📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Invito ad agire 1Getta il tuo pane sulle acque, perché con il tempo lo ritroverai. 2Fanne sette o otto parti, perché non sai quale sciagura potrà arrivare sulla terra. 3Se le nubi sono piene d'acqua, la rovesciano sopra la terra; se un albero cade verso meridione o verso settentrione, là dove cade rimane. 4Chi bada al vento non semina mai, e chi osserva le nuvole non miete. 5Come tu non conosci la via del soffio vitale né come si formino le membra nel grembo d'una donna incinta, così ignori l'opera di Dio che fa tutto. 6Fin dal mattino semina il tuo seme e a sera non dare riposo alle tue mani, perché non sai quale lavoro ti riuscirà meglio, se questo o quello, o se tutti e due andranno bene.

Invito alla gioia 7Dolce è la luce e bello è per gli occhi vedere il sole. 8Anche se l'uomo vive molti anni, se li goda tutti, e pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti: tutto ciò che accade è vanità. 9Godi, o giovane, nella tua giovinezza, e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù. Segui pure le vie del tuo cuore e i desideri dei tuoi occhi. Sappi però che su tutto questo Dio ti convocherà in giudizio. 10Caccia la malinconia dal tuo cuore, allontana dal tuo corpo il dolore, perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio.

_________________ Note

11,1 Getta il tuo pane: questo gesto, in sé sconsiderato e assurdo, potrebbe essere inteso come un rischio che si deve correre.

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Approfondimenti

vv. 1-6. Sia ai vv. 1-2 che al v. 6 troviamo la medesima struttura, con una doppia esortazione seguita da una motivazione. L'esortazione va sempre nel senso dell'agire (getta, fanne parte, semina, non dar riposo). Ai vv. 3-5 troviamo le motivazioni: il v. 3 evidenzia l'inevitabilità, l'ineluttabilità di ciò che accade; il v. 4 dà un insegnamento pratico: se si attendono le condizioni favorevoli, non si agisce mai; il v. 5 mette in evidenza il limite della conoscenza umana. Di fatto in tutti i posti-chiave della parte ritroviamo asserita l'incapacità umana di conoscere (2.5.6.), di conoscere ciò che riguarda il proprio futuro (2.6), di comprendere il segreto della vita, e il modo d'agire di Dio, origine di tutta la realtà (5). Malgrado tale incompetenza, l'uomo deve agire, agire sempre, con intelligenza e solerzia, ma rinunciando all'illusione di prevedere il futuro per programmare il suo agire; ciò che accade è ineluttabile e fa parte del segreto della vita che sta nelle mani di Dio e non dell'uomo.

vv. 7-8. Si può osservare una struttura parallela composta di due tavole in tensione fra di loro: la prima (7-8a), segnata dalla luce, con molti anni da godere, indugia e ridonda un poco, è quasi un augurio adombrato di malinconia; la seconda (8b), segnata dalla tenebra, più scarna e tetra, esplicita il motivo della malinconia: il pensiero della morte e dello šᵉ’ôl.

v. 9. La categoria del giudizio finale difficilmente può trovare il suo posto in Qoelet; infatti se c'è una medesima sorte per tutti (2,14-16; 9,1-3), la morte e lo šᵉ’ôl, il giudizio dovrebbe essere anticipato durante la vita; eppure nella vita non si vede alcuna relazione tra l'eticità delle scelte e ciò che accade (cfr. 7,15; 8,11-12), e anche il modo di morire non rispetta nessuna logica retributiva (cfr. 8,10). Il termine mispat deriva dalla radice spt, «giudicare», che non indica soltanto l'ambito forense, ma tutta la funzione di governo (cfr. i “giudici” antimonarchici); ora, il modo proprio di Dio di governare il mondo è la determinazione dei tempi (3,1-11); dunque il mispat di 11,9 può bene essere inteso come il “destino”, ovvero la vita umana in quanto ha di immodificabile, e al tempo stesso la morte come inevitabile punto d'arrivo della stessa vita. D'altra parte, anche mantenendo il senso strettamente giudiziale si giunge ad analoghe conclusioni, poiché il mispat (a differenza del rib, lite giudiziaria finalizzata al correggersi del colpevole, e non alla sua punizione) è un giudizio che si conclude sempre con una condanna; nel nostro caso diventa una metafora della morte, condanna senza appello. Capiamo allora il senso concessivo di quel «nonostante tutte queste cose» che sintetizza le esortazioni alla gioia: essa contrasta il pensiero della morte, ma non può e non deve eliminarlo, perché quella è la verità dell'uomo.

v. 10. Notiamo la progressione dall'interiorità verso l'esteriorità, dal cruccio del cuore al dolore della carne: l'andare verso la morte non è questione di sentimenti, ma è il cosificarsi dell'uomo che passa attraverso la carnalità dolente della vecchiaia per giungere al ritorno della polvere alla terra.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Sapienza, follia e stoltezza 1Una mosca morta guasta l'unguento del profumiere: un po' di follia ha più peso della sapienza e dell'onore. 2Il cuore del sapiente va alla sua destra, il cuore dello stolto alla sua sinistra. 3E anche quando lo stolto cammina per strada, il suo cuore è privo di senno e di ognuno dice: “Quello è un pazzo”. 4Se l'ira di un potente si accende contro di te, non lasciare il tuo posto, perché la calma pone rimedio a errori anche gravi.

5C'è un male che io ho osservato sotto il sole, uno sbaglio commesso da un sovrano: 6la stoltezza viene collocata in posti elevati e i ricchi siedono in basso. 7Ho visto schiavi andare a cavallo e prìncipi camminare a piedi, per terra, come schiavi. 8Chi scava una fossa vi può cadere dentro e chi abbatte un muro può essere morso da una serpe. 9Chi spacca pietre può farsi male e chi taglia legna può correre pericoli. 10Se il ferro si ottunde e non se ne affila il taglio, bisogna raddoppiare gli sforzi: il guadagno sta nel saper usare la saggezza. 11Se il serpente morde prima d'essere incantato, non c'è profitto per l'incantatore. 12Le parole del saggio procurano stima, ma le labbra dello stolto lo mandano in rovina: 13l'esordio del suo parlare è sciocchezza, la fine del suo discorso pazzia funesta. 14L'insensato moltiplica le parole, ma l'uomo non sa quello che accadrà: chi può indicargli ciò che avverrà dopo di lui? 15Lo stolto si ammazza di fatica, ma non sa neppure andare in città.

Il potere e i suoi rischi 16Povero te, o paese, che per re hai un ragazzo e i tuoi prìncipi banchettano fin dal mattino! 17Fortunato te, o paese, che per re hai un uomo libero e i tuoi prìncipi mangiano al tempo dovuto, per rinfrancarsi e non per gozzovigliare. 18Per negligenza il soffitto crolla e per l'inerzia delle mani piove in casa. 19Per stare lieti si fanno banchetti e il vino allieta la vita, ma il denaro risponde a ogni esigenza. 20Non dire male del re neppure con il pensiero e nella tua stanza da letto non dire male del potente, perché un uccello del cielo potrebbe trasportare la tua voce e un volatile riferire la tua parola.

_________________ Note

10,20 un uccello del cielo: l’immagine dell’uccello propagatore di notizie appartiene alla sapienza popolare antica.

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Approfondimenti

vv. 5-20. Nel passo 10,5-20 si delinea una inclusione (5s. e 20) che incornicia due parti simmetriche e parallele (7-10 e 16-19), le quali a loro volta racchiudono un nucleo centrale a struttura parallela (11-15).

vv. 5-6.20. L'introduzione afferma che una parte del male di cui si fa esperienza dipende dagli errori di chi sta al potere. Notiamo che lo stesso concetto di male ricompare alla fine del v. 13, ovvero alla metà esatta del nucleo centrale, così da periodizzare l'intera pericope qualificandola in termini di negatività. Tuttavia, se in 5-6 l'autore riportava una riflessione alquanto amareggiata sugli errori di chi è al potere, in 20 sembra mettersi la mano sulla bocca, perché è troppo pericoloso parlar male di chi è potente e ricco.

vv. 7-10.16-19. Nei vv. 8-9 viene sottolineato il rischio inerente a ogni forma di agire in situazione, e nel v. 18 all'inverso il rischio inerente all'inazione. Nel v. 10 la sapienza è paragonata a un utensile di ferro, e così se ne evidenzia la potenza; al tempo stesso però si dichiara la necessità ché tale strumento sia davvero utile e vantaggioso: è l'efficacia pratica, il vantaggio, che ne decreta il successo. Dunque è l'aspetto dinamico della sapienza che vien messo in risalto, poiché una sapienza statica, stabilita e formalizzata, diventa subito un ferro smussato, non più adatto a interpretare la realtà in modo efficace e costringe il suo possessore a faticare invano.

vv. 11-15. Osserviamo dei personaggi negativi che svolgono azioni lesive con la loro sfera orale: il serpente morde (11), le labbra dell'idiota rovinano qualcuno (12), lo stolto moltiplica le parole (14); l'attività ('ămal) degli stolti che stanca qualcuno (15) può dunque essere intesa nel senso di «logorrea», rimanendo così sempre nell'ambito di un “parlare” connotato negativamente.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Tutto è nelle mani di Dio 1A tutto questo mi sono dedicato, ed ecco tutto ciò che ho verificato: i giusti e i sapienti e le loro fatiche sono nelle mani di Dio, anche l'amore e l'odio; l'uomo non conosce nulla di ciò che gli sta di fronte. 2Vi è una sorte unica per tutti: per il giusto e per il malvagio, per il puro e per l'impuro, per chi offre sacrifici e per chi non li offre, per chi è buono e per chi è cattivo, per chi giura e per chi teme di giurare. 3Questo è il male in tutto ciò che accade sotto il sole: una medesima sorte tocca a tutti e per di più il cuore degli uomini è pieno di male e la stoltezza dimora in loro mentre sono in vita. Poi se ne vanno fra i morti. 4Certo, finché si resta uniti alla società dei viventi, c'è speranza: meglio un cane vivo che un leone morto. 5I vivi sanno che devono morire, ma i morti non sanno nulla; non c'è più salario per loro, è svanito il loro ricordo. 6Il loro amore, il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito, non avranno più alcuna parte in tutto ciò che accade sotto il sole. 7Su, mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere. 8In ogni tempo siano candide le tue vesti e il profumo non manchi sul tuo capo. 9Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua parte nella vita e nelle fatiche che sopporti sotto il sole. 10Tutto ciò che la tua mano è in grado di fare, fallo con tutta la tua forza, perché non ci sarà né attività né calcolo né scienza né sapienza nel regno dei morti, dove stai per andare.

L’uomo non conosce neppure la sua ora 11Tornai a considerare un'altra cosa sotto il sole: che non è degli agili la corsa né dei forti la guerra, e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la ricchezza, e nemmeno degli intelligenti riscuotere stima, perché il tempo e il caso raggiungono tutti. 12Infatti l'uomo non conosce neppure la sua ora: simile ai pesci che sono presi dalla rete fatale e agli uccelli presi al laccio, l'uomo è sorpreso dalla sventura che improvvisa si abbatte su di lui.

La sapienza del povero è disprezzata 13Anche quest'altro esempio di sapienza ho visto sotto il sole e mi parve assai grave: 14c'era una piccola città con pochi abitanti. Un grande re si mosse contro di essa, l'assediò e costruì contro di essa grandi fortificazioni. 15Si trovava però in essa un uomo povero ma saggio, il quale con la sua sapienza salvò la città; eppure nessuno si ricordò di quest'uomo povero. 16Allora io dico: “È meglio la sapienza che la forza, ma la sapienza del povero è disprezzata e le sue parole non sono ascoltate”. 17Le parole pacate dei sapienti si ascoltano meglio delle urla di un comandante di folli. 18Vale più la sapienza che le armi da guerra, ma un solo errore può distruggere un bene immenso. _________________ Note

9,5 i morti non sanno nulla: come il libro di Giobbe e come molti salmi, anche il libro di Qoèlet testimonia la concezione di una esistenza al di là della morte, ma una esistenza di ombre, prive di vita e di ricordi. Vedi Gb 3,17 e nota.

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Approfondimenti

vv. 1-12. Qoelet continua il suo riflettere riproponendo a se stesso e al suo interlocutore il problema della retribuzione, visto nella prospettiva di una speciale protezione accordata da Dio a chi è giusto e saggio (v. 1). Ora tale protezione non è un dato confermato dall'esperienza, ché anzi la morte, certezza ineludibile per ognuno, toglie significatività alle differenze tra gli uomini (v. 2). Il fatto che tutti gli uomini, senza differenza, vengano colpiti dalla morte, è visto come un male. E il colmo è che gli uomini vivono come se non dovessero morire, pieni di male e di follia, e poi, all'improvviso se ne vanno tra i morti (v. 3). Come attesta un proverbio, non c'è nessuna buona ragione per preferire la morte alla vita (v. 4). Tutto il v. 5 gravita intorno al problema conoscitivo. I primi due membri compongono un parallelismo antitetico intorno al “conoscere” attivo: i vivi sanno almeno che moriranno, i morti non sanno nulla. I secondi due membri negano pure la conoscenza passiva dei morti, che sarebbe quanto meno una piccola ricompensa: invece anche il loro ricordo viene dimenticato, e allo stesso modo con la morte finisce anche il mondo degli affetti (v. 6). Con un brusco salto l'autore afferma: «Dio ha già gradito le tue opere», senza tuttavia dare alcun criterio in base al quale riconoscere la giustizia e la saggezza. Questo sembra indicare che la benevola protezione divina si manifesta nel dono della vita, per quanto precaria e fugace essa sia. Se una giustizia e una saggezza esistono, stanno proprio nell'apprezzare il dono fondamentale della vita (vv. 7-8). «In ogni tempo siano bianche le tue vesti» (9,8): questo non è un tempo neutro; al v. 11 è la sorte che coglie comunque l'uomo impreparato, al v. 12 è l'ora fatale, il tempo orribile che si abbatte sull'uomo all'improvviso. L'esortazione a portare sempre vesti bianche non è dunque solo una questione di eleganza, ma un atteggiamento interiore costante, un modo di accogliere la vita come un bene, almeno per il fatto che non è morte. Nell'ambito di questo atteggiamento esistenziale, ritroviamo il mondo degli affetti; in particolare la possibilità di godere la vita (una vita faticosa di cui non si riesce a capire il senso) è subordinata alla compagnia della donna amata (v. 9). L'amore è visto come l'unica eredità concessa all'uomo durante la vita e la fatica di vivere. Il parallelismo antitetico del v. 10 sottolinea la tensione tra la vita, ovvero quando c'è la forza per tare qualcosa, qualunque cosa sia, e la morte, ovvero la prospettiva dello ṣ’ᵉôl, l'oltretomba semitico, dove non c'è più nulla di ciò che fa sentire l'uomo vivo. Di qui l'imperativo di cogliere il presente vitale: ogni cosa lasciata è persa, e questo è tanto più vero se si riconosce che non è l'uomo a determinare il destino, ma tempo ed evento colpiscono tutti quanti (v. 11), e l'uomo, che non conosce il suo tempo, viene sorpreso e preso dal tempo che gli è fatale (v. 12). Poiché il passo 9,1-12 è costruito con una grande incusione (vv. 1-2/11-12: nell'una e nell'altra parte troviamo una serie di cinque elementi che, non avendo alcuna ragione logica particolare, costituisce un'anomalia significativa), un'attenzione particolare meritano l'introduzione e la conclusione. In 9,1 ci si poneva il problema di che cosa significasse l'affermazione che i giusti e i saggi e le loro opere sono nelle mani di Dio. Ora, la prima parte del passo (9,1-6) esasperava il contrasto vita/morte evidenziando che non c'è da aspettarsi una diversa retribuzione finale; la seconda parte esorta perciò a cogliere la positività del presente (9,7-10); 9,11 riprende la tensione vita/morte mostrando che non c'è logica retributiva neppure durante la vita. Ed ecco che nella conclusione (9,12) si afferma l'abbattersi inatteso e fatale della morte su ogni uomo. La risposta alla domanda di 9,1 è evidente: altro che stare nelle mani di Dio, protetti e premiati; gli uomini sono come pesci acchiappati nella rete fatale, come uccelli presi al laccio, senza speranza. Davanti alla morte si è tutti uguali, e ugualmente inermi; per questo bisogna vivere intensamente il presente.

vv. 9,13-10,4. L'introduzione del passo (9,13) segnala che il problema in esame è ancora una volta quello della sapienza, e più precisamente quello di una sapienza che fallisce. Il passo inizia con un aneddoto emblematico (9,14-15), la cui morale è che la saggezza da sola, se non è accompagnata da potenza di mezzi, non ottiene alcun riconoscimento. In corrispondenza con 9,14-15 si trova 10,2-4, così che si ha una cornice ad andamento concentrico. Come in 9,14 si vedeva un gran re prendersela con una piccola città, così in 10,4 compare un potente che si adira contro un uomo che, in virtù del parallelismo con la piccola città, è certo in posizione di debolezza e precarietà. Se in 9,15 si trovava un saggio la cui saggezza falliva, poiché egli era povero e perciò disprezzato, in 10,2-3 appare un saggio vittima delle maldicenze di uno stolto. Il riferimento a 8,1-8, laddove si trattava della saggezza cortigiana, indica che il vero problema è quello di 10,2-4, ovvero come uno deve comportarsi a corte quando le maldicenze dei nemici lo rendono inviso al potente (in 8,3 il cortigiano ipocrita consigliava la fuga, mentre qui il saggio consiglia di rimanere, con un atteggiamento mite). L'aneddoto della piccola città e del gran re funge da paradigma sapienziale di una realtà che, pur declinandosi in molti modi, resta la stessa: non c'è corrispondenza tra azione ed effetto, non c'è retribuzione delle scelte, e dunque la saggezza non garantisce il successo. Il passaggio dall'aneddoto alla situazione finale si fa attraverso i proverbi e le asserzioni di 9,16-10,1, un vero e proprio dialogo di Qoelet con la sapienza tradizionale, articolato su due affermazioni della forza e del valore della saggezza (9,16.18) e una conclusione contraddittoria in cui la saggezza ha la peggio davanti alla follia. Osserviamo che la parola ebraica che è resa con «sbaglio» (bôte', ripresa alla fine di 10,4), significa anche «colui che sbaglia», il peccatore, il traditore, il fallito; tale pregnanza di significato permette di passare dall'azione negativa alla persona negativa, lo stolto di 10,2-3.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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L’uomo non può conoscere il senso delle cose, né la propria sorte 1Chi è come il saggio? Chi conosce la spiegazione delle cose? La sapienza dell'uomo rischiara il suo volto, ne cambia la durezza del viso. 2Osserva gli ordini del re, per il giuramento fatto a Dio. 3Non allontanarti in fretta da lui; non persistere in un cattivo progetto, perché egli può fare ciò che vuole. 4Infatti, la parola del re è sovrana; chi può dirgli: “Che cosa fai?”. 5Chi osserva il comando non va incontro ad alcun male; la mente del saggio conosce il tempo opportuno. 6Infatti, per ogni evento vi è un tempo opportuno, ma un male pesa gravemente sugli esseri umani. 7L'uomo infatti ignora che cosa accadrà; chi mai può indicargli come avverrà? 8Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo, né alcuno ha potere sul giorno della morte. Non c'è scampo dalla lotta e neppure la malvagità può salvare colui che la compie. 9Tutto questo ho visto riflettendo su ogni azione che si compie sotto il sole, quando un uomo domina sull'altro per rovinarlo. 10Frattanto ho visto malvagi condotti alla sepoltura; ritornando dal luogo santo, in città ci si dimentica del loro modo di agire. Anche questo è vanità. 11Poiché non si pronuncia una sentenza immediata contro una cattiva azione, per questo il cuore degli uomini è pieno di voglia di fare il male; 12infatti il peccatore, anche se commette il male cento volte, ha lunga vita. Tuttavia so che saranno felici coloro che temono Dio, appunto perché provano timore davanti a lui, 13e non sarà felice l'empio e non allungherà come un'ombra i suoi giorni, perché egli non teme di fronte a Dio. 14Sulla terra c'è un'altra vanità: vi sono giusti ai quali tocca la sorte meritata dai malvagi con le loro opere, e vi sono malvagi ai quali tocca la sorte meritata dai giusti con le loro opere. Io dico che anche questo è vanità. 15Perciò faccio l'elogio dell'allegria, perché l'uomo non ha altra felicità sotto il sole che mangiare e bere e stare allegro. Sia questa la sua compagnia nelle sue fatiche, durante i giorni di vita che Dio gli concede sotto il sole.

Il fallimento della sapienza umana 16Quando mi dedicai a conoscere la sapienza e a considerare le occupazioni per cui ci si affanna sulla terra – poiché l'uomo non conosce sonno né giorno né notte – 17ho visto che l'uomo non può scoprire tutta l'opera di Dio, tutto quello che si fa sotto il sole: per quanto l'uomo si affatichi a cercare, non scoprirà nulla. Anche se un sapiente dicesse di sapere, non potrà scoprire nulla.

_________________ Note

8,16-17 La riflessione che qui inizia si conclude in 9,12 e ha come tema la limitatezza del sapere umano e la sua incapacità a penetrare i misteri che circondano l’uomo.

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Approfondimenti

vv. 1-8. Il v. 1 si configura come la domanda del maestro di saggezza, a cui risponde il discepolo nei vv. 2-5 con un'esposizione di che cos'è la sapienza nella vita di corte, ovvero astuzia, prudenza e ipocrisia. Nei vv. 6-8 ritorna Qoelet stesso e ritorce simmetricamente tutte le scaltrezze del perfetto cortigiano, mostrando come queste non valgano nell'esistenza umana, che è ben più seria e ben più tragica della vita di corte. Se si mettono a confronto le parti 1-5 (in particolare 3-5) e 6-8, si scopre che ogni elemento della prima parte viene ripreso nella seconda e ribaltato con tragica ironia.

  • 5/6-7a. Se il saggio cortigiano sa evitare i guai, poiché osserva il comando del re e conosce tempi e procedure, i tempi e le procedure della realtà umana sono in mano non all'uomo ma a Dio, così che la sciagura dell'uomo incombe su di lui, e nessuno sa che cosa accadrà.
  • 4b/7b. Come è indiscutibile l'ordine del re, così è inconoscibile il futuro: ma mentre nel primo caso è un problema di convenienza cortigiana, nel secondo si tratta di drammatica limitatezza esistenziale, e nessuno ci può far nulla.
  • 3d-4a/8abc. Il potere assoluto del re nel suo regno non è che una maschera tragicamente ridicola dell'impotenza totale dell'uomo sulla propria vita.
  • 3bc/8de. Ed ecco infine che il saggio consiglio iniziale di svignarsela quando tira aria cattiva si rivela di nessuna efficacia, anzi, irrealizzabile sul campo di battaglia dell'esistenza umana, dalla quale non c'è scampo per nessuno.

La conclusione non è esplicitata, ma è chiara: se il punto di partenza era una discussione intorno alla sapienza (v. 1), una sapienza che, nel contesto della vita di corte giungeva a identificarsi con la furbizia e l'ipocrisia, questa stessa sapienza sul piano esistenziale fallisce. Ancora una volta è l'inconcludenza umana che viene messa in evidenza.

vv. 9-15. In 8,9 riprende la forma espositiva tipica di Qo, con le pericopi segnate da verbi alla prima persona singolare e da ritornelli come «sotto il sole», «vanità», «vento». Lo stico 9c fa progredire il testo riassumendo le parole caratteristiche della pericope precedente: tempo, potere, uomo, male. In tal modo si passa dall'ipocrisia ossequiosa nei confronti di chi ha autorità, all'iniquità di chi ha autorità e ne approfitta per far del male. La struttura del v. 10 è concentrica. Partendo dal centro abbiamo il “camposanto”, riferimento locale dei due verbi di movimento che lo precedono e lo seguono, “se ne venivano” e “se ne andavano”; il fatto di “essere seppelliti” che ha per soggetto dei “malvagi”, è in relazione con un “dimenticare” che ha per oggetto il comportamento di costoro; a includere l'intero versetto sta la formula abituale in Qoelet: si apre con un annuncio di esperienza diretta e si chiude con una dichiarazione di assurdità.

Il v. 11 è abbastanza vago da poter indicare la latitanza della giustizia umana forense (che è perennemente corrotta) così come di quella divina (che non si manifesta, anzi, che concede al peccatore lunga vita, cfr. v. 12 e Gb 21,7.13).

Protagonisti dei vv. 12-13 sono coloro che hanno timor di Dio (12) e l'empio (13). Il “non andar bene” è identificato con il “non prolungare i propri giorni”; dunque ci si trova nella tensione polare tra vita e morte. Nello spiegare la teoria della retribuzione appare evidente una “petizione di principio” almeno nel primo caso («andrà bene a coloro che temono Dio, perché temono Dio»), e per estensione nel secondo. Il verbo che apre il v. 12 è nell'ebraico un participio, ed è probabile (se vale quanto si è detto per 7,26) che introduca un elemento da valutare.

Al v. 14 viene portata l'esperienza che smentisce il valore della teoria sulla retribuzione del timor di Dio. Questo contrasto tra teoria tradizionale ed esperienza pratica viene doppiamente qualificato di “assurdità”: hebel forma una perfetta inclusione di tutto il v. 14. Tuttavia attenzione: non è qualificato di assurdo il timor di Dio (che in molti altri luoghi è realmente raccomandato come unico atteggiamento possibile dell'uomo verso Dio), ma la relazione di causa-effetto che dovrebbe eventualmente instaurarsi tra il timor di Dio e una vita fortunata, quasi a dire che il timor di Dio è necessario, ma non garantisce affatto all'uomo di evitare la limitatezza e la difficoltà della condizione umana. A proposito di 8,14 il commentario biblico giudeo-spagnolo del XVIII secolo Me'am Lo'ez (cit. in Scherman – Zlotowitz, 160) afferma che Dio permette ai malvagi di prosperare per immergere l'umanità nella perplessità.

In 8,15 il parallelismo tra i membri che contengono l'espressione «sotto il sole» giunge ad affermare che, se un bene per l'uomo esiste, non può che essergli dato da Dio. Gli elementi interni del chiasmo chiariscono che cosa sia tale «bene per l'uomo»: mangiare, bere, stare allegro, e ne fanno un augurio: «possa questo (bene) fargli (all'uomo) compagnia nella sua fatica nei giorni della sua vita». Osserviamo che, se in 11-13 si postulava e poi si smentiva una connessione retributiva tra l'agire morale, che non può prescindere dal rapporto con Dio (timor di Dio o empietà), e la lunghezza della vita, qui si riafferma con vigore che i giorni della vita dipendono dal dono di Dio, ma non c'è più traccia di distinzione tra giusto e malvagio.

vv. 16-17. La parte è organizzata in modo concentrico; il primo pezzo comprende tutto il v. 16 e il primo membro del v. 17; è segnato dal triplice ritorno del verbo «vedere» (r'b), che esprime un'esperienza che fa seguito all'impegno di ricerca sapienziale. Il secondo pezzo vede la triplice negazione del verbo «capire», negazione che non si pone solo su un piano fattuale, ma che denuncia una limitatezza costituzionale dell'uomo, un'incapacità radicale di comprendere. Notiamo che la triplice negazione del risultato conoscitivo risponde alla triplice osservazione: la simbologia del numero tre evidenzia qui la totalità e assolutezza di quanto affermato e negato.

Lo sviluppo del c. 8. Va segnalata innanzitutto una grande inclusione che abbraccia tutto il capitolo: al v. 1 e al v. 17 ritornano il saggio e il verbo conoscere, ma vediamo in che senso. Al v. 1 si chiede: «chi è saggio? Chi sa l'interpretazione del detto...», e c'è qualcuno che risponde alla domanda e dà una spiegazione. Al v. 17 invece si afferma: «quand'anche dica il saggio di sapere, non può capire». Si nota allora che l'intero capitolo verte sul problema della conoscenza umana: parte da conoscenze apparenti, per poi mostrarne l'inadeguatezza e decretarne infine il fallimento. Vediamo i dettagli. Già abbiamo esposto come in 2-5 la sapienza sia identificata con la scaltrezza e l'ipocrisia del cortigiano, e come in 6-8 si metta in evidenza l'insufficienza della scaltrezza e dell'ipocrisia sul piano esistenziale. Il v. 8 si era concluso con la menzione dell'iniquità e la smentita della sua efficacia; i vv. 9-13 rifletteranno proprio sul problema della malvagità. Il problema della malvagità viene impostato sulla base di un fatto d'esperienza: vi sono dei malvagi che vengono seppelliti con tutti gli onori e subito ci si dimentica della loro malvagità; questa è una smentita implicita del principio della retribuzione, poiché né in punto di morte, né dopo, nel ricordo che resta, si vede una qualche punizione in atto. Di qui la riflessione che il cuore umano è sempre pronto ad agire male proprio perché manca una punizione. A questo punto Qoelet ripropone la dottrina tradizionale: si è sempre saputo che il timor di Dio dovrebbe garantire una vita lunga e felice, mentre l'empietà dovrebbe abbreviare e rendere infelice la vita. Tuttavia i principi vanno sottoposti alla prova dei fatti, che in questo caso li smentisce: l'esperienza mostra che c'è chi si comporta bene, e la vita gli va male, e c'è chi si comporta male, e la vita gli va bene. Tutto ciò è palesemente assurdo, e comunque innegabile. Chi esce indebolito dal confronto non è la realtà, non è l'immagine di Dio, ma è la capacità umana di capire la realtà. Prima, però, di sviluppare il fallimento dell'impresa sapienziale, Qoelet canta il suo inno alla gioia, che è pure un inno di fede: la realtà è complessa, l'uomo ci capisce poco, pur tuttavia la vita viene da Dio ed è buona, e l'uomo deve imparare a cogliere il bene che vi si trova. La conclusione (16-17) riprende in mano il problema della sapienza; il campo d'osservazione è tutta la realtà e l'attività umana frenetica: poiché dietro tutto si intravvede la mano di Dio, con il mistero che l'avvolge, il risultato è una confessione di incompetenza radicale: non c'è sapiente che possa dire di avere realmente capito.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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LA SAPIENZA UMANA E IL SUO FALLIMENTO (7,1-12,8)

Ciò che è meglio per l’uomo 1Un buon nome è preferibile all'unguento profumato e il giorno della morte al giorno della nascita. 2È meglio visitare una casa dove c'è lutto che visitare una casa dove si banchetta, perché quella è la fine d'ogni uomo e chi vive ci deve riflettere. 3È preferibile la mestizia al riso, perché con un volto triste il cuore diventa migliore. 4Il cuore dei saggi è in una casa in lutto e il cuore degli stolti in una casa in festa. 5Meglio ascoltare il rimprovero di un saggio che ascoltare la lode degli stolti: 6perché quale il crepitìo dei pruni sotto la pentola tale è il riso degli stolti. Ma anche questo è vanità. 7L'estorsione rende stolto il saggio e i regali corrompono il cuore. 8Meglio la fine di una cosa che il suo principio; è meglio un uomo paziente che uno presuntuoso. 9Non essere facile a irritarti in cuor tuo, perché la collera dimora in seno agli stolti. 10Non dire: “Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?”, perché una domanda simile non è ispirata a saggezza. 11Buona cosa è la saggezza unita a un patrimonio ed è utile per coloro che vedono il sole. 12Perché si sta all'ombra della saggezza come si sta all'ombra del denaro; ma vale di più il sapere, perché la saggezza fa vivere chi la possiede. 13Osserva l'opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo? 14Nel giorno lieto sta' allegro e nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto tanto l'uno quanto l'altro, cosicché l'uomo non riesce a scoprire ciò che verrà dopo di lui.

Sapienza e moderazione 15Nei miei giorni vani ho visto di tutto: un giusto che va in rovina nonostante la sua giustizia, un malvagio che vive a lungo nonostante la sua iniquità. 16Non essere troppo giusto e non mostrarti saggio oltre misura: perché vuoi rovinarti? 17Non essere troppo malvagio e non essere stolto. Perché vuoi morire prima del tempo? 18È bene che tu prenda una cosa senza lasciare l'altra: in verità chi teme Dio riesce bene in tutto. 19La sapienza rende il saggio più forte di dieci potenti che sono nella città. 20Non c'è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai. 21Ancora: non fare attenzione a tutte le dicerie che si fanno, così non sentirai che il tuo servo ha detto male di te; 22infatti il tuo cuore sa che anche tu tante volte hai detto male degli altri.

La sapienza è introvabile nell’uomo e nella donna 23Tutto questo io ho esaminato con sapienza e ho detto: “Voglio diventare saggio!”, ma la sapienza resta lontana da me! 24Rimane lontano ciò che accade: profondo, profondo! Chi può comprenderlo? 25Mi sono applicato a conoscere e indagare e cercare la sapienza e giungere a una conclusione, e a riconoscere che la malvagità è stoltezza e la stoltezza è follia. 26Trovo che amara più della morte è la donna: essa è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta preso. 27Vedi, questo ho scoperto, dice Qoèlet, confrontando a una a una le cose, per arrivare a una conclusione certa. 28Quello che io ancora sto cercando e non ho trovato è questo: un uomo fra mille l'ho trovato, ma una donna fra tutte non l'ho trovata. 29Vedi, solo questo ho trovato: Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni.

_________________ Note

7,1-12,8 In questa seconda sezione il filo conduttore è la riflessione sulla condizione dell’uomo e della donna, sul mistero del destino dell’uomo e dell’agire di Dio.

7,1-14 Alcuni proverbi mettono in evidenza il contrasto tra il pensiero del Qoèlet e le idee comunemente accettate.

7,26 La donna vista come tentatrice e più temibile della morte è uno stereotipo proprio del suo ambiente, che il Qoèlet condivide ma corregge: saggezza e stoltezza appartengono a tutti gli esseri umani (v. 29).

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Approfondimenti

vv. 1-5. I vv. 1-5 formano una struttura concentrica. Evidenziamo gli elementi simmetrici. La buona fama (v. 1) è più importante dei piaceri della vita (simbolizzati nell'unguento profumato), perché la vita che inizia è un'incognita, mentre la morte palesa la verità di un uomo e ne fissa il ricordo per i posteri; si può ottenere buona fama prestando orecchio al rimprovero del saggio più che alla lode degli stolti (v. 5). Se in 2a si consiglia di tendere al lutto piuttosto che alla festa, nel v. 4 si afferma qualcosa riguardo al «cuore», cioè al centro unificatore profondo della persona: l'interiorità dei saggi «è» nel lutto, mentre l'interiorità degli stolti «è» nella letizia. Il “ricordati che morirai” (v. 2b) deve diventare l'orizzonte della vita umana, deve segnare il volto dell'uomo, perché il cuore ne sia trasfigurato (v. 3b). Il nucleo centrale, 3b, propone qualcosa che necessita di una particolare attenzione da parte del lettore, in quanto è la chiave di volta della struttura, ciò che unifica tutte le altre esortazioni alla serietà. Vengono messi in opposizione due modi fondamentali di affrontare l'esistenza umana, espressi nei simboli antropologici del corruccio e del riso, quasi due maschere di una tragedia che dall'assunzione consapevole della morte spera la catarsi.

v. 6. Il giudizio di assurdità che conclude 7,6 trova la sua funzione logica se viene riferito all'insieme dei vv. 1-6a, i quali sono tutti tacciati di assurdità. Tutta quella sapienza corrucciata, quel preferire ciò che sa di morte all'allegria e alla vita, è un'assurdità, tant'è vero che quel sapiente serioso e accigliato si liquefà davanti a una minaccia o a una bustarella (7), e, come rompe il suo grave silenzio, se ne esce in insulsaggini (10). Ecco allora che il rapporto tra le parti di 7,1-10 si qualifica come ironia.

vv. 7-10. Anche la parte 7,7-10 è costruita in modo concentrico. Il v. 7 afferma la poca solidità del saggio, poiché basta una pressione per farlo ammattire, ed esclude che un cedimento esteriore (una “bustarella”) possa lasciare intatta l'interiorità del saggio, la sua opzione fondamentale per la saggezza. Al centro del chiasmo (v. 9), cuore della riflessione e suo fondamento, troviamo un'esortazione alla pazienza.

vv. 11-12. La struttura attira l'attenzione sul problema della sapienza e delle condizioni alle quali questa possa essere un vantaggio per l'uomo. 11a afferma che la sapienza è un bene quando è accompagnata dal denaro, e 12a spiega tale affermazione: sapienza e denaro costituiscono una doppia protezione dalle difficoltà della vita.

vv. 13-14. Esortano a considerare l'agire di Dio. Da notare che il v. 14 contestualizza con grande finezza psicologica l'invito alla riflessione nel giorno triste, sciagurato: il giorno felice è fatto per essere goduto, non per riflettere (cfr. 5,19); è invece quando gli eventi prendono una direzione sgradita che ci si chiede tanti perché. Opposta all'agire di Dio, abbiamo l'impotenza umana a raddrizzare qualcosa la cui stortura dipende dalla volontà divina. Sullo stesso piano troviamo l'incapacità umana di comprendere, anch'essa dipendente dalla volontà divina. Di fatto 7,14 introduce le sequenze che vanno fino alla fine del c. 8, tutte imperniate sull'inconcludenza della conoscenza umana. Dio stesso è il responsabile di tale incompetenza, poiché con il suo agire incomprensibile mantiene l'uomo nei suoi limiti creaturali (e questo per l'uomo è una delusione, ma al tempo stesso è la sua unica possibilità di esistere, cfr. Gn 2-3).

vv. 15-18. Lo sviluppo logico dei vv. 15-18 prende le mosse da un dato d'esperienza che rivela l'inadeguatezza delle categorie tradizionali di giustizia e malvagità e della correlativa retribuzione (v. 15). Da tale riflessione può derivare un senso di frustrazione conoscitiva, di incomprensibilità, di assurdità, che motiva l'esortazione a evitare gli eccessi unilaterali (v. 16-17). La conclusione (v. 18) è che la condizione umana è di immergersi nelle contraddizioni per uscirne bene grazie al timor di Dio. Nel Talmud esiste un termine speciale per designare colui che è troppo puntiglioso: hasid sôteh, un «pio imbecille». L'esempio classico di una pietà esagerata ci è dato dallo stesso Talmud: è colui che, vedendo una donna che sta annegando, dice: «Non sta bene guardare una donna! Non la posso salvare». E con la sua grande pietà la lascia annegare (Sota 21b, cit. in Scherman – Zlotowitz, 143). La dialettica giusto/malvagio non è che un esempio delle innumerevoli contraddizioni della vita (il v. 15 conferma tale idea: «Ho visto di tutto...: [ad esempio] c'è il giusto che perisce...»). Nella stessa linea viene allora a trovarsi il v.14: l'alternarsi di giorni felici e di giorni sciagurati diventa esempio di quella complessità contraddittoria insita nella realtà, che non può che risalire a Dio, e davanti alla quale l'uomo deve confessare la sua incapacità di comprendere, conscio che tale è la sua condizione di creatura.

vv. 19-22. Questi versetti proseguono il ragionamento di 7,15-18, polarizzato sulle antitesi saggezza/stoltezza e giustizia/ingiustizia. Il v. 19 è un proverbio che paragona la saggezza alla potenza di un decemvirato. Qoelet non nega la verità di tale detto tradizionale, ma la ridimensiona con uno sguardo disilluso sull'uomo concreto, prima con un argomento generale (v. 20) e poi con un argomento ad hominem: la coscienza che ognuno ha di essere stato sovente tutt'altro che giusto e saggio (vv. 21-22).

vv. 23-24. A mo di conclusione provvisoria del ragionare precedente, in 7,23-24, la sapienza è presentata come un ideale inarrivabile, eccedente le limitate possibilità dell'essere umano. Il sapiente vorrebbe comprendere tutto ciò che esiste, ma l'esistente gli sfugge in profondità irraggiungibili dove nessun uomo può andare a ritrovarlo.

vv. 25-29. Il verbo principale del v. 26 «trovo» (ûmôsẻ' ăm) è in ebraico un participio; questo induce a intendere quanto segue come dato di partenza, e non conclusione, probabile citazione di sapienza tradizionale da valutare. Possiamo tradurre: «Sentivo dire che...». Il referente di tutto il versetto 26 è la «donna» (ha'issa), a cui si riferiscono i pronomi femminili del pezzo in esame; constatiamo inoltre la presenza di termini che appartengono tutti al campo semantico della trappola (reti a strascico, rete, lacci, sfuggire, restare intrappolato): la donna è paragonata a una trappola. Il secondo stico del v. 27 e il primo del v. 28 formano una unità che funziona secondo la dinamica dei verbi cercare/capire; abbiamo infatti uno sforzo conoscitivo, il cui esito è peraltro fallimentare. Ciò che Qoelet non è riuscito a capire, pur avendone conosciute più di una, è la donna, mentre l'uomo (l'antitesi fa capire che qui si tratta del maschio), almeno un caso su mille, è riuscito a capirlo. Non è difficile intravvedere un riferimento a Gn 2,20: Adamo non aveva trovato in nessun animale qualcuno con cui condividere l'esistenza, ma davanti alla donna aveva cantato la sua gioia, poiché finalmente aveva trovato. Qoelet-pseudo-Salomone invece aveva avuto mille donne, ma non ne aveva capita nessuna, e così non aveva trovato tra di loro nessun «aiuto simile a sé», nessuno con cui condividere l'esistenza. In 6,10 Qoelet aveva affermato di sapere che cos'è «uomo», l'essere umano, per lo meno in rapporto a Dio, e in 7,29 sostiene di aver capito una cosa sola a proposito dell'uomo: che Dio lo ha fatto «semplice», «diritto», ma essi hanno cercato troppi concetti. Tutto il discorso si muove tra il tentativo di trovare una sapienza teoretica e il fallimento di questa ricerca. L'oggetto concreto che funge da pretesto per esemplificare questo fallimento è il concetto tradizionale di donna, pesantemente gravato dalle paure ancestrali del maschio che, davanti al mondo di passioni che la femminilità catalizza, perde la sua abituale e superficiale posizione di forza e trova facile rifugiarsi nei luoghi comuni della cultura maschilista, che lo rassicurano colpevolizzando la donna. Qoelet demistifica i termini esagerati di questa concezione tradizionale in base alla sua esperienza, che è ancora una volta un'esperienza non sporadica né parziale, ma totale, così da garantire il risultato. E il risultato non prende nemmeno in esame una possibile colpevolezza della donna, ma ammette il fallimento e il limite della comprensione umana, che si arresta davanti all'ennesimo mistero. Se c'è una colpa, non è della donna, ma dell'umanità intera, che con l'arroganza della sua ragione vuole raggiungere una conoscenza che Dio non le ha concesso. Risulta in questo modo più chiaro che l'atteggiamento di Qoelet verso la donna non è affatto di misoginia, e questo è confermato dal v. 9,9, in cui la donna amata è il conforto di una vita che presto svanisce.

Interpretazione della sequenza 7,13-29. Notiamo innanzitutto che i vv. 13-14 costituivano in qualche modo il “tema” che viene sviluppato nel seguito. Infatti in 13-14 si affermava: «osserva l'opera di Dio... Dio fa una cosa e il suo contrario affinché l'uomo non possa capire nulla di più». Ecco che il tema dei contrari viene sviluppato nei vv. 15-18: lo scambio delle sorti del giusto e del malvagio e la conseguente esortazione a non esagerare in nessun verso, ma a prendere in mano le contraddizioni per uscirne bene con il timor di Dio. Il discorso intorno al giusto e al malvagio partiva da una constatazione per giungere a un'indicazione di comportamento, e questo è l'iter proprio della sapienza, di una sapienza pratica che aiuta a vivere (v. 19). Tale sapienza pratica, aderente alla realtà, è pure disincantata e ironica: non solo le sorti del giusto e del malvagio si possono invertire, ma un giusto che non sbagli mai non esiste sulla terra, motivo per cui non è il caso di scandalizzarsi per i peccati altrui, sapendo di non esserne immuni (vv. 20-22). A questo punto sembra rendersi accessibile una sapienza più generale, che capisca il senso globale delle cose (v. 23). Eppure la realtà che si vorrebbe indagare in questo modo sfugge in profondità lontane, inaccessibili, così che nessuno può dire più di capirci qualcosa (24). Ecco che l'incapacità di capire sperimentata dal sapiente (v. 24) conferma la tesi annunciata al v. 14: Dio fa una cosa e il suo contrario affinché l'uomo non possa capire. Il v. 25 rilancia l'impresa sapienziale connotandola dal punto di vista etico e religioso: meditare sapienza, cercare concetti, significa pure individuare il nesso tra empietà e stupidità, tra la stupidaggine e la pazzia, per cui la ribellione a Dio coincide con la rovina dell'uomo (v. 26b). C'è una sapienza tradizionale che scarica la responsabilità di questa rovina dell'uomo sulla donna (v. 26a). Qoelet, che si era passato per Salomone, con le sue settecento mogli e trecento concubine (1Re 11,3), e dunque di donne poteva parlare per esperienza (v. 27), afferma che un uomo, uno su mille, poteva dire di averlo capito, ma una donna tra tutte quelle (le sue mille, per l'appunto), non era riuscito a capirla (v. 28). Qui Qoelet oppone i due atteggiamenti possibili rispetto alla diversità, all'alterità: c'è chi getta sul diverso la colpa dei propri limiti e c'è chi invece davanti all'alterità riconosce la sua incapacità di penetrare il mistero dell'altro, e questo gli fa percepire con chiarezza il proprio limite creaturale. Di fatto al v. 29 è proprio rievocato il momento della creazione per ritrovare la radice della situazione presente, e così si trae la conclusione che conferma la tesi del v. 14: che Dio ha fatto l'essere umano semplice, ed essi invece hanno cercato troppi concetti. E proprio in questa ribellione al progetto di Dio che si manifesta quel nesso tra empietà e stupidità, tra stupidaggine e pazzia che aveva iniziato questa parte (v. 25).

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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L’uomo è sempre insoddisfatto 1Un altro male ho visto sotto il sole, che grava molto sugli uomini. 2A uno Dio ha concesso beni, ricchezze, onori e non gli manca niente di quanto desidera; ma Dio non gli concede di poterne godere, anzi sarà un estraneo a divorarli. Ciò è vanità e grave malanno. 3Se uno avesse cento figli e vivesse molti anni e molti fossero i giorni della sua vita, se egli non gode a sazietà dei suoi beni e non ha neppure una tomba, allora io dico che l'aborto è meglio di lui. 4Questi infatti viene come un soffio, se ne va nella tenebra e l'oscurità copre il suo nome, 5non vede neppure il sole, non sa niente; così è nella quiete, a differenza dell'altro! 6Se quell'uomo vivesse anche due volte mille anni, senza godere dei suoi beni, non dovranno forse andare tutti e due nel medesimo luogo? 7Tutta la fatica dell'uomo è per la bocca, ma la sua fame non è mai sazia. 8Quale vantaggio ha il saggio sullo stolto? Qual è il vantaggio del povero nel sapersi destreggiare nella vita? 9Meglio vedere con gli occhi che vagare con il desiderio. Anche questo è vanità e un correre dietro al vento. 10Ciò che esiste, da tempo ha avuto un nome, e si sa che cos'è un uomo: egli non può contendere in giudizio con chi è più forte di lui. 11Più aumentano le parole, più cresce il vuoto, e quale utilità c'è per l'uomo? 12Chi sa quel che è bene per l'uomo durante la sua vita, nei pochi giorni della sua vana esistenza, che passa via come un'ombra? Chi può indicare all'uomo che cosa avverrà dopo di lui sotto il sole?

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Approfondimenti

vv. 1-9. Gli elementi esterni del chiasmo 6,1-2 sono caratterizzati dal ricorrere della radice ra (male, malanno) e dall'identificare come vanità, assurdità, ciò che si vede sotto il sole, e questa è una costante in Qoelet (cfr. 1,14; 2,11.17.20-21; 4,7-8.15-16). Il centro del chiasmo presenta la totale disponibilità dei beni e la paradossale impossibilità di goderne: questo è il malanno che grava sull'uomo, e che dipende dall'imperscrutabile volontà di Dio. La parte 6,3-6 si compone di tre pezzi; i due esterni 3a e 6b ad andamento parallelo, quello centrale (3b-5) di forma concentrica. I primi due pezzi oppongono dialetticamente un massimo di vigore vitale (un uomo che genera cento volte) e un minimo di vitalità (l'aborto). Il terzo pezzo stronca lo slancio retorico dei primi due con la constatazione realistica dell'universale destino di morte. La longevità – un valore nella tradizione – per Qoelet non è un gran pregio, poiché ha già dimostrato a più riprese che la vita è tutta un faticare senza senso e senza frutto. Se poi non si può neppure godere dei beni nel presente, allora è preferibile la quiete di chi ha vissuto un nulla e il suo nome (la realtà del nascituro nei sogni dei genitori) è stato sommerso dal buio. Torna in 6,7-9, a mo' di sintesi conclusiva, il discorso sull'avidità. La brama insaziabile di 6,7 richiama il possessore di ricchezze di 5,10, quello che doveva stare sempre con gli occhi aperti per sorvegliare i suoi tesori. A costui Qoelet contrappone il povero che, spinto dalla fame, cerca di inventarsi la vita momento per momento. Tuttavia non c'è vantaggio né per il ricco, né per il povero; non è preferibile la condizione di chi non può godere dei suoi beni perché deve difenderli dai parassiti, rispetto a quello di chi non li gode perché non li possiede. L'una e l'altra situazione sono segnate dall'assurdità che caratterizza tutta quanta la condizione umana.

v. 10. Il v. 10 del c. 6, che segna la metà esatta dei versetti del libro, introduce una nuova serie di riflessioni sulla condizione umana con un enigma. Il problema è conoscere l'essere umano; 1l soggetto di questa conoscenza risulta essere Dio, colui che «è più forte di lui»: infatti in tutto il Vicino Oriente antico pronunciare il nome di qualcuno o di qualcosa significa determinarne la natura e il destino, e dunque avere un potere assoluto su di esso. A un livello più alto di analisi retorica, 6,10 corrisponde a 7,13: l'uomo «non può discutere con Dio» (6,10), cioè «non può raddrizzare ciò che egli ha fatto storto» (7,13). Si giunge così a una conclusione quanto mai amara ma difficilmente eludibile: ciò che Dio ha fatto storto (7,13c) è proprio l'uomo (6,10ab), almeno per i limiti di cui l'uomo stesso fa esperienza.

vv. 11-12. L'enigma si configura intorno al problema conoscitivo, che si trova in tensione tra l'assurdità dei discorsi che si moltiplicano (6,11) e l'assurdità di una vita che ha i giorni contati (6,12). Che cosa siano questi discorsi che moltiplicano l'assurdità viene esemplificato nel capitolo successivo: in 7,1-6b; infatti in 7,6c si ribadisce che «anche questo è un'assurdità», e nei vv. 7-10 si danno le ragioni di tale asserita assurdità.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire parole davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò siano poche le tue parole. 2Infatti dalle molte preoccupazioni vengono i sogni, e dalle molte chiacchiere il discorso dello stolto. 3Quando hai fatto un voto a Dio, non tardare a soddisfarlo, perché a lui non piace il comportamento degli stolti: adempi quello che hai promesso. 4È meglio non fare voti che farli e poi non mantenerli. 5Non permettere alla tua bocca di renderti colpevole e davanti al suo messaggero non dire che è stata una inavvertenza, perché Dio non abbia ad adirarsi per le tue parole e distrugga l'opera delle tue mani. 6Poiché dai molti sogni provengono molte illusioni e tante parole. Tu, dunque, temi Dio!

L’autorità, la ricchezza e i loro rischi 7Se nella provincia vedi il povero oppresso e il diritto e la giustizia calpestati, non ti meravigliare di questo, poiché sopra un'autorità veglia un'altra superiore e sopra di loro un'altra ancora più alta. 8In ogni caso, la terra è a profitto di tutti, ma è il re a servirsi della campagna. 9Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti. Anche questo è vanità. 10Con il crescere delle ricchezze aumentano i profittatori e quale soddisfazione ne riceve il padrone se non di vederle con gli occhi? 11Dolce è il sonno del lavoratore, poco o molto che mangi; ma la sazietà del ricco non lo lascia dormire. 12Un altro brutto guaio ho visto sotto il sole: ricchezze custodite dal padrone a suo danno. 13Se ne vanno in fumo queste ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani. 14Come è uscito dal grembo di sua madre, nudo ancora se ne andrà come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portare con sé. 15Anche questo è un brutto guaio: che se ne vada proprio come è venuto. Quale profitto ricava dall'avere gettato le sue fatiche al vento? 16Tutti i giorni della sua vita li ha passati nell'oscurità, fra molti fastidi, malanni e crucci. 17Ecco quello che io ritengo buono e bello per l'uomo: è meglio mangiare e bere e godere dei beni per ogni fatica sopportata sotto il sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli dà, perché questa è la sua parte. 18Inoltre ad ogni uomo, al quale Dio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è dono di Dio. 19Egli infatti non penserà troppo ai giorni della sua vita, poiché Dio lo occupa con la gioia del suo cuore. _________________ Note

5,5 messaggero: forse il sacerdote, incaricato di ricevere le offerte presentate al tempio (Lv 4; Nm 15,22-31; per il sacerdote in qualità di “messaggero del Signore” vedi Ml 2,7).

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Approfondimenti

vv. 7-11. La logica del passo è la seguente: si parte innanzitutto dall'osservazione di un aspetto della realtà (7a), si prosegue con un ragionamento di stile sapienziale (7b-9a), ragionamento che viene poi raddoppiato nella parte 10-11, per concludere infine con un giudizio di assurdità (9b). Il v. 7 presenta una struttura concentrica, dalla quale si possono trarre queste conseguenze sulla corruzione della struttura amministrativa: il controllo esercitato da un'autorità sull'altra si rivela un latrocinio del diritto e della giustizia, e più ci sono autorità in alto, più il povero è oppresso. E il tutto viene beffardamente giustificato dalla ragion di stato (cfr. v. 8). La radice di queste dinamiche perverse sta nell'avidità umana (v. 9), tanto insaziabile (la radice indicante “sazietà” – peraltro negata – include la parte 5,9-11) quanto assurda. È tanto più assurda in quanto le preoccupazioni che la ricchezza porta con sé tolgono, a chi ha tanto faticato per accumulare beni, la serenità necessaria per goderli (vv. 10-11).

vv.12-16. Il passo è delimitato dall'inclusione formata dalla parola «malanno»; questo è coerente con l'accumulo di termini negativi, che contrasta con la positività del passo 5,17-19. All'interno dell'inclusione i versetti sono concatenati, e il centro logico della struttura è dato dal secondo stico del v. 14. Se il discorso prende spunto dalle peripezie della vita, tuttavia non è lì il nucleo del problema, perché il fatto che la sorte sia imprevedibile rientra nella normalità delle cose. Ancora una volta il limite, l'assurdità di una situazione umana, viene visto in relazione con la morte, che toglie senso al faticare dell'uomo. Narra il Midrash: «Un giorno una volpe giunse presso una vigna che era cintata ermeticamente, ad eccezione di un'apertura troppo piccola perché potesse passarci attraverso. Allora digiunò per tre giorni, fino a che divenne abbastanza magra per infilarsi nella breccia. Mangiò dell'uva e riprese la sua taglia di prima, così che, quando volle uscire, si accorse, costernata, che era troppo grossa per passare dal buco. Digiunò altri tre giorni, ridivenne magra ed emaciata, ed uscì. Quando fu all'esterno, si voltò verso la vigna e contemplandola le disse: “Vigna, vigna! Sei bella e i tuoi frutti sono dolci. Ma quale beneficio si può trarre da te? Come si entra da te, tale e quale ti si lascia”. Lo stesso è di questo mondo» (cfr. N. Scherman – M. Zlotowitz, 119-120).

vv. 17-19. Il passo si articola in due parti (17/18-19); la seconda riprende gli elementi della prima, non però con ordine. Vediamo quali indicazioni interpretative ci vengono dal porre in relazione gli elementi corrispondenti:

  • è bello mangiare e bere, ma per farlo ci vuole un permesso particolare di Dio;
  • la vita è una fatica, che diventa tollerabile se c'è allegria;
  • i giorni della vita sono pochi, e per l'uomo è meglio non ricordarsene;
  • è Dio che dà sia i giorni della vita, sia ricchezze e tesori;
  • mangiare, bere e godere dei beni sono la «parte» a cui l'uomo può aspirare, ma è solo Dio che gli può concedere di prenderla;
  • ciò che si vede essere bene per l'uomo è godere i beni, ma questo è un dono di Dio, infatti è Dio che intrattiene il cuore dell'uomo con la gioia.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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L’oppressione 1Tornai poi a considerare tutte le oppressioni che si fanno sotto il sole. Ecco le lacrime degli oppressi e non c'è chi li consoli; dalla parte dei loro oppressori sta la violenza, ma non c'è chi li consoli. 2Allora ho proclamato felici i morti, ormai trapassati, più dei viventi che sono ancora in vita; 3ma più felice degli uni e degli altri chi ancora non esiste, e non ha visto le azioni malvagie che si fanno sotto il sole.

La fatica del lavoro 4Ho osservato anche che ogni fatica e ogni successo ottenuto non sono che invidia dell'uno verso l'altro. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento. 5Lo stolto incrocia le sue braccia e divora la sua carne. 6Meglio una manciata guadagnata con calma che due manciate con tormento e una corsa dietro al vento.

La solitudine 7E tornai a considerare quest'altra vanità sotto il sole: 8il caso di chi è solo e non ha nessuno, né figlio né fratello. Eppure non smette mai di faticare, né il suo occhio è mai sazio di ricchezza: “Per chi mi affatico e mi privo dei beni?”. Anche questo è vanità e un'occupazione gravosa. 9Meglio essere in due che uno solo, perché otterranno migliore compenso per la loro fatica. 10Infatti, se cadono, l'uno rialza l'altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. 11Inoltre, se si dorme in due, si sta caldi; ma uno solo come fa a riscaldarsi? 12Se uno è aggredito, in due possono resistere: una corda a tre capi non si rompe tanto presto.

Il potere 13Meglio un giovane povero ma accorto, che un re vecchio e stolto, che non sa più accettare consigli. 14Il giovane infatti può uscire di prigione ed essere fatto re, anche se, mentre quello regnava, era nato povero. 15Ho visto tutti i viventi che si muovono sotto il sole stare con quel giovane, che era subentrato al re. 16Era una folla immensa quella che gli stava davanti. Ma coloro che verranno dopo non si rallegreranno neppure di lui. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento.

Fedeltà alle promesse fatte a Dio 17Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicìnati per ascoltare piuttosto che offrire sacrifici, come fanno gli stolti, i quali non sanno di fare del male.

_________________ Note

4,5 divora la sua carne: cioè si consuma nell’ozio, sciupa la propria esistenza.

4,13-16 La sapienza tradizionale vedeva nel re e nell’anziano i simboli della saggezza; l’esperienza invece dimostra a volte il contrario.

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Approfondimenti

vv. 1-3. Qoelet torna a puntare l'attenzione sulla malvagità umana: vede le lacrime degli oppressi, constata l'assenza di un consolatore e ribadisce con insistenza tale assenza, in contrasto con la fiducia nel giudizio divino che proponeva in 3,17. Allo stesso modo, se in 3,18 trovava un senso, pur non molto soddisfacente, al libero corso dell'iniquità, in 4,2-3 Qoelet si lascia ferire dall'agire malvagio dell'uomo fino a provare fastidio per la vita e a desiderare di non essere mai nato. Nel Talmud si afferma che le scuole di Hillel e di Shammai, grandi maestri dell'epoca erodiana, discussero per due anni e mezzo se per l'uomo fosse stato meglio essere creato oppure non esserlo. Conclusero che sarebbe stato meglio che non fosse creato, ma, ora che lo era, doveva esaminare le sue azioni e vivere un'esistenza virtuosa (cfr. ’Eruvin 13b, cit. in Scherman-Zlotowitz, 100).

vv. 4-6. Qoelet scopre una radice cattiva anche nelle azioni migliori per abilità e per successo; è l'invidia che spinge ad agire, molto più che l'utilità. Tuttavia ciascuno sente l'esigenza di giustificare il proprio comportamento, e i proverbi esistono anche per questo scopo. L'autore ne cita due, diametralmente opposti, uno che biasima la pigrizia e uno che la preferisce alla fatica. Di sfuggita, il commento: «è un inseguire il vento»; «parole al vento», diremmo noi.

vv. 7-8. Assurdità la fatica mossa dall'invidia, fatica inutile cercare nella sapienza tradizionale la giustificazione delle proprie scelte, assurdità la fatica di accumulare tesori per la propria solitudine, impedendosi di godere il presente. Poiché la vita è comunque fatica, la solitudine, cioè l'assenza di qualcuno con cui e per cui faticare, rende la vita un pessimo affare. Inizia qui un gioco di linguaggio sui due significati di “uno” e “due”: prima “essere solo” / “essere in compagnia” (4,7-12), poi “essere prima” / “essere dopo” (4,13-16).

vv. 9-12. In antitesi all'assurdità della solitudine, ecco i vantaggi – piccoli invero, ma reali – della compagnia. Le esemplificazioni che seguono sono esperienze talmente elementari e ovvie che prendono immediatamente un valore simbolico molto forte. Considerando che il contesto è ancora sempre quello di una vita terribilmente assurda e intessuta di fatica senza alcun guadagno, non è difficile interpretare questi piccoli, banali e umanissimi gesti come simboli di quella realtà ben più vasta che è la solitudine spezzata. Ancora più notevole è che questi simboli si salvano dalla falce dell'universale assurdità, quasi a dire che, se un vero e proprio senso della vita non si può trovare, il non essere soli rende almeno più vivibile questa vita, e la compagnia è un fuoco che scalda il cuore e mette allegria.

vv. 13-16. Torna il tema di fondo del guadagno vanificato o illusorio, visto nella prospettiva della successione, o meglio di un colpo di stato, ennesima attività frenetica, inutile, assurda (ben parallela con l'altra fatica vana, quella dell'avaro in 4,8, con cui fa inclusione). È da notare che Qoelet capovolge degli assunti che nella tradizione sapienziale hanno quasi valore di dogmi: egli usa una forma classica della letteratura sapienziale (il detto «è meglio questo di quello») per dire che non sempre la saggezza è degli anziani, né si trova nei “posti” importanti. D'altra parte anche la saggezza per così dire “alternativa”, quella del giovane povero che riesce ad usurpare il trono e a conquistare un'immensa ricchezza, non è vera saggezza, perché non porta frutti al di là dell'immediato presente: è ben raro che chi è nato povero e si è arricchito all'improvviso sappia amministrarsi in modo oculato.

vv. 4,17-5,6. Nel passo 4,17- 5,6 lo stile cambia: non si tratta più di un soliloquio (cessano i verbi alla prima persona singolare) ma di consigli (verbi all'imperativo o allo iussivo). Il passo è diviso in due parti, 4,17-5,2 e 5,3-6: la prima si incentra sul parlare a Dio, la seconda specifica questo parlare nel senso di fare voti (e cosi si chiarisce nel v. 4 che cosa sia il sacrificio degli stolti del v. 4, 17). Entrambe le parti tendono a porre l'uomo nella giusta relazione con Dio, che è il rispetto, quello che con termine tecnico si definisce il «timor di Dio». Esso è motivato dalla trascendenza di Dio («Dio è in cielo e tu sulla terra»), il che non significa una lontananza indifferente (come dicono gli empi di Sal 10,4 e 94,7), ma una signoria onnipotente. E l'uomo non può cogliere la logica dell'agire divino, né influenzarla, benché essa lo domini e possa metterlo in pericolo. Tale senso religioso autentico è contrapposto a una falsa religiosità, fatta di sogni, assurdità e parole (5,6), che ha una matrice prettamente psicologica, poiché nasce da ansietà e logorrea. Qoelet non è né nichilista né agnostico, è soltanto uno che non tollera la verbosità di coloro che sono convinti di riuscire a imbrigliare la complessità del reale con le loro parole, e cosi usa lo scudiscio dello hebel per smentire ogni forma di apparente saggezza.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Per tutte le cose c’è un tempo fissato da Dio 1Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo. 2C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato. 3Un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costruire. 4Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare. 5Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. 6Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via. 7Un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. 8Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace. 9Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica? 10Ho considerato l'occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. 11Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine. 12Ho capito che per essi non c'è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; 13e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio. 14Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c'è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. 15Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso.

Uomini e animali di fronte alla morte 16Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c'è l'iniquità e al posto della giustizia c'è l'iniquità. 17Ho pensato dentro di me: “Il giusto e il malvagio Dio li giudicherà, perché c'è un tempo per ogni cosa e per ogni azione”. 18Poi, riguardo ai figli dell'uomo, mi sono detto che Dio vuole metterli alla prova e mostrare che essi di per sé sono bestie. 19Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c'è un solo soffio vitale per tutti. L'uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità. 20Tutti sono diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e nella polvere tutto ritorna. 21Chi sa se il soffio vitale dell'uomo sale in alto, mentre quello della bestia scende in basso, nella terra? 22Mi sono accorto che nulla c'è di meglio per l'uomo che godere delle sue opere, perché questa è la parte che gli spetta; e chi potrà condurlo a vedere ciò che accadrà dopo di lui?

_________________ Note

3,1-15 Sotto i nostri occhi appare l’agire dell’uomo nella prospettiva del “polarismo”, cioè di azioni contrapposte ed estreme, che altrove nella Bibbia sono descritte con i verbi “entrare-uscire”, “sedersi-alzarsi”, ecc. Non si tratta di fatalismo, ma di una maturata consapevolezza che tutta la vita dell’uomo è nelle mani di Dio, affidata al ritmo dei suoi tempi.

3,19.21 soffio vitale: il respiro; in 12,7 si dirà che esso ritorna a Dio, da cui ha origine, e il corpo ritorna alla terra, dalla quale è stato tratto (Gen 2,7).

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Approfondimenti

Qo 3,1-4,3. La sequenza 3,1-4,3 si sviluppa in modo parallelo, avendo la prima sotto-sequenza (3,1-18) un taglio più teologico, e la seconda sotto-sequenza 3,19-4,3) un taglio piuttosto antropologico. Entrambe le sotto-sequenze partono dal dato d'esperienza della morte (3,2; 3,19), davanti a cui non c'è altro bene se non l'allegria (3,12; 3,22); l'attenzione si concentra poi sull'iniquità umana (notiamo le ripetizioni martellanti in 3,16 e 4,1), per concludere nella prima sotto-sequenza con un riferimento di fede a Dio (3,17-18) e nella seconda sotto-sequenza con un elogio della morte e meglio ancora del non-nascere (4,2-3). In tutta la prima sotto-sequenza Qoelet pensa a Dio come al fondamento ultimo dell'esperienza umana, e nel suo ragionare egli cerca di combinare dati teologici tradizionali con la sua personale valutazione dell'esperienza. Poiché però in concreto non riesce a trovar conferma degli assunti teologici, nella seconda sotto-sequenza rinuncia a chiamare in causa Dio e si ferma al semplice dato umano. In questo modo egli perde ogni rassicurazione e non può più guardare con una certa fiducia la realtà umana, profondamente segnata dall'iniquità: questa diventa troppo pesante per le spalle dell'uomo, tanto da rendergli la vita stessa un peso.

vv. 1-9. Il “sonetto” iniziale (3,2-8) si apre con la coppia generare/morire; è da ricordare che la tradizione ebraica, a partire dal Midrash, ha sovente interpretato tutte le coppie seguenti nella medesima prospettiva (vita/morte, lutto/festa, guerra/pace).

vv. 10-11. L'alternarsi dei tempi, tanto ineluttabile quanto in tensione tra positività e negatività, sfugge alle possibilità di dominio dell'uomo; pertanto viene considerato come il modo in cui Dio esercita il suo controllo sul mondo. E l'uomo, strutturalmente limitato dal punto di vista conoscitivo (ricordiamo che in Gn 2-3 l'unico divieto era relativo proprio all'albero della conoscenza del bene e del male), non riesce a comprendere la logica dell'agire di Dio.

Il v. 11 è un punto-chiave per la comprensione di Qoelet. Se si segue l'interpretazione abituale, che traduce con «eternità», «globalità» i termine ebraico ha olam, non si capisce la logica del testo: se Dio ha fatto ogni cosa «bella», appropriata nel suo tempo, e ha posto pure l'eternità, la globalità nel cuore degli uomini, l'uomo dovrebbe avere tutto ciò che serve per capire l'opera di Dio dall'inizio alla fine, e non dovrebbe essere il contrario. Se invece olam è l'ignoranza, allora il discorso è perfettamente logico: il problema dell'occupazione che Dio ha imposto agli uomini (3,10) – occupazione già qualificata in precedenza come negativa (1,13) – deriva dal fatto che Dio ha fatto ogni cosa appropriata al suo tempo, ma ha posto l'ignoranza nel cuore degli uomini, così che l'uomo non riesce a comprendere l'opera di Dio da capo a fondo, e perciò non riesce a integrarvisi. Si può ancora ipotizzare una pregnanza di significato, un giocare intenzionale su due livelli semantici: il livello più superficiale implica il senso di “eternità”, così da integrarsi bene nel campo semantico del tempo che caratterizza buona parte del c. 3; il secondo livello di significato implica invece l'idea di “ignoranza”, così che si crea un gioco ironico: dove sembra che l'uomo riceva da Dio un “di più”, un'istanza conoscitiva (eternità, globalità) che in qualche modo lo assimila a Dio, in realtà – ed è il senso proprio del testo, l'unico che dà una coerenza logica – riceve un “di meno”, qualcosa che mette drammaticamente in evidenza il suo limite, la sua dissomiglianza da Dio.

vv. 12-13. Se il controllo dei tempi sfugge all'uomo, non gli resta che cercare di trarre il meglio dal presente; tuttavia il presente rientra nell'alternanza dei tempi, per cui anche la possibilità di gioire e di godere dipende da Dio e, visto che è positiva, viene letta come suo dono.

vv. 14-15. L'impossibilità di influire sull'alternarsi dei tempi viene spiegata riflettendo su chi è Dio, sulla sua eternità e sovranità, e questa riflessione porta al timore di Dio e alla certezza di non potergli sfuggire.

vv. 16-18. L'attenzione si sposta nuovamente sul mondo degli uomini, e si constata il crimine perfino là dove dovrebbe trionfare la giustizia (v. 16). Alla luce delle precedenti riflessioni su Dio, viene addotta la tradizionale certezza del giudizio di Dio, che rimetterà in ordine ogni cosa, emettendo un giudizio di condanna per gli uomini che si sono comportati come bestie gli uni verso gli altri.

vv. 19-21. Tuttavia non c'è alcuna conferma dell'intervento di Dio, poiché l'assimilazione dell'uomo alla bestia salta bruscamente dal piano etico al piano esistenziale, dal comportamento alla sorte comune: la morte, col grave dubbio che pure dopo non ci sia alcuna differenza tra l'uomo e la bestia. Le asserzioni tradizionali sul giudizio divino non vengono di per sé negate, però, poiché la loro realizzazione è localizzata nel futuro, e nel futuro dell'uomo c'è la morte e niente altro dopo di essa, è implicito che anche l'ansia di giustizia è un'esigenza del cuore umano (come altrove si è già visto la conoscenza) a cui la realtà non dà soddisfazione. Ecco perché si ritrova l'etichetta dello bebel: tutto è assurdo (v. 19).

v. 22. Ritorna in conclusione la sentenza «non c'è altro bene»: questa volta però non c'è più nessun riferimento a Dio; la riflessione sulla morte lo ha eliminato dall'orizzonte, poiché la relazione con Dio dura finché dura la vita, e per il «dopo» non c'è alcuna prospettiva. Pertanto la locuzione conclusiva «dopo» (’aharayw) difficilmente può indicare l'aldilà, mentre è più probabile che sia legata al problema dell'alternarsi imprevedibile e ininfluenzabile dei tempi: bisogna gioire nel presente, mentre si agisce, perché non si può sapere il prossimo “tempo” che cosa riserva.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Vanità dei piaceri, delle ricchezze e del lavoro 1Io dicevo fra me: “Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia. Gusta il piacere!”. Ma ecco, anche questo è vanità. 2Del riso ho detto: “Follia!” e della gioia: “A che giova?”. 3Ho voluto fare un'esperienza: allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza. Volevo scoprire se c'è qualche bene per gli uomini che essi possano realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita. 4Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. 5Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d'ogni specie; 6mi sono fatto vasche per irrigare con l'acqua quelle piantagioni in crescita. 7Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme. 8Ho accumulato per me anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. 9Sono divenuto più ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza. 10Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d'ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche. 11Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c'è alcun guadagno sotto il sole.

C’è una stessa sorte per tutti 12Ho considerato che cos'è la sapienza, la stoltezza e la follia: “Che cosa farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui”. 13Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è come il vantaggio della luce sulle tenebre: 14il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Eppure io so che un'unica sorte è riservata a tutti e due. 15Allora ho pensato: “Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Perché allora ho cercato d'essere saggio? Dov'è il vantaggio?”. E ho concluso che anche questo è vanità. 16Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto.

Perché faticare, per poi lasciare tutto a un altro? 17Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento. 18Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. 19E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità! 20Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica che avevo sostenuto sotto il sole, 21perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. 22Infatti, quale profitto viene all'uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? 23Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità! 24Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche; mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. 25Difatti, chi può mangiare o godere senza di lui? 26Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre a chi fallisce dà la pena di raccogliere e di ammassare, per darlo poi a colui che è gradito a Dio. Ma anche questo è vanità e un correre dietro al vento!

_________________ Note

2,24 mangiare e bere: tra le modeste gioie della vita, la più frequentemente ricordata è la gioia della tavola, intesa come benedizione predisposta dal Signore per l’uomo (3,12-13).

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Approfondimenti

vv. 1-3. Il vino (2,3) è il simbolo di tutto ciò che rallegra la vita dell'uomo (Sal 104,15), dell'allegria stessa, del piacere. E anche l'esperienza del piacere è presentata nell'eccesso, laddove si rivela il suo limite, la sua incapacità a soddisfare le attese che aveva suscitato. Pure questa apparente perversione è posta sotto il segno della sapienza, dal momento che mira a scoprire che cosa sia il bene per l'uomo. E una ricerca spinta fino all'eccesso della perversione è giustificata dall'incombere della morte, che la rende urgente, urgente di un'urgenza cronologica (i giorni della vita sono pochi; cfr. Sal 90, 10) e di un'urgenza filosofica, esistenziale (la fragilità dei figli di Adamo, sempre sul punto di ritornare a quella terra ’adamah, da cui sono stati tratti).

vv. 4-8. Qoelet enumera i frutti del suo agire. Tra i beni immobili bisogna notare i «parchi»: il termine ebraico è pardēsîm, una parola presa in prestito dal persiano (da cui il nostro “paradiso”); il primo a creare dei parchi fu Tiglat-Pilezer I, re d'Assiria (XII-XI sec. a.C.), che vi radunava animali esotici in una vegetazione lussureggiante, come simbolo del suo dominio universale; con i Persiani il “paradiso” diventa parte dell'immagine regale, tanto che i satrapi vollero avere ciascuno il suo parco, per essere simili al gran re (e quest'idea vale probabilmente anche in Qo 2,5).

v. 9. Osserviamo che la sapienza, che in 1,16 era l'oggetto accumulato, dopo l'enumerazione di tutti gli oggetti che il cuore umano può concupire, diventa il soggetto di un'avversativa: «eppure mi era rimasta la mia sapienza». Quasi a dire che, se da un lato solo l'eccesso permette al sapiente di discernere chiaramente l'assurdità, dall'altro è molto difficile conservare la sapienza attraversando gli eccessi.

v. 10. L'assenza di limite al desiderio, punto focale del pezzo in esame, risulta evidente dalla doppia negazione dei verbi indicanti rifiuto. La motivazione che si dà di questo non-rifiuto riflette non un edonismo decadente, ma un vero atteggiamento sapienziale (il “godere” di 2,10 è in parallelo con il “conservare la sapienza” di 2,9). Abbandonato il piano esteriore, ci si muove solo più su quello interiore: l'allegria è vista come un'attitudine interiore durevole (il verbo è un participio), dunque: «il mio cuore si rallegrava sempre», «il mio cuore sapeva rallegrarsi».

v. 11. I vv. 9-10 sono un riassunto dell'enumerazione e dell'accumulazione di beni di 2,4-8 ed esprimono la sintesi massima del desiderabile: avere tutto quel che poté avere un Salomone, ma senza perdere la testa (v. 9; c'è forse qui una punta d'ironia nei confronti del grande sovrano che si era lasciato traviare dalle sue donne, cfr. 1Re 11,1-13); avere tutto quel che si può desiderare, oggetti e stati d'animo, essere ricchi e saperne godere (v. 10). Eppure Qoelet si volta a guardare ciò che ha realizzato, la ricchezza per cui ha faticato (v. 11), e il suo sguardo diventa un giudizio quanto mai negativo e disilluso (v. 11: assurdità totale, tormento inutile). Tale giudizio è per ora immotivato, ma è solo l'anticipazione di quanto verrà esposto nelle pericopi seguenti.

vv. 12-16. In 2,11 veniva anticipato un giudizio di generale assurdità e assenza di vantaggio. In 2,12 viene introdotto un elemento nuovo: la successione, che implica la morte. Contro la morte si scontrano tutte le realtà comparse nei versi precedenti, e la morte ne manifesta il non-senso. In 2,13 si trova una tesi contraddittoria rispetto al giudizio di 2,11 («pare che un vantaggio ci sia...»), appoggiata dalla tradizione con il proverbio di 2,14; ma lo stesso v. 14 aggiunge subito un dato d'esperienza che smentisce radicalmente la tesi tradizionale: non c'è vantaggio del saggio sullo stolto, perché tutti muoiono. Il centro del chiasmo è davvero il perno intorno al quale ruota l'intero discorso: la scoperta della morte – una scoperta non astratta ma esistenziale, coinvolgente – appiattisce la differenza tra saggezza e idiozia, e pertanto rende assurdo lo sforzo del saggio. Nei versetti che seguono viene sviluppata proprio quest'ultima idea, dapprima in chiave di coinvolgimento personale (v. 15), il che acuisce la coscienza dell'assurdità; viene poi la prospettiva dell'oblio: se il ricordo poteva sembrare una scappatoia dalla fine di tutto, in realtà non lo è; e se non ci sono scappatoie, non resta che il grido, il lamento (v. 16).

vv. 17-23. La parte 2,17-23 è ritmata in senso longitudinale dal ritornello della «vanità», dell'assurdità, alternando forma ampliata (17 e 21) e forma breve (19 e 23); tuttavia la struttura della parte, se si tralasciano i ritornelli, è concentrica. Se in 2,3 ci si impegnava a indagare che cosa fosse “bene” per l'uomo fare nei pochi giorni della sua vita, in 2,17 ecco la risposta (in ordine inverso): la vita è odiosa. perché è “male” tutto ciò che si fa sotto il sole. Il v. 17 chiude la pericope precedente e apre al tempo stesso quella seguente. Il vero problema non è l'eredità, né per chi lascia, né per chi riceve, stolto o saggio che sia; il dramma è dover morire, e l'eredità ne è solo un corollario. La radice che più ricorre in questa pericope è ‘ml (dieci volte in cinque versetti), ovvero la fatica e il suo frutto. Abbiamo, inoltre, già notato il martellare del ritornello «anche questo è vanità». Possiamo allora concludere che il motivo del lascito e dell'erede non è il tema della pericope, ma soltanto un modo di esprimere il non-senso della fatica umana davanti alla morte. Osserviamo infine che, se in filigrana c'è ancora l'immagine di Salomone, non è difficile pensare che questo erede sia simbolicamente il figlio Roboamo, definito dal Siracide «pieno di stoltezza e vuoto di senno» (Sir 47,23, tr. Vaccari dal testo ebraico).

vv. 24-26. In 2,26 (non consideriamo ora il giudizio conclusivo) si combinano uno schema parallelo – evidenziato dai due “dare” di Dio – e uno schema chiastico, agli estremi del quale si trova «colui che è gradito a Dio», mentre in centro compare il «peccatore» (che letteralmente vuol dire «fallito»). Non è senza significato questo gioco tra lo schema parallelo e quello chiastico: infatti, sotto il velo di una sentenza tradizionale riguardo alla retribuzione temporale (schema parallelo), si rivela un'intuizione angosciata: il «peccatore-fallito» (centro del chiasmo) è Qoelet stesso. Ricordiamo come in 2,20-21 Qoelet era disperato a motivo di tutto ciò per cui aveva faticato nella sua vita, perché avrebbe dovuto darlo a un altro che non vi aveva faticato per nulla. Eppure il motivo della disperazione non erano i beni. La sua fatica si era qualificata per sapienza, competenza e perizia (cfr. 2,21), proprio quelle qualità che sembrano essere dono di Dio a chi gli è gradito (cfr. 2,26b: al posto della perizia c'è la gioia), e invece il dover faticare per poi dare tutto a un altro, lo identifica con il peccatore, o meglio, il “fallito”. La sentenza tradizionale non sarà forse verificata dalla realtà dei fatti, tuttavia ha focalizzato e portato a coscienza esplicita un'intuizione dura e grave. La conclusione è un giudizio di vanità, una solenne affermazione dell'assurdità tanto della condizione umana, quanto di una sapienza tradizionale che pretende di dirne la verità.

Interpretazione globale della sequenza 1,12-2,26 Qoelet vuole riflettere con sapienza su ciò che si fa sotto il sole; questo lavoro che Dio ha dato agli uomini perché vi lavorino è male (1,12-13).

Qoelet riflette innanzitutto sugli atteggiamenti che gli servono da strumenti conoscitivi: la sapienza che aumenta si rivela un tormento crescente (1,16-18), l'alternativa (allegria, riso, idiozia; 2, 1-3), per quanto volta alla ricerca del bene per l'uomo, e di un bene da “fare”, si rivela assurda.

Qoelet esplora dunque tutte le potenzialità del fare umano, espresse al massimo grado per concluderne l'assurdità e il tormento (2, 4-11).

Egli esamina ancora i diversi atteggiamenti che forse possono dare senso alla produzione dei beni, ma constata che la differenza significativa tra saggezza e idiozia è eliminata dalla morte (2,12-16). Ne conclude che l'agire umano, il fare che si fa sotto il sole, è male per lui, poiché tutto è assurdo e un tormento inutile (2,17).

Qoelet riprende a riflettere sui beni che aveva prodotto e sul fatto che, morendo, dovrà lasciarli a un successore che non li merita (2,18-21), il che è assurdo (2,19.21), come assurda è la condizione umana nel suo insieme (2,22-23).

Il lavoro umano, che in 1,13 era «male» (ra‘), qui è «afflizione» (ka‘as). E se in 2,1.3 si cercava un bene per l'uomo negli atteggiamenti umani di maggiore o minore saggezza, ora si afferma che non c'è altro bene per l'uomo se non nella fruizione immediata delle cose (2,24).

Ma neppure questo bene, per quanto minimo, è a disposizione dell'uomo, dal momento che sembra dipendere da Dio, e Dio sembra assegnarlo a chi è “buono davanti a lui”. L'uomo dovrebbe dunque cercare di essere “buono davanti a Dio” per avere il “bene”? Ma cosa significa essere “buoni davanti a Dio”? Di fatto l'esperienza mostra che le categorie teologiche sono insufficienti a rendere ragione della realtà, poiché lo stesso individuo è per un verso “buono davanti a Dio” e per l'altro “peccatore”. Perciò anche quest'ultimo ragionamento è un'assurdità e un tormento inutile.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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