora: «Se l’infedele vuole andarsene, vada pure», perché una pecora infetta non debba contagiare tutto il gregge.

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Approfondimenti

Provvedimenti per i recidivi Il c. 27 presentava il caso dei fratelli scomunicati; il c. 28 presenta il “secondo atto” – diciamo così – del dramma: i recidivi, mentre nel c. 29 avremo il “terzo atto”: gli apostati.

Ci possono essere dunque dei monaci recidivi: li si corregge, li si scomunica. Se non si ottiene nulla, si venga a severi colpi di verga: il castigo corporale difatti si riserva per i duri di testa o di cuore, a cui non giovano le pene spirituali (cf. RB 23,5; 30,2). E..., se nonostante questo, non si correggono, ma anzi volessero difendere la loro condotta?

Ritorna qui l'immagine dell'abate come medico, immagine che viene più sviluppata: ha applicato i lenitivi (unguenti) delle esortazioni, i farmaci della S. Scrittura, il ferro rovente della scomunica e delle frustate (v.3). Tutto è stato vano. Allora viene suggerito “un rimedio ancora più efficace”: chiedere un particolare aiuto della grazia di Dio mediante la preghiera dell'abate e di tutta la comunità (vv. 4-5).

Esauriti tutti i mezzi naturali e soprannaturali, il medico si trasforma in chirurgo: “l'abate ricorra ormai al ferro dell'amputazione” e, per giustificare questa estrema e sgradita decisione, ricorre a due testi di S. Paolo: il primo (1Cor 5,13) si riferisce all'incestuoso di Corinto ed è ben applicato; il secondo (1Cor 7,15) non calza troppo bene, è in un senso molto accomodatizio: là S. Paolo parla del matrimonio tra un cristiano e un non cristiano e dice che, se il coniuge non credente (pagano) si vuole separare, si separi pure. SB gioca sulla parola “infidelis” che lì significa “non credente” e la applica nel senso di “non fedele” alla sua professione monastica.

Si noti la radice profonda di questa drastica decisione: “perché una pecora infetta non contagi il gregge intero” (v. 8). Il concetto è comune nei Padri: cf. Cipriano (Epistola 59,15); S. Agostino (Epistola 211,11; Regula Orientalis 35); spesso in S. Girolamo (Epistola 2,1; 16,1; 130,19). SB non caccia dal monastero per castigare l'orgoglio e l'ostinazione; in tutto il codice penale la sua preoccupazione è curare; le pene sono sempre medicinali. Qui però si sente frustrato e impotente in quanto la cura a oltranza dell'ostinato comporta dei rischi per la salvezza di tutti gli altri. Nel c. 27 si trattava di salvare una pecora smarrita, nel c.28 si tratta di salvare l'intero gregge; l'obiettivo distingue i due capitoli, però lo spirito, l'ispirazione, le immagini, la costruzione letteraria e lo stesso vocabolario sono identici.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXVII – La sollecitudine dell’abate per gli scomunicati

1 L’abate deve prendersi cura dei colpevoli con la massima sollecitudine, perché «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati». 2 Perciò deve agire come un medico sapiente, inviando in qualità di amici fidati dei monaci anziani e prudenti 3 che quasi inavvertitamente confortino il fratello vacillante e lo spingano a un’umile riparazione, incoraggiandolo perché «non sia sommerso da eccessiva tristezza», 4 in altre parole «gli usi maggiore carità», come dice l’Apostolo «e tutti preghino per lui». 5 Bisogna che l’abate sia molto vigilante e si impegni premurosamente con tutta l’accortezza e la diligenza di cui è capace per non perdere nessuna delle pecorelle a lui affidate. 6 Sia pienamente cosciente di essersi assunto il compito di curare anime inferme e non di dover esercitare il dominio sulle sane 7 e consideri con timore il severo oracolo del profeta per bocca del quale il Signore dice: 8 «Ciò che vedevate pingue lo prendevate; ciò invece che era debole lo gettavate via». 9 Imiti piuttosto la misericordia del buon Pastore che, lasciate sui monti le novantanove pecore, andò alla ricerca dell’unica che si era smarrita 10 ed ebbe tanta compassione della sua debolezza che si degnò di caricarsela sulle sue sacre spalle e riportarla così all’ovile.

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Approfondimenti

Quanto sia dovuto pesare a SB sentirsi obbligato a elaborare un codice penale così severo, appare chiaramente da questo c. 27, uno dei più belli della Regola. Il testo, quasi senza parallelo nella RM, tutto pervaso di pietà e misericordia, tratta degli scomunicati, ma è interamente dedicato all'abate, è un direttorio abbaziale per un caso concreto, a cui SB dà la massima importanza. Basta far caso al vocabolario: vediamo che abbondano i termini che rivelano una costante preoccupazione, un enorme interesse con la ricerca di tutti i rimedi fino a qualche stratagemma: “ogni cura” (v. 1), “tutti i rimedi” (v. 2), “estrema sollecitudine” (v. 5), “con ogni mezzo e saggia accortezza” (v. 5).

1-4: L'abate sollecito come un medico All'inizio l'abate è visto come un medico (la metafora risale a Origene, Ambrogio, Cassiano) che si occupa dei malati, secondo la frase di Gesù in Mt 9,12. Ora, questo medico saggio, esperto, userà ogni industria perché la “medicina” della scomunica abbia il migliore effetto. E SB ne indica una che, mentre salva l'autorità dell'abate, esercita anche lo spirito di carità fraterna: manderà dei monaci anziani ed assennati i quali “quasi di nascosto” (dagli altri confratelli) lo consolino nell'afflizione e lo spingano a riconciliarsi umilmente dando la dovuta soddisfazione.

Al v. 2 c'è l'espressione inmittere senpectas (far arrivare delle senpecte) che, secondo l'etimologia più accertata, deriva da “senape” e indicherebbe un impiastro di senape o “senapismo” che ha proprietà medicinali, refrigeranti e calmanti. Appare così più chiaramente il paragone con il medico: questo cataplasma che deve calmare il dolore sono i fratelli anziani inviati “quasi di nascosto” a consolare il reo, perché “non sia sommerso da eccessiva tristezza”. Bella questa preoccupazione presa da S. Paolo (2Cor 2,7) che denota la tenerezza che deve avere l'abate; è bello anche il v.4 che allarga questa preoccupazione a tutta la comunità: “si dia prova a suo riguardo di maggiore carità (citata da 2Cor 2,8) e tutti preghino per lui.”

5-9: L'abate sollecito come un pastore SB ritorna alla raccomandazione dell'inizio quasi con le stesse parole e presenta ora l'abate come pastore: un pastore che non deve “perdere nessuna delle pecore a lui affidate” (v. 5). È notevole la forza con cui la RB sottolinea l'aspetto realistico, autenticamente umano della missione dell'abate. Non c'è da farsi illusioni: nella comunità ci sono a volte alcuni monaci santi, la maggior parte vive certamente una vita degna della propria vocazione; però l'abate sta lì soprattutto per essere attento a quelli moralmente infermi perché ha preso “la cura delle anime deboli e non la tirannia su quelle sane” (v.6). Il monastero non è una società chiusa di anime perfette, Dio ci guardi (soprattutto i superiori) dal pretendere una tal cosa! SB ricorda all'abate il rimprovero di Dio ai pastori d'Israele per mezzo di Ez 34,3-4, citato un po' a senso, quasi a dire: ti compiacevi (ti era facile e comodo) governare i sani, cioè i più docili e virtuosi e trascuravi i deboli che cadono o stentano nella via di Dio. Decisamente la RB sta dalla parte dei più deboli, di quelli più bisognosi di comprensione, di aiuto.

Questo atteggiamento di SB contrasta con quello di RM nelle stesse circostanze: al monaco scomunicato che si mantiene nella sua ostinazione e ricusa la soddisfazione dovuta, la RM dà tre giorni di tempo; poi passa a una buona dose di frustate e all'espulsione dal monastero (RM 13,68-73). SB non ci dice come va a finire se lo scomunicato persevera sino in fondo nella sua ostinazione (in questo senso il c. 27 potrebbe sembrare incompleto): SB ha fiducia che il peccatore sia vinto dalla grazia di Dio, dalla sollecitudine dell'abate e dalla carità di tutti i fratelli. L'immagine del buon Pastore che riporta all'ovile la pecorella smarrita “sulle sue sacre spalle”, con cui si chiude il capitolo, pare insinuare soltanto una conclusione felice di questo piccolo dramma.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXVI – Rapporti dei confratelli con gli scomunicati

1 Se qualche monaco oserà avvicinare in qualche modo un fratello scomunicato, o parlare con lui, o inviargli un messaggio, senza l’autorizzazione dell’abate, 2 incorra nella medesima punizione.

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Approfondimenti

Un brevissimo capitolo, secco e deciso; di nuovo appare il verbo “praesumere” (ardire, osare). Due soli versetti, una sola severa proposizione che giunge velocemente alla conclusione dopo l'enunciazione della colpa: se un fratello, senza ordine dell'abate (cf. il seguente c. 27,2-3, in cui si dice che l'abate deve far arrivare, quasi senza darlo a vedere, dei fratelli prudenti che sostengano e consolino il fratello scomunicato), osasse unirsi con lo scomunicato, parlare con lui o mandargli messaggi, soggiaccia alla stessa pena della scomunica (vv. 1-2).

Sembrerebbe a prima vista una sanzione esagerata e senza fondamento. Ma così non è se si tengono presenti alcune considerazioni: la vita di comunità e la comunione fraterna, come è stato rilevato al c. precedente, sono realtà molto importanti nella vita monastica; la pena della scomunica consiste proprio nel privare il monaco reo di questa realtà spirituale; colui che di iniziativa sua si unisce allo scomunicato, rende vana la pena medicinale applicata dall'autorità pastorale dell'abate. Egli si contrappone all'abate con grave colpa di insubordinazione, ritenendo ingiusta la decisione di lui. E come succede spesso in questi casi, il monaco che così agisce, non è mosso dal desiderio di aiutare il reo, ma da una passione di connivenza, di scontentezza, di critica verso l'abate; il suo contatto col monaco reo, fatto magari di nascosto e con sotterfugio, si riduce spesso a colloqui di mormorazione, con ulteriore detrimento spirituale del reo e dell'intera comunità. Alla luce di queste riflessioni, si comprende la drastica decisione del santo Legislatore.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXV – Le colpe più gravi

1 Il monaco colpevole di mancanze più gravi sia invece sospeso oltre che dalla mensa anche dal coro. 2 Nessuno lo avvicini per fargli compagnia o parlare di qualsiasi cosa. 3 Attenda da solo al lavoro che gli sarà assegnato e rimanga nel lutto della penitenza, consapevole della terribile sentenza dell’apostolo che dice: 4 «Costui è stato consegnato alla morte della carne, perché la sua anima sia salva nel giorno del Signore». 5 Prenda il suo cibo da solo nella quantità e nell’ora che l’abate giudicherà più conveniente per lui; 6 non sia benedetto da chi lo incontra e non si benedica neppure il cibo che gli viene dato.

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Approfondimenti

La scomunica maggiore per le colpe più gravi La posizione del monaco colpito dalla scomunica maggiore impressiona veramente: il colpevole di colpe gravi è condannato al più completo isolamento, tanto più brutto in quanto si tratta soprattutto di isolamento morale: sta in comunità ma nessuno gli parla (v. 2); lavora da solo (v. 3); nessuno lo benedice nell'incontrarlo né viene benedetto il suo cibo (v. 6); deve “perseverare nel pianto della penitenza riflettendo sulle terribili parole di S. Paolo” (v. 3) che applicherà a se stesso. Il versetto di 1Cor 5,5 si riferisce al famoso incestuoso di Corinto di cui S.Paolo dice: “Sia dato in balia di Satana per la rovina della sua carne”, cioè separato dal regno di Cristo che è la Chiesa, sicchè ricada nel regno di Satana dove sarà esposto senza difesa spirituale al suo potere ostile, anche ai tormenti del corpo che Satana gli potrebbe procurare. SB dipende qui da Cassiano (Inst. 2,16), ma intenzionalmente ha soppresso la parola “Satana”, non solo per mitigare l'espressione, ma per dichiarare che il fratello viene abbandonato non a Satana ma alle sue pene afflittive del corpo e di tutte le passioni, purchè si salvi lo spirito. Comunque, anche ammettendo con alcuni codici la presenza della parola “Satana”, non pare si possa interpretare questa scomunica nel senso di una censura ecclesiastica, cioè esclusione dal corpo della Chiesa, ma solo “scomunica regolare”, cioè separazione della comunità monastica.

Per chi comprende bene il profondo senso della vita in comune, tale pena era veramente terribile: il monaco nelle condizioni descritte in questo capitolo, per poco sensibile che fosse, era veramente distrutto. In confronto a tale isolamento, l'eventuale restrizione del cibo (v.m5) appare ben poca cosa.

È chiaro che il fine, come in S. Paolo, è medicinale: la correzione e la salvezza del reo. Infatti poco dopo (c. 27) SB ricorderà la sollecitudine particolare dell'abate verso questi fratelli colpevoli e dalla vita sappiamo che, appena si fosse riconosciuto umilmente l'errore, egli era pronto a perdonare (cf. II Dial. 12).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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