📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

CAPITOLO IX

PENITENZA DA IMPORSI ALLE SUORE CHE PECCANO; LE SUORE SERVIGIANE FUORI DEL MONASTERO

1 Se qualche suora, per istigazione del nemico, avrà peccato mortalmente contro la forma della nostra professione, dopo essere stata ammonita dall’abbadessa o da altre suore due o tre volte, 2 se non si sarà emendata, mangi pane e acqua in terra al refettorio davanti a tutte le suore tanti giorni quanti sarà restata contumace; 3 e sia sottoposta a pena maggiore, se l’abbadessa crederà. 4 Mentre resta contumace, si preghi perché il Signore illumini il suo cuore a penitenza. 5 Ma l’abbadessa e le sue suore debbono guardarsi dall’adirarsi o turbarsi per il peccato di qualcuna; 6 poiché l’ira e il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri. 7 Se accadesse, Dio ne guardi, che sorgesse tra una suora e l’altra, a parole o a fatti, un’occasione di turbamento o di scandalo, 8 subito prima di «presentare al Signore l’offerta» (cf. Mt 5,23) della sua preghiera, non solo si prostri umilmente a terra ai piedi dell’altra, chiedendo perdono; 9 ma le chieda anche con semplicità che interceda per lei presso il Signore perché sia perdonata. 10 L’altra poi, memore della parola del Signore: «Se non perdonerete di cuore, nemmeno il Padre vostro» celeste «perdonerà a voi» (Mt 6,15; 18,35), 11 con liberalità perdoni alla propria sorella qualsiasi offesa fattale. 12 Le suore che servono non restino a lungo fuori del monastero, se non lo richieda una causa di manifesta necessità. 13 Debbono agire onestamente e parlar poco, per poter edificare chi le vede. 14 E si guardino con fermezza di avere sospetti incontri o convegni con uomini. 15 Né possono essere madrine di uomini o di donne, affinché per questa occasione non sorga mormorazione e turbamento. 16 Né abbiano la presunzione di riportare in monastero i pettegolezzi del mondo. 17 Fermamente siano tenute di non riferire fuori alcunché di quanto si dice e si fa in monastero, che possa ingenerare qualche scandalo. 18 Se qualcuna avesse per semplicità mancato in queste due cose, a disposizione dell’abbadessa, le sia imposta con misericordia la penitenza. 19 Se poi ne avesse la viziosa consuetudine, l’abbadessa le imponga una penitenza secondo la qualità della colpa, con il consiglio delle discrete. _________________ Note al CAP. IX 9,1-4: Quanto Francesco aveva dovuto eliminare dalla I Regola, per renderla più agevole e più strettamente giuridica, è qui conservato con valore ascetico.

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Approfondimenti

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Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO VIII

LE SUORE NON SI APPROPRINO DI NULLA; VENGA CHIESTA L’ELEMOSINA; LE SUORE INFERME

1 Le suore non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né cosa alcuna; 2 e «come pellegrine e forestiere» (Sal 38,13; 1Pt 2,11; Eb 11,13) in questo mondo, servendo al Signore in povertà e umiltà, mandino con confidenza per l’elemosina; 3 né debbono vergognarsene, poiché il Signore si fece per noi «povero» (2Cor 8,9) in questo mondo. 4 Questo è quel vertice di «povertà altissima» (2Cor 8,2), che rese voi, mie carissime sorelle, eredi e regine del «regno dei cieli» (Mt 5,3; Lc 6,20), vi ha rese povere di sostanze, ma vi ha sublimato di virtù. 5 Questa sia la vostra «porzione» che conduce alla «terra dei viventi (cf. Sal 141,6), 6 a cui, dilettissime sorelle, restando totalmente unite, nient’altro cercate sotto il cielo per sempre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e della sua Madre santissima. 7 Non sia lecito a nessuna suora d’inviare lettere, o ricevere qualcosa, o darla fuori del monastero, senza permesso dell’abbadessa. 8 Né sia lecito ritenere qualcosa che l’abbadessa non abbia dato o permesso. 9 Se dai parenti o da altri sia dato qualcosa a qualcuna, glielo faccia dare l’abbadessa. 10 Se ne avrà bisogno l’interessata lo possa usare, altrimenti sia dato caritatevolmente a qualche altra suora che ne ha bisogno. 11 Se le fosse inviata un’offerta pecuniaria, l’abbadessa la faccia provvedere nelle cose di cui ha bisogno, con il consiglio delle discrete. 12 L’abbadessa sia fermamente obbligata sollecitamente di persona e per altre a provvedere, nei consigli, nei cibi e in quanto altro servisse nell’infermità alle suore malate, 13 e a provvedere caritatevolmente e con misericordia secondo le possibilità del luogo. 14 Poiché tutte sono tenute a provvedere e servire alle proprie sorelle inferme, come vorrebbero essere servite esse stesse nell’infermità. 15 Con fiducia l’una manifesti all’altra la propria necessità. 16 E se una madre ama e nutre la propria figlia carnale, con quanto maggiore diligenza una suora deve amare e nutrire la propria sorella spirituale! 17 Le inferme riposino su sacconi di paglia ed abbiano dei cuscini di piume; 18 e chi ne ha bisogno possa usare pantofole e calze di lana. 19 Le suddette malate, quando sono visitate da chi visita il monastero, possano ognuna rispondere brevemente qualche buona parola a chi le interroga. 20 Le altre suore non abbiano il permesso di parlare a coloro che entrano in monastero, se non presenti e ascoltanti due suore discrete, assegnate dall’abbadessa o dalla vicaria. 21 Questo sistema di parlare sia obbligatorio anche per l’abbadessa e la vicaria. _________________ Note al CAP. VIII 8,2-3: Mandino per l’elemosina è un’espressione ripresa dalla Regola bollata di Francesco, in cui il santo prescrive di andare per l’elemosina (vadant); qui, però, Chiara utilizza il termine mandino (mittant). Si tratta di due verbi diversi che fanno comprendere la diversità di stile nella comune vocazione: i frati seguono il Signore andando per il mondo (ReBu 3,1.11), le sorelle stanno con il Signore mandando per l’elemosina, perchè sono sedentarie come Maria di Betania.

8,7-11: I dettagli di queste norme di povertà e di distacco – tenendo presente la psicologia femminile – sono veramente eroici.

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Approfondimenti

Il capitolo 8 è l’altro passaggio/forza della Forma vitae in cui Chiara – continuando ad affiancare i temi della Regola bollata – traduce l’intuizione di Francesco sull’espropriazione, cuore della Christi vivendi forma, nello stile di vita della sua comunità penitenziale-claustrale. E come in Rb 6, al sine proprio segue, strettamente legato, il tema della fraternità, della cura vicendevole a cui le sorelle sono chiamate, con quella predilezione verso le sorelle inferme che potremmo dire parallela a quella di Francesco per i fratelli lebbrosi: è la forma di vita delle «sorelle povere», veramente, dove povertà e carità sono l’una sorgente dell’altra.

Mentre Rb 6 continua congiungendo con un et la santa povertà al suo frutto primo che è la carità, la familiarità tra i frati, fino a concludere con l’esortazione ad amare e servire i frati infermi, Chiara passa ora a un altro aspetto del sine proprio, quello personale. Per i versetti 8,7-11 la fonte principale di riferimento è qui la Regola di Benedetto, a cui la santa attinge i concetti di fondo cambiandone però i termini con grande libertà e talora distanziandosene decisamente. Si tratta del mandare lettere all’esterno o del ricevere qualcosa in dono: ed emerge, dalle operazioni che Chiara fa sul testo parallelo della Regola di Benedetto, ciò che per lei conta veramente:

  • il sine proprio che si traduce in trasparenza e stretto legame di obbedienza, per cui nessuna può ritenere “proprio” qualcosa e farne ciò che vuole. L’accento sembra posto non tanto sul ricevere quanto sul mandare, e il problema di fondo, confermato da tutto il contesto del capitolo, è più quello della povertà che non quello di una limitazione nelle relazioni epistolari. Scrivere una lettera era un avvenimento straordinario, per la difficoltà che comportava ed anche per il suo costo;
  • il senso di responsabilità ed il respiro della carità vicendevole all’interno della comunità: nel v. 9, in cui si tratta dei doni ricevuti da una singola sorella, Chiara si distanzia dal metodo benedettino, mettendo in secondo piano il principio ascetico – «E se l’abate glielo consente, sarà poi in sua facoltà decidere a chi destinare la cosa. Il fratello cui il dono era inviato, in tal caso non si rattristi, per non dare occasione al diavolo» (RBen 54,3-4) – per fermarsi sul senso di responsabilità della sorella che può giudicare da sola l’opportunità o meno di tenere il dono ricevuto, il suo reale bisogno, la sua distanza dal bisogno; e soprattutto lo sguardo di Chiara si allarga a desiderare che la sorella sia attenta alle altre, si accorga del possibile bisogno di un’altra: è il suo primo desiderio che l’amore sia il cuore delle relazioni tra le sue figlie e sorelle.

Il v.11, tutto scritto dalla mano di Chiara, in brevi parole affronta un tema molto problematico in un’epoca storica di grandi cambiamenti come la prima metà del Duecento, quello del rapporto col denaro. Francesco l’aveva rifiutato categoricamente in ogni sua forma: per lui, da ex-mercante, denaro era sinonimo di accumulo, reinvestimento, tesaurizzazione, potere. La Forma vitae prevede invece che ad una sorella possa essere inviato un dono in pecunia (ovvero: non denaro ma qualsiasi cosa che viene accettata in una compravendita che avviene col “baratto”). Chiara, che aveva alle spalle l’esperienza di una famiglia nobile, vedeva nell’avidità dei possedimenti terrieri il pericolo di venir meno alla stretta povertà, non certo in una piccola elemosina in denaro, che poteva essere utilizzata per le necessità di una singola sorella, senza con questo diventare fonte di sicurezza e di sostentamento per la comunità. Neppure lei tuttavia tratta questo argomento come cosa facile e scontata: il fatto che qui chieda all’abbadessa di ricorrere al consiglio delle discrete dimostra che lo considera un avvenimento rilevante e di delicato discernimento. Ciò che conta anche in questo caso è la discrezione e la provvidenza della madre verso la necessità di ogni sorella: di fronte a questo anche la paura di toccare e ricevere denaro sembra sbiadire.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO VII

MODO DI LAVORARE

1 Le suore alle quali il Signore ha dato la grazia di lavorare, dopo l’ora di terza lavorino, in un lavoro onesto e di utilità comune, con fedeltà e devozione, 2 in modo che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, «non spengano lo spirito» (1Ts 5,19) della santa orazione e di devozione, a cui tutte le altre cose temporali devono servire. 3 E l’abbadessa o la sua vicaria sia tenuta ad assegnare in capitolo davanti a tutte ciò che ognuna dovrà fare con le sue mani. 4 Altrettanto si faccia se fosse inviata da qualcuno qualche elemosina per necessità delle suore, perché in comune ne venga fatta memoria. 5 E queste cose siano distribuite dall’abbadessa o dalla vicaria per utilità comune, con il consiglio delle discrete.

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Approfondimenti

Lavorare con le proprie mani, manibus suis, ha nella forma di vita clariana una dimensione vocazionale, nel contesto di quella “conversione alla povertà” anche dal punto di vista sociale che caratterizzò il movimento evangelico nei secoli XII-XIV. Il lavoro manuale, anche quello più faticoso nei campi e nei boschi, era il sostentamento dei primi monasteri femminili affiliati all’Ordine cisterciense, ed è ben noto che il rapporto povertà-lavoro caratterizzò fin dagli inizi il movimento degli Umiliati. Questo tema è centrale nello svolgimento della Forma vitae e non a caso segue direttamente il capitolo 6, poiché della scelta di povertà il lavoro manuale è conseguenza diretta e importante. Una tematica difficile, al centro di gravi controversie nella vita dell’Ordine francescano mentre questo testo viene redatto: lavorare «con le proprie mani» era una parola di Francesco, uno dei distintivi delle origini, ed era per tutti i frati, senza distinzione. «E quelli che non sanno, imparino»: le parole del Testamento sono eco di un travaglio in atto e di una volontà precisa di Francesco. Con la Quo elongati di Gregorio IX, di fatto il Testamento veniva dichiarato non vincolante per i Frati minori e ritenuto un ostacolo alla crescita dell’Ordine. Ebbene, in questo clima, quando deve dire la sua parola sul lavoro, Chiara riprende quasi del tutto il testo parallelo della Regola bollata, ma nei punti più decisivi inserisce proprio le parole del Testamento. Dalla Regola bollata riprende la definizione del lavoro come “grazia”, che apre un orizzonte più vasto rispetto alla concezione tradizionale che vedeva il lavoro solo quale mezzo di sostentamento o impegno ascetico; a questo Chiara aggiunge l’orario del tempo di lavoro, necessario in una struttura monastica come la sua: post horam tertiae, dopo l’ora di terza. La fonte con cui è d’obbligo un confronto è il capitolo 48 della Regola di Benedetto: la Forma vitae clariana tralascia le numerose specificazioni dell’ora della fine del lavoro, dei vari tempi dell’anno liturgico in cui gli orari dei monaci cambiavano, e si distingue per l’assenza completa del tempo dedicato alla lectio divina, così importante nel testo benedettino. L’impressione è che Chiara si appoggi sulla struttura monastica esistente per costruirvi la sua forma, la lineare forma della sua vita povera. Ciò su cui si ferma con molta precisione è invece la descrizione della qualità, del modo di lavorare: il lavoro è grazia, prima di tutto, capacità, forza e salute sono dono gratuito di Dio.

Coscienza della grazia, honestas, comune utilità, fedeltà e devozione: questi gli atteggiamenti che Chiara ritiene importanti nell’andare incontro al quotidiano impegno del lavoro. E tra questi, emerge la sua tenacia nell’affermare che anche in questo campo lei è d’accordo con la posizione di Francesco: già dal tempo della composizione della Regola non bollata esistevano nell’Ordine tre categorie di frati, predicatores, laboratores, oratores, che via via porterà alla distinzione più netta tra chierici e laici, e il lavoro manuale non era più per tutti, dato che i frati stavano cominciando ad affrontare le esigenze della pastorale determinate dal Concilio Lateranense IV. Nel ribadire, nel Testamento, l’esigenza del lavoro manuale per tutti Francesco si mostrava contrario alla strada presa dai suoi frati, e Chiara, che con molta facilità poteva riconoscersi – all’interno della tripartizione della società medioevale in oratores, bellatores e laboratores – nella categoria degli oratores, con questo appropriarsi dell’espressione del Testamento si mette decisamente in linea col gruppo delle origini, in quelle intuizioni radicali. Non si tratta di nostalgia, ma di una scelta ben concreta di identità: lei sta dalla parte della minorità, questo è al cuore della sua vocazione e non ci sono motivi o mutamenti storici che possano farla deviare da essa, perché così era per Francesco, per il quale tutto ciò che allontanava da questa condizione di minori, soggetti ad ogni creatura (il guadagno, i ruoli, gli incarichi), non era conforme alla vocazione ricevuta. Importante anche l’aggiunta communem, communem utilitatem: nessuna sorella operi come fosse da sola, né per se stessa, ma all’interno del corpo della comunità e per la sua edificazione. È una parola fondante, che scorrendo il testo della Regola riemerge continuamente: l’appartenenza reciproca e quindi la responsabilità di ognuna nei confronti della comunità.

A San Damiano si praticava il lavoro della filatura, il più comune per le donne dell’epoca, largamente impiegate nell’industria tessile, e anche quello della tessitura, per lo più riservato alla manodopera maschile. Una piccola produzione artigianale finalizzata in parte alla carità verso le chiese povere, in parte – lo possiamo pensare – al sostentamento della comunità, che veniva completato dalla coltivazione dell’orto e dalle elemosine spontanee dei benefattori e di chi si affidava alla preghiera delle sorelle. Una scelta, quella del lavoro manuale, che le immetteva nella realtà quotidiana di tanta gente, di tante donne povere “involontarie”, la cui vita quotidiana ben conosceva sia la fatica di un lavoro scarsamente retribuito, sia l’umiliazione della mendicità. Tutto questo senza che le sorelle entrassero in quella forma di commercio in cui si trovarono coinvolti gli Umiliati e, in campo agricolo, i Cisterciensi, o in quella specializzazione che rese famosi i tessuti confezionati dalle beghine delle Fiandre. Il fine era sostentarsi, da povere, guardandosi da ogni forma di guadagno o di accumulo di beni: una scelta controcorrente sia nei confronti della nobiltà, a cui la gran parte delle sorelle di San Damiano proveniva, sia nei confronti della borghesia in crescente ascesa, per la quale l’economia era sempre più in funzione del massimo guadagno e dell’accumulo illimitato di denaro.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO VI

LE PROMESSE DEL BEATO FRANCESCO E IL RIFIUTO DEI POSSEDIMENTI

1 Dopo che l’altissimo Padre celeste si degnò per sua grazia di illuminare il mio cuore, perché facessi penitenza dietro l’esempio e l’ammaestramento del beatissimo padre nostro san Francesco, poco dopo la mia conversione, io promisi a lui obbedienza volontariamente insieme alle mie sorelle. 2 Il beato padre, constatando che non temevamo alcuna povertà, lavoro, tribolazione, viltà e disprezzo del mondo, e anzi che tutto ciò ritenevamo come grande delizia, mosso a pietà scrisse per noi questa forma di vita: 3 «Poiché per ispirazione divina vi siete rese figlie ed ancelle dell’altissimo sommo Re, Padre celeste, e vi siete sposate allo Spirito Santo, eleggendo di vivere secondo la perfezione del Vangelo*, 4 voglio e prometto personalmente e con i miei frati di avere per voi cura diligente e speciale sollecitudine come per loro»; 5 cosa che mantenne diligentemente finché visse e volle che fosse mantenuto dai suoi frati. 6 Perché mai ci allontanassimo dalla santissima povertà che avevamo iniziato, né noi né le successive suore, poco prima della sua morte ci scrisse la sua ultima volontà, dicendo: 7 «Io piccolo frate Francesco voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, ed in essa perseverare sino alla fine. 8 E supplico voi, mie signore, e ve ne dò consiglio, di vivere sempre in questa santissima vita e povertà. 9 E guardatevi bene di non allontanarvene in alcun modo, per la dottrina o il consiglio di chicchessia**». 10 Come io fui sempre sollecita di custodire con le mie suore la santa povertà che promettemmo al Signore Iddio e al beato Francesco: 11 così le abbadesse che mi succederanno nel governo e tutte le suore siano tenute ad osservarla inviolabilmente sino alla fine: 12 non ricevendo né ritenendo possessioni o proprietà né personalmente né per mezzo di altri, 13 e nemmeno quanto ragionevolmente può esser detto proprietà, 14 se non quel poco di terra sufficiente per l’onestà e l’isolamento del monastero; 15 né quella terra venga lavorata, se non come orto per loro necessità. _________________ Note al CAP. VI In questo capitolo si avverte una preoccupazione di san Francesco: considerare il Secondo Ordine come parte essenziale di un unico impegno di vita evangelica; l’impegno di Chiara sarà quello di rispondere a tale vocazione.

*Questo versetto contiene il programma di vita dato da Francesco a Chiara e alla sorelle (Da notare che il Santo di Assisi quando parla – qui e altrove – lo fa al plurale, perché si rivolge all’intero gruppo delle Damianite; Chiara, poi, non è mai nominata col termine “sorella”, ma con espressioni di tono biblico, quali “cristiana”, “domina” o “poverella”): si tratta di un programma, detto “forma vivendi”, che Chiara considera la base e il nucleo spirituale della sua famiglia religiosa; tutto il suo cammino, dall’inizio alla morte, è segnato dal desiderio di realizzare la “forma vivendi”. I termini “figlie ed ancelle”, “fatte spose”, “Padre celeste”, “Spirito Santo”, “Santo Vangelo = Gesù Cristo”, sono gli stessi usati da Francesco per invocare Maria vergine, sedici volte al giorno, come riportato nell’antifona dell’Ufficio della Passione. Anche Chiara si specchierà sul volto della Vergine. L’unica differenza da lei apportata sta in questo: la proposta di Francesco è trinitaria, la realizzazione vissuta da Chiara è cristocentrica.

**La richiesta di Francesco di non dare ascolto a chi consiglia di abbandonare la povertà, viene ripetuta, dodici anni dopo, da Chiara nei confronti di Agnese di Praga (2ECla 15-17: FC 17). Viene ripresa, in qualche modo, anche da papa Gregorio IX, sebbene in senso contrario (6Gre: Angelis Gaudium: BF, I, p. 243, col. II, B).

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Approfondimenti

Accanto alla dimensione della fraternità, la forma di altissima povertà, personale e comunitaria, è la principale conseguenza della scelta evangelica che caratterizza la comunità di Chiara all’interno del panorama monastico femminile medievale. Nel capitolo 6, dalla memoria della primitiva forma vivendi di Francesco, Chiara passa a quella di un testo carismatico di non minore importanza. Nella cosiddetta ultima volontà Francesco, riconfermando fino alla morte la sua scelta di seguire Gesù povero, consegna alle sorelle di San Damiano la sua più profonda ed essenziale esperienza di vita. L’ultima volontà per se stesso è anche l’ultima volontà per Chiara e le sorelle. Vedendo quale evoluzione stava avendo la sua fraternitas, Francesco sembra affidare alle sorelle l’eredità della sua intuizione. A più di vent’anni dalla ultima voluntas e dalla morte di Francesco, Chiara si sente investita della sua “eredità difficile”. Chiara su questo punto è inflessibile: le abbadesse e le sorelle future sono tenute a osservare la povertà inviolabiliter, avverbio usato solo per un altro legame imprescindibile per le Sorelle povere, quello dell’obbedienza ai successori di Francesco (RsC 1,4).

I versetti 12-15, introdotti da videlicet, sono esplicativi di 10-11: in modo assai dettagliato precisano in che cosa consiste concretamente «la santa povertà promessa a Dio e al beato Francesco», segnano i confini entro i quali un monastero potrà dirsi di Sorelle povere oppure no. Per Chiara la povertà materiale è la “forma” esterna del suo vivere il vangelo, il banco di prova umile e quotidiano della fede nel Padre celeste.

Rispetto alle Regole di Francesco varia il contenuto della povertà: non è il divieto di ricevere denaro, che la Forma vitae legittima per il sostentamento, ma il divieto di avere proprietà terriere. I passi paralleli del Testamento (53-55) sono a questo riguardo molto espliciti. Non siamo nel contesto di una fraternità apostolica e itinerante, ma in quello di una comunità penitenziale-monastica che per molti anni si è trovata inserita, suo malgrado, nell’alveo tradizionale con la professione della Regola benedettina. È la mancanza di proprietà terriere che qualifica l’identità clariana all’interno dell’istituzione monastica. Tuttavia il divieto non è assoluto: Chiara ammette che si possieda quel tanto di terra necessario per l’honestas e la remotio del monastero. Bellissimo l’equilibrio di questa donna, davvero cristiana, che non si fa un idolo neppure della povertà, che è per la sequela di Cristo, non fine a se stessa. Un monastero di stretta reclusione, come quello di San Damiano, ha bisogno di uno spazio vitale che garantisca il silenzio, l’equilibrio interno delle persone e della fraternità. E qui le due correnti, francescana e monastica, le due anime della Forma vitae si incontrano e si scontrano in ciò che hanno di apparentemente inconciliabile. Il sine proprio, il nihil habere sub caelo con il quantum terrae necessitas requirit, l’itineranza di Francesco con la stabilitas di Benedetto, l’insicurezza per la sequela con la sicurezza per la contemplazione... Chiara accorda queste antinomie con la sapienza del cuore che la caratterizza, ma siamo sul filo del rasoio: la precisione nel definire i termini della questione mostra che lei stessa si avvedeva di quanto fosse fragile quest’equilibrio, di quanto fosse insidiosa la tentazione di omologarsi agli altri monasteri. E San Damiano, negli anni 1250-53, si trovava sempre più solo a vivere questa follia della fede nella parola del vangelo.

Notiamo a questo proposito una differenza tra Forma vitae e Testamento: la Regola permette solo un terreno intorno al monastero con la duplice funzione di isolamento e di orto; il Testamento prevede la possibilità che oltre all’orto le sorelle abbiano un pezzo di terra per l’isolamento del monastero fuori dei confini dell’orto, terra che deve rimanere incolta. Il discernimento sulla reale necessitas è lasciato all’abbadessa e alle sorelle, responsabili in prima persona del carisma: extrema necessitas ribadisce per due volte il Testamento. Tra le righe Chiara mette in guardia le sorelle dall’avidità di possedere terre che facilmente, anche per fini legittimi, si poteva insinuare nel loro cuore. Oltre alle vicende dell’ordo sancti Damiani, aveva forse davanti agli occhi uno dei più eloquenti esempi della storia monastica, quello dei Cisterciensi, che poco dopo la morte di Bernardo di Chiaravalle (1153) si era progressivamente allontanato dai principi di stretta povertà su cui era fondato: a forza di acquistare terre intorno ai monasteri, per quel morbus aquirendi rilevato dai Capitoli generali, e di produrre in sovrappiù grazie alla manodopera gratuita dei conversi, i Cisterciensi si erano buttati nell’economia di profitto, divenendo una vera potenza rurale, ben maggiore di quella che contestavano alle abbazie benedettine tradizionali da cui, almeno nelle intenzioni originarie, avevano voluto discostarsi per un’osservanza più stretta della Regola.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO V

IL SILENZIO, IL PARLATORIO, LE GRATE

1 Dall’ora di compieta fino a terza, le suore osservino il silenzio, eccetto le inservienti fuori del monastero. 2 Sempre in silenzio restino in chiesa, nel dormitorio, nel refettorio quando mangiano; 3 ma non nell’infermeria, dove sia lecito parlare con discrezione, per la ricreazione ed il servizio delle suore inferme. 4 Possano tuttavia sempre e dovunque scambiarsi sottovoce e brevemente quanto è necessario. 5 Al parlatorio e alla grata non sia lecito alle suore parlare se non con il permesso dell’abbadessa o della vicaria. 6 Inviate al parlatorio, non osino parlare se non in presenza di due suore che ascoltino. 7 Né presumano di accedere alla grata, se non alla presenza di almeno tre delle otto discrete assegnate dall’abbadessa o dalla vicaria, elette da tutte le suore per consigliare l’abbadessa. 8 Questa disposizione valga anche per l’abbadessa e per la vicaria. 9 La grata si usi raramente. Alla porta poi non si vada mai. 10 Alla grata si aggiunga dall’interno una tenda, che non sia tolta se non durante qualche conferenza spirituale o quando qualcuna parla ad altri. 11 Ci sia anche la porta con due diverse serrature di ferro, ben munita di due battenti e spranghe: 12 perché soprattutto di notte sia serrata con due chiavi, di cui una sia tenuta dall’abbadessa e l’altra dalla sacrestana; 13 e resti sempre chiusa, eccetto quando si ascolta l’ufficio divino e per le ragioni dette sopra. 14 Nessuna può per nessuna ragione parlare alla grata prima della levata o dopo il tramonto del sole. 15 Al parlatorio resti sempre una tenda interna, che non deve essere rimossa. 16 Nella quaresima di san Martino e nella quaresima maggiore, nessuna acceda al parlatorio, 17 se non per il sacerdote a causa di confessione o per altra manifesta necessità, che viene riservata alla disposizione dell’abbadessa o della sua vicaria.

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Approfondimenti

La Forma vitae clariana_ coniuga assenza totale di possedimenti e stretta clausura, resa possibile dall’assistenza dei frati che risiedono accanto al monastero. La sua scelta religiosa evangelico-penitenziale da questo punto di vista va inquadrata nel più ampio fenomeno del “ritorno al deserto” che si diffuse in Europa dal secolo XI e che portò sia a nuove forme di vita regolare – come Camaldoli, Citeaux, la Chartreuse – sia a svariate espressioni di eremitismo e di reclusione maschile e soprattutto femminile nei pressi delle città. È una sete di solitudine, di silenzio, di penitenza, di libertà profonda per cercare Dio che anima queste forme di vita, tra cui quella delle sorelle di San Damiano, sebbene le sue origini strettamente legate alla fraternitas di Francesco le abbiano conferito un’impronta del tutto singolare rispetto agli altri insediamenti centro-italici delle pauperes moniales inclusae.

Nel capitolo 5 la triplice modalità di rapporti con l’esterno – apertura per parlare, grata della chiesa, porta – è affrontata da Chiara sempre in forma negativa. È sua la precauzione che le sorelle presenti ai colloqui alla grata siano tre discrete, come pure la limitazione di tempo_ «Nessuna può per nessuna ragione parlare alla grata prima della levata o dopo il tramonto del sole» (5,14) e la normativa sulle due chiavi, che di notte vanno custodite una dall’abbadessa e l’altra dalla sacrestana, come avviene per le chiavi della porta d’ingresso. Così come del tutto suo sarà il divieto che alcun estraneo entri in monastero prima della levata del sole o vi rimanga dopo il tramonto (11,8). Perché queste norme di tono restrittivo? Si può parlare anche in questo caso di inserzioni negative venute a rispondere a delle problematiche che nel corso degli anni si sono presentate a San Damiano? È difficile dirlo. Anche altrove nella Forma vitae vediamo Chiara assai diffidente verso tutto ciò che può mettere in pericolo l’honestas delle sorelle, la loro bona fama, l’integrità della loro consacrazione a Cristo.

Ci sono al contrario delle differenze di segno opposto, che mostrano come per Chiara le norme sulla clausura non sono mai esasperate, ma sono situate all’interno di una gerarchia di valori. Due di queste differenze riguardano la grata della chiesa, che doveva avere un rilievo particolare nella struttura del monastero, se le sono dedicati ben sette versetti. Mentre al _locutorium-– il panno che ricopre la lamina perforata non viene mai rimosso, alla grata la Forma vitae, diversamente dalle regole papali, ammette due eccezioni: per la predicazione della parola di Dio e quando una sorella parla a qualcuno (5,10), due motivazioni in se stesse così diverse, ma accomunate dalla “parola”. Nessun accenno esplicito, per il secondo caso, all’uso di coprirsi il volto, aggiunto da Innocenzo alle norme sulla grata della forma vivendi date dal cardinale Ugolino. Questa possibilità di contatto più diretto rispetto al parlatorio dove non c’era la minima visibilità può spiegare la serie di precauzioni notate sopra nei confronti dei colloqui alla grata – rarissimi del resto, come dice Chiara stessa più avanti – e forse nella maggioranza dei casi riguardanti gli incontri con i parenti. Un’altra differenza con le regole papali è l’omissione del motivo per cui l’abbadessa è tenuta ad osservare il modo di parlare pubblicamente richiesto a tutte le altre sorelle (notiamo qui il colpo di penna di Chiara, più che significativo di un modo di comprendere la realtà: legem loquendi è diventato formam loquendi). In Chiara la questione si pone su un altro piano: ciò che conta non è tanto l’evitare motivi di detrazione, ma la condivisione della vita comune, senza eccezioni neppure per l’abbadessa.

Il capitolo 5 si chiude con una di quelle delicatezze che fanno di Chiara la mater provida et discreta che lei stessa così bene descrive nel Testamento (TestsC 63). Al divieto di accedere al parlatorio durante le due quaresime, non previsto dalle regole papali, la madre può fare delle eccezioni. Il discernimento della necessità è affidato alla providentia dell’abbadessa o della sua vicaria. E qui la nuova trascrizione della Solet annuere ci ha restituito una sfumatura clariana tra le più belle: providentia al posto di prudentia come in 9,17. Provideo: videre pro. È un prendere coscienza delle situazioni, delle necessità in favore degli altri, discernendo dentro ad ogni situazione concreta, valutando ciò che è meglio per ogni persona.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO IV

ELEZIONE ED UFFICIO DELL’ABBADESSA, IL CAPITOLO, LE UFFICIALI E LE DISCRETE

1 Le suore siano tenute ad osservare la forma canonica nell’elezione dell’abbadessa. 2 Procurino a tempo di avere il ministro generale o un provinciale dell’ordine dei frati minori, 3 che le istruisca nella parola di Dio, perché l’elezione avvenga nella concordia di tutte e per la comune utilità. 4 Non sia eletta nessuna non professa. 5 Se venisse eletta una non professa, o in altro modo, non le si obbedisca, se non avrà prima professato la forma della nostra povertà. 6 Alla sua morte, sia eletta un’altra abbadessa.

7 Se ad un dato momento sembrasse alla generalità delle suore che la suddetta abbadessa non fosse conveniente al servizio e alla utilità di esse, 8 le predette suore siano tenute, quanto prima, ad eleggersi un’altra abbadessa e madre nella stessa forma.

9 L’eletta poi consideri quale onere ha ricevuto, e a chi dovrà «render conto» del gregge affidatole (cf Mt 12,36; Lc 16,2; Eb 13,17). 10 S’impegni soprattutto di precedere le altre nelle virtù e nei santi costumi, piuttosto che nell’ufficio, perché le suore le obbediscano perché provocate dal suo amore più che dal timore. 11 Si guardi da affetti particolari, perché amando di più qualcuna, non sorga scandalo tra tutte. 12 Consoli le afflitte. Sia anche «ultimo rifugio a chi soffre» (cf Sal 32 (31), 7), perché se presso di lei venisse meno il sostegno della salute, non prevalga nelle inferme il male della disperazione.

13 Serva in ogni modo alla comunità, ma soprattutto in chiesa, in dormitorio, al refettorio, nell’infermeria e nel provvedere le vesti: 14 e la vicaria sia tenuta agli stessi obblighi.

15 L’abbadessa sia tenuta a riunire le suore a capitolo* almeno una volta la settimana; 16 dove lei e le suore sian tenute a confessare umilmente le offese comuni e pubbliche e le negligenze. 17 Lì conferisca con tutte le suore delle cose riguardanti l’utilità e l’onestà del monastero; 18 spesso infatti il Signore rivela alla più giovane** ciò che è meglio. 19 Non si facciano debiti gravi, se non con il comune consenso delle suore e per necessità manifesta; e questo attraverso il procuratore. 20 Badi l’abbadessa con le sue suore che non sia accettato in monastero alcun deposito, 21 poiché spesso da questo sorgono turbamenti e scandali.

22 Per conservare l’unità dell’amore vicendevole e della pace, con il consenso di tutte le suore, vengano elette le ufficiali del monastero. 23 Così vengano elette almeno otto suore come discrete, delle quali l’abbadessa possa servirsi in quanto è richiesto dalla forma della nostra vita. 24 Le suore possano e debbano, se sembrerà utile, rimuovere tali ufficiali e discrete ed eleggerne altre al loro posto.

_________________ Note al CAP. IV *4,15-21: È evidente l’intenzione della conduzione comunitaria del monastero, dove il capitolo riveste una decisiva autorità. Chiara vede il suo ufficio materno come una sequela della perfezione del santo Vangelo: Gesù è il Maestro e la guida, lei e le sorelle sono delle “ancelle” che lo seguono e conducono un’esistenza al modo delle pie donne, sullo stile di Maria vergine e di Maria di Betania. Si tratta di una vita contemplativa, di famiglia, di penitenza per la Chiesa e di lavoro nella comunità, che matura grazie ad atteggiamenti concreti di carità, servizio e collaborazione, nel silenzio e nella clausura.

_**In questo verso compare fino ad oggi il termine latino “minori”, mentre la bolla scrive “iuniori”; cioè il Signore rivela “alla più giovane” ciò che è meglio._

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Approfondimenti

Dalla dimensione evangelica della fraternità scaturisce una forma di autorità e di governo logicamente conseguenti: in questo Chiara non è “democratica”, è semplicemente cristiana. È fondamentale a questo riguardo analizzare il capitolo 4. Dopo aver precisato le modalità di elezione dell’abbadessa e della sua eventuale deposizione, al versetto 8 inizia la sezione dedicata a colei che è eletta come «abbadessa e madre», di cui vengono delineate le qualità e i compiti. Ci soffermiamo sui versetti 8-9, perché sono paradigmatici del rapporto che Chiara aveva con la Regola di Benedetto, in questo caso – e non poteva essere altrimenti, essendo la regola base dell’istituzione monastica – presa come testo di riferimento principale.

Vediamo in proposito qualche differenza significativa con la Regola benedettina: per Benedetto il criterio primario di scelta dell’abate è quello delle qualità personali (RBen 64,2); per Chiara in primo piano sono l’unità e il bene della comunità. La Regola benedettina prevede il caso che il priore venga deposto (65,18-20) per il suo comportamento indegno. Per la Regola non bollata 5, 3-4 il ministro generale può essere destituito dall’incarico nel capitolo di Pentecoste se vive carnaliter et non spiritualiter. Nella RsC invece, come nella Rb, pur rimanendo il principio del cosiddetto “controllo dal basso”, non si fa accenno a un’indegnità morale e di comportamento dell’abbadessa, ma semplicemente del suo non essere più in grado di servire l’utilità comune della fraternità, senza specificazione dei motivi.

Chiara non cita quasi mai letteralmente la Regola di San Benedetto, se non in 4,15 riguardo al capitolo settimanale; prende a prestito concetti ed espressioni variandoli liberamente, combinando passi differenti, a volte anche estrapolandoli dal loro contesto, con la stessa modalità letteraria usata nelle lettere ad Agnese di Boemia nei confronti delle fonti liturgiche e patristiche. Questa modalità di citazione deriva da una conoscenza ampia, dettagliata e profonda del testo, da una frequentazione abituale.

La preoccupazione che l’abbadessa osservi in tutto la vita comune assente nelle altre Regole, nasce dagli abusi che si verificavano frequentemente nei monasteri e di cui si trova traccia nel canone 26 del Concilio Lateranense II del 1139. In questa prima presentazione dell’autorità Chiara pone l’abbadessa sul piano delle altre sorelle, vuole che sia una come tutte le altre senza privilegi o distinzioni di sorta. Nel capitolo 10, dove riprende il tema in parallelo con la Regola bollata, completa la sua visione “kenotica” dell’autorità, ponendo l’abbadessa addirittura al di sotto delle altre, come serva di tutte le sorelle: la familiarità è qui descritta infatti come caratteristica fondamentale del rapporto tra l’abbadessa e le sorelle, al pari di tutti i rapporti all’interno della fraternità. Alla base c’è un valore evangelico ben più profondo di un semplice atteggiamento esteriore: è la minorità, la povertà di sé che sta proprio al centro dell’intuizione francescana e che plasma dal di dentro tutte le espressioni della vita. La figura biblica di riferimento è il Dominus che si è fatto servus: di Gesù servo la madre deve essere presenza e segno. Per questo Chiara, seguendo Francesco, chiede che l’abbadessa sia serva di tutte le sorelle, ancilla, come lei stessa si definisce, al punto che le sorelle dicere possint ei et facere sicut dominae ancillae suae (10,4): «L’abbadessa abbia tanta familiarità nei loro confronti che possano parlarle e trattarla come le signore con la propria serva»). Non che con questo venga meno la dimensione dell’obbedienza, tutt’altro, solo che questa ha come unica motivazione non il rispetto dell’autorità, ma la promessa fatta a Dio: «Le sorelle suddite poi ricordino che per Dio hanno rinnegato le proprie volontà. Perciò siano fermamente tenute ad obbedire alle loro abbadesse in tutto ciò che hanno promesso al Signore di osservare e non è contrario all’anima e alla nostra professione» (10,2-3). Poche parole per ricordare alle sorelle le motivazioni di una scelta, la scelta della sequela di Cristo secondo il vangelo, che ha in sé il suo sufficiente valore e nel cui ricordo c’è già tutta la forza dell’obbedienza.

Centrale nella struttura comunitaria clariana è invece il ruolo del capitolo. Con sapiente intuizione la Forma vitae clariana unisce pertanto in un’unica riunione il momento penitenziale – quello che nel corso dei secoli si era strutturato come capitolo delle colpe e si svolgeva solitamente dopo l’ora di Prima – e il momento di trattazione delle questioni comunitarie, ciò che riguarda l’utilitas et honestas monasterii. Dietro questo legame c’è un’intuizione profonda: quando tutte, madre e sorelle, hanno confessato le proprie mancanze contro la comunità, gli animi si trovano nella migliore disposizione, in umiltà e verità, a trattare ciò che riguarda il bene di tutte, senza che interessi personali o sentimenti negativi vengano a interferire sul discernimento. Niente come il riconoscimento del proprio peccato apre il cuore all’azione dello Spirito. Verità, umiltà e familiarità caratterizzano dunque il capitolo clariano. Non c’è accenno alla proclamatio, l’accusa reciproca, neppure si dice esplicitamente che l’abbadessa impone la penitenza o fa l’esortazione, cosa forse scontata. Chiara vuole sottolineare, ancora una volta, che la madre è sul piano delle altre, accomunata dalla confessione delle proprie colpe. Lungi dall’essere solo un esercizio ascetico-penitenziale, come veniva vissuto primariamente in altri Ordini, il capitolo della Forma vitae è il momento privilegiato d’incontro della comunità in cui l’unità dell’amore reciproco, attraverso il perdono dato e ottenuto, si rinsalda e cresce di intensità.

Su questa linea si situano anche gli altri due elementi della struttura comunitaria: le officiali e le discrete, che vengono elette da tutte le sorelle. Rispetto all’ordinamento benedettino si è operato un rovesciamento. «Riteniamo perciò necessario – per salvaguardare la pace e la carità – far dipendere unicamente dall’abate tutta l’organizzazione del suo monastero» (RBen 65,11). Lo stesso fine, la custodia della pace e della carità o l’unità dell’amore reciproco, viene raggiunto in due modalità opposte: in Benedetto si crea unità dall’alto, affidando a uno solo il governo del monastero; in Chiara dal basso, corresponsabilizzando le sorelle e facendole partecipare, con peso giuridico, alle decisioni che riguardano la vita della comunità, qui in particolare la scelta delle officiali e delle discrete, o addirittura la loro rimozione nel caso che questo sembri utile et expediens (semplicemente «utile e conveniente»: che fiducia Chiara dimostra verso la rettitudine delle sorelle!). Una tale audacia evangelica non era scontata, neppure nel XIII secolo: basta esaminare qualche testo contemporaneo a Chiara, come le Istituzioni di San Sisto in Roma, secondo le quali la priora viene eletta da alcune sorelle tra le più anziane e prudenti, scelte dalla comunità, mentre le officiali sono nominate o deposte dalla priora stessa col consiglio delle medesime sorelle. Chiara sceglie un cammino inverso che presuppone una crescita comune nella libertà evangelica, nel discernimento del bene da attuare uscendo dalla ristrettezza degli interessi e delle posizioni personali.

Delle officiali non si dice altro se non della modalità di elezione: doveva essere scontato di chi si stava parlando, delle sorelle incaricate di determinati compiti a servizio della comunità (portinaia, infermiera, celleraria, ecc.). Le discrete formano invece il consiglio più ristretto dell’abbadessa, la quale è tenuta – anche qui sottolineiamo l’obbligo – a servirsi del loro consiglio in alcune questioni diverse da quelle trattate in capitolo con tutte le sorelle, quelle attinenti alle singole persone.

Per la scelta delle consigliere dell’abbadessa torna la discretio come virtù fondamentale, al punto che un aggettivo assume il valore di sostantivo: non è l’età a contare, e neppure la sapienza dottrinale o i meriti personali – le qualità richieste nella scelta dei decani –, ma la discretio, «madre di tutte le virtù» dice Benedetto, che è capacità di discernere il bene in tutte le situazioni. Si è affermato erroneamente che l’istituzione delle discrete è una novità di Chiara: è invece un’istituzione del tempo che ritroviamo sia nelle Costituzioni prenarbonensi dei Frati minori, i consiglieri del custode, sia tra le Domenicane, le sorelle scelte per consigliare la priora. La novità di Chiara nell’ambito della struttura di governo non va dunque ricercata tanto nell’originalità delle istituzioni, quanto nello spirito di fraternità evangelica che le anima e le e orienta all’unico fine, l’unità dell’amore. Nel capitolo 4 Chiara raggiunge i vertici della sua abilità di legislatrice, integrando elementi monastici tradizionali ed elementi nuovi. Più che a delle norme ci troviamo di fronte allo specchio di una vita vissuta, con le sue problematiche e le sue risposte, intuite alla luce del vangelo e passate al vaglio in quarant’anni di esperienza personale.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO III

UFFICIO DIVINO, DIGIUNO, CONFESSIONE E COMUNIONE

1 Le suore che sanno leggere recitino l’ufficio divino secondo l’usanza dei frati minori, dal momento in cui potranno avere i breviari, senza canto*. 2 Coloro che per cause ragionevoli non potessero recitare le ore canoniche, dicano, come le altre suore, i Pater noster (cf Mt 6,9-13).

3 Quelle che non sanno leggere dicano ventiquattro Pater noster per il mattutino, cinque per le lodi, 4 per prima, terza, sesta e nona, sette per ciascun’ora; dodici per il vespro, sette per compieta. 5 Per i defunti dicano sette Pater noster con il Requiem aeternam, dodici a mattutino, 6 essendo le suore che sanno leggere tenute a recitare l’ufficio dei morti. 7 Quando poi morirà qualche suora del nostro monastero, recitino cinquanta Pater noster.

8 Le suore digiunino sempre. 9 Per il Natale del Signore, però, in qualunque giorno cada, possano mangiare due volte. 10 Per le giovinette deboli e per le inservienti fuori monastero, l’abbadessa con misericordia dia dispense. 11 In tempo di necessità manifesta, le suore non siano tenute al digiuno corporale.

12 Con il permesso dell’abbadessa, si confessino almeno dodici volte l’anno. 13 In quest’occasione, si guardino dall’aggiungere altri discorsi estranei alla confessione e alla salvezza dell’anima. 14 Si comunichino sette volte, cioè: per Natale, Giovedì santo, Pasqua, Pentecoste, Assunzione della beata Vergine, festa di san Francesco, Ognissanti. 15 Per comunicare le suore sane e quelle malate, al cappellano sarà permesso celebrare in clausura.

___________________ Note al CAP. III *In conformità alle disposizioni di recitare l’Ufficio secondo l’uso e i tempi dei Frati minori; interessante la proibizione di cantare, proprio in segno di distinzione dalle «coriste benedettine», in nome della povertà e della semplicità.

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Approfondimenti

I Frati minori avevano scelto di adottare non un rito locale qualsiasi o di un Ordine monastico, ma l’Ufficio celebrato dalla Curia papale, per significare lo stretto vincolo che univa la nuova fraternitas al papa e alla Sede apostolica, oltre che per un’esigenza di uniformità liturgica all’interno dell’Ordine. Il rito della Curia papale era poco diffuso fuori Roma. Era stato adottato anche dall’Ordine ospedaliero di Santo Spirito in Saxia sotto il pontificato di Innocenzo III. Per le Sorelle povere si tratta piuttosto di esprimere con l’unità liturgica l’appartenenza alla famiglia minoritica, nella direzione in cui già era andata la regola di Innocenzo IV del 1247. L’Ufficio adottato dalle Sorelle povere è quindi quello corrente nell’Ordine dei Frati minori, come si trova in Ordo breviarii e Ordo missalis fratrum minorum secundum consuetudinem romanae curiae frutto dell’adattamento operato dal ministro generale Aimone di Faversham nel 1243-44.

La distinzione chierici/laici per una comunità femminile ovviamente non può essere recepita se non come distinzione tra chi sa leggere e chi non sa leggere, già presente nella Rnb 2, dove si distingue tra chierici, laici che sanno leggere e laici che non sanno leggere, distinzione assente nella Rb, che fa differenza solo tra chierici e laici. La differenziazione tra sorelle che sanno leggere e quelle che non sanno leggere c’è anche nei testi di Ugolino e Innocenzo, dove si specifica pure la possibilità che le monache oltre che leggere sappiano anche cantare (per Ugolino è possibilità, per Innocenzo è dato di fatto).

La peculiarità della Forma vitae di San Damiano rispetto alla Regola bollata e alle due regole papali appare nella precisazione legendo sine cantu. In questa panoramica sulla Regola di Chiara non possiamo addentrarci nei particolari della problematica, che andrebbe approfondita in modo accurato. Ci pare tuttavia che sia in gioco qualcosa di importante, tanto più che in due versetti viene ripetuto per due volte il gerundio legendo. Mettiamo a confronto i due passi paralleli della Regola bollata e della Forma vitae clariana: «Clerici faciant divinum officium secundum ordinem sanctae romanae Ecclesiae excepto psalterio, ex quo habere poterunt breviaria»; «Sorores litteratae faciant divinum officium secundum consuetudinem fratrum minorum, ex quo habere poterunt breviaria, legendo sine cantu». Quattro elementi:

  1. la prescrizione della recita dell’Ufficio divino;
  2. il rito adottato;
  3. i libri liturgici;
  4. un’eccezione al rito stesso adottato:
  • excepto psalterio per i frati nei confronti dell’ordo della Curia papale;
  • legendo sine cantu per le sorelle nei confronti della consuetudo dell’Ordine minoritico.

Al sine cantu si sono date varie interpretazioni più o meno ampie, ma esaminando altri testi normativi medievali vediamo che in essi significa solo e semplicemente “senza canto”, in opposizione a in cantu o cum cantu.

L’esclusione del canto per le Sorelle povere le distingue dal monachesimo tradizionale di cui anche l’ordo sancti Damiani alla fine degli anni ’40 era ormai per molti aspetti un’espressione: basta guardare la rilevanza che nei testi paralleli di Ugolino e Innocenzo ha il canto come elemento della lode di Dio e strumento di edificazione per coloro che ascoltano. Ma segna pure una differenza con l’Ordine francescano stesso, per il quale il canto era diventato parte integrante della propria liturgia, mentre l’itineranza della prima fraternitas si stava tramutando in stabilità monastica. L’Ufficio curiale era diurno e notturno, cantato in chiesa e recitato fuori di essa; per la celebrazione pubblica e corale si usava un breviario dal testo diffuso e completo, mentre per la recita privata fuori del coro i cappellani della Curia papale come poi i frati minori potevano usare un breviario ridotto – le letture del mattutino erano notevolmente abbreviate – e senza annotazioni musicali: testimonianza significativa è il Breviario di san Francesco. Chiara non adotta la liturgia corale, quella celebrata in canto nei conventi, che richiedeva libri costosi e un’accurata preparazione, ma la recita senza canto dei cappellani della curia papale o dei frati itineranti: una scelta di essenzialità, di sobrietà, di nudità della parola, di povertà anche nella forma di preghiera. È probabile che anche la modalità di celebrazione liturgica delle sorelle di San Damiano abbia avuto un’evoluzione, analogamente a quella della fraternità minoritica e di altre comunità femminili penitenziali le quali, in un progressivo processo di strutturazione monastica, da una preghiera prolungata consistente dalla recita di un determinato numero di Pater noster e prostrazioni, passavano alla celebrazione dell’Ufficio liturgico: pur nell’adozione dell’Ufficio regolare, che avvenne almeno fin dalla professione della forma vivendi di Ugolino e nel Processo di canonizzazione è testimoniata già prima del 1224, la modalità sine cantu è rimasta nella Regola definitiva quale segno e rimando alle origini penitenziali della comunità di San Damiano. Una rilettura dunque della propria identità, ancora una volta, in chiave evangelico-penitenziale più che monastica.

Significativa per il nostro sguardo al contesto penitenziale, oltre che altamente espressiva della libertà spirituale della nostra autrice sempre attenta più alla persona che ha davanti che alla norma in se stessa, è la possibilità data alle sorelle che ne fossero per giusto motivo impedite di sostituire la recita dell’Ufficio divino con un certo numero di Pater noster, analogamente alle sorelle che non sanno leggere. Nelle consuetudini monastiche, come nella Regola bollata, tale sostituzione era propria dei laici o degli illetterati che non partecipavano all’Ufficio corale, così pure in alcune regole laicali come il Memoriale propositi dell’ordine laicale dei Penitenti o quelle degli ordini cavallereschi dei Templari, approvata dal Concilio di Troyes del 1128, e dei cavalieri di Santiago. Una prescrizione simile a quella di Chiara si trova nella versione del 6 giugno 1252 della Quoniam frequenter del cardinale Rainaldo: qui però la possibilità è ristretta a coloro che si trovano fuori clausura per motivi relativi al bene del monastero. Anche in questo caso dunque Chiara non inventa nulla, ma adotta ciò che già esiste e le sembra opportuno. La sua originalità, il suo tocco personale, diremmo, è lo spirito con cui anima la norma. Si limita a dire: «per un ragionevole impedimento». L’aggettivo rationabilis, usato anche per le uscite dalla clausura e per gli ingressi in monastero, è un termine che indica ragionevolezza, realismo, capacità di distinguere l’essenziale dall’accidentale. È proprio uno dei fili conduttori della Regola quello di lasciare all’abbadessa e alle singole sorelle un ampio spazio di discernimento del bene nelle diverse situazioni, appellandosi alla libertà e responsabilità di ciascuna: il che è molto più esigente rispetto a delle norme rigide e inflessibili, uguali sempre e per tutte.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO II

COME DEBBONO ESSERE ACCETTATE LE POSTULANTI

1 Se qualcuna, per ispirazione divina, verrà da noi per abbracciare questa norma di vita, l’abbadessa sia tenuta a richiedere il consenso di tutte le suore; 2 se la maggioranza acconsentirà, avuta la licenza del signor cardinale nostro protettore*, possa accettarla. 3 Se vedrà che debba essere accettata, la esamini diligentemente, oppure la faccia esaminare circa la fede cattolica e i sacramenti della Chiesa. 4 Se crederà tutte queste cose e vorrà con fedeltà crederle e osservarle sino alla fine, 5 né avrà marito o, se l’avesse, che egli sia già entrato in religione, con l’autorizzazione del vescovo diocesano, dopo aver emesso il voto di continenza; 6 ed anche se non vi sia impedimento per l’età troppo avanzata né debolezza per l’osservanza di questo genere di vita; 7 allora le si esponga con diligenza il tenore della vita nostra.

8 Se sarà ritenuta idonea, le si dicano le parole del Vangelo: «vada, venda» i suoi averi e s’impegni a distribuirli «ai poveri» (cf Mt 19,21). 9 Se non potrà farlo, basterà la buona volontà. 10 Si guardi bene l’abbadessa e le suore di agognare le sue sostanze temporali, perché liberamente possa disporne come il Signore l’ispirerà. 11 Se poi chiedesse consiglio, l’inviino a persone giudiziose e «timorate di Dio» (cf At 13,16), con il consiglio delle quali i suoi beni siano distribuiti ai poveri. 12 Tosata in tondo e deposte le vesti secolari, le siano date tre tonache ed il mantello. 13 D’allora in poi, non le sarà più lecito uscire dal monastero, senza una ragione utile, ragionevole, manifesta e probabile**. 14 Terminato poi l’anno della prova, sia ricevuta alla obbedienza, promettendo di osservare per sempre questa vita e forma della nostra povertà.

15 Nessuna sia velata durante l’anno di prova. 16 Le suore possano avere le mantellette per sollievo ed onestà di servizio e di lavoro. 17 Ma l’abbadessa le provveda con discrezione dei vestiti, secondo la qualità delle persone, i luoghi, i tempi, il freddo delle regioni, come vedrà convenire alla necessità. 18 Le giovinette ricevute in monastero prima del tempo d’età permessa, siano tosate in tondo; 19 e, deposto l’abito secolare, siano vestite dell’abito religioso, come parrà all’abbadessa. 20 Raggiunta l’età legale, rivestite come le altre, emettano la professione. 21 L’abbadessa provveda ad esse e alle altre novizie con sollecitudine una maestra, 22 che le istruisca nella santa conversazione e nell’onestà dei costumi, secondo la forma della nostra professione.

23 Nell’esame e nella recezione delle sorelle inservienti fuori del monastero, si osservi la forma predetta; e possano portare i calzamenti. 24 Nessuna possa con noi risiedere in monastero, se non ricevuta a norma della nostra professione. 25 E per amore del santissimo e dilettissimo bambino, «reclinato nel presepio, avvolto in poveri pannicelli» (cf Lc 2,7.12), e della sua santissima madre, ammonisco, supplico ed esorto le mie suore di vestirsi sempre di panni vili.

___________________ Note al CAP. II *Il cardinale protettore è una presenza determinante negli eventi e nella vita di Chiara e dell’Ordine.

**Chiara interpreta il significato della clausura in modo diverso dal card. Ugolino. Per lei è un modo per facilitare e proteggere la vita contemplativa, per garantire l’intimità con Dio e il dialogo orante delle sorelle. Si tratta di un’esigenza d’amore che vuole intrattenersi, senza distrazioni, davanti all’Eterno sommamente amato. È necessaria la libertà della mente dagli strepiti distrattivi, la libertà del cuore dagli affetti parentali e mondani, la libertà del corpo dalle futili esigenze fisiche (LCla 23,2-5: FC 520). La virtù teologale che vi soggiace è la carità dialogante con lo Sposo. Per il cardinale Ugolino, invece, l’attenzione si sposta su un piano diverso. Egli crea delle norme affinché le religiose siano salvaguardate da un punto di vista morale, in particolare in campo affettivo e nell’ambito della castità. La virtù di base è la prudenza, accompagnata dalla carità. Entrambe devono esistere e operare insieme, evitando gli inconvenienti negativi che l’una o l’altra potrebbero creare.

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Approfondimenti

Passando agli elementi che denotano il carattere penitenziale della forma di vita delle Sorelle povere, notiamo subito il risalto che la Regola dà all’atto di ingresso in monastero consistente nella tonsura, nella deposizione degli abiti secolari e nella consegna dell’abito di penitenza: tre tonache e il mantello. Non sembra prevista una differenza tra l’abito delle novizie e quello delle professe, come accade invece in Rb 2,9 in cui si parla espressamente di pannos probationis: le tonache dei novizi si differenziano da quelle dei professi perché senza cappuccio. Nulla di preciso si dice riguardo al velo, a cui invece la Regola di Innocenzo come poi quella di Urbano IV dedicano un certo spazio, precisando anche che le novizie lo devono portare bianco: per l’essenzialità che caratterizza tutto il testo clariano non ci si sofferma sugli usi comuni ai monasteri del tempo. La prescrizione Nulla infra tempus probationis veletur (2,15: «Nessuna sia velata durante il tempo di prova»), non indica la proibizione di avere il capo velato – era disdicevole che una donna tonsurata andasse a capo scoperto – ma, a nostro parere, formalizza il divieto di ricevere la consacrazione delle vergini durante il noviziato, analogamente alle costituzioni delle Domenicane di Montargis del 1250. In ambito monastico l’uso di dare l’abito ai novizi, ad eccezione della cocolla, era relativamente recente, poiché la Regola di Benedetto, come già quella del Maestro, concedeva l’abito religioso solo al termine del noviziato, al momento della professione. Mentre i primi Cisterciensi, fedeli alla stretta osservanza della Regola benedettina, continuavano a dare l’abito al termine dell’anno di prova, le Consuetudini cluniacensi diffusero l’uso di fare la tonsura e la vestizione all’inizio del noviziato. Nella Forma vitae di Chiara i gesti simbolici del taglio dei capelli e dell’assunzione dell’abito religioso posti subito dopo l’ingresso in monastero – notiamo che i passi paralleli di Ugolino e Innocenzo parlano solo del mutamento di abito, mentre alla tonsura si accenna solo nell’ambito degli usi della vita quotidiana – più che alle consuetudini recenti dei monasteri benedettini sono da collegare a quel contesto penitenziale femminile in cui si erano sviluppati nel corso dei secoli. Tonsura e assunzione dell’abito di penitenza segnano l’ingresso in quella categoria di “servi Dei”, di penitenti alla quale, da parte dell’autorità ecclesiastica, erano concessi taluni privilegi e, in particolare, difesa da possibili vessazioni di parenti o di autorità civili. Non meraviglia che, per una sorta di assimilazione al sentire comune, nei monasteri femminili medievali la tonsura, intesa come gesto di penitenza e di abbandono del mondo, ma anche come rito di iniziazione e di messa in tutela, si sia imposta già nell’alto Medio Evo. Chiara stessa nel corso del testo indica la sua scelta religiosa con i termini inequivocabili di «fare penitenza», come Francesco nel suo Testamento. Dunque per Chiara l’ingresso in monastero è già un radicale abbandono del mondo per porsi definitivamente al servizio di Cristo, benché il legame giuridico con la comunità si attui solo al momento della ricezione all’obbedienza. E chiaramente penitenziale è la qualità delle vesti, che la santa raccomanda con toni accorati in uno dei passaggi della Regola in cui la sua sensibilità spirituale emerge con toni del tutto personali. Siamo alla fine dello stesso capitolo 2. Dopo aver trattato dell’accoglienza e ricezione all’obbedienza delle sorelle che prestano servizio fuori del monastero e precisato la professione della forma di vita come condizione per risiedere in monastero, senza neppure spezzare la frase, esce in questa bellissima esortazione: _«E per amore del santissimo e dilettissimo bambino, «reclinato nel presepio, avvolto in poveri pannicelli» (cf Lc 2,7.12), e della sua santissima madre, ammonisco, supplico ed esorto le mie suore di vestirsi sempre di panni vili» (RCla 2,25). Fin dai primi secoli penitenti, chierici e monaci si distinguevano dai secolari per l’abito di qualità comune e il colore grigio o nero, bandendo vesti colorate, ornamenti vari e tutto ciò che poteva dare adito a lusso o vanità223. Chiara raccomanda quindi alle sorelle di mantenersi sempre, anche con l’aspetto esteriore, nella condizione di chi ha scelto la vita di penitenza, indossando indumenti di poco prezzo, vilibus, per quanto riguarda il tipo di stoffa e il colore. Notiamo una significativa differenza col testo parallelo di Francesco: anche il capitolo 2 della Rb si conclude con la stessa raccomandazione ai frati, ma cambia completamente la prospettiva. Nella RCLa non c’è il confronto con i ricchi di questo mondo che vestono sfarzosamente – pure fuori luogo per delle donne rinchiuse – e neppure la preoccupazione del disprezzo di se stessi, a cui esorta Francesco. In Chiara lo sguardo è solo rivolto al Bambino, santissimo e dilettissimo, avvolto in pannicelli poverelli (quanta tenerezza verso Gesù bambino esprimono i superlativi e diminutivi) e reclinato nella mangiatoia: per amore suo e della sua santissima Madre, che per prima ha condiviso la povertà del Figlio, vuole che le sorelle si vestano poveramente. Chiara non teme neppure di raddrizzare la rotta spirituale di Francesco, per mettere ancora una volta al centro della sua scelta penitenziale la contemplazione, amorosa e stupita, dell’incarnazione del Figlio di Dio.

Se l’abito è segno esterno della vita di penitenza evangelica, questo non impedisce che ogni sorella abbia le vesti di cui ha bisogno, secondo le caratteristiche di ciascuna, i luoghi e le stagioni: la Forma vitae 2,17 si ispira in questo alla Regola bollata e alla Regola benedettina, dove il discernimento attento e premuroso nel vestire i singoli monaci è uno dei compiti dell’abate. Proprio questo senso di discrezione e di attenzione alla persona, con le sue necessità e fragilità, porta Chiara a prevedere l’uso di mantellette per il servizio e il lavoro. La possibilità di usare un abito più agevole per il lavoro era già stata prevista sia da Benedetto, sia da Ugolino e Innocenzo: tutte e tre le regole prevedono in questo caso gli scapularia. Dai testi papali pare comunque che anche lo scapolare non fosse pratico da portare (grave et molestum dice Ugolino), per cui Chiara, con la sua grande discrezione e senso pratico, non lo adotta prevedendo al suo posto le mantellulas. Il mantello corto non è un’invenzione di Chiara, ma quanta sensibilità e premura materna possiamo cogliere in quel desiderio di alleviare alle sorelle il peso della fatica!

«D’allora in poi, non le sarà più lecito uscire dal monastero, senza una ragione utile, ragionevole, manifesta e probabile» (RCla 2,13) Chi entra tra le Sorelle povere e vi riceve i segni della penitenza, abbraccia fin dall’inizio anche l’impegno a vivere nella stretta reclusione. Con la sobrietà che la caratterizza, Chiara riassume in soli quattro aggettivi le motivazioni che possono giustificare un’eventuale uscita dal monastero: nelle Regole di Ugolino e di Innocenzo IV i casi vengono esplicitati più diffusamente e con una sottolineatura maggiore della severità della norma claustrale. È un motivo da discernere volta per volta, e anche in queste scelte emerge l’atteggiamento di fondo che è in Chiara, quello della fiducia nella capacità che le abbadesse e le sorelle, presenti e future, sapranno operare questo discernimento, a partire dal loro amore per ciò che è essenziale. Un discernimento che si appoggia per lei su questa libertà dell’amore e nell’amore.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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BOLLA DI PAPA INNOCENZO IV

Prologo

1 Innocenzo vescovo, servo dei servi di Dio. 2 Alle dilette figlie in Cristo Chiara abbadessa e alle altre suore del monastero di San Damiano d’Assisi, salute e apostolica benedizione. 3 La Sede apostolica è solita acconsentire ai pii voti e prestare un favore benevolo alle oneste richieste dei supplicanti. 4 Ora da parte vostra ci è stato richiesto umilmente che la forma di vita, nella quale dovete vivere in comune in unità di spirito e di povertà altissima, 5 datavi dal beato Francesco e da voi accettata spontaneamente, 6 e che il nostro venerabile fratello vescovo di Ostia e Velletri ha ritenuto fosse da approvare, come è detto con chiarezza nella lettera dello stesso vescovo, 7 noi dovessimo confermare con autorità apostolica. 8 Inclinati dunque alle richieste della vostra devozione, ritenendo legittimo e grato quanto sull’argomento ha fatto lo stesso vescovo, la confermiamo con autorità apostolica e con il patrocinio del presente scritto, 9 facendo inserire il tenore di quel testo verbalmente in questa bolla; il testo è questo: 10 Rinaldo*, per bontà divina vescovo di Ostia e di Velletri, alla sua carissima madre e figlia in Cristo donna Chiara, abbadessa di San Damiano d’Assisi 11 e alle sue suore, presenti e future, salute e paterna benedizione.

CAPITOLO I

NEL NOME DEL SIGNORE INIZIA LA FORMA DI VITA DELLE SORELLE POVERE 1 La forma di vita** dell’Ordine delle “Sorelle Povere”, istituito dal beato Francesco, è questa: 2 osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza proprietà e in castità. 3 Chiara, indegna serva di Cristo e pianticella del beatissimo padre Francesco,*** promette obbedienza e riverenza al signor papa Innocenzo e ai suoi legittimi successori e alla Chiesa romana. 4 E come all’inizio della sua conversione, insieme alle sue sorelle, promise obbedienza al beato Francesco, così promette di mantenerla inviolabilmente ai suoi successori. 5 Le altre suore siano sempre tenute ad obbedire ai successori del beato Francesco, a suor Chiara e alle altre abbadesse elette canonicamente. ___________________ Note al Prologo e al CAP. I *Rinaldo di Ienne, (fino a qualche decennio fa era più noto come dei Conti di Segni), cardinale protettore del monastero di S. Damiano e degli altri monasteri ad esso ispirati; fu anche protettore dei Frati minori. Ienne si trova nel Lazio, più precisamente sull’Aniene, a sud-est di Subiaco. Rinaldo, eletto papa col nome di Alessandro IV (1254-1261), canonizzerà Chiara.

**Forma di vita, o “Forma vivendi”, è l’espressione usata da S. Francesco (RCla 6,2); anche il card. Ugolino la definisce fin dall’inizio “Forma” (2Ugo 1,5: FC 2209) e non “Regola”, forse a motivo del Concilio Lateranense IV che vietava di creare altre Regule (CLat 13,1: FC 2200). Questa “forma” è esemplata sulla Regola bollata dei Frati minori: Chiara testimonia non a caso di essersi continuamente nutrita dei precetti e delle ammonizioni di Francesco.

***“Ancella di Cristo” e “Pianticella di Francesco”, sono due termini cari a Chiara: indicano i due aspetti della sua umile e grata relazione con Cristo e Francesco.

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Approfondimenti

Chiara si vide approvare la sua “Regola” con la stessa Bolla (“Solet annuere”), con la quale, nel 1223, era stata approvata quella di Francesco. Chiara desiderava ardentemente che la sua Regola fosse approvata prima della sua morte, e di questo parlò personalmente con Innocenzo IV che le fece visita nel monastero di San Damiano. Il papa concederà la sua approvazione, da Assisi. Tutto avvenne nei seguenti giorni del mese di agosto 1253: sabato 9 (firma della bolla), domenica 10 (consegna della bolla a Chiara), lunedì 11 (morte di Chiara).

È la prima “Regola”, nella storia della Chiesa, ad essere stata scritta da una donna per altre donne, e questo è importante, non solo come primato storico, ma anche perché lo scritto è pervaso da una sensibilità, che manca in altri documenti giuridici della stessa epoca.

Infatti, mentre Chiara vive quello che prescrive nella sua “Regola”, lo stesso non accadeva per i pontefici, che emanavano le altre (Ugolino e Innocenzo IV). Ad esempio, a proposito della clausura, nella “Regola di Chiara” si parla del silenzio e della cura delle ammalate o di altri aspetti della vita comune, con una capacità di adattamento affidata alla discrezione della abbadessa, che non appare negli altri testi, quasi irrigiditi nel loro “giuridismo”.

Un altro esempio, il confronto con le “Costituzioni di Montargis”, che furono utilizzate, nello stesso periodo, da monasteri di domenicane. In dette “Costituzioni” una larga parte è lasciata a una specie di “codice di punizioni”, nel quale si prevedono tutti i casi di colpa leggera, grave, gravissima per le pene corrispondenti. Nella “Regola di Chiara” non c'è nulla di tutto questo: prevale, invece, lo spirito di fiducia verso le “sorores” (“sorelle”), che dovranno vivere quanto si prescrive: vi è uno spirito esortativo, non impositivo, e il suo linguaggio è più spirituale ed evangelico che giuridico.

Tanto è vero che Chiara non usò mai la parola “Regola”, preferendo, invece, l'espressione “Forma di vita delle sorelle povere”.

Tratto da: Clarisse di Padova ● Gli scritti di S. Chiara d'Assisi


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CAPITOLO XII – DI COLORO CHE VANNO TRA I SARACENI E TRA GLI ALTRI INFEDELI

1 Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. 2 I ministri poi non concedano a nessuno il permesso di andarvi se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati. 3 Inoltre, impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità, 4 affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, l’umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso.

Pertanto a nessuno, in alcun modo, sia lecito di invalidare questo scritto della nostra conferma o di opporsi ad esso con audacia e temerarietà. Se poi qualcuno presumerà di tentarlo, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio onnipotente e dei suoi beati apostoli Pietro e Paolo.

papa Onorio III

Dal Laterano, il 29 novembre 1223, anno ottavo del nostro pontificato.

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Approfondimenti

Prima di ogni cosa Francesco sottolinea con forza e chiarezza che per andare in missione occorre la divina ispirazione, ossia mettersi nelle condizioni di ascoltare la voce di Dio e cogliere il suo divino volere. La dedizione all’attività missionaria verso popoli stranieri e comunità non cristiane è sempre frutto di un serio discernimento che l’autorità propone a coloro che sentono particolarmente questa vocazione apostolica.

Le condizioni richieste per andare tra i saraceni e gli altri infedeli sono le seguenti: avere il permesso del ministro provinciale ed essere idonei per questo tipo di missione. Sono indicazioni abbastanza generiche che lasciano intravedere il riconoscimento di un ruolo normativo più forte da parte del ministro provinciale, il quale non solo esercita un certo margine di discrezionalità per la valutazione dei frati candidati alla missione, ma è soprattutto il rappresentante della Chiesa e della stessa fraternità nel cui nome i missionari sono inviati. Verso la fine del XIII secolo, l’invio dei frati missionari divenne di competenza diretta del ministro generale. Tuttavia, molte volte alcuni frati erano direttamente designati dal papa e scelti per missioni abbastanza particolari, di natura anche diplomatica.

I frati non potevano improvvisarsi missionari, in quanto l’idoneità alla missione comportava una debita preparazione dottrinale da verificarsi con un esame da parte del ministro provinciale. Sicuramente, era necessario verificare anche lo stato di salute fisica dei frati che si aprivano alla missione.

Nel progetto di una fraternità in missione, l’andare tra i saraceni è una forma e una conseguenza dell’andare per il mondo che caratterizza in modo fondamentale lo stato di vita francescano. L’annuncio rivolto ai saraceni rientra in un progetto più grande di fraternità che si apre alla missione verso il mondo non cristiano. Questa collocazione è completamente persa nella Regola bollata perché il capitolo XII chiude completamente la Regola definitiva senza essere preceduto o seguito da un richiamo alla predicazione e alla missione. Non siamo a conoscenza del motivo dello spostamento avvenuto nella Regola definitiva. Forse si è voluto evidenziare lo stretto rapporto tra l’attività missionaria e i tempi più importanti della vita francescana, cioè la cattolicità, l’evangelicità e la povertà-umiltà. Difatti, il capitolo XII si occupa anche del particolare legame dell’Ordine con la Chiesa romana e offre una sintesi della stessa vita francescana.

Non possiamo e non dobbiamo negare il grande influsso che ebbe il cardinale Ugolino vescovo di Ostia (poi papa Gregorio IX) nelle origini e nell’evoluzione delle istituzioni francescane; il suo intervento si fece sentire fortemente nello sviluppo dell’Ordine e nella redazione della Regola definitiva; inoltre si prodigò come intermediario anche per diverse questioni nate all’interno delle prime comunità di frati e nei rapporti con la Curia romana. Pur convenendo con Francesco nella sostanza del suo ideale, egli aveva una visione molto diversa da quella del Poverello – che amava e venerava come inviato di Dio –, a proposito della vita fraterna, della missione dei frati e della loro presenza nelle istituzioni ecclesiastiche. Infine il cardinale di Ostia ottenne ai frati lettere commendatizie per poter essere accolti da tutti i prelati della Chiesa universale come cattolici e fedeli: questo, unitamente alla divisione in Provincie, permise all’Ordine di crescere e ai frati di maturare un’esperienza di missione e di fraternità allargata più convinta e significativa.

C’è una visione universale dell’Ordine minoritico che prende forma a partire dall’urgenza di annunciare il Vangelo e che si ricollega a un’immagine di Chiesa aperta verso il mondo e gli altri popoli. Francesco fece propria la visione di una Chiesa aperta al mondo e di una missione incompiuta, ritrovando, così, nelle diversità culturali e religiose, una possibile sfida e una grande risorsa per l’annuncio stesso del Vangelo.

Per quanto concerne la figura del cardinale protettore e l’obbedienza alla Chiesa, di cui ci parla nei vv. 3-4 di Regola bollata XII, possiamo dire che, ritornato dall’Oriente, Francesco prese atto delle difficoltà che insidiavano dall’esterno e ancor più dall’interno il cammino dell’Ordine. Così, durante il colloquio con papa Onorio III, chiese come cardinale protettore Ugolino di Ostia; tale richiesta assicurava lo stretto legame con la Chiesa cattolica e la continuità della Regola all’interno dell’Ordine. L’autorità del cardinale protettore fu limitata, nel tempo, a tre ambiti specifici: l’abbandono o l’allontanamento dalla fede cattolica; l’allontanamento dell’Ordine dall’obbedienza alla Santa Sede; la decadenza dell’osservanza della propria Regola. In tal senso, la figura autorevole del cardinale protettore è al servizio della comunione fraterna ed ecclesiale. È il caso proprio in cui l’istituzione garantisce l’affermarsi dinamico e positivo del carisma nella storia e nella vita della Chiesa.

La Regola si conclude proprio richiamando al senso di fedeltà totale verso la Chiesa di cui Francesco si preoccupò molto, specialmente negli ultimi anni di vita.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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