📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Il timore del Signore, questo è sapienza 1 Certo, l'argento ha le sue miniere e l'oro un luogo dove si raffina. 2Il ferro lo si estrae dal suolo, il rame si libera fondendo le rocce. 3L'uomo pone un termine alle tenebre e fruga fino all'estremo limite, fino alle rocce nel buio più fondo. 4In luoghi remoti scavano gallerie dimenticate dai passanti; penzolano sospesi lontano dagli uomini. 5La terra, da cui si trae pane, di sotto è sconvolta come dal fuoco. 6Sede di zaffìri sono le sue pietre e vi si trova polvere d'oro. 7L'uccello rapace ne ignora il sentiero, non lo scorge neppure l'occhio del falco, 8non lo calpestano le bestie feroci, non passa su di esso il leone. 9Contro la selce l'uomo stende la mano, sconvolge i monti fin dalle radici. 10Nelle rocce scava canali e su quanto è prezioso posa l'occhio. 11Scandaglia il fondo dei fiumi e quel che vi è nascosto porta alla luce. 12Ma la sapienza da dove si estrae? E il luogo dell'intelligenza dov'è? 13L'uomo non ne conosce la via, essa non si trova sulla terra dei viventi. 14L'oceano dice: “Non è in me!” e il mare dice: “Neppure presso di me!”. 15Non si scambia con l'oro migliore né per comprarla si pesa l'argento. 16Non si acquista con l'oro di Ofir né con l'ònice prezioso o con lo zaffìro. 17Non la eguagliano l'oro e il cristallo né si permuta con vasi di oro fino. 18Coralli e perle non meritano menzione: l'acquisto della sapienza non si fa con le gemme. 19Non la eguaglia il topazio d'Etiopia, con l'oro puro non si può acquistare. 20Ma da dove viene la sapienza? E il luogo dell'intelligenza dov'è? 21È nascosta agli occhi di ogni vivente, è ignota agli uccelli del cielo. 22L'abisso e la morte dicono: “Con i nostri orecchi ne udimmo la fama”. 23Dio solo ne discerne la via, lui solo sa dove si trovi, 24perché lui solo volge lo sguardo fino alle estremità della terra, vede tutto ciò che è sotto la volta del cielo. 25Quando diede al vento un peso e delimitò le acque con la misura, 26quando stabilì una legge alla pioggia e una via al lampo tonante, 27allora la vide e la misurò, la fondò e la scrutò appieno, 28e disse all'uomo: “Ecco, il timore del Signore, questo è sapienza, evitare il male, questo è intelligenza”“. _________________ Note

_28,1 A questo punto si interrompe il monologo di Giobbe e l’autore stesso dell’opera interviene, presentando in un inno la sua riflessione sulla sapienza.

28,16-19 Nei libri sapienziali è frequente il paragone tra il valore della sapienza e il valore delle pietre preziose (vedi ad es. Sap 7,9).

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Approfondimenti

Il timore del Signore, questo è sapienza 28,1-28 Questo poema presenta una sua peculiare configurazione e pertanto suscita sempre diversi interrogativi. Lo stile e soprattutto lo sviluppo originale del tema pongono la questione dell'origine dell'inno. Infatti si parla della sapienza, della ḥokmâ, non come patrimonio e conquista dell'uomo, ma come evento divino. L'inno celebra la sapienza di Dio inaccessibile all'uomo, e di fatto rappresenta una tappa iniziale nella riflessione che ha portato, all'interno della singolare tradizione di Israele, alla personificazione della sapienza e alla sua identificazione con il dono della torah (cfr. Prv 8; Sir 24; Bar 3,9-4,4). Si tratta di un itinerario che, dalla conoscenza esperienziale dell'ordine del mondo, ha portato in Israele a riconoscere la sapienza dapprima come l'ordine della creazione operata da Dio, e infine a identificarla con l'evento della rivelazione di JHWH al suo popolo, con il piano salvifico di Dio. Diversi commentatori hanno notato non solo che il tema dell'inno contrasta con le argomentazioni precedenti, non presentando alcuna connessione ovvia né con la Disputa, né con il Prologo, ma che l'inno in bocca a Giobbe anticipa anche, e dunque rende vani, i discorsi di Dio (cc. 38,1-40,2; 40,6-41,26). Essi pertanto lo considerano un'aggiunta posteriore. Altri studiosi, pur ammettendo l'originaria appartenenza del poema al libro di Giobbe, lo reputano un intermezzo o interludio, di carattere riflessivo, pronunciato dall'autore o da un altro locutore anonimo (per es. un coro), che, dopo l'intensità drammatica della Disputa, consente al lettore una pausa e un riposo. È indispensabile prendere sul serio il fatto che, dal punto di vista narrativo, l'elogio della sapienza si presenta come una continuazione del discorso di Giobbe (c. 27). Il narratore apre il discorso di Giobbe in 27,1, e il suo successivo intervento ricorre in 29,1, con una nuova introduzione. Dunque tra la fine del c. 27 e l'inizio del c. 28 non c'è alcuna cesura da parte del narratore, ma uno straordinario cambio di argomento nel discorso di Giobbe. Peraltro la particolare struttura del c. 28 e la modalità con cui il tema viene progressivamente sviluppato, conferiscono al poema un forte carattere unitario in sé compiuto. Nondimeno, il poema ha una finalità evidentemente didattica, sottolineata dal messaggio conclusivo indirizzato all'uomo (cfr. 28,28), e pertanto si accorda con l'intenzione di Giobbe che ha dichiarato (in 27,12) di voler istruire gli amici sull'azione di Dio. Inoltre il poema presenta un significativo tratto di stile che si ritrova in altre parti del corpo poetico dell'opera. Consiste in una forma particolare della tecnica dell'espansione, ed è caratterizzata da una serie di versetti in cui l'autore elenca delle copie di parole che significano a grandi linee la stessa cosa, o che hanno qualcosa a che fare con lo stesso argomento, o presentano una qualche attinenza con esso (cfr. 4,10-11; 18,8-10; 19,13-15; 41,18-22). Compare all'inizio del poema in 28,1-2 e più avanti in 28,15-19, dove ben dieci linee consecutive sono organizzate secondo questa tecnica. Anche la sorpresa che in tale caso il poema suscita, per la novità con cui l'argomento della sapienza viene proposto, appartiene alla raffinata creatività dell'autore. Un altro esempio emblematico in questo senso, e al quale rimandiamo, è riscontrabile nel contenuto, così originale, dei discorsi di JHWH nella teofania finale. Pertanto, la collocazione del poema appare particolarmente congruente con la dinamica della narrazione. Ponendo la questione del “luogo” della sapienza (28,12.20), Giobbe contesta la pretesa degli amici che spesso inutilmente si sono appellati all'esperienza (cfr. 4,8; 5,27; 8,8; 15,17-18) e che sono convinti di essere depositari della sapienza divina (cfr. 11,6; 15,8-9). D'altra parte Giobbe nei suoi discorsi ha ripetutamente affermato l'ignoranza dell'uomo al quale sfugge il senso di ciò che accade, e nel poema ribadisce che la sapienza resta inaccessibile all'uomo, ma appartiene al dominio di Dio (28,21-27). Le precedenti critiche di Giobbe a Dio pertanto non negano, ma suppongono un piano di Dio. E la sapienza sembra essere per Giobbe il piano di Dio su tutte le cose, che sorpassa infinitamente l'intelligenza umana. I discorsi di Dio confermeranno questa prospettiva che ora Giobbe sostiene contro le presunzioni degli amici e nel contesto dei molteplici interrogativi a Dio. Per queste ragioni siamo propensi a ritenere che questo poema (c. 28) sia stato composto per il libro di Giobbe dallo stesso autore che ha dato la fondamentale impostazione e consistenza all'opera (cfr. Introduzione), e che in modo pertinente lo ha posto a conclusione della Disputa. Il poema sulla sapienza presenta un'organizzazione tripartita, in relazione al motivo conduttore che pone la questione del “luogo” della sapienza, dove l'uomo può trovarla (28,12), poi ripresa più avanti (28,20) con la significativa variante sulla provenienza della sapienza.

vv. 28,1-11. In questa prima parte ricorre l'elogio dell'homo faber che con la sua investigazione e la sua tecnica sa trarre dalle oscure profondità della terra tutto ciò che è prezioso: metalli e pietre di grande valore (vv. 1-6). L'immagine della miniera sottolinea l'intraprendenza, l'impegno dell'uomo che va in cerca e carpisce alla terra il suo tesoro. L'uomo non ha antagonisti in questa attività. Infatti gli animali, per quanto feroci o perspicaci, non ne conoscono, né scorgono il sentiero (vv. 7-8). Solo l'uomo con il suo ingegno riconosce e porta alla luce quei materiali pregiati che la terra nasconde (vv. 9-11).

v. 12. Giunge a questo punto l'interrogativo fondamentale del poema (che sarà ripreso nel v. 20). L'uomo, di sua iniziativa e con la sua intelligenza conosce, recupera e si appropria di quanto è prezioso nella terra, ma dove si trova il luogo della sapienza, da dove egli può ricavarla?

vv. 13-19. La seconda parte del poema si apre con la risposta negativa, per l'uomo, alla questione sollevata. Infatti Giobbe sostiene che la sapienza non si trova sulla terra dei viventi (v. 13b), e non si raggiunge neanche nel mare o nelle sue profondità, nell'abisso (v. 14; cfr. 38,16; Prv 8,28-29). La sapienza non ha una fonte fisica, così che distruggendo la fonte anch'essa venga distrutta. La sapienza, inoltre, non solo non ha un luogo nel mondo, ma essa non ha alcun termine di confronto e di paragone; l'uomo non ne conosce il valore (v. 13a), né può procurarsela con lo scambio, il commercio, il mercato (vv. 15-19). Una prima conseguenza è dunque la sottile distinzione per cui l'uomo dispone della conoscenza tecnica e dell'abilità nello scambio delle risorse, ma non della sapienza.

v. 20. La questione del “luogo” della sapienza rimane ancora aperta e dunque ritorna. Ora però viene ripresa con l'importante variante che pone l'accento sulla provenienza della sapienza. Ma di quale sapienza si tratta? In che cosa consiste la sapienza di cui si parla? Infatti anche qui (come in 28,12) si dice hahokmâ, la sapienza, come un termine determinato con un significato ben conosciuto, mentre la sua definizione, di fatto, va ancora delineandosi. Ciò che intanto si può dire è che essa costituisce una realtà che si impone alla riflessione dell'uomo, ma che ne oltrepassa la capacità conoscitiva, benché dotata di grande ingegno.

vv. 21-28. Nella terza parte del poema la questione ottiene la soluzione. La sapienza si sottrae alla visione di tutti i viventi (v. 21; cfr. 28,7.13), e solo Dio comprende e conosce la via e il luogo della sapienza, perché è il creatore di tutto, perché è il Dio che vede (v. 24), che interviene negli avvenimenti, che compie ciò che è necessario per la vita delle sue creature. La regola e la misura che Dio ha fissato per gli elementi naturali (vv. 25-26) di fatto consentono l'esistenza permanente del mondo, che altrimenti andrebbe distrutto (cfr. Gn 6,13; 9,11; Is 54,9-10) e ricadrebbe nella situazione di informe desolazione delle origini (Gn 1,2). Ebbene, Dio si è avvalso della sapienza quando ha stabilito l'ordine dell'universo (v. 27; cfr. Prv 3,19-20; 8,27-31). La sapienza pertanto corrisponde al progetto della creazione di Dio, è il principio, il fondamento dell'organizzazione e dell'ordine cosmico. Essa è la ragione di essere del mondo, il segreto dell'ordine del mondo. La sapienza appare così concepita come una dimensione distinta da Dio, ma che tuttavia Dio solo conosce, possiede e di cui dispone. Essa, inoltre, è anteriore, preesiste e trascende la creazione, ma anche si realizza nel creato e nella storia umana, manifestando la continua benevolenza e fedeltà di Dio (cfr. Sal 136,5; 146,6). Alle investigazioni e speculazioni umane rimane inaccessibile la sapienza divina, ma essa viene all'uomo come dono di Dio. Infatti Dio, nell'evento della sua parola, rivela all'uomo la via della sapienza: essa non può essere raggiunta se non con il timore del Signore (cfr. v. 28; Sal 111,10; Prv 1,7; 9,10; 15,33; Qo 12, 13; Sir 1,14; 21,11). Peraltro il contenuto e la modalità con cui la sapienza viene proposta come parola rivelata da Dio e come parola vicina a ogni uomo (lā’ādām) richiamano indirettamente il dono sublime della torah (cfr. Dt 4,6-8; 30,11-14). In una fase successiva e più avanzata della riflessione in Israele, giungerà l'esplicita identificazione della sapienza con la torah (cfr. Sir 24,23; Bar 4,1). La sapienza per l'uomo, dunque, consiste nella partecipazione alla sapienza di Dio. Il timore del Signore costituisce infatti un atto di penetrazione in un significato più grande di sé, per cui si diventa capaci di guardare le cose dal punto di vista di Dio (cfr. Ger 9,22-23). Peraltro, ripetutamente, l'espressione «temere Dio ed essere alieni dal male» è stata usata, come un attributo di Giobbe, dal narratore (cfr. 1,1) e da Dio (cfr. 1,8; 2 3), e pur con delle variazioni vi hanno in qualche modo fatto riferimento gli amici (cfr. 4,6; 15,4) e lo stesso protagonista (cfr. 6,14). Tuttavia, solo ora è evidente che si tratta, prima di tutto, di un insegnamento divino che guida l'uomo alla sapienza. Esso attribuisce alla fede in Dio una funzione essenziale per il sapere, quella di porre l'uomo in un corretto rapporto con gli oggetti della sua conoscenza. Una differenza essenziale è che Giobbe aderisce a questo insegnamento in modo dinamico, itinerante, come in relazione a una promessa; per questo osa con Dio l'impensabile, mentre gli amici hanno ridotto ormai la conoscenza e il timore di Dio a un rigido calcolo razionalistico di osservazioni e di comportamenti, con i quali pretendono di stabilire come garantirsi il favore di Dio. Si comprende allora perché Giobbe non intende rinunciare (cfr. 27,2-6) al bene inestimabile della sapienza, per seguire le deviazioni degli amici. La funzione del poema si dispiega ormai chiaramente. A conclusione della Disputa, Giobbe respinge, in modo radicale e definitivo, la pretesa degli amici di essere rappresentanti e depositari della sapienza umana e divina. La sapienza infatti è presso Dio e in Dio, e con essa Dio ha stabilito il mondo. Il riconoscimento della sapienza divina non elimina, tuttavia, le questioni sollevate. Pertanto proprio perché solo Dio conosce il significato pieno degli avvenimenti, Giobbe rivolgerà, ancora, a Dio il suo appello appassionato. Infine, la presenza del poema, a questo punto della Disputa, evidenzia, se ancora fosse necessario, che ciò che è in discussione è il rapporto di Dio con l'uomo e con l'ordine cosmico. Esso tuttavia non può essere ridotto a una semplice questione di giustificazione di Dio di fronte all'esistenza del male (teodicea), o di giustificazione dell'uomo (antropodicea), bensì si propone come un problema innanzitutto gnoseologico, che mette a nudo la finitezza della conoscenza umana, e quindi teologico, che esplora la dialettica inesauribile tra rivelazione e nascondimento di Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giustizia di Giobbe ed elogio della sapienza 1 Giobbe continuò il suo discorso dicendo: 2“Per la vita di Dio, che mi ha privato del mio diritto, per l'Onnipotente che mi ha amareggiato l'animo, 3finché ci sarà in me un soffio di vita, e l'alito di Dio nelle mie narici, 4mai le mie labbra diranno falsità e mai la mia lingua mormorerà menzogna! 5Lontano da me darvi ragione; fino alla morte non rinuncerò alla mia integrità. 6Mi terrò saldo nella mia giustizia senza cedere, la mia coscienza non mi rimprovera nessuno dei miei giorni. 7Sia trattato come reo il mio nemico e il mio avversario come un ingiusto. 8Che cosa infatti può sperare l'empio, quando finirà, quando Dio gli toglierà la vita? 9Ascolterà forse Dio il suo grido, quando la sventura piomberà su di lui? 10Troverà forse il suo conforto nell'Onnipotente? Potrà invocare Dio in ogni momento? 11Io vi istruirò sul potere di Dio, non vi nasconderò i pensieri dell'Onnipotente. 12Ecco, voi tutti lo vedete bene: perché dunque vi perdete in cose vane? 13Questa è la sorte che Dio riserva all'uomo malvagio, l'eredità che i violenti ricevono dall'Onnipotente. 14Se ha molti figli, saranno destinati alla spada e i suoi discendenti non avranno pane da sfamarsi; 15i suoi superstiti saranno sepolti dalla peste e le loro vedove non potranno fare lamento. 16Se ammassa argento come la polvere e ammucchia vestiti come fango, 17egli li prepara, ma il giusto li indosserà, e l'argento lo erediterà l'innocente. 18Ha costruito la casa come una tela di ragno e come una capanna fatta da un guardiano. 19Si corica ricco, ma per l'ultima volta, quando apre gli occhi, non avrà più nulla. 20Come acque il terrore lo assale, di notte se lo rapisce l'uragano; 21il vento d'oriente lo solleva e se ne va, lo sradica dalla sua dimora, 22lo bersaglia senza pietà ed egli tenterà di sfuggire alla sua presa. 23Si battono le mani contro di lui e si fischia di scherno su di lui ovunque si trovi. _________________ Note

27,1 Nei cc. 27-31 (escludendo il c. 28) si sviluppa, sotto forma di monologo, una lunga riflessione di Giobbe, nella quale egli ribadisce quanto ha sempre sostenuto di fronte alle accuse dei tre amici.

27,2-23 Giobbe sostiene la propria innocenza. Per la vita di Dio: formula di giuramento. Questa formula compariva solitamente all’inizio di una solenne affermazione, chiamata “giuramento di innocenza”.

27,13-23 Questi versetti, nei quali vengono descritti i mali che colpiscono l’empio, sono considerati da alcuni come il terzo discorso mancante di Sofar (che continuerebbe con 24,18-24).

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Approfondimenti

Giustizia di Giobbe ed elogio della sapienza (27,1-28,28) Il collaudato svolgimento della Disputa prevedeva a questo punto l'intervento di Sofar. Giobbe e anche il lettore lo aspettavano. Invece Sofar non prende più la parola, e così Elifaz e Bildad dopo di lui. Il silenzio di Sofar è il segnale decisivo della fine di questa fase della narrazione. Il silenzio dei tre amici determina il cessare della Disputa e prepara, provoca altre svolte narrative (cfr. cc. 29-31 e poi, soprattutto, cc. 32-37). I tre amici hanno esaurito i loro argomenti, ma non Giobbe. Essi tacciono (cfr. 5,16; 11,2-3; 32,1-3.15-20; Sal 31,18-19; 107,42) esausti, sconfitti. Non solo hanno fallito nel loro intento primario, quello di consolare Giobbe (cfr. 2,11; 15,11), ma sono stati vinti dalla resistenza dell'amico. Giobbe ha difeso strenuamente la sua integrità fino a contendere con Dio; gli amici invece ritengono che ogni uomo è peccatore, e hanno sostenuto con vigore che la sua sofferenza è la dimostrazione incontrovertibile della colpevolezza, reputando inoltre il suo comportamento come una funesta ribellione all'ordine di idee e di eventi da loro presentato come divino. La Disputa ha messo in evidenza il graduale, progressivo radicalizzarsi delle posizioni. Elifaz, Bildad e Sofar convergono nel medesimo punto di vista, sono rappresentanti della stessa corrente di pensiero.

I loro argomenti godevano originariamente di un'approvazione sicuramente superiore rispetto a quella che il lettore moderno è disposto ad accordare loro. Essi sono esponenti di una sapienza tradizionale, proverbiale, che trae prevalentemente la propria conoscenza dall'osservazione di vicende che si ripetono. Inoltre, pur avvalendosi, di elementi del patrimonio storico e vitale di Israele con il suo Dio, hanno ridotto ormai la relazione tra l'uomo e Dio ad un calcolo interessato. Il punto di partenza e di arrivo dei tre amici, che dunque fa da inclusione dei loro discorsi, consiste nell'impossibilità per l'uomo di essere giusto davanti a Dio (cfr. 4,17 e 25,4; ma anche 15,14): un argomento che insiste sulla sfiducia definitiva nei confronti dell'uomo, ed esprime una sostanziale diffidenza nel rapporto fra Dio e l'uomo, come il Satan nel Prologo. Inoltre, poiché essi sono più preoccupati di conservare e di confermare le loro certezze, piuttosto che lasciarsi interpellare dagli interrogativi scomodi e senza precedenti di Giobbe, si manifesta nella Disputa la loro crescente insofferenza e il loro irrigidimento fino all'aperta conflittualità con Giobbe. Peraltro, la soluzione che essi prospettano a Giobbe, cioè di riconoscere il suo peccato, di accettare la correzione divina e soprattutto di rinunciare alla pretesa di una propria giustizia, a garanzia di una prosperità che Dio rinnoverà nei suoi confronti, propende in fondo al modo in cui trarre il proprio beneficio da Dio. Essi non sanno prescindere dalle proprie divisioni e classificazioni (colpevole/innocente, giusto/empio) e non si lasciano raggiungere dalla realtà che la tragedia di Giobbe mette a nudo: l'ignoranza dell'uomo sugli eventi della vita la difficoltà di decifrare l'agire di Dio. Pertanto essi rifiutano, al contrario di Giobbe, di inoltrarsi nelle dimensioni ancora inesplorate della comunicazione, della relazione e della conoscenza di Dio. Nondimeno la serrata opposizione dei tre amici ha contribuito alla maturazione, allo sviluppo di quel movimento e itinerario interiore di Giobbe, il quale si appella e lotta perché sa che Dio può dare risposta al suo grido.

Alcuni commentatori hanno ritenuto di individuare il terzo discorso di Sofar in 27,13-23 (e talvolta anche in 27,7-12), dove ricorre la descrizione della sorte dell'empio che presenta alcune affinità lessicali e tematiche con il suo ultimo intervento (cfr. c. 20). Ma la ripresa di tale argomento, spesso predominante nei discorsi degli amici, ha una funzione tutta particolare in questo discorso di Giobbe (cc. 27-28), ormai verso la conclusione della Disputa, Infatti Giobbe dapprima difende la sua integrità (27,2-6), e poi riconosce nei suoi avversari (27,7-10), negli amici (27, 11-12), gli empi per i quali Dio riserva una fine ineluttabile (27,13-23). Dunque Giobbe prospetta proprio agli amici, quasi con le stesse parole, quella sorte degli empi, che essi tanto hanno usato come argomento di intimidazione. Infine, Giobbe termina con l'esaltazione della sapienza (c. 28).

27,1. Giobbe riprende a parlare e il narratore lo mette in rilievo anche con una differente formula di introduzione del discorso: Giobbe «continua a parlare», più precisamente a pronunciare il suo māšāl. Ricorre dunque, da parte del narratore, una definizione di ciò che segue, il riferimento a una figura del linguaggio poetico prevalentemente dell'ambito sapienziale (cfr. Sal 49,5; 78,2).

vv. 2-6. Giobbe argomenta che il suo lēbāb (v. 6), il cuore, l'intimo, là dove si prendono le decisioni profonde e se ne assume la responsabilità, la coscienza, non gli rimprovera come ha vissuto. Pertanto, non si tratta per Giobbe solo di affermare la propria innocenza in modo incidentale date le circostanze, ma di un orientamento fondamentale di vita perseguito nel tempo, con perseveranza e disciplina che non viene meno nelle avversità. Il richiamo di Giobbe alla sua integrità (cfr. anche Sal 41,13) e alla sua giustizia, appare a questo punto, soprattutto, un'espressione di fedeltà, un atto di fede. Benché subisca un'ingiustizia da parte di Dio, Giobbe giura proprio per Dio.

vv. 7-10. Dopo la proclamazione della sua innocenza e giustizia, Giobbe procede all'identificazione degli accusatori come colpevoli, come malvagi ed empi (v. 7; cfr. Sal 35; 58; 109; 140). Egli chiede la condanna di coloro in potere dei quali Dio stesso lo ha gettato (cfr. 16,11), che lo hanno insultato e deriso. Inoltre lascia intendere che, benché pensi che l'uomo giusto e il malvagio possano essere colpiti dalle stesse sciagure, egli non si volge all'empietà (cfr. Sal 1,1; 37; 40,5; 73; Prv 23,17-18), perché nella sventura il malvagio non ha alcuna speranza, mentre l'uomo retto può ancora sperare le delizie di Dio. Il malvagio nella tribolazione è incapace di fidarsi di Dio (v. 10; cfr. 22,26), né invoca continuamente Dio. Dunque tra Dio e l'empio c'è una distanza estrema. Per Giobbe, il poter gridare e confidare in Dio, anche nella tragedia, e persino contendere con Dio, esige la scelta persistente delle vie di Dio, suppone il precedente godimento della familiarità, della comunione, della benevolenza di Dio (cfr. 10, 12).

vv. 13-23. Giobbe descrive la sorte che Dio ha riservato al malvagio. La caratteristica di questa presentazione consiste nella ripresa, come annunciato nel v. 12, di un tema sul quale gli amici si sono a lungo soffermati. Tuttavia essi lo hanno usato come argomento di intimidazione e di minaccia per l'amico, irritati dal suo atteggiamento critico e deviante, rispetto alle convinzioni religiose da loro concordemente sostenute. Anche Giobbe li aveva esortati e avvisati a non ingannare Dio, e a considerare che anche per loro ci sarebbe stato il momento della prova (cfr. 13,7-12). Ma ora Giobbe si avvale del loro linguaggio, nel vocabolario e nelle immagini, per rimandare agli amici l'idea che su di essi incombe una tale sventura. Essi hanno pronunciato una condanna dalla quale non sono esclusi: è la loro condanna in quanto spietati prevaricatori (cfr. anche 6,27), accusatori menzogneri, persecutori del giusto, empi. Giobbe introduce la descrizione della fine che Dio ha disposto per l'empio, con le parole conclusive dell'ultimo discorso di Sofar (v. 13; cfr. 20,29), pur apportando lievi varianti che come sempre, nella narrativa biblica, caratterizzano la tecnica della ripetizione. Per quanto siano gravi le affermazioni di Giobbe, il quale prospetta agli amici il fatale ritorcersi delle loro sentenze annientamento da parte di Dio, non si avverte in lui alcuna particolare animosità e aggressività, come in altri momenti della Disputa. Giobbe indirizza ai suoi molesti interlocutori un'istruzione che affida soprattutto alla loro riflessione. Ma l'istruzione di Giobbe non è conclusa, e si direbbe anche che la descrizione appena svolta non sia ciò che riscuote il maggior rilievo rispetto all'interesse riposto in ciò che segue. Infatti il discorso di Giobbe continua con una solenne apologia della sapienza (c. 28).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD 1Giobbe prese a dire:

2“Che aiuto hai dato al debole e che soccorso hai prestato al braccio senza forza! 3Quanti consigli hai dato all'ignorante, e con quanta abbondanza hai manifestato la saggezza! 4A chi hai rivolto le tue parole e l'ispirazione da chi ti è venuta?

5Le ombre dei morti tremano sotto le acque e i loro abitanti. 6Davanti a lui nudo è il regno dei morti e senza velo è l'abisso. 7Egli distende il cielo sopra il vuoto, sospende la terra sopra il nulla. 8Rinchiude le acque dentro le nubi e la nuvola non si squarcia sotto il loro peso. 9Copre la vista del suo trono stendendovi sopra la sua nuvola. 10Ha tracciato un cerchio sulle acque, sino al confine tra la luce e le tenebre. 11Le colonne del cielo si scuotono, alla sua minaccia sono prese da terrore. 12Con forza agita il mare e con astuzia abbatte Raab. 13Al suo soffio si rasserenano i cieli, la sua mano trafigge il serpente tortuoso.

14Ecco, questi sono solo i contorni delle sue opere; quanto lieve è il sussurro che ne percepiamo! Ma il tuono della sua potenza chi può comprenderlo?“. _________________ Note 26,5-14 Questo inno di lode alla potenza di Dio secondo alcuni sarebbe da porre sulle labbra di Bildad e si collegherebbe allora con il testo di 25,1-6.

26,7-13 Egli distende il cielo: descrizione poetica della creazione del cosmo, che si ispira a immagini molto familiari agli antichi. Il serpente tortuoso (v. 13) è il Leviatàn (vedi la sua descrizione anche in 3,8; 40,25).

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD (26,1-14) La replica di Giobbe contiene una critica radicale al contributo inefficace di Bildad (vv. 2-4), l'esaltazione della grandezza di Dio (v. 5-13), la constatazione del limite della conoscenza dell'uomo (v. 14).

vv. 5-13. Giobbe avanza nel discorso con un inno che magnifica la grandezza di Dio, ne mette in rilievo l'azione potente e la straordinaria opera creatrice. Per un momento è riattivata quella competizione simmetrica che si è già verificata nello svolgimento della Disputa, alla fine del primo e durante il secondo ciclo di discorsi. In questo caso, prima Bildad ha messo in rilievo l'onnipotenza divina (25,2-3), e adesso Giobbe gli risponde con una descrizione della potenza del Dio creatore. Evidentemente però non solo i tratti presi in considerazione sono diversi, ma soprattutto le conclusioni che essi traggono sono differenti. Per Bildad era importante affermare il carattere pervasivo ed efficace della potenza divina, per Giobbe dimostrare che l'uomo conosce solo dei frammenti della grandezza di Dio. Bildad aveva riferito l'onnipotenza divina in relazione all'opera di Dio nelle altezze celesti; Giobbe, con maggiori dettagli, ne evidenzia il governo sul mondo. Prima di tutto nota che la potenza divina raggiunge lo ṣɇ'ôl (vv. 5-6; cfr. Am 9,2; Sal 139,8; Prv 15,11), il mondo sotterraneo e il regno dei morti, i rɇpā’îm (cfr. Is 14,9; 26,14.19; ecc). Giobbe accenna poi all'azione creatrice di Dio nel mondo: qui l'uso in ebraico del participio sembra voler sottolineare che si tratta di un'azione divina che ancora continua (vv. 7-9). Ma la potenza creatrice di Dio manifesta, per Giobbe, anche i suoi tratti vigorosi sulla natura e sugli esseri viventi. Così Dio, tracciando l'orizzonte, ha separato la luce dalle tenebre (v. 10; cfr. Prv 8,27) e con il suo rimprovero ha reso stabili le colonne del cielo (v. 11). Altrove si parla delle fondamenta del cielo (cfr. 1Sam 22,8), e delle colonne della terra, sulle quali, secondo un'altra concezione, si appoggia la terra (cfr. 1Sam 2,8; Sal 75,4; 104,5): Giobbe riferisce inoltre che Dio, con la sua forza, ha agitato il mare (v. 12; cfr. Is 51,15; Ger 31,35) e ha colpito Raab, che a una prima lettura sembra indicare un mostro marino (cfr. 3,8; 7,12; 9,13). In tal modo dunque Giobbe esalta il dominio di Dio sulle forze della natura, anche quelle ostili all'uomo (così pure nel v. 13). Tuttavia l'associazione fra il movimento del mare provocato da Dio e il fatto che pure ha schiacciato Raab, altrove usato come designazione dell'Egitto per la sua insolenza (cfr. Is 30,7; Sal 87,4; 89,11), insieme all'uso, nel testo ebraico, dei verbi al perfetto (che descrivono dunque delle azioni già compiute), induce a cogliere in questa affermazione di Giobbe (come in Is 51,9-10) una raffinata allusione anche al passaggio del mare, all'esodo (cfr. Es 14, 15-31), evento inaudito che Dio ha compiuto per Israele.

v. 14. Nella visione cosmologica di Giobbe tutto deriva ed è sottomesso alla potenza di Dio creatore. Giobbe, a conclusione, considera però che l'uomo percepisce solo una traccia, un sussurro (cfr. 4,12) del potente agire divino. La conoscenza dell'uomo è limitata, in gran parte non comprende le vie, le opere, le ragioni di Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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TERZO DISCORSO DI BILDAD 1Bildad di Suach prese a dire:

2“Dominio e terrore sono con lui, che impone la pace nell'alto dei cieli. 3Si possono forse contare le sue schiere? E su chi non sorge la sua luce? 4Come può essere giusto un uomo davanti a Dio e come può essere puro un nato da donna? 5Ecco, la luna stessa manca di chiarore e le stelle non sono pure ai suoi occhi: 6tanto meno l'uomo, che è un verme, l'essere umano, che è una larva”.

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Approfondimenti

TERZO DISCORSO DI BILDAD (25,1-6) Questo terzo discorso di Bildad è particolarmente breve. Pertanto, alcuni commentatori hanno indicato in 26,2-4 e 26,5-14 rispettivamente l'introduzione e la continuazione del discorso, con una conseguente alterazione del significato delle singole unità, rispetto alla loro attuale collocazione. Noi seguiamo il TM, e riteniamo che l'assenza di un'introduzione non rappresenti un problema, considerando l'immediatezza e la crescente tensione a cui è pervenuto il dibattito e anche il progressivo ridursi, soprattutto nel terzo ciclo di discorsi, di preliminari e premesse, per dare maggiore spazio all'esposizione dei contenuti. Inoltre, la brevità del discorso di Bildad costituisce un forte segnale narrativo, l'esaurimento delle argomentazioni da parte degli amici, proprio mentre Giobbe accresce, invece, i suoi interrogativi e le sue considerazioni.

vv. 2-3. A Dio appartiene la sovranità indiscussa su tutto il creato (v. 2; cfr. Sal 103,19-22). Ma il dominio di Dio è per Bildad accompagnato dal terrore, dalla paura che incute. Il termine paḥad indica infatti quello stato emotivo caratterizzato da un senso di insicurezza, di smarrimento, di ansia, che, nell'ambito religioso, si può provare davanti a Dio (cfr. 23,15), in relazione con le potenti azioni divine nella storia (cfr. per es. Es 15,16) o che può essere provocato da Dio stesso (cfr. 13,11; 31,23) e, come in questo caso, è collegato alla maestà divina (cfr. anche Is 2,10.19.21). Il terrore, che Bildad mette in rilievo, costituisce dunque uno strumento con cui Dio esercita il suo dominio. Bildad riferisce inoltre l'azione pacificatrice divina nelle altezze celesti, nelle regioni eccelse (v. 2b; cfr. 16,19; 31,2; Sal 148,1). Essa richiama l'ordine stabilito da Dio nell'universo (Gn 1), oppure si può cogliere un riferimento alla corte celeste (cfr. 1,6; 2,1) che Dio presiede e di cui talvolta si avvale nel suo governo. Ciò che comunque è decisivo per Bildad, e che propone con un linguaggio metaforico, è che se Dio governa nell'alto dei cieli, inaccessibile all'uomo, a maggior ragione la sua luce raggiunge tutte le altre creature (v. 3b; cfr. 24,13). Benché gli empi agiscano nell'oscurità, nella notte, nelle tenebre (cfr. 24,14-17) che assicurano loro una maggiore impunibilità (cfr. 22,13; Es 22,1-2; 1Re 3,19-20; Is 29,15; Ger 49,9; Ez 8,12), essi non possono sottrarsi allo sguardo divino (cfr. Sal 11,2.4; Sir 23,18-21). Tutto ciò dimostra la suprema potenza di Dio che si estende sul creato in modo efficace, e a cui nulla si sottrae.

vv. 4-6. L'altra questione che Bildad reputa particolarmente importante riguarda l'impossibilità per l'uomo di essere giusto davanti a Dio. E Bildad lo asserisce con le stesse parole di Giobbe (cfr. v. 4a e 9,2b). Tuttavia, Giobbe lo esprimeva ritenendo pure che Dio conoscesse la sua giustizia (cfr. 10,7; 23,10-12). Certamente non così è per Bildad che, come Elifaz (cfr. 4,17; 15,14) e con lo stesso tipo di ragionamento a maiore ad minus (vv. 5-6; cfr. 4,18-19; 15,15-16), sostiene la sfiducia radicale verso l'uomo, la congenita tendenza dell'uomo verso il male (cfr. Gn 8, 21; Prv 20, 9; Sal 51,7), l'irriducibile distanza fra Dio e l'uomo. Bildad ed Elifaz, a loro insaputa, sono sulla stessa posizione del Satan, strenuo avversario dell'uomo (cfr. 1,9-11; 2,4-6), tutti impegnati a opporre Dio all'uomo, a umiliare l'uomo come neppure Dio ha mai fatto, a rendere Dio quale scrupoloso e diffidente sorvegliante dell'uomo pronto solo a premiare o a punire. Bildad pertanto riprende e ripropone questo argomento per contrastare la fiducia manifestata da Giobbe (cfr. 23,3-7.10-12), che, nonostante il tormento, resiste e che, invece di confessare la propria colpa pretende l'inaudito: un aperto confronto con Dio. Quindi, malgrado la brevità del discorso, Bildad ribatte all'amico con argomenti di grande rilievo che tuttavia non estinguono, ma accrescono, le questioni di Giobbe.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Perché all'Onnipotente non restano nascosti i tempi, mentre i suoi fedeli non vedono i suoi giorni?

2I malvagi spostano i confini, rubano le greggi e le conducono al pascolo; 3portano via l'asino degli orfani, prendono in pegno il bue della vedova. 4Spingono i poveri fuori strada, tutti i miseri del paese devono nascondersi. 5Ecco, come asini selvatici nel deserto escono per il loro lavoro; di buon mattino vanno in cerca di cibo, la steppa offre pane per i loro figli. 6Mietono nel campo non loro, racimolano la vigna del malvagio. 7Nudi passano la notte, senza vestiti, non hanno da coprirsi contro il freddo. 8Dagli acquazzoni dei monti sono bagnati, per mancanza di rifugi si aggrappano alle rocce. 9Strappano l'orfano dal seno della madre e prendono in pegno il mantello del povero. 10Nudi se ne vanno, senza vestiti, e sopportando la fame portano i covoni. 11Sulle terrazze delle vigne frangono le olive, pigiano l'uva e soffrono la sete. 12Dalla città si alza il gemito dei moribondi e l'anima dei feriti grida aiuto, ma Dio non bada a queste suppliche.

13Vi sono di quelli che avversano la luce, non conoscono le sue vie né dimorano nei suoi sentieri. 14Quando non c'è luce si alza l'omicida per uccidere il misero e il povero; nella notte va in giro come un ladro. 15L'occhio dell'adultero attende il buio e pensa: “Nessun occhio mi osserva!”, e si pone un velo sul volto. 16Nelle tenebre forzano le case, mentre di giorno se ne stanno nascosti: non vogliono saperne della luce; 17infatti per loro l'alba è come spettro di morte, poiché sono abituati ai terrori del buio fondo.

18Fuggono veloci sul filo dell'acqua; maledetta è la loro porzione di campo sulla terra, non si incamminano più per la strada delle vigne. 19Come siccità e calore assorbono le acque nevose, così il regno dei morti il peccatore. 20Lo dimenticherà il seno materno, i vermi lo gusteranno, non sarà più ricordato e l'iniquità sarà spezzata come un albero. 21Maltratta la sterile che non genera, alla vedova non fa alcun bene. 22Con la sua forza egli trascina i potenti, risorge quando già disperava della vita. 23Dio gli concede sicurezza ed egli vi si appoggia, ma i suoi occhi sono sopra la sua condotta. 24Salgono in alto per un poco, poi non sono più, sono abbattuti, come tutti sono troncati via, falciati come la testa di una spiga.

25Non è forse così? Chi può smentirmi e ridurre a nulla le mie parole?“. _________________ Note

**24,2 ** spostano i confini: per ampliare i propri terreni. Era considerato un grave crimine (Dt 19,14; Pr 22,28; 23,10).

**24,18-24 probabilmente questi versetti, che descrivono la forza del giudizio divino, erano in origine inseriti nei discorsi degli amici di Giobbe, poiché qui sembrano interrompere la riflessione sulla situazione dell’empio, che Giobbe vede coronata dal successo.

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Approfondimenti

vv. 24,1. A questo punto Giobbe riprende la questione più ampia del benessere incontrastato degli empi, già dominante nel suo precedente discorso (cfr. 21,7-33).

vv. 2-12. Giobbe incalza nell'accusa e descrive le colpe efferate di cui sono responsabili i malvagi, essi che godono del favore divino. Pertanto enuncia in dettaglio innanzitutto le ingiustizie sociali perpetrate dagli empi. Ma questo modo ingiusto di agire, Dio non lo reputa un'ignominia (v. 12), o, secondo l'altra possibilità di lettura del testo, Dio non presta attenzione al grido dei miseri che periscono per le angherie dei malvagi. Giobbe dunque, ancora, denuncia: Dio non prende posizione, Dio non interviene.

vv. 13-17. Fra i malvagi c'è una differente tipologia a seconda del crimine: l'assassino, il ladro, l'adultero (cfr. Es 20,13-15), ma essi hanno in comune la ribellione e il rifiuto della luce mentre cercano, operano e dimorano indisturbati (cfr. al contrario Sal 139,11-12) nell'ombra, nelle tenebre. In 24,13, benché nel termine «luce» prevalga il senso proprio anche per lo stretto rapporto con ciò che segue, tuttavia non si può fare a meno di ascoltare un sottile richiamo simbolico a Dio (cfr. Sal 112,4) o alla sua parola (cfr. Sal 119,105; Prv 6,23).

vv. 18-24. Questa sezione è soggetta a diverse, contrastanti valutazioni. Essa contiene la descrizione della sorte infausta dell'empio che Giobbe ha presentato nel precedente discorso (cfr. 21,25) come evenienza per alcuni e non come sicuro castigo per tutti i malvagi, così come pensano, in modo unanime, gli amici. Pertanto alcuni interpreti hanno ritenuto che tale unità di argomentazione sia fuori posto e l'hanno trasposta più avanti, attribuendola a Bildad o a Sofar. Sicuramente il testo presenta alcune asperità, ma escludiamo che per questo esso debba essere assegnato a qualcuno degli amici. Le forme verbali e la costruzione sintattica consentono varie possibilità di interpretazione. Giobbe qui riprende il motivo della fine del malvagio con maggiori dettagli; è la fine tragica di cui egli ha sentito raccontare, o che ha potuto constatare per alcuni, ma non per tutti i malfattori, o che si auspica avvenga e che possa vedere. Ma, soprattutto, ciò che suscita lo sconcerto di Giobbe è il comportamento di Dio che usa tanta differenza e persino sostiene gli empi, acconsente alla loro prosperità, benché egli veda la loro condotta (v. 23) depravata e deprecabile. Tuttavia la prestanza dei malvagi è effimera perché sopraggiunge anche per loro la morte, che rende tutti uguali (v. 24; cfr. 3,17-19; 21,26).

vv. 25. Giobbe conclude lanciando una sfida agli amici, ma lo stesso lettore ne è interpellato. Preso dal turbamento e dallo sconcerto, Giobbe ha acuito la sua provocazione e l'accusa a Dio, e preme sempre più per una risposta.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ 1Giobbe prese a dire:

2“Anche oggi il mio lamento è amaro e la sua mano pesa sopra i miei gemiti. 3Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi giungere fin dove risiede! 4Davanti a lui esporrei la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni. 5Conoscerei le parole con le quali mi risponde e capirei che cosa mi deve dire. 6Dovrebbe forse con sfoggio di potenza contendere con me? Gli basterebbe solo ascoltarmi! 7Allora un giusto discuterebbe con lui e io per sempre sarei assolto dal mio giudice. 8Ma se vado a oriente, egli non c'è, se vado a occidente, non lo sento. 9A settentrione lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a mezzogiorno e non lo vedo. 10Poiché egli conosce la mia condotta, se mi mette alla prova, come oro puro io ne esco. 11Alle sue orme si è attaccato il mio piede, al suo cammino mi sono attenuto e non ho deviato; 12dai comandi delle sue labbra non mi sono allontanato, ho riposto nel cuore i detti della sua bocca. 13Se egli decide, chi lo farà cambiare? Ciò che desidera egli lo fa. 14Egli esegue il decreto contro di me come pure i molti altri che ha in mente. 15Per questo davanti a lui io allibisco, al solo pensarci mi viene paura. 16Dio ha fiaccato il mio cuore, l'Onnipotente mi ha frastornato; 17ma non è a causa della tenebra che io perisco, né a causa dell'oscurità che ricopre il mio volto.

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ 23,1-24,25 In questo nuovo discorso Giobbe non si rivolge direttamente a Elifaz o agli amici, benché non manchino considerazioni contrarie alle loro asserzioni. Giobbe riprende e sviluppa due questioni fondamentali: il suo anelito di trovare Dio per contendere apertamente con lui (c. 23); la prosperità dei malvagi raggiunta con l'oppressione dei poveri, ma di tutto ciò Dio pare non occuparsi (c. 24).

vv. 23,2-7. Giobbe vorrebbe trovare Dio, recarsi nella dimora di Dio, per esporgli direttamente la sua causa e i suoi argomenti e conoscere e comprendere le ragioni di Dio. È significativo che Giobbe adesso attende dal confronto con Dio, prima di tutto, non una sentenza (come per es. in 9,20.28; 10,2; 13,18), che stabilisca chi ha ragione e chi ha torto, ma una rivelazione, vuole che Dio gli faccia conoscere ciò che a lui sfugge e che ora lo inquieta. Egli pensa pure che Dio in tale sede non prevarrà su di lui, non si avvarrà della sua forza per contendere (v. 6; cfr. 7,14; 9,4.19.34; 13,21), e quindi Giobbe potrà parlare apertamente certo di essere ascoltato. Potrà dare prova della sua integrità ed essere liberato da un giudizio che incombe su di lui con tanto impeto (v. 7).

vv. 8-12. Giobbe rivolge la sua ricerca in tutte le direzioni senza trovare Dio (vv. 8-9). Un accento particolare è posto sull'assenza di comprensione e di percezione, anche visiva, da parte di Giobbe (cfr. 9,11). Si è detto a questo proposito che Dio non può essere trovato in un luogo perché egli è in ogni luogo (cfr. Am 9,2-3; Sal 139,7-10), e talvolta ci si è anche stupiti del fatto che Giobbe non menzioni alcuna istituzione religiosa, cultuale. Ma Giobbe non nega né l'intervento né la presenza di Dio nel mondo. E altrove spesso ha riferito l'assedio di Dio nei suoi confronti (cfr. 3,23; 7,17-20; 16,7-14; ecc.). Ciò che qui è in questione è la relazione tra Dio e Giobbe, il fatto che Dio si mostri suo avversario (cfr. 10,2b), il turbamento che scaturisce dal nascondimento di Dio (cfr. 13,24; Sal 30,8). Per questo Giobbe desidera tanto trovare (v. 3), vedere Dio (v. 9; cfr. 19,26-27) e conoscerne gli argomenti. Tale appassionato anelito non rimarrà a lungo disatteso (cfr. 42,5). Ma da dove deriva la sicurezza con cui Giobbe pensa che Dio dopo averlo ascoltato lo libererà (v. 7), che egli saprà resistere alla prova (v. 10), e che la sua condotta è sostanzialmente integerrima (vv. 11-12)? C'è chi ha pensato che in tal modo Giobbe si colloca sullo stesso piano degli amici, e confida più sulla propria giustizia che su quella divina, e che dunque la fiducia di Giobbe in Dio è ancora in germe. Tuttavia l'esame a cui Giobbe sottopone la propria vita evidenzia il suo impegno costante per la fedeltà a Dio (cfr. 13,15; 16,17; 23,11-12; 29; 31), senza escludere il peccato (cfr. 7,20-21; 10,6; 13,26). Pertanto, in questa situazione in cui la sua stessa vita è compromessa, egli intende non rinunciare alla fedeltà a Dio (cfr. per es. 6,10). Nonostante tutto (cfr. 10,13), malgrado il silenzio di Dio, Giobbe vuole persistere nella fedeltà, in un tenace attaccamento a Dio; confida, non senza conflitto, nella fedeltà incommensurabile del Dio della vita.

vv. 13-17. Ora Giobbe considera l'unicità della determinazione divina (v. 13; cfr. Is 14,24.27; 45,23; 55,10-11) che compie ciò che desidera e opera ciò che ha stabilito, anche riguardo alla sua vicenda, e così gli sembra improponibile che qualcuno possa far recedere Dio da quanto ha disposto (cfr. 9,12; 11,10). Ciò che poco prima Giobbe presentava con certezza, ora è attraversato dal dubbio. Non solo; egli riferisce pure lo sgomento e i sentimenti di paura e spavento che Dio incute in lui (vv. 15-16). Dunque è Dio che provoca in Giobbe, e non i peccati, come voleva Elitaz (cfr. 22,10), uno sconvolgimento cosi lacerante. Tuttavia egli è colpito da Dio ma non distrutto (v. 17), e soprattutto ha una forte coscienza di tutto ciò, del ritrarsi di Dio o, forse, del fatto che Dio lo cerca, ma in un modo che gli rimane incomprensibile.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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TERZO DISCORSO DI ELIFAZ 1Elifaz di Teman prese a dire:

2“Può forse l'uomo giovare a Dio, dato che il saggio può giovare solo a se stesso? 3Quale interesse ne viene all'Onnipotente che tu sia giusto, o che vantaggio ha, se tieni una condotta integra? 4È forse per la tua pietà che ti punisce e ti convoca in giudizio? 5O non piuttosto per la tua grande malvagità e per le tue iniquità senza limite?

6Senza motivo infatti hai angariato i tuoi fratelli e delle vesti hai spogliato gli ignudi. 7Non hai dato da bere all'assetato e all'affamato hai rifiutato il pane. 8Ai prepotenti davi la terra e vi abitavano solo i tuoi favoriti. 9Le vedove rimandavi a mani vuote e spezzavi le braccia degli orfani. 10Ecco perché intorno a te ci sono lacci e un improvviso spavento ti sorprende, 11oppure l'oscurità ti impedisce di vedere e la piena delle acque ti sommerge.

12Ma Dio non è nell'alto dei cieli? Guarda quanto è lontano il vertice delle stelle! 13E tu dici: “Che cosa ne sa Dio? Come può giudicare attraverso l'oscurità delle nubi? 14Le nubi gli fanno velo e non vede quando passeggia sulla volta dei cieli”. 15Vuoi tu seguire il sentiero di un tempo, già battuto da persone perverse, 16che prematuramente furono portate via, quando un fiume si era riversato sulle loro fondamenta? 17Dicevano a Dio: “Allontànati da noi! Che cosa può fare a noi l'Onnipotente?“. 18Eppure è lui che ha riempito le loro case di beni, mentre il consiglio dei malvagi è lontano da lui! 19I giusti vedranno e ne gioiranno e l'innocente riderà di loro: 20“Finalmente sono annientati i loro averi e il fuoco ha divorato la loro opulenza!“.

21Su, riconcìliati con lui e tornerai felice, e avrai nuovamente il tuo benessere. 22Accogli la legge dalla sua bocca e poni le sue parole nel tuo cuore. 23Se ti rivolgerai all'Onnipotente, verrai ristabilito. Se allontanerai l'iniquità dalla tua tenda, 24se stimerai come polvere l'oro e come ciottoli dei fiumi l'oro di Ofir, 25allora l'Onnipotente sarà il tuo oro, sarà per te come mucchi d'argento. 26Allora sì, nell'Onnipotente ti delizierai e a Dio alzerai il tuo volto. 27Lo supplicherai ed egli ti esaudirà, e tu scioglierai i tuoi voti. 28Quando deciderai una cosa, ti riuscirà e sul tuo cammino brillerà la luce, 29perché egli umilia l'alterigia del superbo, ma soccorre chi ha lo sguardo dimesso. 30Egli libera chi è innocente, e tu sarai liberato per la purezza delle tue mani”. _________________ Note

22,24 Ofir: regione non meglio definita e di incerta localizzazione, celebre per il suo oro (vedi anche 28,16).

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Approfondimenti

TERZO DISCORSO DI ELIFAZ (22,1-30) Comincia l'ultima fase della Disputa con il consueto ordine degli interventi che però non verrà completato. Elifaz reagisce e risponde alla sfida inaugurata da Giobbe nel discorso appena compiuto. Così dopo aver affermato che Dio non trae alcun vantaggio dalla giustizia dell'uomo (vv. 2-5), Elifaz formula in modo diretto delle accuse a Giobbe, colpevole di presunte ingiustizie sociali (vv. 6-11) e di aver relegato Dio in un cielo così alto dal quale non si occupa dell'uomo (vv. 12-20). Mentre nei discorsi precedenti Elifaz aveva concluso in modo minaccioso, stavolta (vv. 21-30) rivolge a Giobbe un'appassionata esortazione a far ritorno a Dio.

vv. 2-5. L'esordio di Elifaz, caratterizzato da una serie di domande retoriche, è incentrato sui vantaggi della relazione e i motivi della contesa fra Dio e Giobbe. Pertanto egli sostiene che Dio non trae alcun profitto dal fatto che l'uomo, che Giobbe, sia giusto (vv. 2-3). L'idea viene espressa con il ripetuto uso del verbo skn, «giovare» (cfr. anche v. 21 e il precedente discorso di Elifaz in 15,3). Ci sono almeno due considerazioni che scaturiscono da questo avvio. La prima attiene all'insistenza di Elifaz sul disinteresse di Dio per la venerazione dell'uomo, che si accorda con la totale sfiducia che egli attribuisce a Dio nei confronti dell'uomo (cfr. 4,17-21; 15,15-16), e che qui egli afferma con tanta determinazione contro l'attesa, manifestata da Giobbe, di un intervento decisivo di Dio come suo gō’ēl (cfr. 19,25). La seconda riguarda la concezione utilitaristica, professata da Elifaz, del rapporto dell'uomo con Dio. Egli ritiene infatti che l'uomo, nel corrispondere alle esigenze connesse alla relazione con Dio, si procura il proprio beneficio (cfr. anche 21,15). È la posizione di Elifaz, e non di Giobbe, che pare dunque confermare la presunzione del Satan (cfr. 1,9), e che si rivela esponente di una fede interessata nei confronti di Dio. Ed Elifaz continua, prospettando che se Dio non ha alcun vantaggio dalla giustizia dell'uomo, neppure contende con l'uomo, con Giobbe, per il suo timore (v. 4; cfr. 1,1.8; 2,3; 4,6). Bensì Dio viene in giudizio a causa del grande peccato di Giobbe (v. 5). Non poteva essere diversamente nella logica di Elifaz, puntigliosamente argomentata e difesa in tutta la Disputa. La sventura che ha colpito Giobbe è conseguente e dimostra la sua colpa. Non si può fare a meno di notare l'ironia dell'autore sulle convinzioni dei suoi personaggi, e in questo caso di Elifaz, a cui anche il lettore partecipa. Infatti, dal Prologo emerge che Dio acconsente alla prova su Giobbe proprio sul timore che egli ha di Dio e sulla sua integrità, per verificarne l'autenticità e la gratuità. Tale dissonanza fra convincimenti e realtà (in questo caso, del racconto), ricorda che nella costruzione del significato intorno ai fatti, la prospettiva dell'uomo è parziale. Pertanto, solo a partire da questa consapevolezza si apre la possibilità di apprendere dagli eventi e avviarsi verso una conoscenza più profonda, oltre quella precostituita, e pertanto anche più congruente con la realtà e la complessità delle relazioni coinvolte. Un insegnamento in tal senso proviene dall'appassionato e tormentato itinerario di Giobbe che, in circostanze particolarmente avverse, esprime e si inoltra verso nuove dimensioni della relazione con Dio.

vv. 6-11. Elifaz enumera quindi le ingiustizie sociali delle quali Giobbe, a suo avviso, si è reso colpevole. Il fatto che un tempo Giobbe abbia goduto del benessere è indice, per Elifaz, che esso è stato ottenuto in modo fraudolento e con l'oppressione dei più deboli della società. Elifaz considera quella di Giobbe una ricchezza accumulata a detrimento dei poveri (cfr. 20,19-20). Tale denuncia presenta uno stile che ricorda numerosi detti profetici (cfr. Am 2,8; Is 58,7; Ez 18,7.16; Mic 2,1-2).

vv. 12-20. Non ancora soddisfatto, Elifaz sviluppa e completa la sua accusa con rilievi sull'atteggiamento di Giobbe verso Dio. Pertanto, capovolgendo anche i termini dell'ultimo discorso dell'amico (c. 21), egli imputa a Giobbe di aver relegato Dio in un cielo così alto dal quale non può vedere né conoscere quel che accade sulla terra (v. 12-14; così come pensano gli empi: Is 29,15; Ger 23,23-24; Ez 8,12; Sal 10,11; 73,11; 94,7), Elifaz comprende o riduce la protesta di Giobbe come negazione dell'intervento di Dio nella storia: Dio trascura o è indifferente alle vicende umane, a motivo della sua trascendenza che lo separa dal mondo. Preso dalle sue certezze, non si accorge che invece Giobbe ha messo in evidenza il fatto che l'uomo non conosce i criteri dell'agire di Dio nella storia, perciò si appella direttamente a Dio e, nonostante la tragedia, confida in lui. Elifaz travisa a tal punto il pensiero di Giobbe che lo avverte (vv. 15-20) di non ripercorrere il sentiero dei malvagi i quali hanno allontanato Dio dalla loro vita e non hanno riconosciuto i benefici con cui Dio ha riempito le loro case. Essi sono stati annientati.

vv. 21-30. Elifaz conclude il suo discorso con un'intensa esortazione a Giobbe, alla riconciliazione e al ritorno a Dio. All'interno della sezione è significativo l'invito di Elifaz a Giobbe ad accogliere la torah e a imprimerla nell'intimo (v. 22; cfr. Dt 6,6; 11,18) che egli stesso gli espone, proponendosi ancora una volta come mediatore di un insegnamento divino (cfr. 4,12-21; 15,11). Inoltre Elifaz include nella promessa a Giobbe anche il recupero dell'azione espiatrice per la sua giustizia e integrità (v. 30). Si noti bene: Dio è il soggetto, Dio salva, libera colui che ha peccato. Giobbe ha in passato operato l'espiazione per i figli (cfr. 1,5) e, in modo impensabile per Elifaz, Dio chiederà lo stesso da Giobbe per gli amici (cfr. 42,7-9). La sofferenza di Giobbe continua a rimanere per Elifaz la prova della sua colpevolezza. Elifaz ha giustificato il giudizio di Dio con l'enumerazione del peccati di Giobbe. E come nel suo primo discorso (cc. 4-5), Elifaz ha avvertito ed esortato Giobbe a ravvedersi come sicura garanzia di salvezza. Avvinto nelle sue rigide convinzioni, Elifaz non coglie o rifiuta il problema sollevato da Giobbe, non sull'intervento di Dio nella storia, ma sulla frammentaria conoscenza che l'uomo ha di esso.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A SOFAR 1Giobbe prese a dire:

2“Ascoltate bene la mia parola e sia questo almeno il conforto che mi date. 3Tollerate che io parli e, dopo che avrò parlato, deridetemi pure. 4Mi lamento forse di un uomo? E perché non dovrei perdere la pazienza? 5Statemi attenti e resterete stupiti, mettetevi la mano sulla bocca. 6Se io ci penso, rimango turbato e la mia carne è presa da un brivido.

7Perché i malvagi continuano a vivere, e invecchiando diventano più forti e più ricchi? 8La loro prole prospera insieme con loro, i loro rampolli crescono sotto i loro occhi. 9Le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro. 10Il loro toro monta senza mai fallire, la mucca partorisce senza abortire. 11Mandano fuori, come un gregge, i loro ragazzi e i loro figli danzano in festa. 12Cantano al ritmo di tamburelli e di cetre, si divertono al suono dei flauti. 13Finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli nel regno dei morti.

14Eppure dicevano a Dio: “Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie. 15Chi è l'Onnipotente, perché dobbiamo servirlo? E che giova pregarlo?“. 16Essi hanno in mano il loro benessere e il consiglio degli empi è lontano da lui. 17Quante volte si spegne la lucerna degli empi, e la sventura piomba su di loro, e infligge loro castighi con ira? 18Sono essi come paglia sollevata al vento o come pula in preda all'uragano?

19“Dio – si dirà – riserva il castigo per i figli dell'empio”. No, lo subisca e lo senta lui il castigo! 20Veda con i suoi occhi la sua rovina e beva dell'ira dell'Onnipotente! 21Che cosa gli importa infatti della sua casa quando è morto, quando il numero dei suoi mesi è finito? 22S'insegna forse la scienza a Dio, a lui che giudica gli esseri celesti?

23Uno muore in piena salute, tutto tranquillo e prospero; 24i suoi fianchi sono coperti di grasso e il midollo delle sue ossa è ben nutrito. 25Un altro muore con l'amarezza in cuore, senza aver mai assaporato la gioia. 26Eppure entrambi giacciono insieme nella polvere e i vermi li ricoprono.

27Ecco, io conosco bene i vostri pensieri e i progetti che tramate contro di me! 28Infatti voi dite: “Dov'è la casa del nobile, dove sono le tende degli empi?“. 29Perché non avete chiesto a chi ha viaggiato e non avete considerato attentamente le loro prove? 30Cioè che nel giorno della sciagura è risparmiato il malvagio e nel giorno dell'ira egli trova scampo? 31Chi gli rimprovera in faccia la sua condotta e di quel che ha fatto chi lo ripaga? 32Egli sarà portato al sepolcro, sul suo tumulo si veglia 33e gli sono lievi le zolle della valle. Camminano dietro a lui tutti gli uomini e innanzi a sé ha una folla senza numero.

34E voi vorreste consolarmi con argomenti vani! Nelle vostre risposte non c'è altro che inganno”. _________________ Note

21,17 La lucerna è immagine di benessere e della benedizione di Dio (vedi anche 29,3).

21,20 e beva dell’ira: l’immagine della coppa, dalla quale si beve il vino della collera di Dio, è frequente nella Bibbia (ad es. Sal 75,9; Is 51,17; Ger 25,15).

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A SOFAR (21,1-34) Sofar, ma anche Elifaz e Bildad, in questo secondo ciclo di discorsi, non hanno fatto altro che insistere, con raffinate variazioni, sull'inconsistenza del benessere del malvagio e sull'ineluttabile rovina predisposta per lui da Dio. Giobbe ora risponde, ma non difende più la sua innocenza, bensì ribatte e confuta le asserzioni degli amici. Così, inizialmente, Giobbe sollecita la loro attenzione (vv. 2-6) e descrive poi l'agiatezza e la soddisfazione dei malvagi (vv. 7-13), dove è escluso ogni intervento di Dio (vv. 14-18). Giobbe rimarca pure che il castigo dovrebbe raggiungere personalmente l'empio e non i discendenti (vv. 19-22), e osserva che la morte non costituisce affatto una punizione (vv. 23-26). Nella sventura l'empio è risparmiato e viene onorato anche nella sepoltura (vv. 27-33). Pertanto, alla prova dei fatti, le affermazioni degli amici si dimostrano, con tutta evidenza, vani argomenti di consolazione (v. 34). La prosperità degli empi non è transitoria e rimane impunita.

vv. 2-6. Giobbe avvia il suo discorso sollecitando l'attenzione degli amici. Egli contende con Dio che, pur conoscendo la sua rettitudine, non gli risponde, per questo egli non può tacere la sua amarezza. E gli amici dovrebbero rispettare e tacere, invece di intromettersi in questa contesa.

vv. 7-13. Giobbe sviluppa la questione enunciata nel v. 7 (cfr. 12,6) contestando la logica degli amici, e, indirettamente, continuando a interpellare Dio. Giobbe attinge dall'esperienza che la prosperità degli empi si manifesta nella sicurezza che godono con la loro discendenza, nel benessere della loro casa non turbata da alcuna correzione divina (espressa con la locuzione «il bastone di Dio», v. 9, cfr. 9,34); essi sono longevi, e muoiono in un istante, senza sofferenze. Tutto ciò contrasta con la fine prematura e disastrosa del malvagio, con la distruzione radicale delle sue ricchezze e della sua discendenza, sostenuta con tanta fermezza dagli amici.

vv. 14-18. Giobbe ritiene che gli empi godano dell'agiatezza nonostante abbiano apertamente respinto Dio e rifiutato di conoscere le sue vie, nonostante abbiano disdegnato di servirlo non intravedendo alcun vantaggio. Il rifiuto di servire (‘bd) Dio consiste evidentemente non solo nell'assenza del servizio cultuale, ma nel rifiuto di riconoscere Dio (e JHWH secondo la tradizione biblica, cfr. Dt 10,12) come Signore di tutta quanta la propria esistenza. E quale aggravante, il rifiuto viene connesso, nella riflessione degli empi riferita da Giobbe, alla mancanza di convenienza, di tornaconto. Tale religione dell'interesse è anche quella supposta dal Satan nel Prologo (cfr. 1,9), ma essa non ha alcuna presa tra gli empi che già dispongono di ogni soddisfazione.

vv. 19-22. Giobbe nega anche l'utilità che Dio colpisca la colpa del padre nei discendenti (v. 19a; secondo l'antica concezione riportata in Es 20,5; Dt 5,9), a cui gli amici hanno fatto riferimento come elemento supplementare nel castigo dell'empio (cfr. 5,4; 20,10). Infatti per il malvagio non ha alcuna importanza ciò che accadrà dopo la sua morte (v. 21). Giobbe invoca, al contrario (v. 19b), un castigo che colpisca l'empio personalmente (in sintonia con le acquisizioni dell'epoca esilica e postesilica, cfr. Ger 31,29-30; Ez 18,2.20; Lam 5,7), opponendosi a qualsiasi prolungamento di quella dissociazione nella storia fra causa ed effetto, fra colpa e punizione.

vv. 23-26. Tra i morti non c'è traccia delle inspiegabili differenze che hanno caratterizzato gli uomini durante la vita. La morte elimina le differenze (cfr. 3,13-19), ma non costituisce una punizione. Questa prospettiva appare una prova incontrovertibile per Giobbe a sostegno della sua argomentazione.

vv. 27-34. Giobbe ribadisce che sul malvagio non si abbatte, ineluttabile, la sventura (v. 30; contro 15,30; 18,14; 20,22). Addirittura dice che nel giorno dell'ira l'empio gode quasi di una protezione, è risparmiato. In tutto questo non viene menzionato Dio, ma il riferimento al «giorno dell'ira» («della sciagura») lo comprende. Con tale sintagma si richiama infatti la tradizione connessa allo yôm JHWH, «il giorno del Signore» (cfr. Is 13,6.9; Gl 1,15; 2,1; Am 5,18.20; Sof 1,7.14; Ml 3,23; ecc.), ma denominato, anche a motivo del contenuto, «il giorno dell'ira del Signore» (cfr. Sof 1,18; 2,2.3; ecc.), e designa il giudizio di JHWH al quale non ci si può in alcun modo sottrarre. Esso era rivolto contro i nemici di Dio e di Israele (cfr. Is 2,12-17; 13,6.9; Ger 46,10; Ez 30,3; ecc.), ma anche contro Israele (cfr. Am 5,18-20; Sof 1,14-18; ecc.). Dopo l'esilio, con un accentuazione sapienziale, si pensava che tale giudizio di Dio avrebbe assicurato il trionfo dei giusti e la rovina degli empi (cfr. Ml 3,19-21; Prv 11,4). Le parole di Giobbe (v. 30; ma anche cfr. 20,28) riflettono questa fase più recente di tale concezione, e tuttavia contengono un'intensa provocazione, un inaudito paradosso. Infatti nel giorno dell'ira, che, secondo la tradizione avrebbe arrecato la sventura ai nemici di Dio e la salvezza a coloro che gli appartengono, Giobbe rileva, invece, che gli empi sono risparmiati. In tal modo l'affermazione contiene un'implicita accusa a Dio che tralasciando gli empi, ancora una volta li favorisce (cfr. 9,24; 10,3; 12,6). E la tensione non si attenua poiché egli prosegue insistendo sull'impunità di cui gode il malvagio. La domanda presente nel v. 31a, può avere come riferimento Dio (chi annuncerà, chi denuncerà a Dio la condotta dell'empio?), o l'empio (chi contesterà, chi chiederà conto all'empio della sua condotta?). In entrambi i casi tuttavia non si verifica una rigida correlazione fra resoconto delle colpe e castigo. Ciò lascia aperta la questione riguardo a quando l'espiazione della colpa potrà avvenire, ma soprattutto, per Giobbe, questo è evidente: l'empio gode, senza timore, di tutto il benessere durante una lunga vita ed è onorato fino alla sepoltura. Dunque, tutti gli argomenti degli amici per consolare Giobbe si dimostrano irrimediabilmente vani e ingannevoli (v. 34).

Con questo discorso Giobbe mette in discussione radicalmente le certezze degli amici, le capovolge, le sconvolge, per giungere a evidenziare, non senza audaci richiami, che l'uomo non conosce né i criteri, né i tempi del giudizio di Dio. Tale discorso conclude pure il secondo ciclo di interventi, e apre l'ultimo. Questa fase della Disputa ha visto l'inasprimento delle posizioni, ma anche l'intensità di cui è capace la fede, quando, come per Giobbe, Dio, il Dio di Israele, è la ragione fondamentale di vita.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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SECONDO DISCORSO DI SOFAR 1Sofar di Naamà prese a dire:

2“Per questo i miei pensieri mi spingono a rispondere e c'è fretta dentro di me. 3Ho ascoltato un rimprovero per me offensivo, ma uno spirito, dal mio interno, mi spinge a replicare.

4Non sai tu che da sempre, da quando l'uomo fu posto sulla terra, 5il trionfo degli empi è breve e la gioia del perverso è di un istante? 6Anche se si innalzasse fino al cielo la sua statura e il suo capo toccasse le nubi, 7come il suo sterco sarebbe spazzato via per sempre e chi lo aveva visto direbbe: “Dov'è?”. 8Svanirà come un sogno, e non lo si troverà più, si dileguerà come visione notturna. 9L'occhio avvezzo a vederlo più non lo vedrà né più lo scorgerà la sua casa. 10I suoi figli dovranno risarcire i poveri e le sue stesse mani restituiranno le sue ricchezze. 11Le sue ossa erano piene di vigore giovanile, con lui ora giacciono nella polvere.

12Se alla sua bocca fu dolce il male, se lo teneva nascosto sotto la sua lingua, 13assaporandolo senza inghiottirlo, se lo tratteneva in mezzo al suo palato, 14il suo cibo gli si guasterà nelle viscere, gli si trasformerà in veleno di vipere. 15I beni che ha divorato, dovrà vomitarli, Dio glieli caccerà fuori dal ventre. 16Veleno di vipere ha succhiato, una lingua di aspide lo ucciderà. 17Non vedrà più ruscelli d'olio, fiumi di miele e fior di panna; 18darà ad altri il frutto della sua fatica senza mangiarne, come non godrà del frutto del suo commercio, 19perché ha oppresso e abbandonato i miseri, ha rubato case invece di costruirle; 20perché non ha saputo calmare il suo ventre, con i suoi tesori non si salverà. 21Nulla è sfuggito alla sua voracità, per questo non durerà il suo benessere. 22Nel colmo della sua abbondanza si troverà in miseria; ogni sorta di sciagura piomberà su di lui.

23Quando starà per riempire il suo ventre, Dio scaglierà su di lui la fiamma del suo sdegno e gli farà piovere addosso brace. 24Se sfuggirà all'arma di ferro, lo trafiggerà l'arco di bronzo. 25Se estrarrà la freccia dalla schiena, una spada lucente gli squarcerà il fegato. Lo assaliranno i terrori; 26le tenebre più fitte gli saranno riservate. Lo divorerà un fuoco non attizzato da uomo, esso consumerà quanto è rimasto nella sua tenda. 27Riveleranno i cieli la sua iniquità e la terra si alzerà contro di lui. 28Sparirà il raccolto della sua casa, tutto sarà disperso nel giorno della sua ira.

29Questa è la sorte che Dio riserva all'uomo malvagio, l'eredità che Dio gli ha decretato”.

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Approfondimenti

SECONDO DISCORSO DI SOFAR (20,1-29) Sofar prosegue le argomentazioni degli amici che lo hanno preceduto e si occupa della sorte del malvagio, ma dal punto di vista della brevità e illusorietà del suo benessere. Il discorso si apre con la giustificazione della sua necessità di parlare provocata dalle parole di Giobbe (vv. 2-3). Egli poi argomenta e sostiene (vv. 4-11) il carattere provvisorio della prosperità dei malvagi. Con una metafora sul cibo (vv. 12-22) sviluppa il concetto per cui il malvagio non trattiene ciò di cui si è appropriato, perciò la sua ricchezza non ha consistenza né durata. Infine ribadisce che l'empio non può sottrarsi al giudizio divino che si manifesterà contro di lui (vv. 23-28) e conclude (v. 29) proclamando che la sorte dell'empio da lui descritta è quella decretata da Dio stesso. Sofar, dunque, non è da meno degli amici nel minacciare duramente Giobbe.

vv. 2-3. Sofar risponde non solo perché provocato ma anche colpito dalla correzione umiliante di Giobbe agli amici. Dunque, non può trattenersi dal rispondere, ma nel farlo è mosso dall'indignazione. Sofar non avverte alcuna differenza nell'argomentazione di Giobbe. Ignora completamente l'appello di Giobbe (cfr. 19,21), parla per difendere la propria onorabilità, non si accorge della sofferenza e del travaglio dell'amico, le sue parole si preannunciano appesantite dalla rigidità con cui lo ha ascoltato.

vv. 4-11. Sofar presenta la sua tesi come una conoscenza risaputa fin dall'origine dell'uomo sulla terra, dunque dall'inizio della storia. Essa asserisce che il trionfo dei malvagi è breve e la gioia dell'empio è fugace (v. 5; cfr. Sal 73,19). La prosperità dei malvagi è apparente, non dura, l'empio svanisce come un sogno (v. 8; cfr. Sal 73,20). Colui che tanto si era innalzato diventa irriconoscibile per chi lo aveva conosciuto (vv. 6-7; cfr. Sal 37,35-36; Is 14,13; Ez 31,10). Egli e i suoi figli dovranno risarcire e restituire ai poveri le ricchezze accumulate in modo indebito e fraudolento. L'empio avrà una morte prematura (cfr. Sal 55,24) e la forza della sua giovinezza giacerà con lui nella polvere.

vv.12-22. Domina in questa sezione una metafora connessa all'alimentazione con il relativo vocabolario proprio di tale campo semantico. Con essa Sofar descrive la trasformazione in veleno del male che il malvagio ha tanto assaporato in bocca (vv. 12-14). Di sua iniziativa, ma anche con l'intervento di Dio, il suo ventre respingerà fuori i beni di cui si è appropriato (vv. 15-16). L'empio non conoscerà più l'agiatezza né la bontà che scaturisce nel mondo, dove l'idea di intensa fertilità è suggerita con la combinazione del linguaggio figurato e iperbolico (v. 17; cfr. 29,6). Peraltro concorrono nel delineare tale immagine due elementi che di solito designano la terra promessa (come il luogo dove scorre latte e miele, cfr. Es 3,8). Il malvagio sarà privato anche del frutto delle sue fatiche a motivo del risarcimento a cui deve provvedere per ciò che ha rubato (v. 18). Sofar adduce due cause scatenanti tale inevitabile sciagura: l'oppressione, unita all'abbandono dei poveri, e l'avidità (v. 19-20). Con la prima Sofar mette in rilievo l'ingiustizia sociale perpetrata dal malvagio con la violenza verso i poveri (cfr. Prv 14,31; 22,16; 28,3) e l'omissione di aiuto. Riguardo all'avidità e alla bramosia Sofar subito soggiunge che con i suoi tesori (cfr. Sal 39,12) l'empio non può salvarsi (cfr. Sal 89,49; Qo 8,8), o, anche, che egli non può conservare tali ricchezze. L'opulenza dell'empio non durerà e sarà volta in miseria all'improvviso, proprio quando non se lo aspetta (vv. 21-22).

vv. 23-28. Il malvagio non potrà sottrarsi in alcun modo al giudizio divino, caratterizzato dall'ira di Dio (vv. 23.28; cfr. 21,30; Am 5,18-20; Sof 1,14-18; Ml 3,19-21), la quale si manifesta nella saetta che ferisce mortalmente il corpo del malvagio (vv. 24-25), nel fuoco che consumerà quanto è rimasto nella sua dimora (v. 26), con il cielo e la terra che testimoniano contro di lui (v. 27), mentre si realizzerà la dispersione e l'estinzione di tutto quanto gli era appartenuto (v. 28). L'efficacia di tale evocazione si trova nell'aver associato quelle componenti che per Giobbe hanno già una dolorosa realtà, come l'ira di Dio (cfr. 16,9), le saette (cfr. 6,4; 16,13), i terrori (cfr. 9,34; 13,21), il fuoco divorante (cfr. 1,16), l'estendersi delle tenebre, preludio della morte (cfr. 17,13) e della discesa nello ṣɇ'ôl (cfr. 10,21). E mentre Giobbe aveva fatto appello alla terra perché consentisse al suo grido di raggiungere Dio in cielo, (cfr. 16,18-19), Sofar ora (v. 27) annuncia l'iniziativa del cielo e della terra come testimoni attivi contro l'empio.

Sul piano del contenuto anche Sofar, dunque, ha ripreso e contestato l'asserzione di Giobbe sulla sicurezza del malvagio (12,6), sostenendo il carattere precario del benessere dell'empio destinato alla totale rovina. Tuttavia proprio nella descrizione della calamità che colpisce l'empio, come indicazione della sua malvagità, si avvale di alcuni tratti della vicenda di Giobbe e pertanto, sul piano della relazione, insinua e ammonisce l'amico sulla sventura come eredità per il suo peccato.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD 1Giobbe prese a dire:

2“Fino a quando mi tormenterete e mi opprimerete con le vostre parole? 3Sono dieci volte che mi insultate e mi maltrattate in modo sfacciato. 4È poi vero che io abbia sbagliato e che persista nel mio errore? 5Davvero voi pensate di prevalere su di me, rinfacciandomi la mia vergogna? 6Sappiate dunque che Dio mi ha schiacciato e mi ha avvolto nella sua rete. 7Ecco, grido: “Violenza!”, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c'è giustizia!

8Mi ha sbarrato la strada perché io non passi e sui miei sentieri ha disteso le tenebre. 9Mi ha spogliato della mia gloria e mi ha tolto dal capo la corona. 10Mi ha distrutto da ogni parte e io sparisco, ha strappato, come un albero, la mia speranza. 11Ha acceso contro di me la sua ira e mi considera come suo nemico. 12Insieme sono accorse le sue schiere e si sono tracciate la strada contro di me; si sono accampate intorno alla mia tenda.

13I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei. 14Sono scomparsi vicini e conoscenti, mi hanno dimenticato 15gli ospiti di casa; da estraneo mi trattano le mie ancelle, sono un forestiero ai loro occhi. 16Chiamo il mio servo ed egli non risponde, devo supplicarlo con la mia bocca. 17Il mio fiato è ripugnante per mia moglie e faccio ribrezzo ai figli del mio grembo. 18Anche i ragazzi mi disprezzano: se tento di alzarmi, mi coprono di insulti. 19Mi hanno in orrore tutti i miei confidenti: quelli che amavo si rivoltano contro di me. 20Alla pelle si attaccano le mie ossa e non mi resta che la pelle dei miei denti.

21Pietà, pietà di me, almeno voi, amici miei, perché la mano di Dio mi ha percosso! 22Perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi della mia carne?

23Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, 24fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s'incidessero sulla roccia! 25Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! 26Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. 27Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro. Languisco dentro di me.

28Voi che dite: “Come lo perseguitiamo noi, se la radice del suo danno è in lui?“, 29temete per voi la spada, perché è la spada che punisce l'iniquità, e saprete che c'è un giudice”. _________________ Note

19,3 dieci volte: cioè molte volte.

19,22 e non siete mai sazi della mia carne: è un riferimento alla calunnia, che divora il buon nome del prossimo.

19,25 Il redentore (o vendicatore) è Dio stesso, che ristabilisce la giustizia e il diritto violati. Altrove, nel libro di Giobbe, è chiamato testimone e arbitro (16,19-21).

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD (19,1-29) Nel precedente intervento di Giobbe (cc. 16-17) era dominante lo sconforto, ora riaffiora con forza la sua fiducia fondamentale in Dio. Il nuovo discorso si apre (vv. 2-7) con un rimprovero di Giobbe agli amici che con le loro accuse lo oltraggiano, lo tormentano, mentre ribadisce che è Dio che ha sconvolto la sua vita. Egli descrive poi l'azione devastante di Dio su di lui (vv. 8-12) e intorno a lui (vv. 13-20), e per questo supplica la misericordia degli amici (vv. 21-22). Esprime il desiderio che le sue parole siano scritte per i posteri e ribadisce la sua tenace fiducia nel Dio che salva (vv. 23-27). A conclusione, Giobbe interpella di nuovo gli amici (vv. 28-29) perché desistano dal perseguitarlo e li ammonisce con un riferimento al giudizio di Dio.

vv. 2-7. Molte volte, come indica il numero pieno «dieci» (v. 3; cfr. Gn 31,7; Lv 26,26), Giobbe è stato maltrattato dagli amici che invece di prodigarsi a consolarlo, lo accusano, e non provano neppure turbamento per la sconvenienza delle loro derisioni. Pertanto, anche se Giobbe ha sbagliato, l'errore rimane con lui (v. 4). Questa affermazione può essere intesa in diversi modi:

  1. gli amici non gli sono d'aiuto a individuare tale errore;
  2. gli amici non hanno alcun potere sull'errore di Giobbe;
  3. solo Giobbe conosce il suo errore, pertanto ogni giudizio esterno è inopportuno.

Giobbe comunque vuole scoraggiare l'ulteriore, eventuale, iniziativa inquisitoria degli amici (v. 5) ai quali ribadisce che è Dio ad averlo sconvolto, circondandolo con la sua rete (v. 6). Non solo; egli è vittima anche dell'abbandono, perché al suo grido nessuno risponde (v. 7). Egli denuncia dunque, oltre l'atto, contrario all'idea di giustizia, anche l'abbandono da parte di Dio

vv. 8-12. Giobbe descrive agli amici (nel discorso precedente lo aveva fatto con Dio, cfr. 16,7-14) l'azione violenta di Dio su di lui come emerge dai verbi con i quali Giobbe riferisce l'azione divina, ma anche dal fatto che egli è stato privato di ciò che gli apparteneva e di alcuni tratti che caratterizzavano la sua identità. Peraltro Giobbe racconta la sua sventura come esclusiva iniziativa di Dio, non connessa ad alcuna sua colpa.

vv. 13-20. L'azione devastante di Dio si estende e coinvolge anche coloro che vivono accanto a Giobbe. Fra questa sezione e la precedente ricorre l'assonanza delle forme verbali e nominali che contengono il termine zār (vv. 13.15.17), con cui Giobbe delinea l'estraneità fra lui e i parenti con il sostantivo ṣār (v. 11) per mezzo del quale Giobbe ha riferito che Dio lo tratta come un avversario, un nemico. E evidente che, anche in tal modo, l'autore accosta e rafforza il carattere drammatico della percezione di Giobbe, della riprovazione da parte di Dio e degli uomini, con conseguenze di una gravità eccessiva per un uomo, quali l'abbandono di Dio e l'emarginazione, l'esclusione, dal consorzio umano.

vv.21-22. Giobbe quindi supplica la misericordia degli amici, la loro comprensione, la considerazione per la sua situazione, e non la persecuzione. Infatti è Dio che lo ha colpito, lo ha «toccato» («percosso»). Ancora una volta Giobbe, con l'uso del verbo «toccare» (ng‘, cfr. v. 21), si avvicina inconsapevolmente alle circostanze che hanno dato avvio alla sua disgrazia (cfr. 1,11; 2,5).

vv. 23-27. Giobbe vorrebbe che per i posteri fossero scritte le sue parole (cfr. Sal 102,19), che contengono la sua dichiarazione di innocenza, ma anche il turbamento della sua fiducia e, soprattutto, la sua attesa di Dio. Infatti Giobbe è certo, conosce, sa che il suo gō’ēl è vivo (v. 25). Riteniamo che, nel libro di Giobbe, il termine giuridico gō’ēl non si riferisca al gō’ēl haddām, colui che compie la vendetta del sangue, il «Vendicatore» (cfr. Es 21,13-14; Nm 35,9-34; Dt 19,1-13; Gs 20,1-9), bensì sia attinente allo sviluppo del significato connesso alla prassi giudiziaria del riscatto. Essa prevedeva che il parente più stretto pagasse il prezzo del riscatto dei beni o della persona del congiunto, ridotto in miseria o caduto in schiavitù, per restituirgli la proprietà e la libertà (cfr. Lv 25; Rt 4). Pertanto gō’ēl è il parente stretto, titolare del diritto di riscatto. Tale espressione ha anche assunto un rilievo teologico particolarmente significativo. Infatti l'annuncio del ritorno degli esuli da Babilonia viene caratterizzato (in Is 40-55) come liberazione o riscatto, con cui JHWH ricostituisce il suo popolo (cfr. Is 43,5-6; 48,20). Allora JHWH riceve l'attributo ed è chiamato gō’ēl, redentore (cfr. Is 41,14; 43,14; 44, 24; 48, 17; 49,7). JHWH fa valere il suo antico diritto su Israele; egli avanza una pretesa legittima, con una forte connotazione propria del diritto familiare, perché ha creato e scelto questo popolo e ne è il Signore. Questo attributo di JHWH viene ripreso anche altrove (cfr. Is 59,20; 60,16; 63,16; Ger 50,34), mentre tende ad assumere un senso ancora più ampio, che include l'intervento salvifico di Dio che libera il popolo o il singolo dalla violenza di una forza avversa (cfr. Ger 31,11; Mic 4,10; Sal 69,19; 72,14; 103,4; Prv 23,11). Riteniamo, pertanto, che la presenza del gō’ēl nel v. 25 sia da ricondurre a questa fondamentale tradizione e al suo sviluppo, e che dunque Giobbe si riferisca a Dio, parli di Dio come del suo gō’ēl. In precedenza Giobbe aveva infatti escluso decisamente l'esistenza di un qualsiasi mediatore fra lui e Dio (cfr. 9,32-33), e peraltro egli in ogni discorso accusa direttamente Dio come unico responsabile della sua catastrofe. Per Giobbe la questione attiene decisamente alla relazione fra lui e Dio. Perciò egli non lascia nulla di intentato e interpella Dio con tanta audacia, mosso proprio dalla fiducia fondamentale in Dio, nella fedeltà di Dio. Così nei suoi discorsi affiorano anche le tracce della speranza che ripone in Dio, designato come suo testimone (cfr. 16,19), e ora (19,25) come suo gō’ēl. L'acuta contesa di Giobbe con Dio non può essere dissociata dalla fiducia, dall'amore di Giobbe per Dio, radicati sulla promessa e sulla storia della fedeltà di Dio al suo popolo. Peraltro, l'alternanza fra l'accusa di Dio e l'affidamento a lui rivela quanto sia anche tormentato l'itinerario interiore di Giobbe, la lotta per proteggere la confidenza e l'intima comunione con Dio contro tutta la forza dell'evidenza opposta dei fatti. Il personaggio di Giobbe, che emerge dai discorsi, è costruito per riflettere la dialettica connessa a profonde questioni umane, riproducendone in modo esemplare, date le circostanze drammatiche, anche quel movimento interno da cui è attraversato l'uomo nel quale si avvicendano angoscia e fiducia, delusione e speranza, accusa e riconoscimento. Dunque Giobbe indica Dio come suo gō’ēl, e la sua attesa di riscatto, di salvezza è per il presente (vv. 25-27; cfr. Sal 19,15; 69,19; 72,14; 103,4; 119,154; Prv 23,11). Più volte, nei precedenti discorsi di Giobbe, è emerso che se la morte è una realtà definitiva, senza ritorno, che sopprime tutti i rapporti e i legami, di conseguenza solo la vita, la storia, è il luogo della realizzazione dell'uomo e della relazione con Dio. Pertanto, benché convinto dell'ineluttabilità della morte, Giobbe ha continuato a resistere e a lottare per la vita, soprattutto per l'affermazione di Dio nella sua vita. Egli ora (v. 26), proprio perché così provato e lacerato nella carne, ma vivo, ribadita la sua percezione del potere di Dio sulle sue creature, pensa che questo sia un segno per cui Dio gli rinnoverà la vita. Mentre tutti lo perseguitano e lo respingono, ultimo (cfr. Is 44,6; 48,12), Dio si alzerà (cfr. Sal 3,8; 7,7; 9,20; 76,10; ecc.) in suo favore e Giobbe lo vedrà con i suoi occhi (vv. 26b-27). La precisazione per cui asserisce che vedrà Dio wɇlō’-zār (v. 27), può essere attribuita a Giobbe (e non come o da straniero), o a Dio (e non uno straniero), e allude evidentemente all'ostilità di cui è oggetto da parte di Dio e anche dei suoi conoscenti (cfr. 19,11.13.14.17). A dispetto di quel che appare (cfr. 13,24; 19,11; 33,10), Giobbe crede che la realtà della sua relazione con Dio sia caratterizzata non dall'ostilità e dall'estraneità, bensì dall'intimità e dalla familiarità. Infatti l'attesa di Giobbe si indirizza con particolare intensità alla visione di Dio, che prima di tutto indica la volontà di ristabilire il contatto vitale (cfr. 10,12), rispetto al silenzio e al nascondimento di Dio (cfr. 13,24; Sal 28,1; 30,8), e di godere della vicinanza di Dio, espressione della benevolenza e della protezione divina, e fonte della vita. Tale fiducia di Giobbe troverà, peraltro, corrispondenza nella sua reazione all'evento determinante della teofania (cfr. 42,5).

Nella storia dell'interpretazione questa sezione è stata a lungo ritenuta come una prova della fede nella risurrezione. Di fatto tale lettura deriva solo da una retroproiezione operata da coloro che successivamente hanno sviluppato una tale fede e ne hanno intravisto un fondamento più antico. Il testo, come sempre, è aperto a diversi livelli di significato. Tuttavia, la speranza nella risurrezione non appartiene sicuramente al testo originale.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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