📖Un capitolo al giorno📚

Diario della lettura del Nuovo Testamento, un capitolo al giorno: dal 25/12/2022 al 10/09/2023

Preparativi della visita 1Questa è la terza volta che vengo da voi. Ogni questione si deciderà sulla dichiarazione di due o tre testimoni. 2L’ho detto prima e lo ripeto ora – allora presente per la seconda volta e ora assente – a tutti quelli che hanno peccato e a tutti gli altri: quando verrò di nuovo non perdonerò, 3dal momento che cercate una prova che Cristo parla in me, lui che verso di voi non è debole, ma è potente nei vostri confronti. 4Infatti egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi siamo deboli in lui, ma vivremo con lui per la potenza di Dio a vostro vantaggio.

Esortazione alla revisione di vita 5Esaminate voi stessi, se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi? A meno che la prova non sia contro di voi! 6Spero tuttavia che riconoscerete che la prova non è contro di noi. 7Noi preghiamo Dio che non facciate alcun male: non per apparire noi come approvati, ma perché voi facciate il bene e noi siamo come disapprovati. 8Non abbiamo infatti alcun potere contro la verità, ma per la verità. 9Per questo ci rallegriamo quando noi siamo deboli e voi siete forti. Noi preghiamo anche per la vostra perfezione. 10Perciò vi scrivo queste cose da lontano: per non dover poi, di presenza, agire severamente con il potere che il Signore mi ha dato per edificare e non per distruggere.

PostScriptum 11Per il resto, fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. 12Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. 13La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Preparativi della visita Al v. 1 per la quarta volta Paolo fa menzione della sua terza visita a Corinto: ormai non si tratta più di un puro annuncio ma di una certezza che spinge a volgersi a una vera e propria preparazione di essa. Così l’apostolo afferma che, giungendo dai destinatari, seguirà la regola di Dt 19,15, secondo la quale ogni questione sarà esaminata sulla testimonianza di due o tre persone. Il v. 2 richiama ancora l’imminente arrivo a Corinto, mettendo però in risalto l’intervento punitivo di Paolo come conseguenza del procedimento di giudizio appena presentato. Le ammonizioni dell’apostolo, presentate nell’ambito della sua seconda visita, avevano prodotto successivamente un certo risultato positivo nella comunità (7,5-16) ma poi, a causa dell’influsso degli avversari, i Corinzi erano ritornati ai loro comportamenti scorretti. Il riferimento è probabilmente alle tendenze disgregatrici e agli abusi in campo sessuale dei quali si è trattato in 12,20-21 e che per Paolo rappresentano non problemi di singoli o di gruppi isolati, ma questioni riguardanti l’intera comunità e la sua crescita nella fede. Al v. 3 giunge la motivazione del comportamento non indulgente di Paolo con un ritorno anche al binomio debolezza/forza, che campeggiava nel discorso del folle. Inoltre la questione della capacità di parlare era al centro della tesi di 11,5-6. ora l’apostolo dice conclusivamente che, come negli antichi profeti, il Signore si esprime attraverso di lui. Ciò è indicazione della forza di Cristo, che può agire anche attraverso la debolezza degli strumenti umani (cfr. 12,9) e che è già in azione nella comunità nei segni compiuti da Paolo stesso (cfr. 12,12) e in tutti i doni di grazia concessi ai Corinzi (cfr. 9,8). Il v. 4 spiega il precedente e mette in collegamento la debolezza e la potenza di Cristo con quella di Paolo. Egli, infatti, dice che Cristo è stato crocifisso a causa della debolezza della natura umana da lui assunta, ma come risorto vive in forza della potenza di Dio. In conseguenza di tutto questo l’apostolo sperimenta nella fragilità della sua umanità, per mezzo della sua unione con Cristo, già la vita segnata dalla dinamica della risurrezione che opera anche nei destinatari. Il parallelo tra Cristo e Paolo nell’ambito del paradossale binomio debolezza/forza vuole così definitivamente accreditare e av- valorare l’autorità apostolica del secondo presso i Corinzi, in vista della sua terza visita.

Esortazione alla revisione di vita Se nei versetti precedenti Paolo aveva parlato della prova della sua autenticità apostolica, attestata da un paventato intervento disciplinare, ora al v. 5 mette in campo l’esigenza di un’autovalutazione critica da parte dei Corinzi, in modo anche da evitare di infliggere la suddetta punizione. Infatti, egli esorta i destinatari a esaminare piuttosto se stessi, così da valutare se effettivamente vivono la fede cristiana. Al v. 6, dopo avere chiesto ai Corinzi di esaminarsi, Paolo torna a parlare di sé in vista della sua terza visita a Corinto. Egli esprime così la speranza che i destinatari possano riconoscere che egli non è disapprovato. L’apostolo manifesta il desiderio che, in occasione della propria venuta, i Corinzi non diano più credito alle accuse formulate nei suoi confronti sotto l’influsso degli avversari e riconoscano l’autenticità del suo apostolato. Questo auspicio è un secondo risultato del processo di discernimento proposto ai destinatari nel versetto precedente: i Corinzi, verificando se stanno davvero camminando nella fede, riconosceranno anche il valore e la grandezza del ministero di Paolo al quale è dovuto proprio il loro itinerario cristiano (cfr. 10,15). Con il v. 7 l’attenzione dell’apostolo si volge di nuovo verso i destinatari, riportando l’invocazione che egli innalza a Dio per loro. L’apostolo intende sottolineare che il suo fine ultimo non è quello di superare la prova come vero inviato di Dio, ma il bene dei Corinzi. Infatti, se i destinatari cambieranno il loro modo di agire, Paolo non avrà occasione di mostrare la sua forte autorità apostolica con un’azione disciplinare nei loro confronti. Al v. 8 Paolo afferma di non potere fare nulla contro la verità, ma solo ciò che è al suo servizio. Che la verità si difenda da sola e che sia necessario arrendersi a essa da parte dell’uomo saggio è affermato sia in ambito greco che biblico-giudaico (cfr. Sir 4,25.28; 3 Esdra 4,35.38). Tuttavia l’apostolo, in maniera originale, lega la verità a Cristo e al suo Vangelo (cfr. 2Cor 11,10; Gal 2,5.14). Il v. 9 si ricollega al v. 7 come sua seconda motivazione, immettendo in 2 Corinzi B per la prima e unica volta il motivo della gioia. Così Paolo afferma di rallegrarsi quando lui risulta debole e i destinatari forti. Inoltre, aggiunge di pregare per il riordinamento della comunità corinzia. Il binomio debolezza/forza, ripreso dai vv. 3-4, è qui applicato soprattutto alla speranza che l’apostolo ha di non dovere mostrare la sua autorità disciplinare in occasione della prossima terza visita a Corinto: se egli non sarà costretto a intervenire con un’azione punitiva, risulterà ancora una volta debole (cfr. 10,10; 11,6); d’altra parte, ciò significa che i destinatari saranno provati forti nella fede (cfr. 13,5). Il v. 10 conclude le indicazioni preparatorie della terza visita, menzionando il motivo dello scrivere, tipico delle conclusioni delle epistole paoline (cfr., p. es., Rm 15,21; Gal 6,11; 1ts 5,1; Fm 21), ritornando su quello presenza-assenza e specificando una ragione per l’estensione di 2 Corinzi B. Egli, infatti, afferma che ha scritto queste cose da lontano per evitare di dovere intervenire con tagliente severità al momento della sua venuta, dato che l’autorità apostolica ricevuta da Dio è in vista dell’edificazione e non della distruzione della comunità. Come già sottolineato con le stesse parole in 10,8 e in 12,19, Paolo ha di mira la crescita spirituale della sua comunità e non il suo annichilimento. Per questo nel brano che ora termina egli ha chiesto insistentemente ai Corinzi di compiere un cambiamento sostanziale di atteggiamento in vista del suo arrivo da loro.

Post Scriptum Nell’antichità il Post Scriptum non ha la specifica funzione di aggiungere quanto è stato dimenticato nel corpo della lettera, secondo quello che avviene per noi oggi; in epoca classica riveste valore giuridico, di autenticazione della lettera, scritta normalmente da un segretario. Così accade, con ogni probabilità, anche nelle lettere paoline, poiché alcune volte, alla fine delle medesime, l’apostolo segnala il suo intervento autografo (cfr. 1Cor 16,21; Gal 6,11; Col 4,18; 2ts 3,17; Fm 19). L’importanza del Post Scriptum nelle lettere paoline può essere individuata nel fatto che esso contribuisce a mettere le Chiese in contatto le une con le altre e quindi a farle crescere nella comunione, basata sul medesimo dono di grazia ricevuto da Dio. Inoltre, questo elemento epistolare assume di tanto in tanto la funzione di ricapitolare i temi trattati nella lettera (cfr. Gal 6,12-17; 1tm 6,20-21; Fm 21). Nella sua laconicità, da una parte, il Post Scriptum di 2Cor 13,11-13 propone i seguenti usuali elementi: ultime raccomandazioni (v. 11), saluti (v. 12), benedizione (v. 13); dall’altra, non menziona, contrariamente al solito, nessuno dei nomi dei destinatari. Il motivo potrebbe essere che Paolo, per scongiurare il pericolo di fomentare ulteriori divisioni nella comunità, eviterebbe di ricordare alcuni a scapito di altri. Con il v. 11 sono introdotte le ultime raccomandazioni dell’apostolo ai Corinzi attraverso una serie di cinque imperativi presenti, che suggeriscono un’azione continua e duratura, ai quali segue una promessa divina. Egli si rivolge ai destinatari come fratelli e li invita a rallegrarsi, a correggersi ed esortarsi vicendevolmente, a tenere lo stesso orientamento cristiano di vita e a stare in pace nella comunità. All’esortazione fa da pendant l’affermazione che Dio, fonte dell’amore e della pace, sarà in mezzo a loro, condizione indispensabile per poter realizzare quanto qui l’apostolo ha richiesto loro in preparazione alla sua imminente visita. Al v. 12 si passa ai saluti, attraverso i quali Paolo mette in contatto i cristiani del luogo dal quale scrive con quelli ai quali egli si rivolge. Qui l’apostolo invita i destinatari a scambiarsi il bacio santo e invia i saluti per loro da parte dei cristiani macedoni. La pratica di baciarsi era già diffusa nel mondo antico in diversi contesti e per differenti scopi: tra amanti, in famiglia, con gli amici, all’interno di gruppi religiosi al fine di esprimere affetto, riconciliazione, fratellanza, rispetto. Paolo specifica che quello che i credenti debbono darsi vicendevolmente è «il bacio santo», perché essi sono chiamati alla santità. Attraverso questo segno egli insiste ancora sull’unità da promuovere nella Chiesa divisa di Corinto. Successivamente il «bacio» da scambiare sarà indicato come un elemento proprio della celebrazione eucaristica (Giustino, Apologia 1,65); in 2Cor 13,12 si può soltanto pensare a un gesto proprio di un’assemblea comunitaria che poteva avere un carattere liturgico (cfr. 1pt 5,14). Il v. 13 finale è costituito da un’originale benedizione, contenente l’asserzione trinitaria più chiara di tutto l’epistolario attribuito a Paolo. Infatti, l’apostolo benedice tutti i Corinzi, menzionando i doni della grazia, dell’amore e della comunione che provengono rispettivamente da Cristo, da Dio e dallo Spirito Santo. Come negli altri Post Scriptum paolini, qui si presenta il contenuto, la fonte divina e i destinatari della benedizione, ma con una rilevante espansione verso un’embrionale teologia delle persone divine. Tale dottrina sarà sviluppata in maniera compiuta solo successivamente. tuttavia, di essa si trovano altre tracce nel nuovo testamento, per esempio, nel passaggio paolino di 1Cor 12,4-6 o nella formula battesimale di Mt 28,19. Così, se al v. 11 Paolo aveva promesso la continua presenza di Dio nella comunità di Corinto, ora al v. 13 invoca su questa i doni divini. In fondo l’apostolo affida la Chiesa destinataria a Dio, solo al quale essa appartiene, con la speranza che grazie all’azione divina possa ritrovare la strada perduta. E, in effetti, dalla conclusione di romani, scritta con ogni probabilità a Corinto, è da presumere un esito positivo, grazie anche alla sofferta 2 Corinzi B, nella relazione tra Paolo e la sua comunità, con il completamento della colletta (cfr. Rm 15,26).


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L’inversione dell’elogio di sé 1Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 2So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. 3E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – 4fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. 5Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. 6Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me 7e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni. Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. 8A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. 9Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

Riepilogo sulla superiorità di Paolo rispetto agli avversari 11Sono diventato pazzo; ma siete voi che mi avete costretto. Infatti io avrei dovuto essere raccomandato da voi, perché non sono affatto inferiore a quei superapostoli, anche se sono un nulla. 12Certo, in mezzo a voi si sono compiuti i segni del vero apostolo, in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli. 13In che cosa infatti siete stati inferiori alle altre Chiese, se non in questo: che io non vi sono stato di peso? Perdonatemi questa ingiustizia!

Difesa del comportamento di Paolo e dei collaboratori 14Ecco, è la terza volta che sto per venire da voi, e non vi sarò di peso, perché non cerco i vostri beni, ma voi. Infatti non spetta ai figli mettere da parte per i genitori, ma ai genitori per i figli. 15Per conto mio ben volentieri mi prodigherò, anzi consumerò me stesso per le vostre anime. Se vi amo più intensamente, dovrei essere riamato di meno? 16Ma sia pure che io non vi sono stato di peso. Però, scaltro come sono, vi ho preso con inganno. 17Vi ho forse sfruttato per mezzo di alcuni di quelli che ho inviato tra voi? 18Ho vivamente pregato Tito di venire da voi e insieme con lui ho mandato quell’altro fratello. Tito vi ha forse sfruttati in qualche cosa? Non abbiamo forse camminato ambedue con lo stesso spirito, e sulle medesime tracce?

Rimprovero dei destinatari 19Da tempo vi immaginate che stiamo facendo la nostra difesa davanti a voi. Noi parliamo davanti a Dio, in Cristo, e tutto, carissimi, è per la vostra edificazione. 20Temo infatti che, venendo, non vi trovi come desidero e che, a mia volta, venga trovato da voi quale non mi desiderate. Temo che vi siano contese, invidie, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, disordini, 21e che, alla mia venuta, il mio Dio debba umiliarmi davanti a voi e io debba piangere su molti che in passato hanno peccato e non si sono convertiti dalle impurità, dalle immoralità e dalle dissolutezze che hanno commesso.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

L’inversione dell’elogio di sé Il v. 1, da una parte, continua a essere legato agli ultimi versetti del capitolo precedente dal punto di vista argomentativo e terminologico (cfr. «bisogna vantarsi», 11,30); dall’altra, introduce con una titolatura sulle visioni e sulle rivelazioni il testo successivo sino al v. 10. infatti, Paolo afferma che, seppur il vantarsi non sia conveniente, egli parlerà dei fenomeni estatici la cui personale esperienza deriva dall’intervento del suo signore. Ancora una volta l’apostolo ricorda che di per sé il vantarsi non è utile né per il singolo né per la comunità, tuttavia nel presente contesto c’è la necessità di replicare agli avversari; inoltre il suo ormai comincia a essere un vanto «nel Signore» e per questo accettabile (cfr. 10,17). In maniera sorprendente, al v. 2 Paolo comincia a parlare di una visione da lui ricevuta, riferendosi a sé in terza persona. Paolo attua un processo di transfert lodando, a motivo delle esperienze estatiche, non la propria persona ma il suo “io” ormai «in Cristo» e perciò scorto a distanza come un altro uomo: di sé non potrà altro che vantarsi delle debolezze (cfr. v. 5). L’apostolo, dunque, sostiene di sapere che un credente in Cristo, in ragione del legame con lui, quattordici anni prima rispetto al momento nel quale scrive la lettera, fu rapito da Dio al terzo cielo. Se questa sia stata un’esperienza corporea o extra-corporea Paolo lo ignora e solo il suo Signore può saperlo: con ciò si sottolinea l’aspetto divino e al di là dell’umana comprensione di quanto è accaduto. Paolo indica di essere giunto al terzo cielo, indicando così il limite massimo di un qualsiasi rapimento estatico che va a coincidere, secondo il v. 4, con lo stesso paradiso. I vv. 3-4 svelano e contemporaneamente velano l’esperienza mistica accaduta a Paolo. Infatti, nel v. 3 egli anzitutto ripete di non sapere se l’uomo in questione fosse fuori o dentro del corpo e che solo Dio ne è a conoscenza. Poi al v. 4 prosegue col dire che nel suo rapimento in paradiso udì parole inesprimibili che nessun uomo ha la capacità di comunicare. Così l’evento ha coinvolto non soltanto la vista, ma anche la facoltà uditiva e ha comportato un’esperienza della meta finale dell’esistenza dei credenti che per Paolo è costituita più che da un luogo da un incontro, quello con il Signore Gesù (cfr. 1Ts 4,17). Al v. 5 Paolo ritorna a parlare del vanto, indicando la chiave di lettura con la quale leggere le sue esperienze estatiche e riproponendo il ritornello del v. 1. Le visioni e le rivelazioni ricevute sono da considerarsi come un puro dono ricevuto da Dio, mentre le fragilità e i limiti sono propri dello stesso apostolo. Al v. 6 Paolo non riferisce a proprio merito le esperienze estatiche, invece, riguardo a sé, invita i Corinzi a considerarlo per quello che egli è come persona. L’apostolo desidera pure evitare che gli ascoltatori possano erroneamente leggere nel suo rapimento un motivo di vanto carnale. Infine, nel v. 6 Paolo aggiunge l’indicazione di guardare al suo esempio di vita e al suo insegnamento. Si comincia così a intravedere una progressione argomentativa nelle prove del vanto di sé invertito di 11,30–12,10: dalla fuga da Damasco, che mostra come Paolo non sia un eroe indefesso, alle visioni e rivelazioni che indicano il passaggio alla sua nuova identità in Cristo, al climax della «spina nella carne», dove l’elogio è quello delle proprie debolezze, cosicché Cristo dimori pienamente nella persona dell’apostolo. Al v. 7 il testo diventa ridondante ed enfatico proprio per segnalare l’arrivo al culmine del percorso argomentativo. Le visioni e le rivelazioni ricevute potevano essere mal comprese non solo dai Corinzi, come evocato in 12,6, ma dallo stesso apostolo, che avrebbe potuto farne motivo di un vanto individuale. Così Dio gli ha dato la «spina nella carne», che allo stesso tempo rappresenta una realtà mandata da satana per umiliarlo. Questa sorprendente coincidenza operativa è da spiegarsi probabilmente nel senso di una permissione divina secondo la quale Satana si trova, pur essendo sottoposto alla volontà di Dio, libero di operare il male nei confronti di uno dei suoi prediletti, ma con relativi effetti ultimi positivi (cfr. Gb 1,8-12; 2,3-6, 1Cor 5,5). L’apostolo non ci dice niente della natura della «spina nella carne», bensì soltanto quello che gli sta più a cuore, cioè la sua funzione rispetto al vanto nella debolezza. Raccogliendo le scarne indicazioni provenienti dal testo, notiamo che la «spina nella carne» è vista in stretta relazione con le summenzionate esperienze estatiche paoline, deve essere un dolore che colpisce a livello fisico, è una condizione permanente (cfr. 12,8), ha un’origine divina e una manifestazione legata all’azione di colui che è causa prima di ogni male dell’uomo, infine mostra un carattere umiliante e costituisce una debolezza personale. In considerazione di questi elementi è preferibile vedere nella famosa espressione una malattia fisica che affligge cronicamente l’apostolo e che lo rende fragile e disprezzabile di fronte ai suoi interlocutori (cfr. 2Cor 10,10; Gal 4,13-14), condizione che dovrebbe essere di impedimento alla missione, mentre paradossalmente ne diventa occasione, perché permette il dispiegarsi della potenza di Cristo (cfr. vv. 9-10). Nonostante Paolo nel versetto precedente abbia segnalato la finalità positiva e voluta da Dio della «spina nella carne», al v. 8 egli ricorda di avere pregato tre volte affinché il Signore lo liberasse da tale «angelo di Satana». Questa duplicità di aspetti, come anche la frequenza della supplica, sembra richiamare la triplice invocazione di Gesù nel Getsemani, dove da una parte chiede di non bere il calice della sua passione, dall’altra si affida alla volontà del Padre (cfr. Mt 26,39-44; Mc 14,32-42; Lc 22,39-46). Al v. 9 la risposta di Cristo è riportata da Paolo, a differenza di quanto udito al terzo cielo, ed è addirittura presentata in un discorso diretto, unico oracolo del risorto nelle lettere paoline; esso richiama le «rivelazioni del Signore» menzionate al v. 1. La risposta di Cristo non si situa allo stesso livello della richiesta dell’apostolo, perché non è guarito dalla sua malattia, ma la preghiera è comunque esaudita perché a Paolo è promesso l’aiuto della grazia, non solo in questo caso ma in ogni situazione di fragilità derivante dalla sua attività missionaria. Se la potenza di Cristo viene ad abitare nella debolezza e solo in essa agisce, allora Paolo accetterà le proprie fragilità e si vanterà di esse perché luogo di presenza del risorto. Questa prospettiva paradossale, da una parte, corrisponde all’agire di Dio che sceglie la debolezza della croce per mostrare la sua potenza salvifica e i deboli come suoi eletti per confondere i forti (cfr. 1Cor 1,18-31); dall’altra, indica che l’apostolo e poi ogni credente sono chiamati a ripercorrere nella propria esistenza lo stesso percorso di morte e risurrezione del loro Signore, che «fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio» (2Cor 13,4). Con tale condizione di debolezza che lo rende simile a Cristo, Paolo dimostra ancora una volta la validità di quanto asserito nella tesi di 11,5-6: egli è inesperto nell’arte del parlare, ma non nella sua conoscenza esperienziale del Signore. Dietro l’immagine della dimora di Cristo c’è probabilmente l’idea rabbinica della šekînâ, cioè della presenza di Dio in mezzo al suo popolo attraverso la tenda del convegno; sulla stessa linea si muoverà Gv 1,14 dicendo che «il Lógos divenne carne e prese dimora [alla lettera: pose la sua tenda] in mezzo a noi». Il v. 10 si presenta come conseguenza del precedente e come conclusione del brano della seconda parte della dimostrazione (11,21b–12,10). Infatti, se la debolezza è il luogo in cui si manifesta la potenza di Cristo, allora Paolo è contento delle debolezze sperimentate a favore di Cristo e del suo Vangelo le quali consistono, secondo un ultimo catalogo di avversità, In oltraggi, necessità, persecuzioni e angosce. inoltre, a chiusura e culmine di tutto il discorso del folle, l’apostolo esprime la sua paradossale sicurezza con un motto personale: ogni qualvolta sperimenta nell’esercizio del suo ministero la propria fragilità, contemporaneamente fa esperienza della forza proveniente dalla grazia di Cristo.

Riepilogo sulla superiorità di Paolo rispetto agli avversari Con il v. 11 Paolo comincia una riflessione e una ricapitolazione di quanto ha appena scritto. Egli afferma che è stato costretto a ricorrere alla follia del vanto di sé a causa dei Corinzi, poiché lo avrebbero dovuto sostenere, dato che durante il suo ministero in mezzo a loro l’apostolo ha mostrato di essere superiore agli avversari, pur non essendo niente. Per necessità, dovuta alla presenza degli oppositori e alla conseguente difesa dei suoi dal loro influsso, Paolo ha intessuto un elogio di sé che nella sua prima parte era folle, perché «secondo la carne» come quello degli altri (11,18). Qui sono poi rimproverati i destinatari che avrebbero dovuto difenderlo di fronte agli avversari che si sono auto-raccomandati (cfr. 10,12). Infine l’apostolo, mentre ribadisce in modo definitivo la sua superiorità rispetto ai rivali, allo stesso tempo riconosce di essere nulla di fronte al suo Signore, attraverso il precedente vanto «in Cristo» e nella propria debolezza. il v. 12 spiega perché l’apostolo è superiore ai suoi avversari e, nello stesso tempo, si considera nulla. Il versetto sottolinea da una parte l’azione di Dio, ma dall’altra anche la capacità di sopportazione mostrata dall’apostolo, già evocata nei suoi cataloghi di avversità. Il v. 13 appare richiamare il v. 11, fornendo nello specifico la ragione per la quale i Corinzi l’avrebbero dovuto sostenere.

Difesa del comportamento di Paolo e dei collaboratori Con il v. 14 viene introdotta la terza visita di Paolo a Corinto. Tuttavia qui tale aspetto è funzionale a quello dell’indipendenza economica dell’apostolo dalla comunità, vero centro del versetto. Così egli annunzia che è pronto ad andare dai suoi una terza volta, ma che non sarà di peso per loro perché è interessato non a quanto possiedono ma alle persone dei destinatari. Infatti, egli è loro padre; quindi, spetta a lui mettere da parte per i suoi figli Corinzi, non viceversa. La terza visita viene dopo quella della fondazione (cfr. At 18,1-18) e quella legata all’episodio dell’offensore (cfr. 2Cor 2,1-13; 7,12). Era già stata preannunciata in 9,4 per raccogliere la colletta insieme ad alcuni inviati macedoni, ma in 13,1-3 è presentata come una visita punitiva da parte del solo fondatore della comunità a conferma del fatto che i due annunzi appartengono a due lettere diverse, scritte a distanza temporale di alcuni mesi. Il v. 15 sviluppa la metafora paterna ancora in riferimento al futuro, mentre rimarca l’amore presente di Paolo per i Corinzi con l’esigenza di un contraccambio. L’apostolo, infatti, prima afferma che non solo donerà ai suoi quanto ha, ma che darà loro tutto se stesso, poi con una domanda retorica chiede se al suo affetto più intenso è giusto che ne corrisponda uno inferiore da parte dei destinatari. Così Paolo insiste di nuovo sull’elemento della gratuità della sua evangelizzazione a Corinto che lo differenzia completamente dagli avversari (cfr. 11,20) e che è dimostrazione di vero amore per la comunità (cfr. 11,11). Essa è così indirettamente rimproverata, perché non comprende che questo affetto passa attraverso il dono gratuito del Vangelo e perché non è capace di rispondere con un amore della stessa intensità di quello dell’apostolo. A partire dal v. 16 l’attenzione è spostata sulla passata condotta di Paolo e dei suoi collaboratori nei confronti dei Corinzi, in merito soprattutto alle questioni economiche. Con il v. 17 Paolo intende indirettamente sostenere che non si è mai reso colpevole di una scaltra pratica finanziaria orchestrata ai danni dei Corinzi per mezzo dei suoi delegati. Al v 18 termina il “discorso del folle” con un accorato invito ai destinatari a non dare credito alle calunnie nei confronti del fondatore e padre della comunità, ma a riporre in lui la piena fiducia che gli avevano accordato all’inizio quando aveva annunciato loro per la prima volta il Vangelo. Concluso il corpus di 2 Corinzi B e il suo ragionamento in ordine alla persuasione degli ascoltatori, Paolo passerà a preparare la sua terza visita, già annunciata e in precedenza rimandata.

Rimprovero dei destinatari Avendo già in mente la sua prossima visita, Paolo vuole eliminare ogni impedimento che possa incidere negativamente su di essa. Per questo al v. 19 comincia con il chiarire che tutto quanto ha scritto nel suo discorso del folle non è una vera e propria apologia, perché egli si è posto da credente in Cristo di fronte al giudizio di Dio e con la finalità del progresso spirituale dei destinatari, da lui amati nonostante le rilevanti tensioni relazionali. Il v. 20 spiega il perché della finalità di edificazione del discorso di Paolo a partire dalla situazione della comunità corinzia, tratteggiata probabilmente in base alle informazioni ricevute dall’apostolo. Egli teme che al momento della visita trovi i destinatari in una condizione non auspicabile e che, a loro volta, essi debbano sopportare una poco desiderabile punizione da parte sua nei loro confronti. Il v. 21 aggiunge altri timori di Paolo in relazione alla sua prossima terza visita alla comunità di Corinto. Nel versetto è presente la paura che Dio permetta un’altra umiliante esperienza all’apostolo, come quella avvenuta in occasione della sua seconda visita a Corinto (cfr. 2,1-11), perché secondo l’apostolo, la penetrazione degli avversari a Corinto ha prodotto una tragica regressione all’interno della comunità, così da mettere in discussione l’intero percorso di fede dei destinatari.


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Appello ai Corinzi 1Se soltanto poteste sopportare un po’ di follia da parte mia! Ma, certo, voi mi sopportate. 2Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina: vi ho promessi infatti a un unico sposo, per presentarvi a Cristo come vergine casta. 3Temo però che, come il serpente con la sua malizia sedusse Eva, così i vostri pensieri vengano in qualche modo traviati dalla loro semplicità e purezza nei riguardi di Cristo. 4Infatti, se il primo venuto vi predica un Gesù diverso da quello che vi abbiamo predicato noi, o se ricevete uno spirito diverso da quello che avete ricevuto, o un altro vangelo che non avete ancora sentito, voi siete ben disposti ad accettarlo.

La superiorità di Paolo sugli avversari 5Ora, io ritengo di non essere in nulla inferiore a questi superapostoli! 6E se anche sono un profano nell’arte del parlare, non lo sono però nella dottrina, come abbiamo dimostrato in tutto e per tutto davanti a voi.

La gratuità dell’evangelizzazione a Corinto 7O forse commisi una colpa abbassando me stesso per esaltare voi, quando vi ho annunciato gratuitamente il vangelo di Dio? 8Ho impoverito altre Chiese accettando il necessario per vivere, allo scopo di servire voi. 9E, trovandomi presso di voi e pur essendo nel bisogno, non sono stato di peso ad alcuno, perché alle mie necessità hanno provveduto i fratelli giunti dalla Macedonia. In ogni circostanza ho fatto il possibile per non esservi di aggravio e così farò in avvenire. 10Cristo mi è testimone: nessuno mi toglierà questo vanto in terra di Acaia! 11Perché? Forse perché non vi amo? Lo sa Dio!

Attacco agli avversari 12Lo faccio invece, e lo farò ancora, per troncare ogni pretesto a quelli che cercano un pretesto per apparire come noi in quello di cui si vantano. 13Questi tali sono falsi apostoli, lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. 14Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce. 15Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere.

La follia del vanto di sé 16Lo dico di nuovo: nessuno mi consideri un pazzo. Se no, ritenetemi pure come un pazzo, perché anch’io possa vantarmi un poco. 17Quello che dico, però, non lo dico secondo il Signore, ma come da stolto, nella fiducia che ho di potermi vantare. 18Dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano, mi vanterò anch’io. 19Infatti voi, che pure siete saggi, sopportate facilmente gli stolti. 20In realtà sopportate chi vi rende schiavi, chi vi divora, chi vi deruba, chi è arrogante, chi vi colpisce in faccia. 21Lo dico con vergogna, come se fossimo stati deboli!

L’elogio di sé con i suoi motivi Tuttavia, in quello in cui qualcuno osa vantarsi – lo dico da stolto – oso vantarmi anch’io. 22Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! 23Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. 24Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; 25tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. 26Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; 27disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. 28Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. 29Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?

L’inversione dell’elogio di sé – inizio 30Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza. 31Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. 32A Damasco, il governatore del re Areta aveva posto delle guardie nella città dei Damasceni per catturarmi, 33ma da una finestra fui calato giù in una cesta, lungo il muro, e sfuggii dalle sue mani.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Appello ai Corinzi L’appello rivolto da Paolo ai Corinzi al v. 1 è una preventiva richiesta di scuse, attraverso la quale l’autore chiede la pazienza degli ascoltatori per ciò che sta per dire in quanto potenzialmente inadatto o stravagante. Il tono dell’appello è ironico e mette in gioco la tematica della pazzia che sarà ripresa lungo il discorso. il v. 2 fornisce una motivazione della follia paolina menzionata in precedenza rispetto al vanto di sé che egli andrà a presentare. L’apostolo afferma che ha un premuroso affetto per i Corinzi, come quello mostrato da Dio per Israele (cfr., p. es., Es 34,14; Dt 5,9; Gs 24,19): nel testo domina la metafora matrimoniale che nell’antico testamento descrive il rapporto d’amore, talvolta turbolento, tra Dio e il suo popolo (cfr., p. es., Is 54,5-6; Ez 16,6-19; Os 2,16-22). Nel nuovo testamento tale immagine è utilizzata per descrivere le nozze escatologiche di Cristo con l’umanità, in particolare con la Chiesa (cfr., p. es., Mt 25,1-13; Ef 5,21-32, Ap 19,7-9; 21,2). Nello specifico, in 2Cor 11,2 possiamo ritrovare le due fasi del matrimonio ebraico: il momento in cui è stipulato il contratto matrimoniale in base al quale gli sposi, pur non vivendo ancora insieme, sono ormai indissolubilmente vincolati l’uno all’altra; e le nozze vere e proprie con la relativa consumazione del matrimonio e il conseguente inizio della convivenza. Come evidenziato anche in Ap 21,9 con «la fidanzata» che diviene «sposa dell’Agnello», si tratta prima della Chiesa nel tempo della storia terrena, poi nel compimento escatologico. Così Paolo, come il padre della sposa che doveva garantire la verginità della figlia sino alla consumazione del matrimonio (cfr. Dt 22,13-21), ha promesso di mantenere la comunità illibata e legata esclusivamente a Cristo suo sposo fino al momento di poterla presentare a lui per le nozze eterne. In questo modo l’apostolo da una parte esprime il suo veemente affetto per la comunità; dall’altra sa che non è lui che la possiede e al quale appartiene, mentre teme che essa si conceda a un altro Cristo, quello presentato dagli avversari (cfr. v. 4). Al v. 3 Paolo mostra il timore di non potere assolvere al suo compito in relazione alla comunità; quindi, manifesta la sua effettiva gelosia per lei. Infatti, l’apostolo afferma di temere che, come Eva fu fuorviata a causa della furbizia del serpente, così anche i Corinzi siano sviati nei pensieri perdendo la loro semplicità e purità in relazione a Cristo. Il v. 4 vuol motivare la paura di Paolo per la comunità e per la sua perseveranza nella fede in Cristo, timore dovuto all’azione degli avversari. L’apostolo, anche con amara ironia, mette i destinatari di fronte alle loro responsabilità, sottolineando il negativo cambiamento intervenuto nel loro cammino di fede rispetto al momento nel quale hanno accolto l’annuncio da lui recato.

La superiorità di Paolo sugli avversari Al v. 5, da una parte, si presenta l’ultima e decisiva ragione, legata all’esistenza degli oppositori, per la quale i Corinzi dovrebbero tollerare la follia di Paolo; dall’altra, si introduce la tesi che regge tutta l’argomentazione successiva. L’apostolo sostiene che egli non si ritiene in niente inferiore agli avversari, indicati con un’ironia pungente come «super-apostoli» infatti non afferma più di essere al pari degli altri come in 10,7, ma superiore a loro! Al v. 6 Paolo da una parte ammette di essere inesperto nell’arte del parlare, dall’altra, sostiene di non esserlo nel conoscere, così come ha manifestato in ogni modo e in ogni circostanza ai Corinzi. Nel complesso i vv. 5-6 introducono le due parti della dimostrazione con le rispettive prove di fatti, derivanti dalla concreta realtà del ministero e della persona dell’apostolo: la gratuità dell’evangelizzazione di Paolo (11,7-21a), la sua forza nella debolezza in Cristo (11,21b–12,10). Si tratta quindi di due porzioni testuali finalizzate a sostenere la tesi della superiorità dell’apostolo rispetto agli avversari nella conoscenza di Cristo.

La gratuità dell’evangelizzazione a Corinto Al v. 7 Paolo domanda ai Corinzi se egli ha forse sbagliato quando ha loro annunciato gratuitamente il Vangelo di Dio vivendo in indigenza affinché i destinatari ricevessero un arricchimento spirituale. L’apostolo rimprovera la comunità per la sua ingratitudine di fronte al fatto che egli ha lavorato con le proprie mani e non è stato di peso a essa, mentre la riempiva dei doni divini attraverso la sua predicazione. Al v. 8, dopo avere ricordato la non accettazione del sostegno economico proveniente dai Corinzi, Paolo sottolinea che la cosa è avvenuta a scapito di altre Chiese. Infatti l’apostolo afferma, attraverso un linguaggio militare venato di sarcasmo, di avere saccheggiato altre comunità cristiane accettando da loro il suo salario allo scopo di servire i destinatari. Dunque, l’assistenza ricevuta dagli altri cristiani non è stata un beneficio tipico del patrono, così come vorrebbe essere quella dei destinatari nei confronti di Paolo; in più è ricaduta a vantaggio dei Corinzi, che quindi non possono ritenersi offesi da tale diverso comportamento dell’apostolo. Nel v. 9 Paolo afferma che durante la sua permanenza a Corinto si è trovato nella necessità, ma non ha gravato su nessuno. probabilmente durante la permanenza a Corinto l’apostolo non è riuscito a sostenersi con il proprio lavoro, anche perché l’impegno di evangelizzazione deve avere tolto tempo all’attività di fabbricatore di tende, ma per sua fortuna ha ricevuto un aiuto spontaneo dalla Macedonia. Al v. 10 Paolo ricorre a una formula di giuramento simile a quella utilizzata in Rm 9,1, secondo la quale si dice che la verità di Cristo dimora in lui ed è garanzia della veridicità dell’apostolo. Il contenuto del giuramento è il fatto che il suo vanto, riguardo alla gratuità dell’evangelizzazione, non sarà fatto tacere nella provincia romana dell’Acaia. La scelta di non farsi sostenere dalla comunità deve avere suscitato fraintendimenti e insinuazioni nella Chiesa di Corinto, sentimenti forse ulteriormente fomentati dagli avversari sopraggiunti in essa. Per questo al v. 11 l’apostolo sente la necessità di chiarire, attraverso uno stile dialogico evocativo della diatriba (scritto o discorso nel quale si rimprovera l’interlocutore per mostrargli il suo errore), che se non ha accettato l’aiuto economico dei Corinzi non è perché egli non li ami (in effetti essi dovevano leggere tale comportamento come il rifiuto di un rapporto di reciprocità). A sostegno della sua posizione e del suo amore per i destinatari Paolo chiama a testimone, attraverso una formula di giuramento, Dio, che tutto conosce. Così, in conclusione, appare chiaro che nei vv. 7-11 l’elemento del pathos gioca un suo ruolo al fine di suscitare un atteggiamento positivo dei Corinzi nei confronti dell’apostolo.

Attacco agli avversari Al v. 12, dopo avere negato che il rifiuto del sostentamento significhi una mancanza di affetto per i destinatari, Paolo fornisce una motivazione in positivo per la continuazione di tale atteggiamento. Egli afferma, ricorrendo all’elemento del confronto retorico, che mentre lui annuncia gratuitamente il Vangelo, gli avversari si fanno mantenere dalla comunità e ciò rappresenta una chiara e tangibile differenza tra lui e gli altri. Se egli decidesse di rinunciare alla sua posizione, tale scelta diventerebbe un utile pretesto per gli oppositori per mostrare che il loro è un apostolato al pari di quello paolino. Il v. 13 intende spiegare perché qualsiasi equiparazione tra l’apostolo e gli avversari sia completamente inopportuna. Tale spiegazione comincia anche a fornire elementi utili per abbozzare l’identità degli oppositori riuniti in un gruppo, i quali tuttavia, rimangono anonimi. Prima di tutto Paolo definisce gli avversari «falsi apostoli», richiamando la figura anticotestamentaria e neotestamentaria del falso profeta che non annunciava la parola di Dio, ma la propria (cfr., p. es., Ger 6,13; Zc 13,2; Mt 7,15): essi infatti annunciano un Gesù, uno spirito, un Vangelo diversi da quelli dell’apostolo (cfr. 11,4). Poi si comportano come «operai fraudolenti», probabilmente perché nella loro missione a Corinto agiscono in maniera astuta invadendo il campo di evangelizzazione di Paolo (cfr. 10,13; 11,3). In fondo, secondo l’apostolo, gli avversari pretendono di essere inviati da Cristo e di appartenere a lui, mentre tutto ciò è pura falsità e ipocrisia (cfr. 10,7). Al v. 14 lo mascheramento degli avversari è giustificato a partire da quello di satana. Paolo afferma, infatti, che non deve destare meraviglia la trasformazione degli oppositori, perché l’Avversario stesso è solito prendere le sembianze di un angelo luminoso. Al v. 15 l’attacco contro gli avversari raggiunge la sua conclusione e il suo climax con parole molto forti nei loro confronti. L’apostolo, etichettando gli oppositori cristiani come ministri di Satana, usa toni comparabili soltanto a Fil 3,18-19 dove altri credenti sono designati come «nemici della croce di Cristo», in vista anche del giudizio ultimo. In ogni caso, la finalità dei vv. 13-15 non è tanto denigrare gli avversari, quanto provocare una presa di distanza dei Corinzi nei loro confronti attraverso il risveglio di un pathos negativo, cosicché pure i destinatari li considerino come nemici. Il loro mascheramento nelle vesti di «ministri della giustizia» non intende tanto evocare la questione della giustificazione per la fede, soltanto menzionata in 2 Corinzi (cfr. 3,9; 5,21), quanto riferirsi a un ministero apparentemente giusto e secondo la volontà di Dio, ma effettivamente fraudolento (cfr. 2Cor 6,7). In ogni caso, secondo Paolo essi non potranno più ingannare nessuno di fronte al giudizio finale, dove saranno giudicati e quindi condannati in ragione delle loro opere.

La follia del vanto di sé In maniera simile al v. 1, da una parte Paolo afferma che non vorrebbe essere considerato un folle a fronte dell’elogio di sé che sta per intraprendere; dall’altra si vede costretto a ricorrere a tale pratica a motivo dei Corinzi (cfr. 12,11) che stanno sotto l’influenza degli avversari, i quali si vantano oltre misura (cfr. 10,12-14). La sottolineatura paolina è quella di sostenere che egli sta semplicemente giocando un ruolo al quale si adatta, per il bene dei suoi, al fine di poter vincere sul loro stesso piano gli oppositori, dai quali però egli intende differenziarsi in tutto. Col v. 17 Paolo precisa il senso del suo autoelogio. Infatti, sostiene che ciò che sta per dire non è secondo una prospettiva di fede, ma nella modalità di un folle vanto. Secondo l’apostolo seguire l’atteggiamento degli avversari implica non un vantarsi «nel signore» (cfr. 10,17) ma, all’opposto, «secondo la carne», così come si esprimerà nel versetto successivo. Tuttavia, anche in questo modo egli tiene a far sapere ai destinatari che la sua pazzia è fittizia («come nella follia») ed è assunta proprio per mostrare l’insensatezza dei suoi oppositori e ristabilire la sua autorità nella Chiesa di Corinto. Al v. 18 Paolo continua ad approfondire le circostanze del suo prossimo elogio di sé. Egli sostiene infatti che la motivazione è data dal fatto che gli avversari si vantano secondo criteri puramente umani e mondani; quindi, lui farà altrettanto. In apparenza l’apostolo si contraddice, visto che in 10,3 aveva affermato di non comportarsi «secondo la carne». La presenza degli avversari, qui menzionata con enfasi, è una delle motivazioni tipiche per giustificare il ricorso all’elogio di sé. Il v. 19 fornisce una ragione sia per l’accettazione di Paolo come folle (cfr. v. 16), sia della follia del suo vanto (cfr. vv. 17-18). Così l’apostolo con fine ironia afferma che, giacché i Corinzi sono così saggi, volentieri sopportano i folli. Il riferimento è all’atteggiamento dei destinatari nei confronti dei rivali, da loro ben accolti (cfr. 11, 4), nonostante il fatto che secondo Paolo lo smisurato vanto degli avversari sia folle (cfr. 10,12-14). Di conseguenza, l’apostolo fa intendere come egli si aspetti che il suo elogio di sé sia tollerato dai Corinzi senza problemi (cfr. v. 1). Nel v. 20 è presentata una lista enfatica di cinque verbi utilizzati per descrivere gli abusi degli avversari a Corinto, a fronte dell’accoglienza loro riservata dai destinatari, già ricordata nel versetto precedente. Nonostante questo elenco, l’attenzione del versetto è posta non sugli avversari, che come al solito rimangono senza volto, ma sulla scioccante accoglienza dei destinatari nei loro confronti. Così l’apostolo mette i Corinzi di fronte alle loro responsabilità, alludendo anche al suo comportamento diametralmente opposto (cfr. 11,7.11.21a), che paradossalmente ha ricevuto ben altra accoglienza. il v. 21a chiude il brano con un ritorno al comportamento di Paolo a confronto con quello degli avversari. Il tono è ironico e provocatorio rispetto ai destinatari, d’altra parte il riferimento non è tanto alla dimessa presenza fisica di Paolo, come in 10,10, quanto alla sua scelta di non imporsi e non sfruttare economicamente la comunità di Corinto. Di fronte all’atteggiamento protervo degli oppositori tale opzione risulta, secondo l’apostolo, nient’altro che debolezza. Ma questa tematica costituirà un aspetto saliente dell’elogio di sé di 11,21b–12,10, cosicché 11,21a rappresenta una cerniera, poiché mentre conclude 11,7-21a, prima prova della superiorità di Paolo rispetto agli avversari in ragione del suo annuncio gratuito del Vangelo, prepara lo sviluppo seguente.

L’elogio di sé con i suoi motivi Con il v. 21b l’«io» di Paolo non si nasconde più dietro il «noi» come è avvenuto in precedenza, ma esce alla ribalta. Paolo afferma che se i rivali hanno la temerarietà di ricorrere al vanto di sé, allora anche lui può farlo, sebbene tutto ciò lo dica in una prospettiva folle. Come avviene in ogni elogio o autoelogio, Paolo comincia con un riferimento alle “origini” (così anche in Fil 3,5). In questo modo parte anche il confronto retorico con gli avversari, mettendo prima di tutto l’apostolo al loro pari. Ciò non attesta semplicemente l’identità ebraica degli oppositori, ma evidenzia soprattutto una precisa strategia argomentativa, con la quale si decide di giocare sullo stesso terreno degli avversari, vedendo ciò che è in comune con loro, per poi sconfiggerli. Al v. 23a c'è, invece, un riferimento alle “azioni”: è quello che riveste maggiore importanza, perché è ciò che permette di rendere maggiore testimonianza alle virtù della persona elogiata. Qui Paolo mette in gioco l’agire missionario a servizio di Cristo e del suo Vangelo. Se da una parte l’apostolo sembra riprendere le pretese degli avversari, che si dovevano considerare «super-apostoli» dall’altra egli afferma, con un folle vanto di sé, di essere superiore a loro riguardo al ministero per Cristo (cfr. «io di più») e, di conseguenza, anche riguardo alla conoscenza di Lui. Il passaggio dalla parità alla superiorità con gli avversari, di cui indirettamente è attestato il profilo di missionari cristiani, deve essere ampiamente giustificato, ed è ciò che accade nei versetti successivi, i quali mostrano le diverse situazioni di difficoltà incontrate nel servizio per il Vangelo da parte di Paolo. Le numerose figure presenti nel testo sono al servizio di una retorica dell’amplificazione e dell’eccesso, volta a enfatizzare colui che si loda, al fine di mostrarne l’incomparabile superiorità sui rivali con i quali si confronta. Di conseguenza, il tenore amplificante dell’elenco invita a guardare i dati relativi alle avversità subite da Paolo con una certa circospezione. Al v. 27 sono presentate le sofferenze di Paolo derivanti dalle privazioni sopportate nell’esercizio del suo ministero, con una ripresa di alcune di esse dalle liste di 1Cor 4,10-13 e di 2Cor 6,4b-5. L’apostolo afferma così di essersi molto affaticato nel lavoro (probabilmente per il Vangelo e per il proprio fabbisogno, avendo deciso di non farsi sostenere dalle sue comunità), di avere spesso rinunciato al sonno e al cibo per compiere il proprio servizio, di avere sofferto la fame e la sete nella totale indigenza e di avere patito il freddo derivante da una mancanza di adeguato vestiario. I vv. 28-29 concludono la lista delle avversità, aggiungendo quelle più direttamente legate alle situazioni ecclesiali. Trovandosi al termine dell’elenco, tali sofferenze possono essere considerate il suo climax, ciò che dimostra più chiaramente la statura apostolica di Paolo e, quindi, la sua superiorità sugli avversari. Attraverso l’uso del linguaggio della debolezza, il v. 29 introduce il successivo e con esso la seconda parte del brano, la quale focalizzerà l’attenzione su tale tematica.

L’inversione dell’elogio di sé – inizio Con il v. 30 assistiamo a un mutamento: se finora l’apostolo aveva seguito i canoni retorici intessendo un elogio di se stesso basato sulle sue origini e sulle sue azioni, ora invece decide di vantarsi di ciò che è normalmente disprezzato dai contemporanei, cioè delle proprie debolezze (la frase: «mi vanterò delle mie debolezze» ritorna anche in 12,5.9). L’elogio di sé è dunque invertito, diviene paradossale e corrisponde al vantarsi «secondo il Signore» (cfr. 11,17). Infatti, la seconda parte dell'autoelogio avrà come sue motivazioni questi tre fatti: la fuga da Damasco, le visioni e le rivelazioni dell’«io in Cristo», la «spina nella carne». La superiorità di Paolo sugli avversari comincia, quindi, a essere dimostrata giocando su un terreno completamente diverso dal loro, ma proprio per questo risalterà ancor più, di fronte ai destinatari, la sua eccellenza rispetto agli oppositori e, quindi, il suo incomparabile profilo apostolico. L’inversione dell’elogio di sé avviene anche nel testo parallelo di Fil 3,1–4,1, laddove Paolo annuncia che i doni ricevuti e le virtù acquisite che considerava come guadagni sono diventati perdita – anzi, spazzatura – di fronte al valore sovreminente della conoscenza di Cristo (cfr. Fil 3,7-8). il v. 31 è caratterizzato da un formula di giuramento, congiunta a una di benedizione, che intende dare autorevolezza all’asserzione del versetto precedente. Paolo presenta nei vv. 32-33, con una certa autoironia, l’episodio concernente la sua fuga da Damasco, avvenimento che lo rivela tutto l’opposto di quell’eroe indefesso che sembrava emergere dal catalogo dei vv. 23b-29, ma che dimostra invece la sua debolezza della quale paradossalmente sceglie di vantarsi. Nonostante alcuni studiosi sollevino questioni sino a considerarli fuori luogo e a espungerli dal testo in quanto interpolazione, dal punto di vista argomentativo il ruolo di questi versetti, come notato, è abbastanza chiaro, mentre meno evidenti appaiono i contorni storici dell’episodio qui narrato.


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Esordio 1Ora io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo, io che, di presenza, sarei con voi debole ma che, da lontano, sono audace verso di voi: 2vi supplico di non costringermi, quando sarò tra voi, ad agire con quell’energia che ritengo di dover adoperare contro alcuni, i quali pensano che noi ci comportiamo secondo criteri umani. 3In realtà, noi viviamo nella carne, ma non combattiamo secondo criteri umani. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, 4ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, 5distruggendo i ragionamenti e ogni arroganza che si leva contro la conoscenza di Dio, e sottomettendo ogni intelligenza all’obbedienza di Cristo. 6Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta.

Confutazione delle accuse 7Guardate bene le cose in faccia: se qualcuno ha in se stesso la persuasione di appartenere a Cristo, si ricordi che, se lui è di Cristo, lo siamo anche noi. 8In realtà, anche se mi vantassi di più a causa della nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina, non avrò da vergognarmene. 9Non sembri che io voglia spaventarvi con le lettere! 10Perché «le lettere – si dice – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa». 11Questo tale rifletta però che quali noi siamo a parole, per lettera, assenti, tali saremo anche con i fatti, di presenza. 12Certo, noi non abbiamo l’audacia di uguagliarci o paragonarci ad alcuni di quelli che si raccomandano da sé, ma, mentre si misurano su se stessi e si paragonano con se stessi, mancano di intelligenza. 13Noi invece non ci vanteremo oltre misura, ma secondo la misura della norma che Dio ci ha assegnato, quella di arrivare anche fino a voi. 14Non ci arroghiamo un’autorità indebita, come se non fossimo arrivati fino a voi, perché anche a voi siamo giunti col vangelo di Cristo. 15Né ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui, ma abbiamo la speranza, col crescere della vostra fede, di crescere ancor più nella vostra considerazione, secondo la nostra misura, 16per evangelizzare le regioni più lontane della vostra, senza vantarci, alla maniera degli altri, delle cose già fatte da altri. 17Perciò chi si vanta, si vanti nel Signore; 18infatti non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

La sezione dei capitoli 10–13 rappresenta una lettera successiva alla precedente, benché priva del suo praescriptum. Se i capitoli 1–9 avevano indicato una riconciliazione ormai raggiunta nei rapporti tra l’apostolo e la sua comunità, quelli successivi si presentano inaspettatamente segnati da un profondo conflitto, dovuto all’azione degli avversari giudeo-cristiani, che hanno creato tale frattura. Inoltre, mentre in 2 Corinzi A Paolo tratta di sé insieme ai suoi collaboratori, in 2 Corinzi B l’«io» paolino è del tutto preponderante e l’apostolo si trova da solo sulla scena, rivolgendosi direttamente alla comunità, ma tenendo ben conto della presenza degli oppositori con i quali si confronta. In generale, il problema sottostante la sezione non è principalmente quello della polemica contro gli avversari, sebbene essi abbiano uno spazio rilevante, bensì quello del ministero di Paolo nei confronti dei destinatari: egli si scaglia contro i primi non tanto per denigrarli, quanto per riconquistare a sé i secondi, che subivano l’influenza degli oppositori.

Esordio Il testo di 10,1-6 introduce 2 Corinzi B presentandone i protagonisti: Paolo, i Corinzi, con i quali egli si relaziona direttamente, e, sullo sfondo, gli avversari. Da subito è chiaro anche il clima di conflitto che segna la nuova lettera. Perciò già all’inizio l’apostolo, rivolgendosi accoratamente ai destinatari, si scaglia contro gli avversari al fine di difendere il proprio apostolato da generiche critiche. L’apostolo poi riferisce di un’accusa sollevata a Corinto nei suoi confronti, riguardo all’incapacità di imporsi quando si trova all’interno della comunità, mentre si dimostra forte da lontano, scrivendo le sue lettere. Al v. 2 Paolo riprende l’appello nei confronti dei Corinzi, mostrandone il contenuto: chiede ai suoi, allorché li visiterà, di non essere costretto ad agire audacemente con quella fermezza che ritiene invece di dover utilizzare nei confronti degli avversari, che, a loro volta, lo giudicano come uno che si comporta secondo la mentalità mondana. La pavidità che, secondo il versetto precedente, è attribuita all’apostolo troverà quindi una concreta smentita in occasione della sua terza visita a Corinto, che egli desidererebbe non fosse segnata dallo scontro, ma dalla riconciliazione con la comunità (cfr. 12,14; 13,10), mentre promette un duro intervento nei confronti dei suoi detrattori. Al v. 3 Paolo, da una parte, ammette di vivere l’esistenza naturale e limitata di ogni uomo; dall’altra, sostiene di non svolgere il combattimento, che è il suo ministero apostolico, seguendo criteri mondani. Amplificando quanto affermato nel v. 3, Paolo nel v. 4a si diffonde a parlare della sua battaglia non «secondo la carne». infatti, egli afferma che le sue armi non sono mondane, ma hanno una forza che è posta al servizio di Dio per la distruzione delle fortezze innalzate contro il Vangelo. Nei vv. 4b-5 si comincia a fornire l’interpretazione dell’immagine militare. Dapprima Paolo afferma che le fortezze votate alla distruzione sono i vani ragionamenti e gli atteggiamenti arroganti che si pongono da ostacolo alla conoscenza di Dio. Poi, alla fine di 10,5, in positivo, attraverso la metafora militare si sviluppa l’idea del prendere prigioniera ogni mente per condurla all’obbedienza di fede a Cristo, contenuto della predicazione paolina. Il v. 6 conclude l’esplicitazione della metafora militare: Paolo sostiene che è preparato a castigare ogni disobbedienza a Corinto non appena l’obbedienza dei destinatari sarà piena. Non è chiaro come Paolo possa punire i primi, se non forse cacciandoli dalla comunità, mentre per i secondi è più facile pensare a un intervento medicinale trattandosi di membri della Chiesa corinzia (cfr. 1Cor 5,4-7; 2Cor 2,6-7). Il versetto conclude l’esordio con il tentativo di separare i destinatari dagli oppositori paolini penetrati nella comunità, richiamando la fedeltà a Cristo e al suo Vangelo, predicato da Paolo. Tutto questo ci dice che la riconciliazione tra l’apostolo e la comunità, celebrata in 2 Corinzi A attraverso la manifestazione di una piena fiducia e la conseguente iniziativa di ripresa della colletta (cfr. 7,16; 9,2.13-15), appartiene ormai al passato. Infatti Paolo, come si mostrerà nello sviluppo successivo, deve di nuovo e più aspramente lottare per riconquistare a sé i Corinzi.

Confutazione delle accuse Paolo comincia col rivolgersi esplicitamente ai destinatari, che intende convincere dell’infondatezza delle accuse a lui rivolte. al v. 7 l’elemento del confronto retorico ruota attorno alla questione del ministero cristiano, e Paolo sembra concedere agli oppositori lo status apostolico che poi negherà loro (cfr. 11,13-15). Tuttavia, il testo indica che tale piuttosto è la loro percezione e che di questo, al momento, l’autore non si preoccupa, perché più importante è mettere i destinatari di fronte all’evidenza della sua apostolicità, dimostrata proprio a partire da quanto operato nella loro comunità (cfr. 1Cor 9,1-2). al v. 8, Paolo offre una conferma della sua dichiarazione di essere ministro di Cristo e parla di un suo vanto. L’apostolo sostiene la positiva natura dell’esercizio della sua autorità a Corinto, volta a fare crescere la comunità e ciascuno dei suoi membri. D’altra parte la strategia della distruzione, come visto nell’esordio di 2Cor 10,1-6, è riservata agli avversari. Apparirà ben presto chiaro che di questo suo agire ministeriale, soprattutto a vantaggio della comunità corinzia non avrà paura a vantarsi. Il v. 9 riprende quanto detto nel precedente riguardo all’autorità paolina indirizzata a edificare la comunità di Corinto e non a distruggerla. L’apostolo, per non sembrare troppo arrogante di fronte ai suoi detrattori, ammette indirettamente il fatto che le sue lettere siano in un certo qual modo dure e quindi spaventino gli ascoltatori, benché questo non rappresenti lo scopo voluto dall’autore. Il v. 10 chiarisce il motivo per il quale l’apostolo ha avanzato la questione della severità delle sue lettere: egli deve controbattere una calunnia diffusa a Corinto dai suoi avversari. Finalmente, dopo gli accenni presenti nell’esordio riguardanti le critiche nei suoi confronti, qui – a differenza degli altri passaggi paolini dove non si riportano direttamente le posizioni degli oppositori – viene esplicitata un’accusa rivolta a Paolo che poi sarà confutata. essa consiste nell’incongruenza tra le lettere, da una parte, e la presenza e la parola, dall’altra. Nel contesto culturale del tempo si poneva attenzione al modo di presentarsi dell’oratore in ordine alla sua capacità comunicativa e persuasiva; questo modo di pensare potrebbe essere dietro all’accusa di discrepanza tra le lettere inviate dall’apostolo e la sua effettiva presenza a Corinto. Al v. 11, Paolo risponde all’accusa sollevata dagli avversari. La confutazione paolina sostiene che l’apostolo è lo stesso, da assente come da presente, e allude probabilmente anche alla prossima futura terza visita a Corinto nella quale egli promette di far sperimentare ai destinatari la forza della sua presenza (cfr. 13,2-3). Tutta la questione qui affrontata è comprensibile all’interno di un mondo dove gli spostamenti non erano così veloci e agevoli. Perciò lo scritto epistolare fungeva da sostituto della persona e talvolta anche del discorso che l’autore avrebbe potuto fare se fosse stato presente in mezzo ai suoi destinatari. Inoltre nel versetto è presente il problema della coerenza tra «parola» e «azione», affrontato nella letteratura greca, ma anche dal Nuovo Testamento con le critiche di Gesù all’atteggiamento farisaico (cfr. Mt 23,1-3) e da Paolo stesso, che in Rm 2,17-24 mostra l’ipocrisia del suo fittizio interlocutore giudeo. Al v. 12 continua la confutazione paolina, introducendo la difesa da un’altra accusa proveniente dagli oppositori. In 3,1 si era parlato della raccomandazione degli avversari di Paolo attraverso lettere; ora il discorso è diverso, perché la questione è intrecciata con quella del vanto ed è legata ai criteri sui quali basarsi per tutto ciò, così come chiariranno anche i vv. 17-18. Per il momento Paolo invita i Corinzi a riconoscere che gli oppositori sono insensati, perché si valutano da se stessi – al limite confrontandosi semplicemente con quelli della propria cerchia – senza aprirsi a un giudizio esterno. Nel testo l’insistente ripetizione di «se stessi» in relazione agli avversari indica la loro chiusura. Al v. 13 l’apostolo riporta l’accusa di un vanto indebito riguardo il suo ministero di evangelizzatore. Inoltre contrasta il suo atteggiamento con quello degli avversari, promettendo di diffondersi in un elogio di sé, cosa che avverrà soprattutto in 11,21b–12,10. Qui, a motivo anche del versetto precedente, l’apostolo indirettamente critica gli oppositori di un vanto smisurato, perché non basato sulla competenza e sull’autorità conferita da Dio come avviene invece per lui. Il v. 14 riprende e motiva il vanto del versetto precedente, cominciando la confutazione vera e propria dell’accusa sollevata nei confronti di Paolo. Infatti, egli sostiene che non si esalta oltre il dovuto, perché è giunto sino a Corinto e lo ha fatto portandovi il Vangelo che ha come contenuto lo stesso Cristo. I Corinzi stessi permetteranno così all’apostolo di autoelogiarsi, senza risultare arrogante, dal momento che ‒ come detto pure al v. 13 ‒ egli rispetta i limiti derivanti dal mandato divino. Ma l’attenzione del v. 14 è soprattutto al contenuto dell’annuncio paolino; si tratta come già visto in 2,12 del «Vangelo di Cristo». Implicitamente il testo fa intendere che è questo l’elemento che differenzia l’apostolo dagli avversari che annunciano un altro Vangelo e un altro Cristo (cfr. 2Cor 11,4). Il v. 15 riprende il v. 13, ma continua anche la confutazione iniziata al versetto precedente. paolo, infatti, afferma che il suo vanto non è basato sul lavoro missionario di altri, ma egli nutre la speranza che i Corinzi, con la crescita della loro fede, facciano crescere anche la loro considerazione per lui in ragione del mandato ricevuto da Dio. Il v. 16 mostra con chiarezza la ragione per la quale Paolo desidera di essere apprezzato e considerato a Corinto. La finalità è quella di portare il Vangelo oltre Corinto senza gloriarsi di quanto compiuto dagli altri missionari all’interno del loro campo d’azione. Al v. 17 abbiamo il riferimento scritturistico più chiaro di tutta la sezione. Infatti, senza introdurlo come citazione, è presentato il testo di Ger 9,23 LXX. Il riferimento alla Scrittura vuole sancire in definitiva qual è il vanto legittimo: è quello di colui che si vanta nel Signore. Il v. 18 riprende dal v. 12 il tema della raccomandazione, vicino a quello del vanto, e conclude la confutazione paolina con una nuovo probabile riferimento di contrasto con gli avversari. Egli vuol far intendere ai Corinzi che lui solo, e non alcun avversario, è approvato da Dio come apostolo, in quanto egli lascia, ancora a differenza degli oppositori, che sia il Signore a operare, accogliendo da lui il mandato e l’ambito della propria missione, la quale l’ha condotto sino a Corinto (cfr. v. 13).


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Fiducia nei Corinzi 1Riguardo poi a questo servizio in favore dei santi, è superfluo che io ve ne scriva. 2Conosco infatti la vostra buona volontà, e mi vanto di voi con i Macèdoni, dicendo che l’Acaia è pronta fin dallo scorso anno e già molti sono stati stimolati dal vostro zelo.

Compito dei delegati 3Ho mandato i fratelli affinché il nostro vanto per voi su questo punto non abbia a dimostrarsi vano, ma, come vi dicevo, siate realmente pronti. 4Non avvenga che, se verranno con me alcuni Macèdoni, vi trovino impreparati e noi si debba arrossire, per non dire anche voi, di questa nostra fiducia. 5Ho quindi ritenuto necessario invitare i fratelli a recarsi da voi prima di me, per organizzare la vostra offerta già promessa, perché essa sia pronta come una vera offerta e non come una grettezza.

Motivazione scritturistica sulla natura della colletta 6Tenete presente questo: chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà. 7Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia. 8Del resto, Dio ha potere di far abbondare in voi ogni grazia perché, avendo sempre il necessario in tutto, possiate compiere generosamente tutte le opere di bene. 9Sta scritto infatti: Ha largheggiato, ha dato ai poveri, la sua giustizia dura in eterno. 10Colui che dà il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, darà e moltiplicherà anche la vostra semente e farà crescere i frutti della vostra giustizia.

Il frutto della colletta 11Così sarete ricchi per ogni generosità, la quale farà salire a Dio l’inno di ringraziamento per mezzo nostro. 12Perché l’adempimento di questo servizio sacro non provvede solo alle necessità dei santi, ma deve anche suscitare molti ringraziamenti a Dio. 13A causa della bella prova di questo servizio essi ringrazieranno Dio per la vostra obbedienza e accettazione del vangelo di Cristo, e per la generosità della vostra comunione con loro e con tutti. 14Pregando per voi manifesteranno il loro affetto a causa della straordinaria grazia di Dio effusa sopra di voi. 15Grazie a Dio per questo suo dono ineffabile!

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Fiducia nei Corinzi Al v. 1 l’apostolo afferma che riguardo alla colletta non è necessario che egli ne parli ancora ai destinatari. La raccolta è chiamata, esattamente come in 8,4, «servizio a beneficio dei santi» e Paolo intende proprio a partire da qui approfondirne il significato: vuole rimarcare l’importanza di una questione e approfondirne i fondamenti, mentre nello stesso tempo desidera esprimere la sua fiducia nei destinatari. il v. 2 fornisce la motivazione del versetto precedente. Infatti, l’apostolo afferma che sa della disponibilità dei destinatari, della quale si vanta con i Macedoni, sostenendo che l’Acaia si è preparata per la colletta sin dall’anno precedente; in effetti il loro ardore ha funzionato da positivo stimolo per gran parte di coloro che hanno ascoltato Paolo. Se in 8,1-6 Paolo aveva usato l’esempio dei Macedoni per incoraggiare i Corinzi, ora fa esattamente il contrario. In ogni modo egli desidera promuovere una positiva emulazione tra le sue comunità (cfr. 1Ts 1,7; 2,14), nel nostro caso riguardo all’iniziativa della colletta.

Compito dei delegati Paolo afferma che sta per mandare Tito e gli altri due fratelli a Corinto, affinché il vanto dei destinatari in merito alla colletta non risulti ingiustificato, e affinché essi siano del tutto pronti al momento dell’arrivo dell’apostolo. Alle due finalità dell’invio dei delegati, espresse nel v. 3, è aggiunta una terza finalità nel v. 4, questa volta in negativo: quella di non doversi vergognare dei Corinzi, per non dire della vergogna degli stessi destinatari riguardo al progetto della colletta. Come in 2,3 e in 8,19, ma in maniera più chiara, qui Paolo fa riferimento a una sua prossima visita della comunità. Al v. 5 Paolo sostiene che ritiene necessario pregare i delegati di recarsi prima di lui a Corinto e di fare in modo che la colletta, da tempo iniziata, sia completata prima che lui giunga nella comunità accompagnato dai Macedoni. Nella seconda parte del versetto l’apostolo chiede che la colletta sia un dono generoso da parte dei destinatari e non il frutto della loro grettezza; in questo modo è annunciata la riflessione sulla natura della raccolta che sarà sviluppata in 9,6-15. Ancora una volta Paolo parla di essa in termini non economici, ma teologici, perché non solo l’«offerta» generosa è vista in relazione a Dio, ma anche la stessa «spilorceria» in quanto forma di idolatria (cfr. Col 3,5) ha chiaramente a che fare con lui.

Motivazione scritturistica sulla natura della colletta Al v. 6 Paolo approfondisce quanto appena detto a proposito della natura della colletta attraverso una frase che introduce un detto dal sapore proverbiale: chi semina poco, poco raccoglierà; chi semina molto, molto raccoglierà. In altre parole: il raccolto dipende dalla semina, ovvero, meno i destinatari della lettera daranno, meno riceveranno in cambio; al contrario, più daranno, più riceveranno in cambio. Al v. 7 Paolo invita infatti ciascuno a donare in base a quanto ha deliberato nel suo cuore, senza addolorarsi o sentirsi costretto, perché Dio si compiace di colui che fa il suo dono con gioia: la decisione deve essere interiore, non con tristezza e non per forza. Paolo desidera evitare che il suo invito alla raccolta e la relativa azione degli stessi delegati possano essere compresi dai Corinzi come delle forme di imposizione; per questo rimanda alla volontà di Dio citata per mezzo del ricorso a Pr 22,8a. il v. 8 vuol mostrare in che cosa consistono l’amore e l’approvazione di Dio per colui che dona con gioia. Paolo sostiene quindi che Dio può far abbondare nei Corinzi ogni dono spirituale e materiale in modo che, avendo in ogni circostanza e ambito il necessario, compiano generosamente le opere dell’amore. La grazia di Dio, già richiamata in 8,1 a proposito della partecipazione alla colletta dei Macedoni, ha il potere di rendere i destinatari capaci di «ogni opera buona». Riguardo all’opera di carità dei Corinzi, al v. 9 Paolo introduce, attraverso una formula di citazione, una parte del Sal 111,9 LXX (TM 112,9). Il testo biblico annuncia che l’uomo che largheggia e dona ai poveri vedrà la sua giustizia rimanere per sempre. Così l’apostolo desidera promuovere la generosità dei Corinzi, invitando a vedere nelle parole del salmo un riferimento loro diretto. Il v. 10 riprende, attraverso l’uso della scrittura, sia il v. 8, rimarcando la generosità dei doni divini, sia il v. 9, riferendosi alla giustizia dei destinatari. Come Dio provvede all’uomo i mezzi per la produzione del cibo, così provvederà ai destinatari i mezzi per contribuire alla colletta e incrementerà i buoni frutti del loro giusto agire. L’insistenza paolina è sul fatto che all’origine della possibilità stessa della raccolta sta l’azione di Dio, il quale fornirà un’abbondante quantità di risorse, in modo che i Corinzi possano donare ai poveri di Gerusalemme, senza paura di trovarsi a loro volta nel bisogno.

Il frutto della colletta il v. 11 riprende i versetti precedenti e introduce i successivi. In maniera entusiastica l’apostolo comincia qui a parlare degli effetti della colletta con la sicurezza che i destinatari vi aderiranno, poiché essi abbondano dei doni di grazia di Dio, concessi loro non solo in vista della raccolta, ma anche per il compimento di ogni altra opera buona (cfr. v. 8). Poi il dono dei Corinzi, recato da Paolo e dai suoi collaboratori, condurrà la comunità di Gerusalemme a innalzare un ringraziamento a Dio. Dalla grazia (greco, cháris) della colletta si passerà quindi al relativo rendimento di grazie (greco, eucharistía), in ogni caso Dio vi sarà sempre pienamente coinvolto. Il v. 12 funge da spiegazione dell’ultima parte del versetto precedente che riguardava il ringraziamento a Dio. Paolo afferma così che il ministero della colletta non solo provvede all’indigenza dei cristiani di Gerusalemme ma, cosa ancor più importante, è fecondo di molti ringraziamenti rivolti a Dio. Appare evidente che la liturgia voluta da Dio per i suoi si deve esprimere nell’aiuto concreto ai fratelli in difficoltà, e la colletta è perciò un vero atto di culto a lui rivolto. Il v. 13 motiva ed espande la questione dei molti ringraziamenti menzionati nel versetto precedente. Qui la raccolta è vista da Paolo come prova concreta dell’amore cristiano maturato dai Corinzi (cfr. 8,8.24). D’altro canto, secondo l’apostolo, i beneficiari di essa, glorificando Dio, riconosceranno nella colletta il segno che davvero il Vangelo è stato accolto in Acaia e il desiderio dei Corinzi di una profonda comunione con la Chiesa madre di Gerusalemme e con tutte le altre comunità cristiane. Alla glorificazione di Dio del versetto precedente, segue nel v. 14 la preghiera di intercessione. Infatti, Paolo sostiene che i credenti di Gerusalemme pregheranno per quelli di Corinto, manifestando in questo modo la loro affettuosa riconoscenza a motivo della straordinaria grazia di Dio donata alla comunità dell’Acaia nell’ambito della colletta. L’espressione di affetto dei beneficiari verso i donatori è normale, ma nel nostro caso essa è legata al riconoscimento dell’azione di Dio. Di nuovo viene ribadito che, come per i Macedoni, anche per i Corinzi all’origine della loro generosità c’è la grazia di Dio (cfr. v. 8), cosicché essa si trova all’inizio e alla fine di tutta l’esortazione alla colletta, attestando il suo ruolo fondamentale nella raccolta (cfr. 8,1). Avendo parlato nei versetti precedenti dei positivi effetti della colletta sostenuta dall’azione di Dio, Paolo conclude al v. 15 tutta la sezione con un breve ma denso ringraziamento al suo Signore, segnato da un linguaggio enfatico tipico del climax finale. L’apostolo, infatti, esprime il suo «grazie» (da notare il nuovo uso di cháris) a Dio per il dono ineffabile da lui concesso. Si tratta proprio della raccolta per i poveri della comunità di Gerusalemme che ancora una volta, com’è avvenuto nel corso della sezione, viene nominata con un eufemismo, in questo caso al fine di indicare che essa è un dono divino sia per i benefattori che per i beneficiari. In questo modo l’apostolo tiene alto il valore della colletta e la riporta a Dio, dalla cui grazia trae inizio e compimento, desiderando unire nel suo ringraziamento tutti coloro che in ogni modo sono coinvolti in essa.

Con questo climax di ringraziamento il percorso epistolare appare opportunamente concluso, cosicché si deve pensare che il corpus di 2 Corinzi a terminasse qui, e a esso seguisse soltanto il tipico postscriptum paolino con i saluti e la benedizione finali. Paolo chiude la sua lettera con un senso di ottimismo sul completamento della colletta derivante, più che dalla confidenza nei destinatari, dalla fiducia nella grazia di Dio che è vista all’opera nella Chiesa. D’altronde la fiducia di Paolo negli ascoltatori e nel loro completamento della colletta non fa presagire in alcun modo quanto troveremo in 2 Corinzi B. Nei capitoli 10–13 infatti assisteremo a una difesa dell’apostolo segnata da forti rimproveri nei confronti della comunità che, tra l’altro, lo attacca proprio per la sua gestione della colletta a Corinto (cfr. 12,14-18), la quale comunque deve avere avuto alla fine un certo frutto (cfr. Rm 15,26-27).


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L’esempio dei Macedoni 1Vogliamo rendervi nota, fratelli, la grazia di Dio concessa alle Chiese della Macedonia, 2perché, nella grande prova della tribolazione, la loro gioia sovrabbondante e la loro estrema povertà hanno sovrabbondato nella ricchezza della loro generosità. 3Posso testimoniare infatti che hanno dato secondo i loro mezzi e anche al di là dei loro mezzi, spontaneamente, 4domandandoci con molta insistenza la grazia di prendere parte a questo servizio a vantaggio dei santi. 5Superando anzi le nostre stesse speranze, si sono offerti prima di tutto al Signore e poi a noi, secondo la volontà di Dio; 6cosicché abbiamo pregato Tito che, come l’aveva cominciata, così portasse a compimento fra voi quest’opera generosa.

L’esempio di Cristo 7E come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. 8Non dico questo per darvi un comando, ma solo per mettere alla prova la sincerità del vostro amore con la premura verso gli altri. 9Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. 10E a questo riguardo vi do un consiglio: si tratta di cosa vantaggiosa per voi, che fin dallo scorso anno siete stati i primi, non solo a intraprenderla ma anche a volerla. 11Ora dunque realizzatela perché, come vi fu la prontezza del volere, così vi sia anche il compimento, secondo i vostri mezzi. 12Se infatti c’è la buona volontà, essa riesce gradita secondo quello che uno possiede e non secondo quello che non possiede. 13Non si tratta infatti di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. 14Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: 15Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno.

Raccomandazione dei delegati 16Siano rese grazie a Dio, che infonde la medesima sollecitudine per voi nel cuore di Tito! 17Egli infatti ha accolto il mio invito e con grande sollecitudine è partito spontaneamente per venire da voi. 18Con lui abbiamo inviato pure il fratello che tutte le Chiese lodano a motivo del Vangelo. 19Egli è stato designato dalle Chiese come nostro compagno in quest’opera di carità, alla quale ci dedichiamo per la gloria del Signore, e per dimostrare anche l’impulso del nostro cuore. 20Con ciò intendiamo evitare che qualcuno possa biasimarci per questa abbondanza che viene da noi amministrata. 21Ci preoccupiamo infatti di comportarci bene non soltanto davanti al Signore, ma anche davanti agli uomini. 22Con loro abbiamo inviato anche il nostro fratello, di cui abbiamo più volte sperimentato la sollecitudine in molte circostanze; egli è ora più entusiasta che mai per la grande fiducia che ha in voi. 23Quanto a Tito, egli è mio compagno e collaboratore presso di voi; quanto ai nostri fratelli, essi sono delegati delle Chiese e gloria di Cristo. 24Date dunque a loro la prova del vostro amore e della legittimità del nostro vanto per voi davanti alle Chiese.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

L’esempio dei Macedoni Nel v. 1 Paolo dice che lui e i suoi collaboratori vogliono fare conoscere ai Corinzi la grazia che Dio ha concesso e continua a concedere alle Chiese della Macedonia. Secondo l’apostolo i doni e l’agire divini in tali comunità le rendono capaci di generosità verso le altre; in questo modo la questione della colletta è posta da subito in prospettiva teologica. il v. 2 spiega in che cosa consiste la grazia divina donata ai Macedoni. La formulazione della frase è chiaramente paradossale, poiché la gioia è fatta derivare dalla tribolazione e la ricchezza dalla povertà, manifestando in maniera palese che la partecipazione macedone alla colletta è prima di tutto merito della grazia di Dio. Ai vv. 3-4 Paolo fornisce le prove della generosità dei Macedoni. La sottolineatura della spontaneità e della volontà benefica dei cristiani della Macedonia non è semplicemente finalizzata al loro elogio; è piuttosto funzionale all’esortazione e al rimprovero dei Corinzi che, al contrario degli altri, devono essere supplicati dall’apostolo, con la mediazione di Tito, affinché giungano a completare la colletta. Al v. 5 Paolo chiude la presentazione dell’esempio dei Macedoni: non hanno semplicemente dato qualcosa per sovvenire alle necessità della comunità di Gerusalemme e dei suoi poveri, ma si sono messi completamente a disposizione del loro signore e dei loro evangelizzatori, realizzando pienamente la volontà di Dio. Al v. 6, in conseguenza dell’esemplare entusiasmo dei Macedoni per la colletta, Paolo segnala la richiesta fatta a Tito. Egli, che l’aveva cominciata, è pregato di portare a termine tra i Corinzi tale opera ispirata dalla grazia.

L’esempio di Cristo avendo mostrato l’esempio dei Macedoni e lo scopo della nuova visita di Tito, al v. 7 Paolo giunge finalmente a presentare il suo appello ai destinatari affinché abbondino nel loro contributo alla colletta, opera derivante dalla grazia di Dio: riconoscendo la sovrabbondanza dei doni ricevuti e posseduti, i Corinzi sono caldamente invitati a sovrabbondare nel loro soccorso ai poveri della comunità di Gerusalemme. Il v. 8 si configura come una precisazione retorica, per evitare il fraintendimento dei destinatari e non fallire nel proprio scopo persuasivo. Infatti, nonostante non si sia espresso in maniera manifestamente imperativa, Paolo chiarisce che, invitando a completare la colletta, non intende dare un comando ma mettere alla prova, attraverso il confronto con la pronta risposta dei Macedoni, anche la genuinità dell’amore cristiano dei Corinzi. Il v. 9 illustra ai destinatari l’esempio per eccellenza, da seguire in ordine al compimento dell’«opera di grazia» (cfr. v. 7). Paolo afferma che l’azione di grazia di Cristo è stata quella, da ricco che era, di farsi povero, al fine di arricchire i credenti con la sua povertà. La frase risulta sin dall’inizio paradossale (come può un povero arricchire altri per mezzo delle sua povertà?), richiamando quella di 5,21 e altre proprie di Paolo in merito all’azione salvifica di Dio, che va al di là del modo di pensare dell’uomo. In particolare, il collegamento più chiaro è con Fil 2,6-8 dove Cristo, pur essendo di condizione divina, spoglia se stesso assumendo la condizione umana più bassa, cioè quella dello schiavo, sino a morire sulla croce. Così la condizione iniziale di ricchezza è da intendersi in relazione allo status divino del Cristo incarnato, mentre il suo volontario impoverirsi descrive la sua intera vicenda storica, propria della sua condizione umana e comprensiva della morte e della risurrezione, la quale rappresenta complessivamente la sua «opera di grazia». La finalità di tale azione è quella di ricolmare i credenti dei beni della salvezza e tra questi beneficiari devono comprendersi i Corinzi, che sono quindi indirettamente spinti a dedicarsi all’«opera di grazia» della colletta (v. 7). Al v. 10 Paolo ritorna direttamente alla questione del completamento della colletta da parte dei Corinzi. Egli fornisce la sua fondata opinione, dicendo che la raccolta ricade a vantaggio degli ascoltatori che, già da un anno, non solo l’hanno intrapresa, ma soprattutto l’hanno voluta. Tuttavia, al momento l’apostolo non spiega in che cosa consista tale utilità ma lo chiarirà dopo, nei vv. 13-15. Implicitamente Paolo fa capire che, se i Corinzi hanno aderito di propria iniziativa alla raccolta, sarebbe contraddittorio non portarla a termine. Dal passato Paolo ritorna al presente nel v. 11, insistendo sul completamento della colletta insieme a un velato rimprovero dei Corinzi. Secondo l’apostolo, è ormai giunto il momento di concludere la raccolta iniziata un anno prima, sottolineando l’iniziale premura dei Corinzi e chiedendo semplicemente un contributo confacente ai loro mezzi. A differenza di quanto detto a proposito della partecipazione dei Macedoni, che hanno donato oltre le loro possibilità economiche (cfr. v. 3), agli ascoltatori non si domanda una generosità eroica. Perciò non hanno ragione di ritardare ancora la presentazione della loro offerta per i poveri di Gerusalemme. Al v. 12 Paolo amplia quanto appena detto, riprendendo l’idea di «prontezza» in merito alla colletta. Egli afferma che questo atteggiamento nel donare risulta gradito in base a quello che uno può dare, senza andare oltre i propri mezzi. Ciò che conta per l’apostolo è quindi tale premura, che deve essere la stessa con la quale è stata cominciata l’iniziativa, e non la quantità del contributo. Al v. 13 Paolo non solo spiega più chiaramente quanto appena sostenuto, ma anche, sino al v. 15, il perché dell’utilità della colletta per i destinatari, elemento introdotto al v. 10. Il testo del versetto ricorre a un concetto tipico del mondo greco e quindi familiare agli ascoltatori, quello dell’uguaglianza. Il v. 14 approfondisce il senso dell’uguaglianza, richiamando l’interscambio cristologico del v. 9 che diviene la ragione e la spinta per quello tra credenti e tra comunità. Il v. 15 chiude il brano e l’approfondimento sulla tematica dell’uguaglianza con una citazione biblica che ne evidenzia l’origine divina e, quindi, il suo indiscutibile valore. Paolo riprende il testo di Es 16,18b LXX, riguardante il dono della manna per il popolo di Israele, che affermava come chi aveva raccolto di più non ebbe del superfluo, e chi aveva raccolto di meno non patì una mancanza. Il testo anticotestamentario è usato per validare il principio dell’uguaglianza, mostrando l’agire di Dio che distribuisce i suoi doni in base alle capacità umane di accoglienza. Così la condizione di parità tra le diverse comunità non è per Paolo una questione di natura sociale o politica, ma teologica: seguendo l’esempio divino non si cancelleranno le differenze tra le Chiese, bensì ci si impegnerà in un fecondo interscambio per provvedere ai bisogni di ciascuna di esse.

Raccomandazione dei delegati Paolo attinge dal genere epistolare delle lettere di raccomandazione, dal quale si era distanziato riguardo alla difesa del proprio apostolato presso i Corinzi (cfr. 3,1-3), per chiedere ai destinatari di accogliere la delegazione preposta alla raccolta della colletta. Con ogni probabilità, in tale occasione Tito recherà alla comunità di Corinto la lettera composta dai primi nove capitoli (2 Corinzi A). Nel nostro brano Paolo, seguendo i canoni propri delle lettere di raccomandazione, presenta ciascuno degli inviati in base a tre elementi: identificazione, relazione con lui quale mittente, credenziali per lo svolgimento del ruolo. La raccomandazione è, quindi, personale dell’apostolo, ma anche ecclesiale. Al v. 16 Paolo comincia la raccomandazione di Tito, fidato collaboratore che sta per inviare di nuovo in Acaia. Egli ringrazia Dio perché pone nel cuore di Tito la sua stessa sollecitudine per i Corinzi. Come la grazia divina era all’origine dello slancio dei Macedoni per la colletta (cfr. 8,1-2), allo stesso modo ora l’agire di Dio determina la premura di Tito nei confronti dei destinatari affinché completino la raccolta. Nel v. 17, scritto mentre gli inviati sono vicini alla partenza, è presentato il perché del rendimento di grazie a Dio per la sollecitudine di Tito. Infatti, Paolo afferma che il collaboratore non soltanto ha accolto il suo appello in merito al completamento della colletta, ma si è dimostrato ancor più zelante, visto che ha deciso di propria iniziativa di recarsi di nuovo a Corinto. Come nei confronti dei destinatari l’apostolo non ha rivolto un comando, ma un invito, così ha fatto anche con Tito, e quest’ultimo non l’ha semplicemente seguito, bensì vi ha aderito con piena libertà e vero coinvolgimento. Al v. 18 Paolo comincia la raccomandazione di uno dei due compagni di Tito. L’apostolo sostiene di stare per inviare a Corinto, insieme con Tito, un fratello cristiano, lodato in tutte le Chiese per il suo annuncio del Vangelo. Al v. 19 la raccomandazione del delegato continua, sostenendo che questo compagno di viaggio di Paolo è anche stato scelto dalle Chiese in ordine alla colletta, raccolta dall’apostolo e dai suoi per dare gloria a Dio e per mostrare la loro premura nei confronti della Chiesa di Gerusalemme. L’iniziativa paolina richiama da vicino la pratica giudaica dell’elezione di emissari per recare nella città santa l’obolo delle comunità della diaspora a beneficio del tempio. Al v. 20 comincia una difesa di Paolo che si conclude nel versetto successivo, spiegando contestualmente anche la dilazione di una sua visita a Corinto. Così egli afferma che ha disposto l’invio dei delegati per la colletta, affinché lui (e i suoi stretti collaboratori) non siano criticati per la loro amministrazione dell’ingente somma raccolta. Nel v. 21 si conclude la breve apologia di Paolo, motivando quanto appena affermato con una sentenza di carattere proverbiale. Paolo allude al testo di Pr 3,4 LXX, sottolineando la dimensione dei rapporti interpersonali. Se la priorità di Paolo è quella di piacere a Dio piuttosto che agli uomini (cfr. Gal 1,10), d’altra parte deve dare conto delle sue scelte alle persone, in modo da eliminare i possibili ostacoli alla sua missione (cfr. 6,3) e, in questo caso, al completamento della colletta. Secondo tale prospettiva è dunque giustificato l’invio a Corinto dei delegati da parte dell’apostolo. Il v. 22 presenta la raccomandazione dell’ultimo delegato con una formula di invio che riprende quella del v. 18. Paolo afferma, infatti, che sta per inviare il fratello, di cui spesso e nell’ambito di diverse situazioni ha sperimentato lo zelo, il quale ora è più zelante che mai a motivo della grande fiducia che nutre nei confronti dei destinatari. Per questo l’apostolo, rispetto al precedente inviato, parla di «nostro» e può attestarne personalmente la sollecitudine (come per Tito, cfr. v. 16), indicando la più stretta relazione che il secondo ha con lui. Al v. 23 Paolo riprende e sintetizza le raccomandazioni dei tre delegati, preparando così l’appello conclusivo del versetto seguente. Egli sostiene che, da una parte, Tito è partecipe della sua missione e suo stretto collaboratore per quanto riguarda la Chiesa corinzia e che, dall’altra, i due fratelli sono delegati delle Chiese che in ragione del loro impegno a favore della colletta, opera della grazia divina, rendono gloria a Cristo. Viene dunque ribadita, come avveniva già nei vv. 16-18, la preminenza di Tito rispetto agli altri due delegati a motivo del suo particolare rapporto di comunione con paolo (cfr. «mio»), ma anche con i destinatari. Tuttavia pure gli altri due sono ben raccomandati, in ragione di un legame con l’apostolo (cfr. «nostri»), del loro invio da parte delle Chiese e della loro glorificazione di Cristo. Al v. 24 il brano è concluso con un’esortazione ultima ai Corinzi, diretta conseguenza della raccomandazione finale dei delegati espressa nel versetto precedente. In fondo, con la buona accoglienza dei delegati e la ripresa della colletta (cfr. v. 8), i Corinzi dimostreranno che vantandosi di loro davanti a Tito e ai due altri fratelli (cfr. 7,4.14; 9,3) Paolo non si sbagliava. In particolare, questi ultimi rappresentano le comunità dell’Asia minore e della Macedonia che li hanno inviati; quindi, l’accoglienza loro riservata sarà un segno di comunione tra la Chiesa di Corinto e le altre. Così, alla fine del passaggio di 8,16-24 si rimarca ancora una volta che la questione della colletta non è un’iniziativa personale dell’apostolo, ma un’espressione di solidarietà e di comunione tra le Chiese, non solo tra quelle paoline e quella di Gerusalemme, ma anche all’interno delle prime.


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Invito conclusivo alla purificazione e alla santificazione 1In possesso dunque di queste promesse, carissimi, purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito, portando a compimento la santificazione, nel timore di Dio.

Appello conclusivo alla comunione e ricapitolazione 2Accoglieteci nei vostri cuori! A nessuno abbiamo fatto ingiustizia, nessuno abbiamo danneggiato, nessuno abbiamo sfruttato. 3Non dico questo per condannare; infatti vi ho già detto che siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere. 4Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione.

La consolazione di Paolo per l’incontro con Tito 5Infatti, da quando siamo giunti in Macedonia, il nostro corpo non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori all’interno. 6Ma Dio, che consola gli afflitti, ci ha consolati con la venuta di Tito; 7non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli ci ha annunciato il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me, cosicché la mia gioia si è ancora accresciuta.

La gioia per gli effetti della lettera 8Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se mi è dispiaciuto – vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo, vi ha rattristati –, 9ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; 10perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte. 11Ecco, infatti, quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; anzi, quante scuse, quanta indignazione, quale timore, quale desiderio, quale affetto, quale punizione! Vi siete dimostrati innocenti sotto ogni riguardo in questa faccenda. 12Così, anche se vi ho scritto, non fu tanto a motivo dell’offensore o a motivo dell’offeso, ma perché apparisse chiara la vostra sollecitudine per noi davanti a Dio. 13Ecco quello che ci ha consolato.

La fiducia di Paolo per i Corinzi Più che per la vostra consolazione, però, ci siamo rallegrati per la gioia di Tito, poiché il suo spirito è stato rinfrancato da tutti voi. 14Cosicché, se in qualche cosa mi ero vantato di voi con lui, non ho dovuto vergognarmene, ma, come abbiamo detto a voi ogni cosa secondo verità, così anche il nostro vanto nei confronti di Tito si è dimostrato vero. 15E il suo affetto per voi è cresciuto, ricordando come tutti gli avete obbedito e come lo avete accolto con timore e trepidazione. 16Mi rallegro perché posso contare totalmente su di voi.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Invito conclusivo alla purificazione e alla santificazione Questo versetto chiude il brano precedente riprendendo la prospettiva esortativa di 6,14a e portandola alla conclusione. Paolo invita i suoi, alla purificazione alla santificazione nel timore di Dio. Questo invito riguarda l’intera persona del credente corinzio, esortato a liberarsi da tutto ciò che è d’ostacolo al proprio rapporto con Dio e, quindi, nel nostro contesto, da un rapporto di comunione con gli increduli. Paolo chiede ai Corinzi di condurre a compimento la loro santificazione, vivendo nel timore di Dio cioè, come in 5,11 era stato detto per gli apostoli, nella riverenza a lui e nella considerazione del suo giudizio finale. D’altra parte, per l’apostolo la santificazione del credente è prima di tutto opera dello spirito che è in lui (cfr. Rm 1,4) e poi diventa impegno del singolo a una condotta conforme a tale inabitazione (cfr. 1Ts 3,13). Così l’appello alla separazione dagli increduli rivolto a tutta la comunità di Corinto in 6,14–7,1 diviene un invito alla responsabilità personale di ciascun credente corinzio, in ordine a un’esistenza nuova e diversa da quella comune nel proprio ambiente.

Appello conclusivo alla comunione e ricapitolazione Al v. 2 l’apostolo comincia chiedendo ai Corinzi di fare spazio nei loro cuori a lui e ai suoi collaboratori, perché essi non hanno agito ingiustamente nei loro confronti, corrompendoli moralmente o frodandoli economicamente. Il versetto giunge quindi a una difesa dell’agire apostolico a fronte di insinuazioni e accuse, che non abbiamo la possibilità di identificare con chiarezza, e ricapitola così quanto affermato nell’intera sezione di 2,14–7,4 a sostegno dell’atteggiamento irreprensibile dei missionari. Al v. 3, l’apostolo intende precisare che la sua difesa non ha lo scopo di condannare i Corinzi: infatti, secondo quanto ha già affermato, essi sono nel cuore degli apostoli così da morire e vivere insieme. Al v. 4 Paolo afferma che per gli apostoli grandi sono la franchezza e il vanto nei confronti dei Corinzi, come abbondanti sono la consolazione e la gioia in mezzo alle tribolazioni. L’apostolo conclude la sezione cercando di lasciare nella mente degli interlocutori un buon giudizio sull’operato dei missionari, soprattutto sulla loro sincerità (cfr. 6,11), ma anche di convincerli della sua fiducia nei loro confronti, così come richiesto in una relazione di vera reciprocità (cfr. 6,13).

La consolazione di Paolo per l’incontro con Tito Al v. 5 l’apostolo afferma che all’arrivo in Macedonia, probabilmente insieme ai suoi collaboratori, non ha trovato pace nella propria persona, poiché era afflitto da conflitti esteriori e da paure interiori. I contrasti ai quali il testo accenna sono difficili da determinare; forse è possibile pensare al ripresentarsi di quelli che Paolo ha vissuto nella sua prima visita in Macedonia, confrontandosi con giudei e pagani (cfr. at 16–17); i timori, invece, derivano probabilmente dal fatto del mancato incontro a Troade con Tito e della successiva attesa di lui in Macedonia. La dilazione dell’appuntamento potrebbe avere determinato angoscia in Paolo, in quanto faceva supporre un’ulteriore complicazione dei rapporti con i Corinzi. Tuttavia, il v. 6 afferma che quel Dio che consola gli afflitti ha recato consolazione a Paolo e agli altri per mezzo dell’arrivo di Tito in Macedonia. il v. 7 viene aperto, a completamento del precedente, con una precisazione attraverso la quale si afferma che non solo la stessa venuta di Tito ha consolato Paolo e gli altri, ma lo ha fatto anche il conforto stesso che il fidato collaboratore ha ricevuto a Corinto. Infatti, Tito ha annunciato all’apostolo il desiderio dei destinatari di rivederlo, il loro dolore per le sofferenze procurategli in occasione della sua ultima visita in mezzo a loro (sofferenze probabilmente evidenziate attraverso la lettera «tra molte lacrime») e il loro sincero affetto per il fondatore della comunità. Di conseguenza, paolo gioisce ancor più e non soltanto per il ritorno di Tito, ma anche per il mutato atteggiamento della comunità nei suoi confronti, così da aprire la via a una piena riconciliazione.

La gioia per gli effetti della lettera Con i vv. 8-9a Paolo comincia a spiegare il perché della sua gioia alla quale aveva fatto riferimento alla fine del versetto precedente. Così l’apostolo afferma che, se anche ha rattristato i Corinzi con la sua lettera, non ne è dispiaciuto e, se in precedenza ne era dispiaciuto, riconoscendo il dolore momentaneo causato ai destinatari, ora se ne rallegra. Tuttavia, la sua soddisfazione è non a motivo della sofferenza stessa da loro provata, ma per il fatto che la loro tristezza ha prodotto un cambio di mentalità. Ai vv. 9b-10 Paolo spiega come l’esperienza di dolore dei Corinzi conduce al pentimento e alla salvezza. Si dice infatti che la tristezza causata loro era in accordo con la volontà di Dio, cosicché essi non sono stati in niente danneggiati dagli apostoli. Inoltre, tale tristezza produce una conversione che è irrevocabile veicolo della salvezza finale, mentre quella secondo il mondo conduce alla perdizione. Al v. 11 Paolo mostra in dettaglio gli effetti della tristezza in conformità alla volontà di Dio, riportando, con enfasi retorica e attraverso sette elementi diversi, la reazione positiva dei Corinzi alla lettera «tra molte lacrime». L’apostolo afferma che il rattristarsi secondo Dio ha causato la sollecitudine dei destinatari per una riconciliazione con Paolo, la loro difesa di lui contro l’offensore, la conseguente indignazione contro quest’ultimo, il timore reverenziale nei confronti del fondatore della comunità insieme al desiderio di rivederlo e all’affetto per lui; infine, la punizione correttiva del reo. Con la positiva risposta alla lettera i Corinzi hanno mostrato in ogni aspetto la loro innocenza nel caso che ha coinvolto Paolo: a differenza di quanto avvenuto con l’incestuoso del quale si parla in 1Cor 5,1-13, non sono stati fino in fondo conniventi con l’offensore e alla fine hanno preso le distanze da lui, aprendo la strada alla riconciliazione con l’apostolo. Al v. 12 Paolo conclude, precisando il motivo più profondo per l’estensione della sua missiva. Infatti, si afferma che essa non fu scritta a causa dell’offensore o dell’offeso, ma affinché fosse visibile, all’interno della comunità e di fronte a Dio e al suo giudizio, la sollecitudine dei Corinzi per gli apostoli. È difficile sapere quanto è avvenuto a Corinto in occasione della seconda visita del fondatore alla sua Chiesa. In ogni caso la positiva ricezione della prima epistola da parte della comunità nonché quella nuova, inviata da Paolo e presente in 2Cor 1–9, vanno a suggellare la piena riconciliazione tra le parti in causa.

La fiducia di Paolo per i Corinzi Paolo, anzitutto, afferma che lui e i suoi collaboratori sono stati consolati dall’accoglienza che i Corinzi avevano riservato alla lettera, con i relativi benefici effetti. Inoltre la gioia derivante da questa consolazione è stata ancor più accresciuta dalla felicità stessa di Tito, il cui animo è stato rinfrancato da tutti i membri della comunità. Da una parte, sorprende la calda accoglienza riservata a Tito, a fronte dei timori che avevano condotto l’apostolo a non ritornare a Corinto (cfr. 1,23; 2,1-3); dall’altra, tale positiva descrizione può essere considerata anche enfatica, perché finalizzata al successivo invio del collaboratore, recante la nuova lettera per la comunità (2Cor 1–9) che spinge al completamento della colletta (cfr. 8,6.16). Il v. 14 introduce un’altra motivazione per la condivisione della gioia tra Paolo e Tito, di cui si era trattato nel versetto precedente. Infatti, l’apostolo afferma che, se in qualche cosa si è vantato con il suo collaboratore riguardo ai Corinzi, non se ne è dovuto vergognare, ma come lui e gli apostoli hanno sempre parlato con verità ai destinatari, così anche il suo vanto è risultato vero. Nonostante il conflitto con la comunità derivante dall’incidente occorsogli e dalle altre accuse mossegli, Paolo non ha dimenticato di ricordare a Tito, prima del suo invio, anche i doni presenti nella comunità corinzia. Al v. 15 si chiude il resoconto di Tito riguardo alla sua visita nella comunità di Corinto. Il testo afferma l’affetto crescente del collaboratore per i destinatari, allorché egli ricorda l’obbedienza di tutti i membri della Chiesa corinzia e la loro reverente accoglienza. L’obbedienza è proprio quella richiesta da Paolo in 2,9 a seguito della lettera «tra molte lacrime»; quindi, consiste nel riconoscimento da parte dei destinatari del suo ruolo apostolico (in concreto significa attuare le indicazioni presenti nella sua epistola), dopo la crisi dei vicendevoli rapporti causata dall’incidente dell’offensore. Per questo alla fine del nostro versetto si sottolinea anche che Tito, rappresentante dell’apostolo, è stato ricevuto «con timore e tremore», probabilmente vedendo nell’inviato l’azione di Dio e in colui che lo ha mandato un’autorità derivante da Dio stesso. Il v. 16 costituisce la conclusione del brano, esprimendo la gioia e la fiducia di Paolo verso i Corinzi che sono manifestate in vari modi nei versetti precedenti. Egli, infatti, afferma che si rallegra perché può contare in tutto sui destinatari. È chiaro che le relazioni reciproche sono ormai segnate da un clima di pacificazione, sigillato da una piena e duratura riconciliazione, in quanto effetto auspicato della lettera che Paolo sta scrivendo. Si tratta così di una situazione in totale contrasto con quella di aperto conflitto che sottostà ai capitoli 10–13. Quindi, questi capitoli non sembrano originariamente appartenere alla stessa epistola dei precedenti nove.


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Appello alla grazia di Dio attraverso il ministero apostolico 1Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. 2Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! 3Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga criticato il nostro ministero; 4ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, 5nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; 6con purezza, con sapienza, con magnanimità, con benevolenza, con spirito di santità, con amore sincero, 7con parola di verità, con potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; 8nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama; come impostori, eppure siamo veritieri; 9come sconosciuti, eppure notissimi; come moribondi, e invece viviamo; come puniti, ma non uccisi; 10come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!

Appello alla comunione con Paolo 11La nostra bocca vi ha parlato francamente, Corinzi; il nostro cuore si è tutto aperto per voi. 12In noi certo non siete allo stretto; è nei vostri cuori che siete allo stretto. 13Io parlo come a figli: rendeteci il contraccambio, apritevi anche voi!

Appello alla separazione dagli increduli 14Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre? 15Quale intesa fra Cristo e Bèliar, o quale collaborazione fra credente e non credente? 16Quale accordo fra tempio di Dio e idoli? Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo. 17Perciò uscite di mezzo a loro e separatevi, dice il Signore, non toccate nulla d’impuro. E io vi accoglierò 18e sarò per voi un padre e voi sarete per me figli e figlie, dice il Signore onnipotente.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Appello alla grazia di Dio attraverso il ministero apostolico All’inizio del capitolo, Paolo presenta un altro appello dopo quello di 5,20. Infatti, lui e gli altri apostoli si rivolgono ai destinatari come collaboratori di Dio, esortandoli a non accogliere invano la sua grazia. Tuttavia, se l’invito di 5,20 era propriamente diretto a tutti gli uomini, ora lo è soltanto ai Corinzi; inoltre, se prima il suo contenuto era quello della riconciliazione, qui appare essere quello dell’accoglienza della grazia di Dio; infine, in 6,1 i ministri non sono designati come ambasciatori, ma come «collaboratori» di Dio (cfr. anche 1Cor 3,9). Paolo motiva l’appello all’accoglienza della grazia divina servendosi della citazione letterale di una parte di Is 49,8 LXX. L’apostolo sostiene che la promessa fatta da Dio al suo servo di ascoltarlo nel momento favorevole e di aiutarlo nel giorno della salvezza si compie ora per i destinatari che hanno a disposizione un tempo propizio e salvifico. In particolare, l’insistenza su «ecco ora», ripetuto due volte, indica sia l’evento escatologico della riconciliazione operata in Cristo come nuova creazione (cfr. 5,17-19), sia la disponibilità della salvezza nel presente dei Corinzi, se essi accoglieranno questo dono della grazia divina. Accogliere la salvezza significherà poi, come espresso nei versetti seguenti, riconoscere anche che le sofferenze e le fatiche degli apostoli non sono fini a se stesse o controproducenti, bensì ricadono a vantaggio dei destinatari. A questo punto Paolo inizia la testimonianza riguardo al proprio ministero affermando che lui e i suoi collaboratori non danno in niente motivo di scandalo, affinché il loro servizio non venga disprezzato, bensì in tutto si presentano come servitori di Dio, rivestiti di grande pazienza. Il catalogo di avversità che segue diventa una conferma della predicazione paolina attraverso i fatti dell’esistenza concreta. In questo contesto l’espressione «con molta capacità di sopportazione» (v. 4a) fa da titolo ai pericoli elencati immediatamente sotto, annunciando la modalità con la quale l’apostolo e i suoi collaboratori li hanno affrontati.

La lista è composta di nove elementi divisibili in tre serie di tre e possiede molti punti in comune con quella di 11,23b-29.

  • La prima triade presenta delle generali circostanze avverse nelle quali si svolge il ministero apostolico.
  • La seconda triade diventa più concreta («nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti») ed è legata all’ostile reazione alla predicazione dell’apostolo.
  • La terza e ultima triade («nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni») evoca gli sforzi che gli apostoli hanno compiuto nello svolgimento del loro ministero. Oltre il riferimento alla missione, è possibile vedere qui anche quello al lavoro manuale, svolto giorno e notte con «fatica» da Paolo e dai suoi collaboratori (cfr. 1Ts 2,9; 2Ts 3,8), attività che comunque è vissuta proprio perché attraverso l’indipendenza economica dalla comunità appaia a tutti la piena gratuità del Vangelo e del suo annuncio (cfr. 1Cor 9,14-18).

La lista delle virtù è divisibile in due serie di quattro con un elemento finale a chiusura.

  • La prima serie di quattro elementi («con purezza, con conoscenza, con longanimità, con benevolenza») rimanda al modo irreprensibile di comportarsi degli apostoli nei confronti dei loro destinatari e in particolare dei Corinzi.

  • La seconda serie («con spirito santo, con amore sincero, con parola di verità, con potenza di Dio»), mentre presenta altre due virtù che caratterizzano l’agire degli apostoli, indica anche l’origine divina di tutte le doti dei missionari evocate nei versetti: è la potenza di Dio che opera nel loro ministero, cosicché esso è quello dello spirito e non della lettera (cfr. 3,6-8).

  • Da ultimo, con una metafora militare si chiude l’elenco: Paolo e i suoi collaboratori sono pienamente equipaggiati per il combattimento attraverso le armi della giustizia.

Nei vv. 8-10 viene ripreso il catalogo delle avversità con una seconda lista caratterizzata da situazioni contraddittorie. L’elenco è ben composto con nove coppie di polarità.

  • Le prime due coppie («nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama») sono caratterizzate dall’indifferenza, come la intendevano gli stoici: quale che sia la considerazione e la reputazione loro attribuite dagli altri, gli apostoli continuano il loro ministero (cfr. Fil 4,11-12).

Le altre sette coppie esprimono in maniera antitetica le situazioni paradossali nelle quali si trovano a operare Paolo e i suoi collaboratori, collegandosi a 4,8-9. Ogni volta il secondo membro della coppia corregge in positivo il primo, fornendo una visione più profonda della stessa realtà descritta in precedenza.

  • Anzitutto si afferma, la veracità del comportamento degli apostoli («come ingannatori eppure veritieri», v. 8).

  • Nella seconda antitesi («come sconosciuti eppure ben conosciuti», v. 9) si afferma che i ministri del Vangelo sono ignorati dagli uomini, eppure più che noti a motivo della loro predicazione.

  • La terza antitesi («come moribondi eppure siamo vivi») riprende le affermazioni di 4,10-11, indicando come l’esistenza degli apostoli sia costantemente esposta alla morte e, nonostante questo, essi continuino a vivere grazie all’intervento divino (cfr. 1,8-10).

  • La quarta antitesi («come castigati eppure non messi a morte») indica che le prove e le sofferenze subite nell’esercizio del ministero non hanno condotto alla morte, ma sono state strumenti della formazione divina nei confronti degli apostoli.

  • La quinta antitesi («come rattristati ma sempre lieti», v. 10) sostiene che le prove derivanti dal ministero e provocanti tristezza non intaccano la gioia degli apostoli.

  • La sesta antitesi («come poveri ma facendo ricchi molti») sottolinea che nella loro povertà materiale i missionari arricchiscono spiritualmente coloro ai quali sono inviati.

  • La settima e ultima antitesi («come non avendo niente eppure possedendo tutto»), conclude la serie attestando come nella loro indigenza gli apostoli hanno tutto, perché possiedono il tesoro di Cristo presente nel Vangelo (cfr. 4,7).

Indirettamente anche i Corinzi sono chiamati a mettersi nella stessa prospettiva perché, come detto in precedenza nella corrispondenza loro rivolta (cfr. 1Cor 3,21-23), vivendo la loro appartenenza a Cristo conseguono la pienezza dell’esistenza. Le ultime tre antitesi nel loro insieme evocano le beatitudini evangeliche, soprattutto laddove proclamano beati i poveri e gli afflitti (cfr. Mt 5,3-4; Lc 6,20-21).

Appello alla comunione con Paolo L’apostolo comincia subito al v. 11 col dire che lui e i suoi collaboratori hanno parlato apertamente ai Corinzi e che il loro cuore si è dilatato per loro. Quindi Paolo rimarca la sincerità degli apostoli (cfr. 2,17), sottolineando l’accordo tra bocca e cuore, cioè tra il dire e il sentire (cfr. 5,12). poi, nel versetto l’attenzione al coinvolgimento e alla conquista dei destinatari non è indicata soltanto dall’allargarsi del cuore, segno di affetto nei loro confronti, ma anche dall’appellarsi a loro con il nome del popolo al quale appartengono («Corinzi»). Soltanto altre due volte nelle sue lettere l’apostolo vi ricorre e sempre per rendere più forte la propria interpellanza (cfr. Gal 3,1; Fil 4,15). Con il v. 12 è introdotto, in maniera indiretta ma efficace, un rimprovero di Paolo ai Corinzi. Egli afferma infatti che gli apostoli non si sono chiusi ai destinatari, mentre questi ultimi sono ristretti nel loro affetto. Già in 2,4 l’apostolo aveva ricordato il suo grande amore per la comunità di Corinto; ora vi ritorna per sottolineare, dolorosamente, la non corrispondenza dei suoi: alla dilatazione del cuore dei missionari si contrappone il restringimento di quello dei Corinzi. Per superare questa situazione, al v. 13 giunge quindi l’appello vero e proprio: Paolo parla ai Corinzi come a figli, esortandoli a rendere a lui e ai collaboratori lo stesso contraccambio, dilatando i loro cuori.

Appello alla separazione dagli increduli Nella prima parte del v. 14, collegato con quanto precede, Paolo rivolge un appello a non unirsi in maniera inappropriata agli increduli. L’esortazione in negativo è generica e difficile da precisare. Tuttavia riflette probabilmente una situazione di incipiente relazione dei Corinzi con costoro, di fronte alla quale l’apostolo chiede una separazione non tanto fisica (cosa dichiaratamente ritenuta impensabile in 1Cor 5,10), quanto nel modo di pensare e di agire. Come detto a proposito di 4,3-4, gli «increduli» sono gli avversari di Paolo e dei destinatari, da identificarsi con i non credenti in Cristo della città e particolarmente, ma non esclusivamente, con la componente giudaica di essa.

Le motivazioni dell’invito del v. 14a sono fornite nei vv. 14b-16 attraverso una serie di cinque antitesi di natura etica e salvifica inserite in domande retoriche. Si parte con due coppie di antitesi. Paolo pone una domanda retorica attendente risposta negativa sulla compatibilità: da una parte, tra giustizia e iniquità; dall’altra, tra luce e tenebre. Mentre il v. 14b si soffermava sulle qualità generali di due ambiti opposti, nel v. 15 l’attenzione è alle persone che rappresentano tali sfere: da una parte, Cristo e i suoi seguaci; dall’altra, Beliar e i suoi adepti. L’alternativa risulta, così, più stringente. Nella letteratura giudaica il nome Beliar o Belial è diffuso per designare il capo dei demoni: il vocabolo appare qui per l'unica volta in tutta la Bibbia, compare solo un'altra volta come “Belial” a Gdc 20,13 nel codice alessandrino. Le antitesi giungono al culmine con la quinta e ultima del v. 16a, dove il tempio di Dio è, grazie a un’altra domanda retorica, contrapposto agli idoli. Infatti, secondo Paolo, non ci deve essere nessuna possibilità di relazione tra i credenti, che immediatamente dopo sono identificati con lo stesso tempio di Dio, e gli idoli. Nel loro insieme, le contrapposizioni di questi versetti costituiscono prove di principio per l’esortazione del v. 14a a non mescolarsi con gli increduli; esse si muovono a un livello generale, insistendo però sull’impossibilità dell’entrare in comunione dei credenti in Cristo con coloro che lo rifiutano.

Nella seconda parte del v. 16 è introdotta, con una formula inusuale, una catena di citazioni scritturistiche che giunge sino al v. 18 e costituisce la prova di autorità della parola di Dio a sostegno dell’esortazione paolina del v. 14a, richiamando anche il testo di Rm 3,10-18.

Nello specifico, al v. 16b Paolo afferma che lui e i destinatari (e poi tutti i credenti in Cristo) sono il tempio del Dio vivente, così come afferma la scrittura in Ez 37,27 e in Lv 26,12. L’immagine della dimora di Dio è attestata nel giudaismo e nell’ellenismo per lo più in riferimento all’individuo. La novità e l’importanza di questa designazione paolina emerge se si tiene conto del fatto che i pagano-cristiani come i Corinzi non potevano più andare nei templi pagani, in quanto allontanatisi dall’idolatria, ma nemmeno entrare nel tempio santo di Gerusalemme, perché non circoncisi. Così, definire il gruppo cristiano come dimora di Dio significa che i cristiani stessi sono ormai divenuti il luogo in cui Dio abita, senza bisogno di avere un loro tempio, appartenendo a lui come sua proprietà esclusiva. La Chiesa risulta allora lo spazio in cui Dio può essere incontrato e conosciuto, il luogo nel quale si offrono sacrifici a lui graditi attraverso l’offerta della propria vita (cfr. Rm 12,1). In conclusione, in 2Cor 6,16b Paolo, da una parte, intende motivare, alla luce della scrittura che trova così il suo adempimento, la designazione dei credenti come «tempio di Dio» propria del v. 16a; dall’altra, introdurre le conseguenze etiche di tale statuto, che saranno sviluppate nei vv. 17-18, sempre grazie alla parola di Dio.

Al v. 17 vengono subito introdotte tre esortazioni (all’imperativo) e una conseguente promessa (al futuro): l’agire voluto da Dio per i suoi e poi quello che egli darà loro. Paolo riprende il testo di Is 52,11, con il quale Dio invitava il suo popolo a uscire da Babilonia e a separarsene completamente senza rendersi impuri con il suo culto alieno, e quello di Ez 20,34, dove si trova l’impegno divino alla restaurazione di Israele dopo l’esilio. Questi oracoli, dedicati al rinnovamento dell’Israele post-esilico, sono utilizzati dall’apostolo per motivare, con l’autorità della scrittura, l’appello del v. 14a alla separazione dagli increduli rivolto ai Corinzi, mentre, allo stesso tempo, risultano logicamente collegati agli oracoli del versetto precedente. Così Paolo intende affermare che la comunità corinzia (e non solo essa), proprio perché è tempio di Dio, deve mantenere la sua purità, cioè l’appartenenza esclusiva a lui staccandosi dagli increduli, e che per questo riceverà la piena approvazione del suo Signore.

al v. 18 è presentata un’altra promessa (cf. 2Re 7,14 – TM 2Sam 7,14 – e Is 43,6): si tratta dell’instaurarsi di un rapporto di padre-figlio tra Dio e i suoi, sancito dalla stessa parola dell’Onnipotente. La figliolanza divina dei cristiani diventa universale, includendo uomini e donne. Quest’ultimo esito richiama da vicino il testo paolino di Gal 3,28, dove l’apostolo indica come nella comunità ecclesiale anche le distinzioni di sesso non sono più criterio determinante. D’altronde, l’aspetto più generale dell’essere figli e figlie è collegabile con i passaggi di Gal 3,26–4,7 e Rm 8,14-17, nei quali la figliolanza adottiva dei credenti in Cristo è dono dello Spirito ricevuto nel battesimo ed è da vivere nella Chiesa come fratelli che si amano (cfr., p. es., Rm 14,13-23; 1Ts 4,9-10; Fm 16.20). Così Paolo parte nel v. 16b dall’immagine della comunità come tempio di Dio, per poi passare a quella di popolo di Dio, che rimane subordinata alla prima, e giungere al v. 17, in ragione di tale profilo ecclesiale, a presentare un appello alla separazione dagli increduli. All’interno di questo quadro, lo statuto filiale dei credenti in Cristo presentato al v. 18 si aggiunge per mostrare quale sia alla fine, secondo l’apostolo, la più profonda identità della Chiesa: quella di essere la comunità dei figli e delle figlie di un Dio che è Padre. Paolo invita i suoi, in ragione delle promesse di Dio appena proclamate, alla purificazione (evitando la contaminazione della propria persona) e alla santificazione nel timore di Dio. Con una modalità sapientemente pedagogica, l’apostolo si rivolge ai destinatari come «amati» e include se stesso e i collaboratori nell’esortazione finale rivolta ai Corinzi. Tale esortazione, come quella iniziale di 6,14a, non possiede un aspetto moralistico o volontaristico, bensì è basata sullo statuto della comunità cristiana, proclamato attraverso le «promesse» anticotestamentarie: come avviene spesso nell’etica paolina, il dono di Dio è il fondamento delle richieste riguardanti il comportamento dei credenti in Cristo. Così l’appello alla separazione dagli increduli rivolto a tutta la comunità di Corinto in 6,14–7,1 – basato, in un primo momento, su motivazioni di principio di natura etica e soteriologica e, in un secondo, su prove scritturistiche concernenti lo statuto della Chiesa – diviene un invito alla responsabilità personale di ciascun credente corinzio, in ordine a un’esistenza nuova e diversa da quella comune nel proprio ambiente.


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In esilio verso la dimora celeste 1Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. 2Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste 3purché siamo trovati vestiti, non nudi. 4In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati ma rivestiti, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. 5E chi ci ha fatti proprio per questo è Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito. 6Dunque, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – 7camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, 8siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. 9Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. 10Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.

Le ragioni del vanto per il ministero della riconciliazione in Cristo e terza tesi 11Consapevoli dunque del timore del Signore, noi cerchiamo di convincere gli uomini. A Dio invece siamo ben noti; e spero di esserlo anche per le vostre coscienze. 12Non ci raccomandiamo di nuovo a voi, ma vi diamo occasione di vantarvi a nostro riguardo, affinché possiate rispondere a coloro il cui vanto è esteriore, e non nel cuore. 13Se infatti siamo stati fuori di senno, era per Dio; se siamo assennati, è per voi. 14L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. 15Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. 16Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. 17Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. 18Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. 19Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. 20In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. 21Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

In esilio verso la dimora celeste al v. 1 Paolo sostiene che, se il nostro fragile corpo terreno viene annientato con la morte, Dio ci dona con la risurrezione un corpo eterno nei cieli. Tale condizione, che comporta precarietà e transitorietà, non è considerata in maniera negativa da Paolo, ma diviene il presupposto necessario per il conseguimento della dimora celeste. Infatti, solo se la «casa terrestre» viene distrutta è possibile conseguire l’altra, opera di Dio e collocata nei cieli. Si tratta del «corpo spirituale» alla risurrezione, di cui ci parla 1Cor 15,44. In realtà, tutto il contenuto di questo versetto, come di quelli successivi, rimanda alla riflessione sulla risurrezione dei corpi presente in 1Cor 15, con la relazione tra quella di Cristo e quella dei credenti. Al v. 2 Paolo riprende e specifica quanto appena detto, asserendo che i credenti sospirano nella tenda del loro corpo mortale, segnati dal profondo desiderio di rivestirsi della dimora celeste, che è il loro corpo risorto. Da parte sua, il v. 3 intende completare il precedente, affermando che, se i credenti saranno rivestiti della dimora celeste, non si troveranno nudi. Siamo portati a pensare che la nudità rappresenti la condizione del corpo terrestre sottoposto alla sofferenza che conduce al suo disfacimento e alla morte. Il corpo risorto costituirà allora un vestito che il credente assumerà insieme alla conseguente situazione di assenza di sofferenza e di incorruttibilità. il v. 4 riprende ed espande il v. 2, dopo la parentesi del v. 3: Paolo afferma che nella tenda lui e gli altri credenti gemono perché non vogliono essere svestiti ma rivestiti, in modo che ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. Se i vv. 1-4 hanno un’accentuazione antropologica, il v. 5 provvede a fornire una chiave di lettura propriamente teologica della trasformazione escatologica dei credenti. Infatti, qui Paolo sostiene che Dio fa in modo che quanto è mortale sia assunto dalla vita, donando ai credenti la caparra dello Spirito. Come già evocato dall’apostolo in 1,22, al momento del loro venire alla fede i cristiani hanno accolto lo Spirito come anticipo e garanzia della salvezza futura; ora è questo dono a renderli fiduciosi di ricevere la dimora o il vestito celeste, quindi il corpo risorto e la vita senza fine. Con una frase che rappresenta un anacoluto (rimane come sospesa), il v. 6 riprende quanto sviluppato nei versetti precedenti e in particolare nell’ultimo di essi. Infatti, Paolo afferma di essere fiducioso in ragione dell’itinerario prospettato da Dio ai credenti e condivide con i destinatari la convinzione che mentre si vive nel corpo si è come esiliati dal Signore. Il v. 7 intende completare quanto appena asserito. Infatti, Paolo spiega la lontananza dal signore per il fatto che viviamo nella fede e non siamo ancora nella visione. Il v. 8 riprende il discorso del v. 6, dopo la frase parentetica del v. 7. Paolo afferma di nuovo il suo atteggiamento di fiducia ed esprime la sua preferenza per l’esilio dal corpo e l’abitare presso il Signore. Al v. 9 si trae una conclusione riguardo all’alternativa tra vita terrena e vita celeste. Paolo afferma che in definitiva quello che più conta per il cristiano è essere gradito a Dio, sia nel presente sia nel futuro. Questa è e deve essere la profonda aspirazione dei credenti. Nel v. 10 Paolo afferma che l’aspirazione a essere graditi al Signore è motivata dal fatto che tutti i credenti dovranno arrivare dinanzi a Cristo come giudice, per ricevere ognuno la retribuzione per quanto fatto di bene o di male nella vita terrena. Lo sguardo fisso sul futuro non distoglie l’apostolo e i suoi da un’attenzione profonda al loro agire presente; al contrario, richiede tale impegno in maniera decisa.

Le ragioni del vanto per il ministero della riconciliazione in Cristo e terza tesi Il brano racchiude sia la tesi di tutta la terza dimostrazione (5,12), sia le prime prove a suo sostegno, le quali si mostrano nello stesso ministero ricevuto da Dio e basato sull’opera di riconciliazione per mezzo di Cristo, fatto che spinge gli apostoli a donare se stessi ai Corinzi. Dunque, se il kerygma della morte in croce di Cristo è al centro del brano, esso non rimane a livello puramente enunciativo, ma è utilizzato per illuminare i rapporti tra gli evangelizzatori e i destinatari. Paolo afferma che, avendo timore di Dio, lui e i suoi collaboratori cercano di convincere gli uomini in ordine all’accoglienza del Vangelo e, mentre tutto il loro agire è ben chiaro di fronte a Dio, l’apostolo spera che lo sia anche di fronte alle coscienze dei destinatari. Il timore di Dio è nell’antico testamento un atteggiamento, tipico del credente, contraddistinto da rispetto e riverenza per il Signore ed elogiato come il principio della vera sapienza (cfr. Pr 9,10). poiché l’apostolo crede alla prospettiva del giudizio finale di Dio, al quale si dovrà rendere conto (cfr. 2Cor 5,10), egli adotta questo atteggiamento nel suo agire missionario e, di conseguenza, lui e i suoi collaboratori fanno di tutto per persuadere gli uomini della bontà del messaggio che annunciano. Paolo desidera che i Corinzi, per i quali nutre affetto, acconsentano nelle loro coscienze a questo giudizio divino riguardo agli apostoli. Tutto il v. 11 richiama, anche dal punto di vista terminologico, la tesi principale di 1,12-14, secondo la quale la coscienza di Paolo e quella dei suoi collaboratori attestavano la sincerità e la trasparenza del loro comportamento nella speranza che anche i destinatari comprendessero tutto ciò. Con il v. 12 assistiamo a una precisazione di quanto appena detto al versetto precedente. Paolo, infatti, nega di volere nuovamente raccomandare se stesso e i suoi collaboratori ai Corinzi; piuttosto sostiene di voler fornire motivi per un vanto degli apostoli da parte dei destinatari, in risposta al vanto di coloro che confidano nelle apparenze esterne senza guardare al cuore. Una prima motivazione del vanto è data proprio dal v. 13 in cui Paolo sostiene che, se è stato fuori di sé, era nel proprio rapporto con Dio, mentre nei confronti dei destinatari ha agito nel pieno delle proprie facoltà mentali. È presumibile che nella prima parte del v. 13 l’apostolo si riferisca a sue esperienze mistiche ed estatiche (cfr. At 22,17; 2Cor 12,1-4): esse riguardano il suo rapporto con Dio. Tuttavia, in 1Cor 14,18-19 Paolo stesso sostiene che, pur avendo il dono spirituale della glossolalia, non se ne vuole servire, preferendo parlare all’assemblea dei Corinzi con la sua intelligenza e in modo comprensibile, così da poter contribuire alla loro edificazione. Ora afferma che nel suo discorso non intende fare leva sulle esperienze estatiche, ma sul suo sobrio e razionale impegno a favore dei destinatari. Quest’ultimo diventa, secondo l’apostolo, un vero motivo del vanto che i Corinzi possono intessere di lui e probabilmente in tal modo è messo a critica anche l’atteggiamento degli avversari paolini, portati a dare tutta l’importanza ai fenomeni esteriori, quali potevano essere appunto le estasi, non aventi tuttavia una reale ricaduta positiva sui destinatari. La seconda motivazione del vanto è quella più importante, introdotta a partire dal v. 14 e fondata sul kerygma cristologico. L’apostolo mostra così il fondamento più profondo del suo ministero: è l’esperienza personale dell’amore di Cristo che porta lui e i suoi collaboratori a compiere la loro missione di annuncio. Tale esperienza è, a sua volta, fondata e determinata dalla fede della Chiesa primitiva che proclama la morte di Cristo a beneficio di tutti gli uomini. Infatti, l’espressione «uno è morto per tutti» è una formula di fede tradizionale. Secondo Paolo, se Cristo è morto per tutta l’umanità, ne consegue che in qualche modo tutti gli uomini condividano il suo destino di morte. Questa idea di solidarietà è ben presente nella letteratura paolina, laddove si utilizza la tipologia di Cristo come nuovo Adamo, capostipite di un’umanità rinnovata (cfr. Rm 5,15-19; 1Cor 15,22.45-49). Poi, in ragione del contesto, il morire di tutti assume qui anche un significato più specifico: nella nuova creazione, inaugurata con la morte di Cristo, le cose vecchie sono passate e l’uomo è quindi ricreato e chiamato a un’esistenza nuova, segnata dalla morte del proprio «io» egoistico e chiuso in se stesso e dalla vita nella piena relazione con Dio e con gli altri. Secondo l’apostolo l’evento liberante della morte e risurrezione di Cristo determina una condizione di esistenza nuova in colui che lo accoglie, il quale è trasformato non solo al livello dell’essere, ma anche a quello del fare (cfr. Rm 6,4; Gal 3,27). Di conseguenza, anche le motivazioni per l’agire saranno legate a Cristo (cfr. 1Cor 6,20; 2Cor 8,7-9; Fil 2,1-18). Il v. 16 mette in campo una prima conseguenza dell’evento pasquale di Cristo morto e risorto nel quale si dispiega il suo amore oblativo per tutti gli uomini. Paolo, dunque, sostiene che i credenti, dal momento della loro venuta alla fede, non hanno più una conoscenza degli altri secondo criteri puramente umani e che, se anche si è conosciuto Cristo in base a tale prospettiva, ora non è più così. L’apostolo passa, quindi, a mostrare un cambiamento intervenuto nella sua vita e in quella di ogni cristiano al momento della conversione, nella quale ciascuno fa esperienza di un’appropriazione del mistero di morte e risurrezione di Cristo. Paolo e coloro che hanno conosciuto Cristo prima di venire alla fede hanno avuto una comprensione della sua persona solo superficiale. In particolare, l’uomo di Tarso deve prima avere considerato Gesù un bestemmiatore e un maledetto dalla Legge (cfr. At 26,9; Gal 3,13), poi ha riconosciuto in lui il suo unico Signore (cfr. Fil 3,8), così come i Corinzi stessi e tutti i credenti sono chiamati a fare. Una seconda conseguenza del mistero pasquale è evidenziata nel v. 17. Qui si afferma che colui che è unito a Cristo per la fede fa parte della nuova creazione, le cose vecchie sono passate e sono giunte le nuove. Il concetto di “nuova creazione” implica, secondo Paolo, che il “rinnovamento” è già stato inaugurato al presente con la morte e risurrezione di Cristo. Chi lo accoglie per mezzo della fede sperimenta nella vita una novità radicale, con la quale tutto cambia nel rapporto con Dio (cfr. Rm 6,3-4) e nel proprio stare al mondo (cfr. Gal 3,28): il dono pasquale, con le sue conseguenze salvifiche, è rivolto a tutta l’umanità (cfr. 2Cor 5,14-15), i credenti sono coloro che effettivamente lo hanno accolto e per questo sperimentano una novità assoluta e definitiva a livello dell’essere e dell’agire (cfr. 2Cor 5,16-17). Con il v. 18 , viene presentato il servizio della riconciliazione che è affidato al ministero agli apostoli; affidamento che costituisce la terza motivazione del vanto. In aggiunta, Paolo afferma che per i credenti «tutto» viene da Dio, indicando così quanto presentato nei vv. 14-17: l’amore di Cristo con la sua morte e risurrezione insieme alle conseguenze di ciò nel nuovo modo di conoscere e nella nuova creazione. Ora appare chiaro che tali accadimenti hanno la loro origine nell’iniziativa divina. Paolo e i collaboratori non sono i mediatori della riconciliazione divina, perché questo è il ruolo di Cristo, ma gli annunciatori di quanto Dio ha operato a favore dell’umanità, che è così chiamata ad accogliere tale iniziativa di amore e di salvezza, sulla scorta di ciò che i credenti hanno già cominciato a fare. Il v. 19 rappresenta una ripresa esplicativa del versetto precedente, ricalcando quanto detto e ricorrendo a una piccola aggiunta in relazione al fatto che Dio non tiene conto delle azioni peccaminose degli uomini. In conseguenza del ministero che l’apostolo e i suoi collaboratori hanno ricevuto, al v. 20 egli afferma che essi fungono da ambasciatori con l’autorità proveniente da Cristo ed esortano a nome di Dio; il loro appassionato messaggio consiste in un appello a essere pienamente riconciliati con Dio stesso. Nel v. 20 convergono in piena armonia la dimensione teologica (cfr. vv. 18-19) e cristologica (cfr. vv. 14-17) della riconciliazione, al cui servizio si pongono gli apostoli: essi agiscono a nome di Cristo, mentre quando esortano è Dio stesso che esorta, e il contenuto del loro accorato appello è proprio quello ad accogliere l’iniziativa divina della riconciliazione. I destinatari dell’azione apostolica sono tutti gli uomini, i quali al momento della loro conversione al Vangelo saranno pienamente riconciliati con Dio. Il v. 21 conclude in maniera molto efficace il brano. Siamo di fronte a una delle tipiche espressioni paradossali paoline riguardanti l’evento-Cristo: come può uno che è senza peccato diventare peccatore e rendere giusti gli altri? In generale l’apostolo presenta queste affermazioni, che contraddicono la logica umana, per invitare i suoi ascoltatori a un cambio di mentalità, una vera e propria conversione, accettando le vie folli di Dio, impensabili e inaudite per l’uomo, mostrate proprio attraverso Cristo e la sua croce. L’apostolo presenta la finalità di tale avvenimento in un impensabile interscambio a favore dei credenti: Cristo diventa peccato sulla croce, assumendo la pena della morte riservata ai peccatori, affinché tutti divengano giusti di fronte a Dio.


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Il Vangelo della gloria di Cristo annunciato con verità da Paolo 1Perciò, avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo. 2Al contrario, abbiamo rifiutato le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunciando apertamente la verità e presentandoci davanti a ogni coscienza umana, al cospetto di Dio. 3E se il nostro Vangelo rimane velato, lo è in coloro che si perdono: 4in loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio. 5Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù. 6E Dio, che disse: «Rifulga la luce dalle tenebre», rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo.

Il tesoro di Dio nella debolezza dell’apostolo e seconda tesi 7Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. 8In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; 9perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, 10portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. 11Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. 12Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita. 13Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, 14convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. 15Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.

Il rinnovamento dell’uomo interiore 16Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. 17Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: 18noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Il Vangelo della gloria di Cristo annunciato con verità da Paolo Paolo comincia al v. 1 tirando le conclusioni di quanto affermato in 2,14–3,18 riguardo al suo apostolato. egli sostiene che, avendo un ministero di tal fatta, in ragione della misericordia di Dio, lui e i suoi collaboratori non si scoraggiano. L’elemento della misericordia divina si riferisce alla chiamata di paolo, che da persecutore è stato fatto apostolo del Vangelo, ma anche degli altri missionari che insieme con lui condividono lo stesso servizio di annuncio, in quanto inviati da Dio (cfr. 2,17) che da lui ricevono la capacità per agire (cfr. 3,5). Inoltre, il «non ci perdiamo d’animo» richiama la coraggiosa franchezza del loro comportamento (cfr. 3,12), ma è legato anche alle sofferenze derivanti dal ministero (cfr. 4,16). In ogni caso, il v. 1 si pone, insieme al successivo, come una nuova e riassuntiva difesa di Paolo e dei suoi collaboratori. Il v. 2 è da subito segnato da una frase avversativa che indica bene come Paolo non si scoraggi; al contrario, ha attivamente deciso di rinunciare a un comportamento fatto di ambiguità e di sotterfugi. Nonostante l’apertura e la trasparenza dell’annuncio rivolto verso tutti, viene sottolineata la possibilità di un libero rifiuto del Vangelo con la conseguente rovina. Il v. 4 continua a parlare degli avversari spiegando come essi abbiano un velo che impedisce loro la comprensione dell’annuncio apostolico. La ragione è data dall’azione di satana, che li acceca in modo che non possano vedere la luce che emana dal Vangelo che, a sua volta, mostra la gloria di Cristo, il quale è la vera immagine di Dio. Viene così affermata la centralità cristologica del Vangelo predicato da Paolo e dai suoi collaboratori. Avendo chiuso con il tema del Vangelo nel versetto precedente, Paolo nel v. 5 si sofferma sul suo ministero vissuto in relazione a tale soggetto. Così si sostiene che l’apostolo e i suoi collaboratori non annunciano se stessi, ma Gesù Cristo come Signore, mentre loro sono totalmente a servizio della comunità proprio a motivo di Cristo. Paolo intende quindi ribadire, probabilmente anche a fronte di certe critiche provenienti da Corinto, che non vuole mettere se stesso al centro dell’attenzione e dominare sulla comunità (cfr. 1,24). Infatti, al cuore del suo ministero si trova l’annuncio essenziale di Cristo come Signore, comune a tutta la Chiesa primitiva (cfr. At 2,34-36), che attesta la continuità tra il Crocifisso e il Risorto, la sua uguaglianza con Dio, il suo dominio universale e il suo giudizio finale (cfr. Fil 2,6-11). In totale opposizione al titolo di «Signore», l’apostolo intende affermare che lui e i suoi collaboratori sono semplici «schiavi» della comunità, seppur a motivo di Cristo stesso. Così Paolo ripercorre a suo modo lo stesso cammino del suo signore, che si è spogliato della condizione divina per assumere quella di schiavo per amore dell’uomo (cfr. Fil 2,6-11), rinunciando alla propria libertà e vivendo il ministero nella conformazione a Cristo e nell’umile servizio a favore dei suoi destinatari (cfr. 4,7-12). Il v. 6 costituisce una spiegazione del precedente, in particolare del perché dell’annuncio paolino di Cristo. Infatti, l’apostolo afferma che Dio, il quale ha tratto dalle tenebre la luce, è anche colui che ha fatto brillare in Paolo lo splendore della conoscenza di quel Vangelo che rifulge di gloria divina sul volto di Cristo.

Il tesoro di Dio nella debolezza dell’apostolo e seconda tesi Il brano di 4,7-15 racchiude sia la tesi di 4,7 sul tesoro divino presente nella debolezza dell’apostolo, sia le prime prove a sostegno di essa. Il tutto mostra come nelle concrete e attuali avversità del ministero agisca la potenza di Dio e come la fragilità dell’annunciatore non sia un ostacolo, ma uno strumento adatto per il progresso del Vangelo. Il v. 7 in maniera sintetica presenta una nuova posizione di Paolo riguardo al ministero apostolico: lui e i suoi collaboratori portano il tesoro della conoscenza e del Vangelo di Cristo nei fragili vasi di creta delle loro esistenze, affinché sia chiaro a tutti che la potenza straordinaria di ciò che annunciano ha origine in Dio e non viene da loro. Se nonostante la sua fragilità l’apostolo è lo strumento eletto per l’annuncio, questo è dovuto al fatto che «la straordinarietà della potenza viene da Dio», cioè ‒ esattamente come annunciava programmaticamente 1,12 ‒ principio del suo agire è «la grazia di Dio». I vv. 8-9 mostrano in concreto come il vaso di creta possa resistere agli urti esterni: l’apostolo, sostenuto dalla potenza di Dio, prosegue nel suo ministero nonostante le avversità: nei pericoli l’apostolo ha sperimentato la liberazione di Dio. La sopravvivenza alle difficoltà è frutto non del proprio sforzo etico, ma dell’intervento di Dio che, in maniera totalmente inaspettata, secondo quanto sarà esplicitato nel versetto successivo, rende personalmente partecipi del mistero di morte e risurrezione di Cristo. Nel v. 10, infatti, è introdotta una nuova antitesi, attraverso il binomio morte/ vita che sarà presente nei versetti successivi, come a fornire una motivazione cristologica di quanto affermato immediatamente prima. Ora Paolo sostiene che lui e i suoi collaboratori partecipano nelle loro persone al morire di Gesù, affinché sia manifestata in loro anche la sua vita di risorto. Siamo di fronte a una formulazione paradossale, perché dalla morte appare scaturire la vita: l’apostolo vive la comunione con la morte di Cristo, partecipando a un processo di “necrosi” derivante dalle sofferenze del suo ministero, al fine di mostrare a tutti la potenza di Dio manifestata nella risurrezione di Cristo. In dipendenza dalla tesi del v. 7, si intende descrivere la condizione paradossale nella quale Dio pone l’apostolo che, proprio attraverso la sua esistenza segnata dalla sofferenza ed esposta alla morte, manifesta tutta la potenza di vita del risorto. Nel v. 11 Paolo sostiene che gli apostoli nel tempo della loro vita terrena vengono, come Gesù e a causa del suo Vangelo, consegnati alla morte da Dio, in modo che nella loro debolezza mortale mostrino la potenza divina, operante nella risurrezione di Cristo. L’esistenza missionaria è, per volontà di Dio e non per scelta umana, una riproposizione del cammino di Gesù e, quindi, della sua donazione sino alla morte, ma anche della sua risurrezione, cosicché le sofferenze apostoliche diventano feconde, in quanto hanno la capacità di manifestare la vita. Così al v. 12 si giunge a una conclusione, riguardo all’antitesi morte/vita che segna il ministero, coinvolgendo anche la stessa comunità. Infatti, Paolo afferma che la morte, attraverso le sofferenze della missione, è all’opera negli apostoli affinché la vita del risorto raggiunga i destinatari. Certamente non è la capacità di Paolo che produce vita nei Corinzi, ma è la potenza di Dio, la stessa che ha operato nella risurrezione di Cristo e che, come già detto nella tesi del v. 7, abita ora la fragilità del ministro cristiano. Egli è solo uno strumento scelto e un testimone visibile nei confronti della comunità di questo paradossale e sconvolgente agire divino, che ai destinatari è richiesto di accogliere con una stessa piena disponibilità. L’unico ricorso alla scrittura presente nella seconda dimostrazione (4,7–5,10) si trova in 4,13. Qui l’apostolo afferma che lui e i suoi collaboratori hanno la stessa disposizione di fiducia in Dio che possedeva l’autore del Sal 115,1 LXX (TM 116,10). In ragione di tale atteggiamento annunciano il Vangelo a motivo della loro fede. Nel v. 14 Paolo fornisce la base, costituita dalla speranza nella propria risurrezione, per il credere e il parlare che lo caratterizza insieme ai suoi collaboratori. Infatti, attingendo anche a una formula proveniente dalla tradizione cristiana primitiva, egli afferma che quel Dio che ha risuscitato Cristo da morte farà partecipi di questa comunione di vita con il risorto anche gli apostoli e li porrà accanto agli stessi Corinzi al momento del compimento escatologico. Con il v. 15 giungiamo alla conclusione della pericope. Paolo, infatti, riassume il discorso dicendo che tutto il lavoro apostolico, con le avversità e sofferenze menzionate in precedenza, è a beneficio dei destinatari e serve a uno scopo ancora più grande. Esso consiste nel fatto che la stessa grazia divina, veicolata dal suo ministero di annuncio del Vangelo e accolta da un numero sempre maggiore di persone, produca una crescita del rendimento di grazie a Dio per la sua gloria.

Il rinnovamento dell’uomo interiore Al v. 16 oltre al collegamento con quanto precede viene aggiunto il fatto che, se l’uomo esteriore si consuma, quello interiore si rinnova quotidianamente. Le due espressioni «uomo esteriore» e «uomo interiore» indicano due situazioni opposte e contemporanee che il ministro e ciascun credente in Cristo sperimenta nella propria esistenza. È proprio su questa linea che sono da comprendere le due espressioni sotto esame. Così l’uomo «esteriore» è l’intera persona nella sua dimensione relazionale esterna, segnata dall’essere una creatura mortale. Mentre l’uomo «interiore» è l’intera persona nella sua dimensione profonda che è rinnovata a motivo del rapporto con il suo Signore. Il parallelo più adeguato si trova nel testo di Gal 2,20: «e non vivo più io, ma vive in me Cristo (uomo interiore). E ciò che ora vivo nella carne (uomo esteriore), lo vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». Questo processo di trasformazione è progressivo ed è costituito da una partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo, operata per mezzo dello spirito, che conduce il credente di gloria in gloria a una sempre maggiore somiglianza con il suo Signore (cfr. 3,18; 4,6) sino al compimento finale (cfr. 4,14). Al v. 17 è fornita una motivazione riguardo al contemporaneo processo di disfacimento e rinnovamento del credente, del quale si è trattato nel versetto precedente. Il dualismo che ora viene introdotto, però, più che antropologico è escatologico, ossia tra ciò che è momentaneo e ciò che è permanente. Infatti, si afferma che l’afflizione dei credenti, temporanea e leggera, produce un’incommensurabile gloria eterna. A partire dall’ottica di fede nella risurrezione gloriosa, Paolo sostiene che tutte le sofferenze dei credenti appaiono di breve durata e intensità in confronto alla realtà indicibile della vita eterna (cfr. Rm 8,18). Il v. 18 presenta con una nuova antitesi, basata sul contrasto tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, le modalità con le quali il credente è invitato ad accompagnare il processo di trasformazione enunciato nei due versetti precedenti. Dunque, Paolo afferma con una sfumatura paradossale che il cristiano deve guardare non alle realtà visibili, ma a quelle invisibili, perché le prime sono soggette al tempo, mentre le altre possiedono la caratteristica dell’eternità. 2Cor 4,18 si apre al successivo 5,1 che, sempre attraverso lo stile antitetico, introduce il discorso del destino non attualmente visibile del credente dopo la morte.


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