📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

XVI – Primo avvio della conversazione catechistica

24. Immaginiamo perciò che venga da me uno con l’intenzione di farsi cristiano, e sia un illetterato, ma di estrazione cittadina e non di campagna, precisamente comequelli che vengono da te a Cartagine.

Quando gli chiedo se viene per qualche interesse materiale o per la vita futura, mi risponde che viene per la pace della vita futura.

Io, probabilmente, gli terrei questo discorso:

Ringrazio Dio, fratello, e mi congratulo con te, e godo per te, perché tra le tante bufere di questo mondo hai saputo trovare il tempo di occuparti di una sicurezza vera e duratura. C’è gente infatti che cerca, e a prezzo di enormi sacrifici, la sicurezza in questo mondo, ma le cattive tendenze impediscono di trovarla.

Costoro pretendono di trovar la pace in cose che non hanno consistenza e stabilità; e siccome queste passano e si perdono, perdono anch’essi la serenità e restano prigionieri della paura e della sofferenza. Quando cerca pace nella ricchezza, l’uomo diventa più superbo che sicuro, perché la ricchezza, qualcuno la perde di colpo e qualche altro si perde con essa, o perché la desidera o perché ne vien privato da altri ancor più avidi di lui. Ma anche se la potesse conservare per tutta la vita, ed essa non l’abbandonasse, egli stesso dovrebbe ugualmente lasciarla in punto di morte.

E quant’è lunga la vita dell’uomo, anche nell’ipotesi che possa diventare molto vecchio? E quando gli uomini bramano d’invecchiare, cos’altro desiderano se non una lunga malattia?

E anche gli onori, qui sulla terra, cos’altro sono se non orgoglio, vanità, pericolo di rovina?

Così dice la Scrittura: Ogni uomo è come l’erba, e lo splendore dell’uomo come il fiore. L’erba si secca, e il fiore appassisce; e solo la parola del Signore resta per sempre (Is 40,6-8).

Chi dunque cerca la vera pace e la vera gioia, deve distogliere la speranza dalle cose che passano e muoiono, e riporla nella parola del Signore: e poiché quella resta per sempre, anche colui che vi aderisce vivrà in eterno.

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«DE CATECHIZANDIS RUDIBUS» LETTERA AI CATECHISTI di Sant'Agostino di Ippona con introduzione e note a cura di GIOVANNI GIUSTI Ed. EDB – © 1981 Centro Editoriale Dehoniano Bologna https://www.canoniciregolari-ic.com/s-agostino-catechesi/


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XV – Modelli di catechesi

Osservazioni previe 23. Ora è giunto il momento di saldare un debito, al quale però non ero tenuto, se non te ne facevo promessa io stesso: quello di presentarti un concreto esempio di conversazione catechistica, come se stessi ora catechizzando, in modo che ti serva da modello.

Prima di cominciare, alcune premesse (12):

  • altra è la situazione spirituale di chi prepara una conversazione per un ipotetico futuro lettore, e altra è la situazione di chi parla tenendo conto dell’uditore presente;
  • altra la situazione spirituale di chi insegna a tavolino, senza che nessuno possa giudicare se fa bene, e altra la situazione di chi insegna di fatto, e si trova davanti uditori che la pensano in modo differente tra loro;
  • altra la condizione di chi sta istruendo una sola persona, mentre gli altri stanno a giudicare o confermano quanto s’insegna, e altra quella di chi si trova davanti molti ascoltatori, tutti in attesa di ciò che intendiamo dire;
  • altra la situazione che si verifica quando si sta seduti come in famiglia e si scambiano i pareri, e altra quando una folla in silenzio si volge verso l’alto da dove parla un oratore.

Non è la stessa cosa se gli ascoltatori sono molti o pochi, se sono dotti o ignoranti, oppure qualcosa dell’uno e qualcosa dell’altro; cittadini o campagnoli, o mescolati insieme, o gente di ogni categoria.

Inevitabilmente questi fatti influiscono su chi parla e su quel che dice, e il discorso rivela il volto interiore di chi lo pronuncia, mentre la diversità degli stimoli ricevuti ricade sugli ascoltatori, ed essi stessi si influenzano reciprocamente con la propria presenza.

Venendo alla istruzione dei principianti, posso dirti di trovarmi in una situazione psicologica diversa a seconda che mi trovo dinanzi un erudito, un fannullone, un cittadino, un vagabondo, un ricco o un povero, uno sconosciuto o un personaggio famoso o un uomo di potere, di una categoria o di un’altra, di un’età, o dell’uno o dell’altro sesso, proveniente da questa o da quella sètta, o da questo o quell’errore popolare. A seconda di come vivo questa situazione, introduco, porto avanti e concludo il mio discorso.

È vero che si devono amare tutti, ma non a tutti serve la stessa medicina. Lo stesso amore ad alcuni dà vita, con altri si fa debole; ha cura di edificare gli uni e si preoccupa di non danneggiare altri; per qualcuno si piega, di fronte ad altri si impone; con qualcuno è tenero, con altri severo; a nessuno è nemico, e per tutti è madre.

E chi non ha fatto questa esperienza che viene dall’amore pensa che noi siamo felici, perché riusciamo a farci apprezzare dalla gente. Veda il Signore, alla cui presenza giungono i gemiti dei prigionieri (cf. Sal 78,11), la nostra povertà e la fatica, e perdoni i nostri peccati (13) (cf. Sal 24,18).

Se qualche elemento del mio discorso t’è piaciuto, al punto che mi hai chiesto indicazioni per il tuo compito di catechista, più utile ti sarebbe ascoltarmi quando parlo, che leggere lo scritto.

__________________________ Note

(12) La sensibilità di Agostino parte dall’esperienza. Non c’è discorso preparato, non lezione o predica o conversazione che possa essere ripetuta tale e quale in situazioni e tra persone diverse; salvo a far cose generiche, valide per tutti e per nessuno. Il paragone della medicina e dei modi diversi in cui si esprime l’amore è illuminante.

(13) È un modo per dire: abbiamo sufficienti motivi per domandare perdono, che ci impediscono di cercare la bella figura!

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22. Se poi ci prende la tristezza per qualche nostro errore o peccato, non solo ricordiamo che «lo spirito pentito è sacrificio davanti a Dio» (Sal 50,9), ma inoltre che «come l’acqua spegne il fuoco, così l’elemosina spegne il peccato» (Sir 3,33), e «io preferisco la misericordia al sacrificio» (Os 6,5). (10)

Se ci fosse in casa nostra un principio d’incendio, cercheremmo l’acqua per spegnerlo, e saremmo grati se ci venisse dal vicino; così se dentro di noi è la fiamma del peccato, e la cosa ci toglie serenità, il far catechesi è un’opera di misericordia, e pensando a questo ci rassereniamo e superiamo il disagio. A meno che siamo talmente sciocchi da pensare che ci si debba affannare di più a riempire lo stomaco di un affamato, che a nutrirne la mente con la parola di Dio.

Aggiungi che, se far catechesi fosse semplicemente utile, ma si potesse impunemente non farla, rifiutandoci correremmo il rischio di rinunciare a un’occasione che ci viene offerta più a vantaggio nostro che degli altri. (11)

A questo riguardo se il Signore ci minaccia dicendo: «Servo pigro, non dovevi mettere a interesse il denaro che t’ho dato?» (Mt 25,26.27); e noi, preoccupati per un nostro peccato, vogliamo aggravare la situazione e ne facciamo un altro, rifiutando il dono di Dio a chi ne ha bisogno e lo chiede?

Con pensieri e considerazioni di questo tipo siamo in grado di superare i motivi di tedio, e di disporci bene al compito catechistico, in modo che l’insegnamento che diamo con impegno e gioia sia accolto con piacere.

Questo dice, non a te solo, ma a tutti noi, l’amore che nei nostri cuori s’è diffuso dal momento che ci è stato dato lo Spirito (Rm 5,5).

__________________________ Note

(10) In altre parole, specie col paragone che segue, Agostino vuol dire: è possibile che tu abbia coscienza di qualche colpa, cioè di essere responsabile di aver appiccato il fuoco; ma tu hai a disposizione anche l’acqua che spegne l’incendio: cioè facendo catechesi, compi un bene con cui puoi riparare al male della colpa passata. «La carità estingue il peccato». Succede che qualche catechista si ritiene indegno di fare l’educatore, e teme che la sua indegnità renda vana l’azione educativa. Agostino gli dice: quando assumi coscienziosamente il tuo compito di educazione alla fede, hai già cancellato l’indegnità.

(11) Come dire: la proposta di far catechesi, per uno che si sente peccatore, è anche una occasione che Dio gli offre per riparare il suo peccato. Se rifiuta questa occasione, può mettere in pericolo la sua salvezza.

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Gioiosi anche nella sofferenza

21. Infine, se sei turbato da qualche scandalo e non riesci a organizzare serenamente e con gioia il discorso, allora hai bisogno di volere un gran bene a coloro per i quali Cristo è morto, e di desiderare ardentemente che siano liberati dalla morte causata dagli errori del mondo.

Così proprio la notizia che qualcuno vuol farsi cristiano avrà il potere di consolarti e cacciare la tristezza, come la notizia di un guadagno annulla il dolore di una perdita.

L’unico scandalo che ci può rattristare è il sapere o il vedere che un uomo è talmente debole da soccombere, o che uno fa soccombere un altro. Ma se uno viene per farsi cristiano, e offre motivo di speranza, questo fatto annulla il nostro dolore per l’altro che vien meno.

Dio ci invita a preoccuparci che il chiamato alla fede non diventi figlio della Geenna (Mt 23,15), mentre abbiamo davanti agli occhi molti seminatori di scandali che ci fanno star male; questo però non deve raffreddare il nostro zelo, ma piuttosto stimolarlo e accrescerlo.

Metteremo in guardia chi ci ascolta dall’imitare coloro che sono cristiani più di nome che di fatto, in modo che non sia indotto a seguire costoro, o a rifiutare Cristo per causa loro: cioè a voler uscire dalla chiesa dove trova di quella gente, oppure a volerci stare come ci stanno loro. Non saprei spiegare il perché, ma questo dolore ci rende più appassionati nel fare le raccomandazioni; e non solo non restiamo freddi, ma diciamo con maggior calore e foga ciò che in occasioni più tranquille diremmo freddamente e con calma.

E finiamo col godere dell’accaduto, che ci fornisce l’occasione di fare un discorso non inutile.

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XIV – Il programma del catechista e la sua duttilità

20. Se poi fai catechesi sciattamente per il dispetto di aver dovuto lasciar da parte un’altra occupazione che ritenevi più necessaria, devi considerare che non sempre si sa cosa sia più utile ora, o cosa sia meglio rinviare o addirittura tralasciare: a parte la regola generale che ci impegna a fare con amore tutto ciò che facciamo per il bene degli altri.

Non conoscendo dunque quali bisogni abbiano davanti a Dio le persone di cui ci occupiamo, possiamo solo congetturare, più che comprendere, e con poca o nessuna probabilità di essere nel giusto, di che cosa abbiano bisogno in quel preciso momento.

Di conseguenza, è giusto che noi ci facciamo un programma di lavoro: e se potremo far le cose in quest’ordine, ne godremo perché così è piaciuto non a noi, ma a Dio. Ma se qualche improvvisa necessità butterà all’aria il nostro programma, pieghiamoci serenamente, senza avvilirci: e l’ordine che Dio vuole, sia anche il nostro. È più giusto che siamo noi a fare la sua volontà, che lui la nostra.

Tra le cose da fare, l’ordine da preferire è quello in cui le più importanti hanno la precedenza.

Ma se ci lamentiamo di seguire l’ordine voluto da Dio, siamo già nel disordine, perché Dio è molto più importante di noi.

Chi preferisce lasciar da parte ciò che con la sua mente ha progettato, pur di non andare contro la volontà di Dio, è colui che ordina meglio le proprie cose.

Difatti «molti pensieri passano nella mente dell’uomo, ma solo il disegno del Signore resta saldo» (Pr 19,21).

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19. Spesso succede che chi all’inizio ascoltava volentieri, poi si stanca di ascoltare o di stare in piedi, e comincia ad aprir bocca per sbadigliare invece che per lodare, tanto da farci capire, magari senza volerlo, che se ne vuole andare.

Se ce ne accorgiamo, vediamo di sollevarlo:

  • o con qualche facezia riguardante l’argomento che trattiamo,
  • o presentando qualche racconto che susciti interesse e stupore, o anche provochi dolore e lacrime.

L’argomento lo riguardi personalmente, e così punto dall’interesse si sveglierà.

Tuttavia stiamo attenti a non urtare la sua riservatezza, ma stimoliamolo con la familiarità.

Se occorre, facciamolo sedere. A parte il fatto che sarebbe meglio far sedere gli uditori fin dall’inizio. So che in alcune chiese d’oltremare son più previdenti e offrono la possibilità di sedere non solo ai vescovi e ai preti che parlano, ma anche al popolo che ascolta, e così evitano che le persone più deboli si stanchino e si distraggano, e controvoglia se ne debbano andare.

È molto diverso se si allontana dall’assemblea radunata, per riprendersi un po’, uno che già ha ricevuto i sacramenti, e si allontana invece (e a volte non può farne a meno, altrimenti sviene e cade) uno che viene per la prima volta a riceverli. Egli non ha il coraggio di spiegare perché se ne vada e d’altra parte non riesce a stare in piedi.

Lo dico perché già m’è successo: fece così un contadino, mentre stavo istruendolo, e imparai a stare più attento.

Come può essere giustificata la nostra presunzione, se non permettiamo di star seduti ai nostri fratelli, o, peggio ancora, a coloro che istruiamo perché lo diventino, mentre invece quando parlava il nostro Signore, a cui gli angeli servono, una donna l’ascoltava seduta? (cf. Lc 10,39).

È chiaro che, se il discorso sarà breve, o non c’è posto a sedere, dovranno ascoltare in piedi: ma solo se c’è molta gente e non si tratta di iniziazione. Se invece è uno solo, o due, o comunque son pochi, e son venuti per farsi istruire sulla fede, sarebbe uno sproposito tenerli in piedi.

Se invece già abbiamo cominciato così, almeno quando ci accorgiamo che il nostro ascoltatore è stanco, facciamolo accomodare, anzi insistiamo affinché si metta a sedere, e diciamo qualcosa per sollevarlo e togliere il disagio che forse già aveva cominciato a distrarlo.

Se già sta seduto, e non comprendiamo perché non ci voglia seguire, diciamo, o scherzando o con severità, qualcosa che lo metta in guardia dalle preoccupazioni materiali. Se son queste a disturbarlo, basterà nominarle perché si allontanino; se invece non lo sono, ed egli è stanco di ascoltare, nel momento che diciamo qualcosa di imprevisto contro queste preoccupazioni (anche se sbagliamo) solleviamo la sua mente dalla stanchezza.

Ma non teniamola lunga, specialmente se usciamo dall’argomento, altrimenti invece che sanar la situazione la peggioriamo. Accorciamo poi gli altri discorsi, e promettiamo di arrivare alla svelta alla conclusione.

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XIII – Essere attenti agli uditori

18. Ma, tu dici, è penoso continuare a parlare sino alla fine, quando chi ci ascolta non dà alcun segno di trarne vantaggio.

Forse per religioso rispetto non ha il coraggio di manifestare, a parole o con gesti, la propria approvazione; o forse è timido; o non capisce ciò che ascolta, o non gli piace.

E se non sappiamo il perché — dato che non riusciamo a leggere dentro nel cuore — metteremo in atto tutti i mezzi dell’oratoria che possano scuoterlo e farlo uscire allo scoperto.

Lo esorteremo con delicatezza a vincere il timore che gli impedisce di esprimere il suo pensiero, ricordandogli che si trova tra fratelli, chiedendogli se ha capito e invitandolo a esprimersi liberamente, qualora avesse qualcosa in contrario.

Gli si chiederà se abbia già sentito trattare l’argomento, e non gli interessi perché già lo conosce; e, a seconda della risposta, si vedrà di parlare con maggior semplicità e organicità, o controbattere le opinioni errate, o riassumere brevemente quel che già conosce.

Sceglieremo poi qualcuno dei passi più sublimi della Scrittura, o del racconto che abbiamo fatto, perché la nostra esposizione nel momento che ne ricaviamo il senso profondo, gli diventi più gradita.

Se poi quello è proprio ottuso, refrattario a ' gustare quanto gli diciamo, anzitutto lo compatiremo. Poi daremo una scorsa alle altre cose, e gli inculcheremo l’essenziale: l’unità della chiesa cattolica, lo scopo delle tentazioni, il comportamento morale del cristiano in vista del terribile giudizio. E parleremo più a Dio di lui, che a lui di Dio.

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XII – Ripetere e rivisitare la verità con gioia

17. Se ci dà fastidio il ripetere continuamente come a dei bambini cose trite e ritrite, vediamo di adattarle con amore, paterno e materno e fraterno, ai nostri uditori e in questa unione dei cuori finiranno per sembrar nuove anche a noi. Quando ci si vuol bene, e tra chi parla e chi ascolta c’è una comunione profonda, si vive quasi gli uni negli altri, e chi ascolta si identifica in chi parla e chi parla in chi ascolta.

Non è vero che quando illustriamo a qualcuno il panorama di una città o di un paesaggio, che a noi è abituale e non c’impressiona più, è come se lo vedessimo per la prima volta anche noi? E ciò tanto più quanto più siamo amici: perché l’amicizia ci fa sentir di nuovo dal di dentro quel che provano i nostri amici.

Se poi nella contemplazione siamo riusciti ad andare in profondità, non ci accontentiamo che gli amici si fermino alla superficie ad ammirare l’opera delle mani dell’uomo, ma desideriamo che riescano a cogliere un progetto superiore e giungano ad ammirare e lodare Dio che ha creato ogni cosa per amore. Quanto più dunque dobbiamo godere se gli uomini cominciano a conoscere Dio, da cui prende senso tutto ciò che si capisce, e superare la noia delle cose ripetute mediante la partecipazione attiva alla freschezza delle loro nuove impressioni? Ancora più godiamo poi, se ci rendiamo conto da quali tenebre di errore esca chi ascoltandoci passa alla luce della fede.

E se possiamo essere lieti, quando rifacciamo i sentieri di ogni giorno per insegnare la strada giusta a chi può essersi smarrito, con tanto maggiore impegno e gioia dobbiamo ripercorrere quella dottrina di salvezza che noi già conosciamo per guidare sulla via della pace, che Dio ha dato a noi, un’anima impoverita e affaticata per gli errori di questo mondo.

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XI – I limiti del catechista

16. Ma il motivo del disagio può essere il fatto che preferiamo leggere o ascoltare cose bene espresse da altri, che improvvisar noi discorsi di cui non sappiamo quale effetto avranno. Se c’è la volontà di star lontani dall’errore, è facile rendersi conto che, quando gli uditori hanno capito la sostanza del discorso, non bisogna farne una tragedia se una parola suona male per chi ascolta o non esprime correttamente il nostro pensiero.

E se siamo noi stessi limitati al punto di non renderci bene conto di quel che diciamo (in realtà coi principianti si fanno discorsi talmente semplici, che un errore difficilmente può succedere), allora eviteremo che il nostro interlocutore si scandalizzi, spiegandogli che il Signore vuol provare anche noi, se quando sbagliamo siamo disposti a ricevere in pace la correzione, invece che incapponirci a difendere l’errore col risultato di precipitare ancor più in basso. Se poi nessuno ci fa notare l’errore, e né noi né i presenti ce ne accorgiamo, non val la pena prendersela tanto: la sola cosa da fare è non ripetere l’errore.

Il più delle volte però, ripensando a quanto abbiamo detto, noi stessi troviamo qualcosa da correggere, e non sappiamo come gli altri l’hanno accolta. Allora, se vogliamo loro bene, non siamo tranquilli al pensiero che possono averci frainteso.

Appena se ne presenta l’occasione, come nel silenzio abbiamo corretto noi stessi, così con delicatezza correggiamo chi sbaglia per aver ascoltato parole nostre invece che parole di Dio.

Se invece qualche invidioso, «sussurrone, detrattore, odioso a Dio» (cf. Rm 1,30) manifestasse un’insana soddisfazione per il nostro errore, vuol dire che si offre occasione di esercitar la pazienza e la misericordia: anche la pazienza di Dio conduce a penitenza.

Per lui però cos’è più vergognoso, e cosa accumula di più l’ira per il giorno del giusto giudizio di Dio (cf. Rm 2,4.5), che farsi simile a satana e godere del male altrui?

Altre volte il discorso è stato esatto e corretto, ma o perché non ben capito o perché si scontra con opinioni o consuetudini inveterate, provoca reazione e sconcerta chi lo ascolta.

Se così avviene, e si vede possibile rimediare, si portino subito documenti e argomentazioni opportune. Ma se il turbamento è interiore e non viene espresso, bisogna pregare Dio che provveda lui. Se invece l’uditore reagisce, e non accetta la correzione, ci consoli l’esempio del Signore, che sconcertò con le sue parole, e poiché se ne andavano a causa della durezza dei suoi discorsi, anche a chi rimaneva disse: «Ve ne volete andar anche voi?» (Gv 6,68).

Noi sappiamo con certezza che la città di Dio sarà separata un giorno dalla Babele di questo mondo, e nessuno dei suoi cittadini si perderà; o se qualcuno si perderà, sarà perché non ne fa parte.

«La costruzione di Dio infatti è stabile e porta questo motto: Dio conosce i suoi, e chi porta il suo nome deve tenersi lontano dal male» (2Tm 2,19).

Se pensiamo a questo e nel cuore preghiamo il Signore, l’incertezza sulle reazioni degli ascoltatori non ci farà troppo temere per l’efficacia del nostro discorso: anzi saremo contenti di sopportare il disagio per fare un’opera buona, a meno che non cerchiamo la nostra gloria personale.

Le opere buone sono davvero tali, se partono da un cuore retto e se la volontà persevera sino in fondo nell’amare.

Così la lettura e l’ascolto di cose migliori, che noi avremmo preferito, e la cui rinuncia può rendere svogliato e noioso il nostro discorso catechistico, ci riavrà più vivaci e allegri una volta che avremo compiuto il nostro dovere.

E potremo pregare con più confidenza Dio di parlare a noi, come noi desideriamo, se accettiamo con gioia che lui parli, per la nostra bocca, così come ne siamo capaci: e così tutto concorre al bene di coloro che amano Dio (cf. Rm 8,28).

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Umiltà e gioia

15. Ad affliggerci può essere dunque il fatto che chi ci ascolta non giunge con la mente dove giungiamo noi, e siamo costretti a lasciare le nostre sublimi considerazioni per sillabare adagio i pensieri, e far uscire, con lunghi giri di parole, ciò che vi è entrato col lampo di una intuizione: e così, non riuscendovi, preferiremmo tacere.

Pensiamo allora cosa ci ha proposto colui che «ci ha dato l’esempio, perché seguiamo la sua via» (1Pt 2,21). Per quanto il suono della nostra parola possa essere lontana dalla lucidità della mente, non lo sarà mai quanto la nostra carne è diversa dallo splendore della divinità. Ebbene: lui che viveva in quella dimensione «si abbassò assumendo l’aspetto di schiavo... fino a morir sulla croce» (cf. Fil 2,6-8). E per qual motivo, se non per farsi debole coi deboli, per guadagnarsi i deboli? (cf. 1Cor 9,22). Paolo, che lo ha imitato, altrove dice così: «Se andiamo verso le altezze, è per il Signore; se ci moderiamo, è per voi. Ci spinge l’amore di Cristo, quando ricordiamo che egli solo è morto per tutti» (2Cor 5,13.14). Sarebbe stato pronto a offrirsi per loro (ivi 12,15) se prima non si fosse degnato di abbassarsi per farsi capire da loro? Perciò in mezzo a noi s’è fatto piccolo, come la nutrice che riscalda i suoi figli (cf. 1Ts 2,7). Se non fosse per amore, non si troverebbe piacere a borbottare parole tronche e mutile, come fa una mamma. Eppure tutti gli uomini desiderano avere figli da trattare così: perché per una madre è più dolce masticar piccoli bocconi da dare al figlio, che masticarne e deglutirne di grossi per sé. Non dimentichiamo la gallina, di cui parla Gesù, che con le piume copre i teneri pulcini, e con voce spezzata tiene unita la covata pigolante; mentre i superbi che si allontanano diventano preda degli avvoltoi (cf. Mt 23,37).

Se il capire la verità dà gioia profonda allo spirito, altrettanta gioia si ha quando si capisce che l’amore più si abbassa e più di riflesso si arricchisce, quando si ha coscienza di non cercare altro che la salvezza di coloro a cui si vuol bene. __________________________

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