CAPITOLO IV
ELEZIONE ED UFFICIO DELL’ABBADESSA, IL CAPITOLO, LE UFFICIALI E LE DISCRETE
1 Le suore siano tenute ad osservare la forma canonica nell’elezione dell’abbadessa. 2 Procurino a tempo di avere il ministro generale o un provinciale dell’ordine dei frati minori, 3 che le istruisca nella parola di Dio, perché l’elezione avvenga nella concordia di tutte e per la comune utilità. 4 Non sia eletta nessuna non professa. 5 Se venisse eletta una non professa, o in altro modo, non le si obbedisca, se non avrà prima professato la forma della nostra povertà. 6 Alla sua morte, sia eletta un’altra abbadessa.
7 Se ad un dato momento sembrasse alla generalità delle suore che la suddetta abbadessa non fosse conveniente al servizio e alla utilità di esse, 8 le predette suore siano tenute, quanto prima, ad eleggersi un’altra abbadessa e madre nella stessa forma.
9 L’eletta poi consideri quale onere ha ricevuto, e a chi dovrà «render conto» del gregge affidatole (cf Mt 12,36; Lc 16,2; Eb 13,17). 10 S’impegni soprattutto di precedere le altre nelle virtù e nei santi costumi, piuttosto che nell’ufficio, perché le suore le obbediscano perché provocate dal suo amore più che dal timore. 11 Si guardi da affetti particolari, perché amando di più qualcuna, non sorga scandalo tra tutte. 12 Consoli le afflitte. Sia anche «ultimo rifugio a chi soffre» (cf Sal 32 (31), 7), perché se presso di lei venisse meno il sostegno della salute, non prevalga nelle inferme il male della disperazione.
13 Serva in ogni modo alla comunità, ma soprattutto in chiesa, in dormitorio, al refettorio, nell’infermeria e nel provvedere le vesti: 14 e la vicaria sia tenuta agli stessi obblighi.
15 L’abbadessa sia tenuta a riunire le suore a capitolo* almeno una volta la settimana; 16 dove lei e le suore sian tenute a confessare umilmente le offese comuni e pubbliche e le negligenze. 17 Lì conferisca con tutte le suore delle cose riguardanti l’utilità e l’onestà del monastero; 18 spesso infatti il Signore rivela alla più giovane** ciò che è meglio. 19 Non si facciano debiti gravi, se non con il comune consenso delle suore e per necessità manifesta; e questo attraverso il procuratore. 20 Badi l’abbadessa con le sue suore che non sia accettato in monastero alcun deposito, 21 poiché spesso da questo sorgono turbamenti e scandali.
22 Per conservare l’unità dell’amore vicendevole e della pace, con il consenso di tutte le suore, vengano elette le ufficiali del monastero. 23 Così vengano elette almeno otto suore come discrete, delle quali l’abbadessa possa servirsi in quanto è richiesto dalla forma della nostra vita. 24 Le suore possano e debbano, se sembrerà utile, rimuovere tali ufficiali e discrete ed eleggerne altre al loro posto.
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Note al CAP. IV
*4,15-21: È evidente l’intenzione della conduzione comunitaria del monastero, dove il capitolo riveste una decisiva autorità. Chiara vede il suo ufficio materno come una sequela della perfezione del santo Vangelo: Gesù è il Maestro e la guida, lei e le sorelle sono delle “ancelle” che lo seguono e conducono un’esistenza al modo delle pie donne, sullo stile di Maria vergine e di Maria di Betania. Si tratta di una vita contemplativa, di famiglia, di penitenza per la Chiesa e di lavoro nella comunità, che matura grazie ad atteggiamenti concreti di carità, servizio e collaborazione, nel silenzio e nella clausura.
_**In questo verso compare fino ad oggi il termine latino “minori”, mentre la bolla scrive “iuniori”; cioè il Signore rivela “alla più giovane” ciò che è meglio._
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Approfondimenti
Dalla dimensione evangelica della fraternità scaturisce una forma di autorità e di governo logicamente conseguenti: in questo Chiara non è “democratica”, è semplicemente cristiana. È fondamentale a questo riguardo analizzare il capitolo 4. Dopo aver precisato le modalità di elezione dell’abbadessa e della sua eventuale deposizione, al versetto 8 inizia la sezione dedicata a colei che è eletta come «abbadessa e madre», di cui vengono delineate le qualità e i compiti. Ci soffermiamo sui versetti 8-9, perché sono paradigmatici del rapporto che Chiara aveva con la Regola di Benedetto, in questo caso – e non poteva essere altrimenti, essendo la regola base dell’istituzione monastica – presa come testo di riferimento principale.
Vediamo in proposito qualche differenza significativa con la Regola benedettina: per Benedetto il criterio primario di scelta dell’abate è quello delle qualità personali (RBen 64,2); per Chiara in primo piano sono l’unità e il bene della comunità. La Regola benedettina prevede il caso che il priore venga deposto (65,18-20) per il suo comportamento indegno. Per la Regola non bollata 5, 3-4 il ministro generale può essere destituito dall’incarico nel capitolo di Pentecoste se vive carnaliter et non spiritualiter. Nella RsC invece, come nella Rb, pur rimanendo il principio del cosiddetto “controllo dal basso”, non si fa accenno a un’indegnità morale e di comportamento dell’abbadessa, ma semplicemente del suo non essere più in grado di servire l’utilità comune della fraternità, senza specificazione dei motivi.
Chiara non cita quasi mai letteralmente la Regola di San Benedetto, se non in 4,15 riguardo al capitolo settimanale; prende a prestito concetti ed espressioni variandoli liberamente, combinando passi differenti, a volte anche estrapolandoli dal loro contesto, con la stessa modalità letteraria usata nelle lettere ad Agnese di Boemia nei confronti delle fonti liturgiche e patristiche. Questa modalità di citazione deriva da una conoscenza ampia, dettagliata e profonda del testo, da una frequentazione abituale.
La preoccupazione che l’abbadessa osservi in tutto la vita comune assente nelle altre Regole, nasce dagli abusi che si verificavano frequentemente nei monasteri e di cui si trova traccia nel canone 26 del Concilio Lateranense II del 1139. In questa prima presentazione dell’autorità Chiara pone l’abbadessa sul piano delle altre sorelle, vuole che sia una come tutte le altre senza privilegi o distinzioni di sorta. Nel capitolo 10, dove riprende il tema in parallelo con la Regola bollata, completa la sua visione “kenotica” dell’autorità, ponendo l’abbadessa addirittura al di sotto delle altre, come serva di tutte le sorelle: la familiarità è qui descritta infatti come caratteristica fondamentale del rapporto tra l’abbadessa e le sorelle, al pari di tutti i rapporti all’interno della fraternità. Alla base c’è un valore evangelico ben più profondo di un semplice atteggiamento esteriore: è la minorità, la povertà di sé che sta proprio al centro dell’intuizione francescana e che plasma dal di dentro tutte le espressioni della vita. La figura biblica di riferimento è il Dominus che si è fatto servus: di Gesù servo la madre deve essere presenza e segno. Per questo Chiara, seguendo Francesco, chiede che l’abbadessa sia serva di tutte le sorelle, ancilla, come
lei stessa si definisce, al punto che le sorelle dicere possint ei et facere sicut dominae ancillae suae (10,4): «L’abbadessa abbia tanta familiarità nei loro confronti che possano parlarle e trattarla come le signore con la propria serva»). Non che con questo venga meno la dimensione dell’obbedienza, tutt’altro, solo che questa ha come unica motivazione non il rispetto dell’autorità, ma la promessa fatta a Dio: «Le sorelle suddite poi ricordino che per Dio hanno rinnegato le proprie volontà. Perciò siano fermamente tenute ad obbedire alle loro abbadesse in tutto ciò che hanno promesso al Signore di osservare e non è contrario all’anima e alla nostra professione» (10,2-3). Poche parole per ricordare alle sorelle le motivazioni di una scelta, la scelta della sequela di Cristo secondo il vangelo, che ha in sé il suo sufficiente valore e nel cui ricordo c’è già tutta la forza
dell’obbedienza.
Centrale nella struttura comunitaria clariana è invece il ruolo del capitolo. Con sapiente intuizione la Forma vitae clariana unisce pertanto in un’unica riunione il momento penitenziale – quello che nel corso dei secoli si era strutturato come capitolo delle colpe e si svolgeva solitamente dopo l’ora di Prima – e il momento di trattazione delle questioni comunitarie, ciò che riguarda l’utilitas et honestas monasterii. Dietro questo legame c’è un’intuizione profonda: quando tutte, madre e sorelle, hanno confessato le proprie mancanze contro la comunità, gli animi si trovano nella migliore disposizione, in umiltà e verità, a trattare ciò che riguarda il bene di tutte, senza che interessi personali o sentimenti negativi vengano a interferire sul discernimento. Niente come il riconoscimento del proprio peccato apre il cuore all’azione dello Spirito.
Verità, umiltà e familiarità caratterizzano dunque il capitolo clariano. Non c’è accenno alla proclamatio, l’accusa reciproca, neppure si dice esplicitamente che l’abbadessa impone la penitenza o fa l’esortazione, cosa forse scontata. Chiara vuole sottolineare, ancora una volta, che la madre è sul piano delle altre, accomunata dalla confessione delle proprie colpe. Lungi dall’essere solo un esercizio ascetico-penitenziale, come veniva vissuto primariamente in altri Ordini, il capitolo della Forma vitae è il momento privilegiato d’incontro della comunità in cui l’unità dell’amore reciproco, attraverso il perdono dato e ottenuto, si rinsalda e cresce di intensità.
Su questa linea si situano anche gli altri due elementi della struttura comunitaria: le officiali e le discrete, che vengono elette da tutte le sorelle. Rispetto all’ordinamento benedettino si è operato un rovesciamento. «Riteniamo perciò necessario – per salvaguardare la pace e la carità – far dipendere unicamente dall’abate tutta l’organizzazione del suo monastero» (RBen 65,11). Lo stesso fine, la custodia della pace e della carità o l’unità dell’amore reciproco, viene raggiunto in due modalità opposte: in Benedetto si crea unità dall’alto, affidando a uno solo il governo del monastero; in Chiara dal basso, corresponsabilizzando le sorelle e facendole partecipare, con peso giuridico, alle decisioni che riguardano la vita della comunità, qui in particolare la scelta delle officiali e delle discrete, o addirittura la loro rimozione nel caso che questo sembri utile et expediens (semplicemente «utile e conveniente»: che fiducia Chiara dimostra verso la rettitudine delle sorelle!). Una tale audacia evangelica non era scontata, neppure nel XIII secolo: basta esaminare qualche testo contemporaneo a Chiara, come le Istituzioni di San Sisto in Roma, secondo le quali la priora viene eletta da alcune sorelle tra le più anziane e prudenti, scelte dalla comunità, mentre le officiali sono nominate o deposte dalla priora stessa col consiglio delle medesime sorelle. Chiara sceglie un cammino inverso che presuppone una crescita comune nella libertà evangelica, nel discernimento del bene da attuare uscendo dalla ristrettezza degli interessi e delle posizioni personali.
Delle officiali non si dice altro se non della modalità di elezione: doveva essere scontato di chi si stava parlando, delle sorelle incaricate di determinati compiti a servizio della comunità (portinaia, infermiera, celleraria, ecc.). Le discrete formano invece il consiglio più ristretto dell’abbadessa, la quale è tenuta – anche qui sottolineiamo l’obbligo – a servirsi del loro consiglio
in alcune questioni diverse da quelle trattate in capitolo con tutte le sorelle, quelle attinenti alle singole persone.
Per la scelta delle consigliere dell’abbadessa torna la discretio come virtù fondamentale, al punto che un aggettivo assume il valore di sostantivo: non è l’età a contare, e neppure la sapienza dottrinale o i meriti personali – le qualità richieste nella scelta dei decani –, ma la discretio, «madre di tutte le virtù» dice Benedetto, che è capacità di discernere il bene in tutte le situazioni. Si è affermato erroneamente che l’istituzione delle discrete è una novità di Chiara: è invece un’istituzione del tempo che ritroviamo sia nelle Costituzioni prenarbonensi dei Frati minori, i consiglieri del custode, sia tra le Domenicane, le sorelle scelte per consigliare la priora.
La novità di Chiara nell’ambito della struttura di governo non va dunque ricercata tanto nell’originalità delle istituzioni, quanto nello spirito di fraternità evangelica che le anima e le e orienta all’unico fine, l’unità dell’amore. Nel capitolo 4 Chiara raggiunge i vertici della sua abilità di legislatrice, integrando elementi monastici tradizionali ed elementi nuovi. Più che a delle norme ci troviamo di fronte allo specchio di una vita vissuta, con le sue problematiche e le sue risposte, intuite alla luce del vangelo e passate al vaglio in quarant’anni di esperienza personale.
Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita
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