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DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

Capitolo LXIV – L’elezione dell’abate

1 Nell’elezione dell’abate bisogna seguire il principio di scegliere il monaco che tutta la comunità ha designato concordemente nel timore di Dio, oppure quello prescelto con un criterio più saggio da una parte sia pur piccola di essa. 2 Il futuro abate dev’essere scelto in base alla vita esemplare e alla scienza soprannaturale, anche se fosse l’ultimo della comunità. 3 Se invece, – non sia mai! – la comunità eleggesse, sia pure di comune accordo, una persona consenziente ai suoi abusi, 4 e il vescovo della diocesi o gli abati o i fedeli delle vicinanze ne venissero comunque a conoscenza 5 devono impedire in tutti i modi che il complotto di quegli sciagurati abbia il sopravvento e nominare un degno ministro della casa di Dio, 6 ben sapendo che ne riceveranno una grande ricompensa, mentre invece sarebbero colpevoli, se non se ne curassero. 7 Il nuovo eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a chi dovrà rendere conto del suo governo 8 e sia consapevole che il suo dovere è di aiutare, piuttosto che di comandare. 9 Bisogna quindi che sia esperto nella legge di Dio per possedere la conoscenza e la materia da cui trarre «cose nuove e antiche», intemerato, sobrio, comprensivo 10 e faccia «trionfare la misericordia sulla giustizia», in modo da meritare un giorno lo stesso trattamento per sé. 11 Detesti i vizi, ma ami i suoi monaci. 12 Nelle stesse correzioni agisca con prudenza per evitare che, volendo raschiare troppo la ruggine, si rompa il vaso: 13 diffidi sempre della propria fragilità e si ricordi che «non bisogna spezzare la canna già incrinata». 14 Con questo non intendiamo che l’abate debba permettere ai difetti di allignare, ma che li sradichi – come abbiamo già detto – con prudenza e carità, nel modo che gli sembrerà più conveniente per ciascuno, 15 e cerchi di essere più amato che temuto. 16 Non sia turbolento e ansioso, né esagerato e ostinato, né invidioso e sospettoso, perché così non avrebbe mai pace; negli stessi ordini sia previdente e riflessivo e, tanto se il suo comando riguarda il campo spirituale, quanto se si riferisce a un interesse temporale, proceda con discernimento e moderazione, tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe, che diceva: «Se affaticherò troppo i miei greggi, moriranno tutti in un giorno». 17 Seguendo questo e altri esempi di quella discrezione che è la madre di tutte le virtù, disponga ogni cosa in modo da stimolare le generose aspirazioni dei forti, senza scoraggiare i deboli. 18 E soprattutto osservi e faccia osservare integramente la presente Regola per potersi sentir dire dal Signore, al termine della sua onesta gestione, le parole udite dal servo fedele, che a tempo debito distribuì il frumento ai suoi compagni: 19 «In verità vi dico: – dichiara Gesù – gli diede potere su tutti i suoi beni».

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Approfondimenti

Nulla aveva detto il capitolo 2° sulla elezione dell'abate. Se ne parla in questo capitolo 64, il cui titolo corrisponde solo alla prima parte del testo (vv. 1-6), mentre la seconda parte, molto più lunga (vv. 7-22) contiene un nuovo direttorio abbaziale sulle qualità e caratteristiche dell'abate, in parte simili, in parte diverse dal capitolo 2°.

Non è facile interpretare i vari termini che compaiono nel testo. I verbi-chiave sono: ordinare, constituere ed eligere, che si possono rendere in italiano con: scegliere, eleggere, designare, elevare, costituire. La RB non spiega il senso preciso di queste parole, né come si realizzava ciò che esse significano. Si può dire che per SB l'elezione di un abate è un avvenimento sopratutto spirituale che viene dall'alto, non tanto giuridico; quindi non vuole imporre a Dio delle regole fisse. Ciò che importa è che si nomini una persona degna. Inoltre, si ritiene oggi che quando un legislatore monastico non è molto esplicito e chiaro nel definire qualche punto, lo fa perché dà la cosa come scontata, ben conosciuta e rimanda alla norma comune.

Nel secolo VI i modi di designazione erano diversi, se ne conoscevano almeno sei: il nuovo abate poteva essere nominato dal predecessore, dagli abati della regione, dal vescovo locale, dal vescovo metropolita o dal patriarca, dal signore del luogo (feudatario, conte, duca...) o, a volte, da un gruppo di persone particolarmente qualificate. In questi casi l'elezione da parte di tutta la comunità poteva significare solo l'accettazione di una designazione già fatta da una autorità.

PRIMA PARTE: vv. 1-6

Procedura per l'elezione dell'abate Secondo la RM, era l'abate prossimo alla morte che sceglieva il successore. SB accetta invece un modo che rimontava alle origini del cenobitismo: la comunità di comune accordo sceglie un nuovo capo (questa prassi era prevista e approvata dalle leggi ecclesiastiche e civili); ma comune accordo “secondo il timore di Dio”, cioè seguendo il criterio unicamente valido per il superiore (v. 2), il quale deve essere persona degna e con tutte quelle qualità elencate nei capp. 2 e 64,7-22.

Importanza del vescovo nell'elezione SB non offre particolari sul meccanismo elettorale. Nel caso in cui nessuno dei monaci riceva un suffragio unanime, cioè nel caso di una comunità divisa, l'intenzione di SB è che sia preferito il candidato scelto dalla parte più sana e spirituale della comunità, per quanto piccola di numero possa essere. Ma come si fa a stabilire qual'è questa “parte più sana”? Potevano essere senza dubbio quelli che avevano condiviso parte di responsabilità con l'abate precedente: i superiori subalterni, i decani o i “seniori” spirituali. Nel caso anche qui di dubbio (o di discordia), si deve supporre, come appare in maniera evidente dal contesto seguente, che era il vescovo, abitualmente o occasionalmente coadiuvato dagli abati vicini, che doveva giudicare quale fosse la parte più stimabile della comunità e preferire il suo candidato.

Due garanzie: vita santa e soda dottrina Quello che importa per SB è che l'eletto offra garanzia di una vita irreprensibile e di una dottrina sicura, anche se fosse l'ultimo nell'ordine della comunità (v. 2); una clausola, questa, molto originale per le consuetudini del tempo in cui le elezioni tenevano conto, è vero, del merito personale, ma anche (e a volte sopratutto!) del rango del candidato. In ogni caso né il vescovo diocesano, negli abati della regione, né i cristiani del luogo dovevano permettere che si designasse un abate indegno, complice dei vizi dei monaci, anche se fosse stato eletto all'unanimità (si pensi ai monaci di Vicovaro, Dial. II,2). È notevole l'energia di SB in questo passo (vv. 3-6): non ha paura dell'ingerenza di estranei al monastero, anzi la sollecita; da qui possiamo capire che il monastero di allora non era fuori dal contesto e dall'organizzazione della Chiesa locale: l'ultima parola, appare chiaro, spettava al vescovo della diocesi; anche nel caso della scelta unanime della comunità essa non costituiva definitivamente il candidato nel suo ufficio, equivaleva ad una “presentazione” che poi veniva ratificata dalla competente autorità ecclesiastica; il vescovo, cioè, decideva se l'eletto era degno di governare “la casa di Dio” (v. 5). In tutto il capitolo il termine “ordinare” significa l'atto legale con cui uno viene di fatto immesso in un ufficio. Dalla RM e da alcune lettere di S. Gregorio, si può arguire che l'atto ufficiale con cui il nuovo abate veniva insediato dal vescovo nel suo nuovo ufficio, si compiva in maniera solenne e probabilmente durante la celebrazione dell'Eucarestia. Non si tratta ovviamente di una ordinazione sacramentale, ma solo di una benedizione abbaziale che è come un sacramentale; ma non si sa bene in che cosa consistesse; forse in orazioni da parte del vescovo sopra il nuovo eletto. Il documento liturgico più antico che offre un formulario di ordinazione o benedizione dell'abate è il Sacramentario Gregoriano (sec. VI): consta di una sola orazione, chiaramente ispirata al capitolo 2° della RB.

L'elezione dell'abate nel corso dei secoli Nel corso dei secoli, come si sa, non sono mancati gravi abusi nell'elezione dell'abate, come all'infelice tempo della commenda o della intromissione di principi o di altri laici. Le reazioni a questi abusi portarono a una dottrina canonica in cui sono precisati dal diritto generale e particolare (dalle Costituzioni delle singole congregazioni) le norme per l'elezione, la procedura, la durata in carica, ecc.

Durata dell'ufficio abbaziale Secondo la RB è chiaro che l'abate è a vita e, essendo ogni monastero autonomo, viene eletto nell'ambito della propria comunità. Con il raggruppamento di monasteri in congregazioni o per motivi storici o per la nascita di famiglie monastiche con una organizzazione centralizzata, qualcosa e cambiato. Anche nei grandi monasteri “sui iuris” non sempre l'abate è tratto dalla stessa comunità (ma anche da altri monasteri delle stessa congregazione o federazione); inoltre, con il cambiamento della mentalità e anche per volontà della Chiesa (che invita i vescovi a dimettersi a 75 anni d'età) molte congregazioni monastiche prevedono ora, in occasione della visita canonica, una procedura che invita l'abate a dimettersi; altre congregazioni preferiscono un abbaziato temporaneo o superiori nominati per un tempo breve. Anche le grandi abbazie che conservano ancora l'abate a vita si pongono oggi il problema. Tutto questo, naturalmente, ha mutato la figura tradizionale dell'abate come è nella Regola di S. Benedetto.

SECONDA PARTE: vv. 7-22

Nuovo direttorio abbaziale I vv. 7-22 contengono un'esortazione al nuovo abate che entra nel suo ufficio, non solo riguardo ai suoi obblighi, ma anche riguardo a ciò che deve essere – o cerca di essere – egli stesso. Per la RM l'unico criterio per l'elezione di un abate era la perfezione personale che uno aveva raggiunto: a chi deve insegnare l'arte spirituale si richiede che la sappia praticare meglio di tutti. Invece la RB in questa nuova esortazione parla all'abate delle qualità umane, del carisma della direzione delle anime, delle doti del pastore. Abbiamo così un nuovo direttorio abbaziale, che è un completamento, una aggiunta, una ratifica anche, con il suo accento più affettuoso e paterno, con il tono di maggiore discrezione e benignità, frutto senz'altro di esperienza personale. È una stupenda pagina di letteratura cristiana in cui si armonizza la saggezza di un profondo conoscitore delle anime e l'ispirazione soprannaturale di prudenza e carità; vi aleggia lo stile delle lettere pastorali di S. Paolo e quello delle esortazioni liturgiche agli ordinandi.

SCHEMA DELLA SECONDA PARTE del cap. 64 Lo schema e` abbastanza lineare: alla introduzione (v. 7) corrisponde la conclusione (vv. 21-22) che trattano di uno stesso tema: rendiconto a Dio, prospettiva escatologica; alla breve raccomandazione di quattro qualità positive (v. 9) corrisponde l'avvertenza contro le sue qualità negative (v. 16). Si noti che nella RM non si parla mai di eventuali difetti dell'abate, il quale deve essere più avanti di tutti nella perfezione. Al relativamente lungo commento sulla correzione dei difetti (vv. 12-15) corrisponde il commento sul modo di governare (vv. 17-19); la raccomandazione di far osservare la Regola (v. 20) è la conseguenza di tutto quanto precede e annuncia la conclusione. È quindi una costruzione ben combinata. Vediamo il contenuto.

7-8: Coscienza della sua responsabilità SB insiste, con la ripetizione di parole simili (pensi, si ricordi, sappia), sulla coscienza della sua responsabilità che l'abate deve avere. È un tema già molto sviluppato nel primo direttorio abbaziale (vedi RB 2,6-7; 2,34; 2,37-38). Sappia che deve giovare più che dominare prodesse magis quam praeesse: una bella massima con efficace giuoco di parole prese da S. Agostino (Discorso 340,1 e altrove) che forse era di uso comune ai tempi di SB.

9-10: Qualità positive Delle quattro qualità positive elencate in questo passo (dottrina, intemeratezza, sobrietà, misericordia), la prima e la quarta sono seguite da un piccolo commento.

9: Sia dotto nella legge divina... L'abate sia istruito nella legge di Dio, perché il primo elemento della sua opera di bene è l'insegnamento delle cose divine. SB ha già insistito nel capitolo 2 su tale compito dell'abate, la cui dottrina deve infondere nel cuore dei discepoli un fermento di giustizia divina (RB 2,5; cf. anche RB 2,11-15); “... perché sappia da dove trarre insegnamenti nuovi e antichi” (l'espressione latina “nova et vetera” è una citazione di Mt 13,52): sono gli insegnamenti che non mutano e le applicazioni che cambiano ogni giorno, le regole che sono eterne e gli ammonimenti che si adattano a ciascun individuo.

Sia casto, sobrio, misericordioso: richiamo all'elenco delle qualità del vescovo in S. Paolo (cf. per es. 1Tim 3,2). L'ultima qualità, la misericordia, è seguita da un commento. SB raccomanda all'abate di preferire la misericordia alla giustizia (citazione di Gc 2,13), “affinché egli stesso possa ottenere un trattamento simile” (chiarissima allusione a due passi del Vangelo: Mt 5,7; Mt 7,2).

11-15: Indulgenza e amore nella correzione Nella medesima linea della misericordia, abbiamo un'altra sentenza lapidaria frequente in S. Agostino (Discorso 49,5 e altrove), con l'invito a non cessare di amare i fratelli mentre detesta i vizi: oderit vitia, diligat fratres (detesti i vizi, ami i fratelli).

12: ne quid imis La massima precedente “oderit vitia, diligat fratres” conduce SB a trattare del modo di agire nella correzione, che è uno dei temi capitali del codice monastico, con l'insistenza sulla moderazione: ne quid nimis (senza eccedere). La sentenza classica (era attribuita a uno dei sette sapienti) ispira il senso del giusto mezzo e della discrezione. Forse SB la ricordava dalla scuola giovanile; però in seguito il ricorso alla Scrittura (Is 42,3: che “non si deve spezzare la canna già incrinata” del v. 13) eleva la massima dal semplice piano naturale alla imitazione di Gesù stesso (cf. Mt 12,20 dove la citazione di Isaia è applicata a Gesù). In nessun altro testo appare, come qui, il carattere di ritrattazione o di rettifica del capitolo 64 rispetto al capitolo 2. Abbiamo visto come nel primo direttorio abbaziale SB invita l'abate a estirpare dalle radici, appena cominciano a spuntare, i difetti dei fratelli (RB 2,26); se coloro che trasgrediscono sono individui “testardi, superbi e ribelli”, dice di non perdere tempo ad ammonirli, ma di punirli subito con castighi corporali (RB 2,26-29). Qui raccomanda, sì, di stroncare i vizi, ma il tono è interamente diverso: “usi prudenza e carità, adattandosi al temperamento di ciascuno” (v. 14). Con tutto il contesto in cui si inculca con insistenza la misericordia e l'amore, la norma sulla correzione finisce col perdere l'eccessiva durezza, in un certo contrasto con il capitolo 2.

15: Studeat plus amari quam timeri (= Miri ad essere amato piuttosto che temuto): altra bellissima sentenza tratta direttamente dalla Regola di S. Agostino (cap. 15) e sapiente programma di governo. La norma, in realtà, si trova anche in altri testi, cristiani, monastici e classici; si può dire che queste brevi ma sostanziose parole convergono la sapienza del deserto, quella cristiana e quella politica classica. “Miri ad essere amato piuttosto che temuto” è in fondo una variante di “giovare piuttosto che dominare” del v. 8. In ambedue le sentenze appaiono due gruppi di elementi: autorità, onore, timore da una parte; servizio, misericordia, amore dall'altra. Trovare l'equilibrio tra le due cose sarebbe l'ideale, ma in realtà – e la RB è realista – risulta impossibile mantenere sempre tale equilibrio tra i due piatti della bilancia.

16-19: Difetti da evitare. Discrezione dell'abate Nel v.16 abbiamo un elenco di qualità negative da evitare. Nulla di più dannoso per la tranquillità di spirito delle tensioni di un abate turbolento, inquieto, vittima del sospetto e della gelosia.

  • Apprensivo anxius significa: in affanno ed eccessiva angustia di spirito.
  • Esagerato nimius. Si intende di uno che, sia pur con le migliori intenzioni, si rende fastidioso con l'insistere, col pretendere, col soverchio correggere, con la troppa cura delle minuzie.
  • Ostinato obstinatus: deve pur essere convinto che gli altri possano talvolta pensarla meglio di lui.
  • Troppo sospettoso nimis suspiciosus: è il difetto di chi vede ad ogni passo pericoli, cattive intenzioni, malignità: un abate simile non avrà mai pace!

È stato notato che il non sia turbolento dell'inizio del v. 16 evoca la figura del Servo di JHWH (Is 42,4), applicata a Cristo in Mt 12,18-21): “Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce”; già prima, nel v. 13, SB ha ricordato l'altra caratteristica “non spezzerà la canna incrinata”: la mansuetudine di Cristo deve essere un modello e uno specchio per il suo vicario.

17-19: La discrezione, madre delle virtù Per quanto riguarda il governo, SB raccomanda la previsione, la riflessione, il discernimento e l'equilibrio (v. 17). Alla fine appare l'equilibrio, la moderazione, la discrezione (v. 19) che domina tutto il direttorio abbaziale: è quel sapiente giusto mezzo che è frutto di grande equilibrio spirituale e che rende la virtù tanto più amabile e accessibile. La discrezione era tanto stimata presso i monaci antichi. Anche Cassiano usa l'espressione: “la discrezione, madre di tutte le virtù” come al v. 19 (cf. Collazioni 2,4). È noto che S.G regorio Magno la colse come una caratteristica della RB, definendola appunto “mirabile per la discrezione” discretione praecipuam (Dial. II,36). La parola “discrezione” va presa anzitutto nel suo senso preciso e originario da discernere, cioè “distinguere” bene i mezzi e le circostanze per raggiungere un fine e ordinare gli atti corrispondenti senza eccesso né difetto.

17: ut...fortes quod cupiant et infirmi non refugiant La discrezione sarà che l'abate disponga tutte le cose – tanto le spirituali che le temporali (v. 17) – in modo che “i monaci forti desiderino di fare di più e i deboli non si scoraggino” non refugiant (v. 19). L'espressione ci ricorda quella di Prol. 48: “non refugias”, “non abbandonare subito la via della salvezza”. In ambedue i casi SB considera la stessa situazione umana: quella del monaco pusillanime e di poca forza che di fronte a un'osservanza troppo rigorosa si sentirebbe tentato di lasciare il monastero. Nel prologo SB si rivolge a questo monaco spaventato esortandolo alla perseveranza; qui chiede all'abate che tenga conto di tale debolezza. Nel prologo promette al fratello tentennante che non si stabilirà nulla di troppo duro e penoso, qui esige dalla “discrezione” dell'abate che mantenga la promessa abbreviando piuttosto che aumentando il peso della Regola che, per altro, deve far osservare in tutto (v. 20).

18-19 Conclusione: osservanza della Regola e premio eterno Il primo direttorio abbaziale termina facendo appello al giudizio di Dio e alla correzione delle colpe proprie dell'abate (RB 2,39-40). Questa nota di timore e di severità è sostituita in questo secondo direttorio abbaziale da una nota di gioiosa speranza: SB, per sollevare il duro lavoro e l'incessante peso dell'abate, gli ricorda il premio preparato al servo fedele quando verrà il Signore (Mt 24,47).

Ritratto del pastore ideale, immagine di Cristo È stato detto che appare nel capitolo 64 una omogeneità di pensiero, una unica visuale ispira l'autore: quella del pastore ideale, del servitore umile, mansueto e paziente che è Cristo. Spirito di servizio, misericordia, amore, prudenza, pace, ecc., sono tutti aspetti di una identica attitudine fondamentale. “Il Servo di JHWH di Isaia, il Cristo di S. Matteo, il Pastore di S. Paolo, l'Anziano misericordioso e “discreto” di Cassiano, tutte queste immagini ideali del capo cristiano vengono a fondersi senza sforzo in un ritratto dell'abate che è profondamente semplice” (De Vogué). Questo ritratto dell'abate del capitolo 64 differisce in alcuni punti non solo dalla RM, ma anche da quanto detto nel capitolo 2 della stessa RB. SB ha corretto se stesso in età avanzata alla luce dell'esperienza? Oppure il capitolo 64 è dovuto a una mano diversa da quella del capitolo 2? Tutte le ipotesi sono permesse. Comunque, negli ultimi capitoli della Regola, che sono propri di SB (di cui si riconosce sempre più l'originalità) ci si presenta l'abate piuttosto che come un maestro severo, teso ed inquieto per il peso della responsabilità, come un uomo servizievole e misericordioso.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXIII – L’ordine della comunità

1 Nella comunità ognuno conservi il posto che gli spetta secondo la data del suo ingresso o l’esemplarità della sua condotta o la volontà dell’abate. 2 Bisogna però che quest’ultimo non metta lo scompiglio nel gregge che gli è stato affidato, prendendo delle disposizioni ingiuste come se esercitasse un potere assoluto, 3 ma pensi sempre che dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni e azioni. 4 Dunque i monaci si succedano nel bacio di pace e nella comunione, nell’intonare i salmi e nei posti in coro, secondo l’ordine stabilito dall’abate o a essi spettante. 5 E in nessuna occasione l’età costituisca un criterio distintivo o pregiudizievole per stabilire i posti, 6 perché Samuele e Daniele, quando erano ancora fanciulli, giudicarono gli anziani. 7 Quindi, a eccezione di quelli che, come abbiamo già detto, l’abate avrà promosso per ragioni superiori o degradato per motivi fondati, tutti gli altri occupino sempre i posti determinati dalla data del rispettivo ingresso, 8 in modo che il monaco, arrivato – per esempio – in monastero alle 9, sappia di essere più giovane di quello arrivato alle 8, quale che sia la sua età e dignità. 9 Per quanto riguarda i ragazzi, invece, si osservi in tutto e per tutto la relativa disciplina. 10 I più giovani, dunque, trattino con riguardo i più anziani, che a loro volta li ricambino con amore. 11 Anche quando si chiamano tra loro, nessuno si permetta di rivolgersi all’altro con il solo nome, 12 ma gli anziani diano ai giovani l’appellativo di «fratello» e i giovani usino per gli anziani quello di «reverendo padre», come espressione del loro rispetto filiale. 13 L’abate poi sia chiamato «signore» e «abate», non perché si sia arrogato da sé un tale titolo, ma in onore e per amore di Cristo del quale sappiamo per fede che egli fa le veci. 14 Da parte sua, però, rifletta sull’onore che gli viene tributato e se ne dimostri degno. 15 Dovunque i fratelli si incontrano, il più giovane chieda la benedizione al più anziano; 16 quando passa un monaco anziano, il più giovane si alzi e gli ceda il posto, guardandosi bene dal rimettersi a sedere prima che l’anziano glielo permetta, 17 in modo che si realizzi quanto è scritto: «Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore». 18 I ragazzi più piccoli e i giovanetti occupino in coro e in refettorio i posti loro spettanti secondo la Regola: 19 ma fuori di lì siano sorvegliati e tenuti dappertutto sotto la disciplina, finché non avranno raggiunto un età più matura.

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Approfondimenti

1-9: L'ordine della comunità Abbiamo avuto modo di notare spesso la preoccupazione di SB per l'ordine e la precisione, che sono una salvaguardia per la pace e la tranquillità della vita monastica. Uno spinoso problema che ha tormentato e tormenta gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, trascinandoli spesso in contese, a volte assurde e ridicole, è quello della precedenza, del rango, del posto occupato rispetto agli altri (ricordiamo l'episodio dei figli di Zebedeo: Mc 10,34-35). SB dà tre criteri: quello normale è l'anzianità monastica, cioè la data d'ingresso in monastero (vv. 1.7-8); un'eccezione può essere data da particolari meriti di un monaco (come nei casi riscontrati in RB 60,4; 61,11-12; 62,6); oppure la volontà dell'abate, il quale è autorizzato a promuovere e a degradare, ma solo per ragioni superiori e per motivi validi (vv. 2-3); SB gli ricorda di fuggire il dispotismo e di pensare al giudizio di Dio, secondo lo stile e le espressioni già riscontrate in RB 2,64 e RB 65. Comunque, l'età fisica e l'estrazione sociale dell'individuo non conteranno nulla (vv. 5-8.18). Pertanto anche i fanciulli oblati staranno al posto che corrisponde alla data della loro consacrazione a Dio, anche se sotto la tutela di monaci adulti (v. 9 e l'argomento sarà ripreso nei vv. 18-19).

10-17: Deferenza e amore tra i fratelli Fissato l'ordine materiale dei posti, SB passa a un tema di grande originalità: le manifestazioni di reciproco rispetto e cortesia. Comincia con un principio generale (v. 10), già annunciato negli strumenti delle buone opere (n. 70 e 71): “Venerare i più anziani, amare i più giovani” (RB 4,70-71). Le norme seguenti (vv. 11-17) sono applicazioni del principio generale sull'onore e l'amore. Tali forme di deferenza non sono soltanto manifestazioni di educazione, sensibilità, delicatezza e buon gusto naturali, ma sono ispirate soprattutto dalla S. Scrittura (Rom 12,10): “Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore” (v. 17). Notiamo che il termine “nonno” è di origine egiziana e si divulgò in oriente; in seguito fu latinizzato e più tardi nel linguaggio ecclesiastico si applicò, con un senso familiare e affettuoso, alle persone che senza appartenere alla gerarchia, erano considerate degne di particolare venerazione: monaci, asceti, vergini consacrate a Dio, vedove e anziani; ancor oggi in francese “nonne”, in inglese “nun”, in tedesco “nonne” significa monaca. Anche i titoli per l'abate “dominus et abbas” (signore e abate) non sono nuovi, ma già attestati nella tradizione monastica: “dominus” esprimerebbe l'onore dovuto all'abate come vicario di Cristo; “abbas” esprimerebbe l'amore.

18-19: Posizione dei fanciulli Gli ultimi versetti riguardano la prima parte del c. 63, non la seconda. È una specie di appendice sulla posizione dei fanciulli (v. 9). I piccoli oblati in qualità di persone consacrate a Dio come gli altri monaci professi, mantenevano il loro posto negli atti ufficiali della comunità (coro e refettorio, v. 18). Essendo però nel periodo della formazione, debbono essere curati con la vigilanza e mantenuti sotto disciplina “fino alla maggiore età” (v. 19), che era considerata verso i 15 anni (cf. RB 70,4).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXII – I sacerdoti del monastero

1 Se un abate desidera che uno dei suoi monaci sia ordinato sacerdote o diacono per il servizio della comunità scelga in essa un fratello degno di esercitare tali funzioni. 2 Ma il monaco ordinato si guardi dalla vanità e dalla superbia 3 e non creda di poter fare altro che quello che gli ordina l’abate, tenendo sempre presente che d’ora in poi dovrà essere maggiormente sottomesso alla disciplina. 4 Né col pretesto del sacerdozio trascuri l’obbedienza alla Regola o la disciplina, ma anzi progredisca sempre più nelle vie di Dio. 5 Conservi sempre il posto che gli spetta in corrispondenza del suo ingresso in monastero, 6 tranne che per il ministero dell’altare, oppure nel caso che la scelta della comunità o la volontà dell’abate l’abbiano promosso in considerazione della sua vita esemplare. 7 Sappia però che deve osservare la disciplina prestabilita per i decani e i superiori. 8 Se avrà la presunzione di agire diversamente, non sia più trattato come un sacerdote, ma come un ribelle. 9 E nell’eventualità che, dopo essere stato ammonito non si correggesse, si chiami a testimonio anche il vescovo. 10 Ma se neanche allora si emendasse e le sue colpe diventassero sempre più evidenti, sia espulso dal monastero, 11 purché però sia stato così ostinato da non volersi sottomettere e obbedire alla Regola.

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Approfondimenti

Per associazione, si parla qui dei sacerdoti del monastero, cioè dei fratelli che nel monastero vengono elevati al sacerdozio (non già dei sacerdoti che chiedono di diventare monaci, come nel c. 60): la loro posizione di privilegio si aggiunge a quella contemplata nei cc. 60-61. RB 62 non ha un parallelo nella RM, la quale non prevede l'elevazione dei monaci al sacerdozio, anche se prevede la comunione giornaliera. Per la Messa si andava alla chiesa del villaggio, come del resto facevano gli antichi monaci ed eremiti (ma talvolta gli eremiti si ritenevano dispensati dalla partecipazione esterna al culto. Pensiamo a SB che, eremita, a Subiaco, ignorava che fosse il giorno di Pasqua: II Dial 1). S. Pacomio ed altri preferivano chiamare nei loro cenobi qualche sacerdote per celebrare i sacri riti.

Monachesimo e sacerdozio Tutto ciò manifesta la posizione generale, se non unanime, del monachesimo antico riguardo al sacerdozio. Gli anacoreti copti si mostravano restii all'ordinazione; i pacomiani la rifiutavano in assoluto; in Siria i migliori monaci si opponevano a che i vescovi imponessero loro le mani. Sacerdozio e monachesimo sono realtà distinte: uno è per il servizio ministeriale del popolo di Dio attraverso la Parola e i Sacramenti, l'altro è per lo sforzo di realizzare nella solitudine la perfezione dell'unione con Cristo. Desiderare il sacerdozio per i monaci antichi era segno di superbia; i monaci avevano paura del sacerdozio; sacerdozio e orgoglio vanagloria sono termini spesso associati nei loro scritti (per esempio Cassiano, Inst. 11,14-18; Coll 4,20; 5,12). Avevano paura che a motivo del sacerdozio dovessero lasciare la loro vita isolata per il ministero: “il monaco deve fuggire allo stesso modo i vescovi e le donne”, secondo il celebre detto di Cassiano (Inst 11,18). L'ordinazione di alcuni monaci per il servizio della comunità poteva dare origine a dispute, invidie, divisioni, problemi di autorità e di precedenza. Era un rischio. In questo contesto si comprende il c. 62 di SB. Oggi, evidentemente, la situazione e la mentalità sono mutate, la teologia ha aperto una nuova visione. Oggi sarebbe a dir poco ridicolo accettare con la odierna mentalità l'espressione di Cassiano cosi` come suona...; ma non è che Cassiano avesse torto: se anche noi oggi avessimo, del “vescovo e della donna”, l'immagine pratica ed esterna che queste categorie immediatamente evocavano, non c'è dubbio che dovremmo avere la stessa reazione. La realtà spirituale (la teologia) è la stessa, l'immagine e la situazione esterna e contingente sono mutate. Ma anche oggi, del resto, non mancano aspetti di conflitto esteriore tra “vescovi e gerarchia” e religiosi; non per nulla è stato necessario il documento pontificio “Mutuae Relationes” (Criteri direttivi sui rapporti tra i Vescovi e i Religiosi nella chiesa, 14 maggio 1978).

1: Elevazione di un monaco al sacerdozio SB con tutto il monachesimo di allora dimostra una certa sfiducia di dover avere dei sacerdoti in monastero (appare abbastanza chiaro da questo capitolo e dal c. 60), ma preferisce correre questo rischio per il vantaggio di avere in casa un sacerdote per la liturgia monastica. Tanto l'iniziativa che la scelta della persona spettano all'abate, il quale dovrà vedere chi sia degno, cioè un monaco sensato, maturo e di “santa conversazione”. Sacerdotio fungi “esercitare l'ufficio sacerdotale”, in senso largo: sacerdote e diacono è frase biblica da Sir 45,19.

2-7: Posizione e obblighi dell'ordinato “Honores mutant mores”, dice un proverbio: “Gli onori cambiano i costumi”. Una volta elevato alla dignità sacerdotale, il monaco che ne era degno (v. 1) può cessare di esserlo e lasciarsi prendere dallo spirito di alterigia e di superbia (v. 2). SB gli ricorda l'obbligo di sottomissione alla Regola e all'abate; anzi, gli ricorda che si deve sentire più obbligato degli altri alla disciplina regolare e sforzarsi di “avanzare sempre più nel Signore” “magis ac magis in Deum proficiat”, v. 4. La frase riecheggia S. Cipriano, Epist. 13,16. Insomma, “noblesse oblige”, la nobiltà impone dei doveri! Il monaco ordinato sacerdote o diacono conserverà il suo posto in comunità (v. 5), anche se potrà essere trattato con più riguardo ed avanzare grado (come già previsto per i sacerdoti secolari che si fanno monaci: RB 60,4.8 e per i monaci forestieri: RB 61,11-12).

8-11: Penalità per il sacerdote indegno La finale del capitolo è nello stesso tempo molto triste ed energica. Se il sacerdote cessa per la sua cattiva condotta di essere monaco, non lo si riterrà più neanche sacerdote, ma ribelle (v. 8). Certo, lo si riprenderà più volte, “saepe monitus”, chiamando a testimoniare anche il vescovo che lo ha ordinato (questo corrisponderebbe all'ammonizione pubblica di RB 23,3). In seguito si può arrivare addirittura all'espulsione dal monastero (v. 10), ma naturalmente solo in casi estremi (v. 11). È presumibile che le disposizioni dei vv. 7-11 si applicassero anche ai monaci che erano già sacerdoti prima di entrare in monastero (RB 60); ma il pericolo dell'insubordinazione sarà stato più facile – e forse SB lo apprese dall'esperienza – in coloro che, prima semplici monaci, si vedevano poi elevati alla dignità sacerdotale o diaconale e preferiti ad altri loro fratelli.

Conclusione del capitolo Concludendo, la RB “non considera il sacerdozio dei monaci che in due casi: quando vengono alla vita monastica già rivestiti del sacerdozio e quando si fa sentire la necessità della presenza di un sacerdote nella comunità, per assicurare il servizio dell'altare. In altre parole, il sacerdozio non è stato previsto se non nei casi di vera necessità. Il monaco sacerdote, lungi dall'essere un ideale, è concepito come una pericolosa, benché inevitabile, anomalia, i cui inconvenienti si cerca di ridurre con severi avvertimenti” (DeVogué). Sono parole un po' forti, ma storicamente vere. Sappiamo che nel corso dei secoli, il numero dei monaci sacerdoti è aumentato, il che ha cambiato la prospettiva della Regola (e tutta la visuale di questo capitolo), che è quella di una comunità laicale. Negli ultimi tempi, in alcuni luoghi, si notano dei movimenti di ritorno (almeno come ipotesi) ad un monachesimo laicale.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXI – L’accoglienza dei monaci forestieri

1 Se un monaco forestiero, giunto di lontano, vuole abitare nel monastero in qualità di ospite 2 e si dimostra soddisfatto delle consuetudini locali, 3 accontentandosi con semplicità di quello che trova, senza disturbare la comunità con le sue pretese, sia accolto per tutto il tempo che desidera. 4 Nel caso poi che egli rilevi qualche inconveniente o dia qualche suggerimento, l’abate si chieda se il Signore non lo abbia mandato proprio per questo. 5 E se in seguito vorrà fissare la sua stabilità nel monastero, non si opponga un rifiuto a questa sua richiesta, tanto più che durante la sua permanenza si è avuto modo di studiarne il comportamento. 6 Se però, quando era ospite si è dimostrato pieno di pretese e di difetti, non solo non dev’essere aggregato alla comunità, 7 ma bisogna dirgli garbatamente di andarsene per evitare che le sue miserie contagino anche gli altri. 8 Invece, se non merita di essere allontanato, non sia accolto e incorporato nella comunità solo nel caso che ne faccia domanda, 9 ma sia addirittura invitato a rimanere, perché gli altri possano trarre profitto dal suo esempio 10 e perché dappertutto si serve il medesimo Signore e si milita sotto lo stesso Re. 11 Anzi, se l’abate lo ritiene degno, può anche assegnargli un posto un po’ elevato. 12 E non solamente un monaco, ma anche coloro che appartengono all’ordine sacerdotale o al chiericato, l’abate può destinare a un posto superiore a quello corrispondente al loro ingresso in monastero, se ha notato che la condotta lo merita. 13 Si guardi però sempre dall’ammettere stabilmente nella sua comunità un monaco proveniente da un monastero conosciuto, senza il consenso e le lettere commendatizie del suo abate, perché sta scritto: 14 «Non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te».

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Approfondimenti

Monaci pellegrini Questo capitolo presenta un'ultima categoria di candidati: i monaci venuti da fuori. La parola “pellegrini”, suscettibile di varie interpretazioni, qui significa soprattutto “monaci stranieri, forestieri” (non monaci sarabaiti e girovaghi tanto detestati da SB, cf. RB 1,6-11). RB 61 dice semplicemente: “monaco proveniente da paesi lontani” (v.1), non si specifica il motivo del viaggio, né la categoria a cui il monaco appartiene.

1-4: Il monaco pellegrino ricevuto come ospite A differenza del sacerdote o chierico del capitolo precedente, il monaco pellegrino non intende entrare a far parte della comunità, ma solo essere accolto in foresteria come ospite. Per SB non c'è nessun problema: sia accolto “per tutto il tempo che vuole”, purché abbia due atteggiamenti fondamentali: si accontenti di quello che trova e non turbi la pace della famiglia monastica con pretese, critiche, pettegolezzi, ecc. (vv. 1-3). Questo non esclude che egli possa fare delle giuste osservazioni “con motivi validi e con umile carità” (v. 4). Pieno di spirito di fede, SB suggerisce all'abate che forse il Signore ha inviato il monaco forestiero “proprio per tale motivo” (v. 4): c'è sempre da correggere e da migliorare e la volontà del Signore si può manifestare attraverso un ospite, come attraverso le osservazioni dei fratelli più giovani (SB lo ha già detto in RB 3,3).

5-10: Aggregazione del monaco ospite alla comunità Se il monaco forestiero si trova bene nel monastero che lo ospita, potrà in seguito chiedere di essere ammesso nella comunità: dato che si è potuto conoscere la sua condotta, ci si regoli di conseguenza. SB è preoccupato soprattutto del profitto spirituale dei suoi monaci; l'ospite può contagiare la comunità con i suoi vizi, come può edificarla con la sua virtù: nel primo caso gli si dica “con urbanità” – non con insulti e violenza – di andar via; nel secondo caso non solo lo si accolga in comunità, se lo chiede, ma anzi sia invitato a entrarvi perché gli altri ne abbiano edificazione e perché “in ogni luogo si serve un solo Signore e si milita sotto un unico Re” (in omni loco uni Domino servitur, uni Regi militatur): la bella sentenza era forse comune nell'uso cristiano.

11-14: Due osservazioni Il capitolo si chiude con due osservazioni.

  1. L'abate avrà l'autorità di assegnare al nuovo fratello un posto più elevato, se lo ritiene degno (v. 11); e lo stesso potrà fare per i sacerdoti e i chierici (v. 12) di cui ha parlato al capitolo precedente. Si noti che non si tratta di una ripetizione, perché prima aveva previsto la promozione per onorare il sacerdozio (RB 60,4.8), mentre qui vuole onorare la virtù personale.
  2. La seconda osservazione è ispirata al desiderio di conservare la pace tra i monasteri vicini; quindi per accogliere un monaco di un monastero noto sarà necessaria l'autorizzazione del suo abate e le “lettere commendatizie”. Così prescrivevano vari Concili e le regole monastiche del sec. V e VI.

Il c. 61 ci appare così una pagina di discrezione veramente soprannaturale: accoglie il monaco forestiero, ma accetta le eventuali osservazioni come provenienti dal Signore, si preoccupa dell'avanzamento spirituale della comunità per cui, in caso di un ospite virtuoso, insiste per farlo rimanere, in modo da costituire uno sprone per gli altri: ma con prudenza e delicatezza, senza far torto a un monastero vicino. Ancora una volta SB ci appare non un legislatore minuzioso e legalista, ma un uomo spirituale e sollecito pastore di anime.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LX – I sacerdoti aspiranti alla vita monastica

1 Se qualche sacerdote chiede di essere ammesso nel monastero, non bisogna affrettarsi troppo ad accogliere la sua richiesta. 2 Ma se continua a insistere in questa preghiera, sappia che dovrà osservare tutta la disciplina della Regola, 3 senza la minima attenuazione, in modo che gli si possa dire con la Scrittura: «Amico, che sei venuto a fare?». 4 Gli si conceda tuttavia di prender posto dopo l’abate, di dare la benedizione e di recitare le preci finali, purché l’abate disponga così; 5 altrimenti non pretenda assolutamente nulla, anzi sia per tutti un esempio di umiltà, ben sapendo di essere soggetto alla disciplina della Regola. 6 E se per caso nella comunità si dovesse trattare dell’assegnazione delle cariche o di qualche altro affare, 7 occupi il posto che gli spetta corrispondentemente al suo ingresso in monastero e non quello che gli è stato concesso in considerazione della sua dignità sacerdotale. 8 Se poi qualche chierico, spinto dallo stesso desiderio, volesse essere aggregato alla comunità, sia assegnato a un posto di un certo riguardo, 9 ma sempre a condizione che prometta anche lui l’osservanza della Regola e la propria stabilità.

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Approfondimenti

1-9: Sacerdoti e chierici che domandano di diventare monaci SB passa a un'altra classe di candidati: sacerdoti e chierici (“de ordine sacerdotali” del v. 1 comprende vescovi, sacerdoti e diaconi; i “clerici” del v. 8 sono invece i chierici di grado inferiore). L'espressione del titolo in monasterio habitare non significa starvi per qualche tempo, ma ha il senso di “incorporazione alla comunità monastica, cioè diventare monaci. Per capire bene questo capitolo, bisogna vederlo alla luce della storia e della tradizione benedettina. Nel più antico cenobitismo, mentre si prestava al sacerdozio ogni segno di rispetto, si nutriva anche una certa diffidenza, o almeno si usava molta cautela per l'ammissione di sacerdoti allo stato monastico, a causa dei problemi che la sua dignità poteva creare col superiore e coi fratelli, specialmente per il fatto che tutti, abate compreso, erano in genere laici. Così si spiega perché i casi di tali passaggi fossero abbastanza rari, come potrebbe dedursi anche dalla parola forte “eventualmente” nel titolo.

La RM (c. 83) ammette i sacerdoti solo come ospiti e pellegrini (non come monaci) e li obbliga a lavorare; dei chierici non parla affatto. SB è più aperto: sa che la presenza di sacerdoti e chierici può causare problemi, ma li ammette come veri monaci, sia pure con cautela per evitare inconveniente. RB ordina quindi di non riceverli troppo presto (v. 1), ma solo se insistono omnino (assolutamente) nella domanda (v. 2), facendo loro capire subito che il carattere sacro non comporta alcuna mitigazione nell'osservanza della Regola (vv. 2-3). L'espressione “Amice, ad quid venisti?” la rivolse Gesù a Giuda nell'atto del tradimento (Mt 26,50). SB la cita senza il carattere di amarezza e di rimprovero che ha nel Vangelo, ma solo per ricordare al sacerdote che è venuto di sua spontanea volontà in monastero. Anche S. Arsenio nel deserto si domandava spesso: “Propter quid venisti?” (perché sei venuto?). È noto l'uso efficace che di questa frase fece S. Bernardo per ammonire se stesso ripetendo: “Bernarde, ad quid venisti?”. Così i sacerdoti sono equiparati a tutti gli altri fratelli nel tenore di vita. Non è detto però che devono essere provati per un anno intero, come stabilito nel c. 58; comunque dovevano fare una promessa formale (cioè la professione) di osservare la Regola e di perseverare nel monastero, come si deduce dal confronto con il v. 9: “anche questi...”.

Per onorare il sacerdozio, l'abate potrà loro concedere alcuni privilegi. Al v. 4 “missas tenere” è discutibile se significhi “celebrare la messa”, oppure “dire le orazioni finali” “missas” dell'Ufficio divino. Allora il senso generale del versetto sarebbe che il sacerdote occupa il secondo posto, subito dopo l'abate e, in assenza di questi, compie l'ufficio di benedire e di recitare le formule finali. Però questo non deve essere causa di presunzione, ma anzi “dia a tutti esempio di umiltà” (v. 5) e quando si tratta di decisioni nella comunità o di nomine, deve stare al posto che gli compete secondo la professione monastica (vv. 6-7) come tutti gli altri (cf. RB 63). Lo stesso dicasi per i chierici di grado inferiore, solo che, invece del primo posto subito dopo l'abate, vengono messi in un luogo intermedio, cioè si ha per loro un certo riguardo (vv. 8-9).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LIX – I piccoli oblati

1 Se qualche persona facoltosa volesse offrire il proprio figlio a Dio nel monastero e il ragazzo è ancora piccino, i genitori stendano la domanda di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente 2 e l’avvolgano nella tovaglia dell’altare insieme con l’oblazione della Messa e la mano del bimbo, offrendolo in questo modo. 3 Per quanto riguarda poi i loro beni, o nella domanda suddetta promettano di non dargli mai nulla, né direttamente né per interposta persona, né in qualsiasi altro modo, e neanche di dargli mai l’occasione di procurarsi qualche sostanza, 4 oppure, se non intendono regolarsi secondo questa prassi e desiderano offrire qualche cosa al monastero per la salute dell’anima loro, 5 facciano donazione dei beni che vogliono regalare al monastero, riservandosene, se credono, l’usufrutto. 6 Così si precludano tutte le vie, in modo da non lasciare al ragazzo alcun miraggio da cui possa esser tratto in inganno e – Dio non voglia! – in perdizione, come ci ha insegnato l’esperienza. 7 La stessa procedura seguano anche i meno abbienti. 8 Quanto a coloro che non possiedono proprio nulla, facciano semplicemente la domanda e offrano il loro figlioletto con l’oblazione della Messa, alla presenza di testimoni.

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Approfondimenti

Un grosso problema alla nostra mentalità di oggi Il capitolo risulta incomprensibile, se prescindiamo dal contesto storico in cui è nato. Alla nostra mentalità sembra assurdo, anzi inumano e crudele, che si possa decidere così della sorte di una creatura umana prima che questa sia in grado di compiere responsabilmente un certo passo. Il c. 59 della RB è sembrato tanto duro che si è cercato di attenuarlo dicendo che il fanciullo, una volta giunto all'età della discrezione, poteva ratificare la sua oblazione monastica, oppure ritornare nel mondo (che in certi casi conosceva appena). Ma questa tesi non è sostenibile. Nella tradizione orientale sappiamo da S. Basilio (Reg. 7) che nell'oblazione dei fanciulli erano sempre richiesti i testimoni e che inoltre essi non facevano promessa di verginità; quindi la loro donazione non era definitiva. In occidente invece c'erano varie correnti: da quella che richiedeva il loro assenso (ad esempio in S. Leone Magno), fino a quella che riteneva perpetuo e irrevocabile il vincolo dell'oblazione fatta dai genitori. A metà del sec. VI si nota una presa di posizione a favore dell'irrevocabilità; nel IV Concilio di Lione (633) si stabilì il principio poi divenuto classico in occidente: “Monachum aut paterna devotio aut propria professio facit” (si diventa monaci o per la devozione del padre o per la propria professione). Mentre l'oriente quindi restò fedele in genere al principio di Basilio secondo cui la promessa di verginità non può essere che un atto libero e personale, l'occidente andò nella direzione opposta: “si è sacrificata la libera scelta della verginità a una nozione troppo materiale della consacrazione unita ai diritti dell'autorità paterna” (DeVogué).

RB sembra addirittura in anticipo sui tempi, nello stabilire con tanta chiarezza la prassi dell'oblazione dei fanciulli. È inutile cercare attenuazioni: niente fa supporre che SB prevede una ratifica cosciente e libera della involontaria consacrazione fatta da piccoli; anzi, le precauzioni riguardo ai beni sono proprio per scoraggiare eventuali tentazioni di uscire dal monastero. Il paragone tra il c. 58 e il c. 59 fa vedere una reale corrispondenza tra la professione degli adulti e l'oblazione dei fanciulli, e che quindi l'oblazione fatta dai genitori obbligava in perpetuo l'oblato alla vita monastica. Ciò del resto è confermato da altri passi della RB: i ragazzi appaiono sempre come veri monaci (e non come una categoria a parte) e vengono trattati come gli altri tenendo conto naturalmente della loro età debolezza (cf. RB 22,7; 30; 37; 45,3; 70,4-5; ecc.). L'unica ragione della incredibile durezza di questo capitolo è la mentalità dell'epoca, mentalità che oggi non possiamo accettare. Per la validità della professione, la Chiesa prescrive oggi almeno 18 anni di età, piena consapevolezza e libertà, mancanza assoluta di ogni tipo di violenza, timore grave o inganno (CIC. 656). Una volta non era così, e SB si è adattato alla mentalità dell'epoca in ambiente occidentale. D'altra parte, per aiutarci a comprendere, è noto che in alcuni popoli, ancor oggi, i matrimoni dei figli vengono arrangiati dai genitori fin da quando i figli stessi sono in tenera età! E oggi c'è anche chi protesta, in nome della libertà e dell'autodecisione, contro il battesimo dei bambini!

1-8: Oblazione dei fanciulli SB distingue tra i figli dei nobili (vv. 1-6), quelli dei meno ricchi (v. 7) e quelli dei poveri (v. 8). In tutti i casi, i genitori, offrendo i loro figli in tenera età, scrivevano la “petitio” e la avvolgevano nella tovaglia dell'altare insieme alla mano del piccolo (vv. 1-2.8): “il fanciullo – è stato detto con ragione – è offerto passivamente con il pane e il vino. Non lo si tratta come persona, ma come oggetto” (DeVogué).

Dove SB appare alla mentalità odierna di una insensibilità sconcertante per la libertà umana, è nelle prescrizioni relative alla disappropriazione del fanciullo, prescrizioni di carattere giuridico che occupano quasi tutto il testo del capitolo (vv. 3-6). I padri dei più ricchi e dei meno ricchi potranno fare qualche donazione al monastero, ma si obbligheranno formalmente a non lasciare nulla ai figli, né per il presente né per l'avvenire. In questa assoluta e definitiva carenza di beni materiali, la RB vedeva una garanzia di perseveranza per l'oblato (v. 6).

Evoluzione del termine “oblato” Quindi per molti secoli quasi tutti i monasteri ebbero i “monaci oblati”, cioé offerti da piccoli e cresciuti nel cenobio; molti di essi divennero illustri per fama e santità: S. Beda il Venerabile, S. Bonifacio apostolo della Germania, Santa Geltrude la Grande, ecc. Coloro invece che entravano da grandi nel monastero, si chiamavano conversi (non nel senso che il termine assunse poi, a partire dal sec. XI per distinguerli dai “chierici”).

Fin dai più remoti secoli benedettini, accanto agli oblati, si trovavano nei monasteri i fanciulli che ricevevano la loro istruzione letteraria e la loro educazione morale. È la gloriosa tradizione delle scuole monastiche che, insieme a quelle episcopali, tennero alto nel medioevo il culto del sapere e delle arti. Oggi, con il nome di “oblati”, si intendono due categorie di persone: “oblati regolari” o “claustrali” (cioè coloro che, senza essere monaci, vivono volontariamente in monastero per motivi spirituali) e “oblati secolari” (cioè coloro che, sia sacerdoti che laici, uomini e donne, vivono nel mondo ispirando la propria vita cristiana alle norme e alla spiritualità benedettina).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LVII – Capitolo LVIII – Norme per l’accettazione dei fratelli

1 Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità, 2 ma, come dice l’Apostolo: «Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio». 3 Quindi, se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta, 4 sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria. 5 Ma poi si trasferisca nel locale destinato ai novizi, perché vi ricevano la loro formazione, vi mangino e vi dormano. 6 Ad essi venga inoltre preposto un monaco anziano, capace di conquistare le anime, con l’incarico di osservarli molto attentamente. 7 In primo luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio, se ama l’Ufficio divino, l’obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune. 8 Gli si prospetti tutta la durezza e l’asperità del cammino che conduce a Dio. 9 Se darà sicure prove di voler perseverare nella sua stabilità, dopo due mesi gli si legga per intero questa Regola 10 e gli si dica: «Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se ti senti di poterla osservare, entra; altrimenti, va’ pure via liberamente». 11 Se persisterà ancora nel suo proposito, sia ricondotto nel suddetto locale dei novizi e si metta la sua pazienza alla prova in tutti i modi possibili. 12 Passati sei mesi, gli si legga di nuovo la Regola, perché prenda coscienza dell’impegno che sta per assumersi. 13 E se continua a perseverare, dopo altri quattro mesi, gli si legga ancora una volta la stessa Regola. 14 Se allora, dopo aver seriamente riflettuto, prometterà di essere fedele in tutto e di obbedire a ogni comando, sia pure accolto nella comunità, 15 ma sappia che anche l’autorità della Regola gli vieta da quel giorno di uscire dal monastero 16 e di sottrarsi al giogo della disciplina monastica che, in una così prolungata deliberazione, ha avuto la possibilità di accettare o rifiutare liberamente. 17 Al momento dell’ammissione faccia in coro, davanti a tutta la comunità, solenne promessa di stabilità, conversione continua e obbedienza, 18 al cospetto di Dio e di tutti i suoi santi, in modo da essere pienamente consapevole che, se un giorno dovesse comportarsi diversamente, sarà condannato da Colui del quale si fa giuoco. 19 Di tale promessa stenda un documento sotto forma di domanda, rivolta ai Santi, le cui reliquie sono conservate nella chiesa, e all’abate presente. 20 Scriva di suo pugno il suddetto documento o, se non è capace, lo faccia scrivere da un altro, dietro sua esplicita richiesta, e lo firmi con un segno, deponendolo poi sull’altare con le proprie mani. 21 Una volta depositato il documento sull’altare, il novizio intoni subito il versetto: «Accoglimi, Signore, secondo la tua promessa e vivrò; e non deludermi nella mia speranza». 22 Tutta la comunità ripeta per tre volte lo stesso versetto, aggiungendovi alla fine il Gloria. 23 Poi il novizio si prostri ai piedi di ciascuno dei fratelli per chiedergli di pregare per lui e da quel giorno sia considerato come un membro della comunità. 24 Se possiede dei beni materiali, li distribuisca in precedenza ai poveri o li doni al monastero con un atto ufficiale senza riservare per sé la minima proprietà, 25 ben sapendo che da quel giorno in poi non sarà più padrone neanche del proprio corpo. 26 Quindi, subito dopo, sia spogliato in coro delle vesti che indossa e rivestito dell’abito monastico. 27 Ma gli indumenti di cui si è spogliato devono essere conservati nel guardaroba, 28 in modo che, se in seguito dovesse – Dio non voglia!– cedere alla suggestione diabolica e lasciare il monastero, sia mandato via senza l’abito monastico. 29 Non gli si restituisca invece la domanda che l’abate ha ritirato dall’altare, ma sia conservata in monastero.

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Approfondimenti

L'AGGREGAZIONE AL MONASTERO (RB 58-61 + 62 Abbiamo già visto la paura che i monaci antichi avevano dei rapporti con l'esterno, per il pericolo che si infiltrasse nel monastero una mentalità mondana (vedi soprattutto RB 66,7 e 67,5). Per questo motivo i Padri del cenobitismo erano portati a provare duramente i postulanti, a saggiarne lo spirito e la consistenza dei propositi, a negare loro ripetutamente l'ingresso e, una volta ammessi, obbligarli a restare come in quarantena per un periodo più o meno lungo perché riflettessero sulla serietà della propria vocazione e si abituassero al nuovo genere di vita. Cassiano descrive in questo modo l'ammissione dei postulanti nei monasteri d'Egitto: prima si facevano aspettare almeno dieci giorni alle porte del cenobio, provandone la pazienza con ogni sorta di ingiurie; poi si facevano entrare e venivano spogliati di tutto il denaro e dei loro abiti, sostituendovi quelli del monastero; però con tale “vestizione” non erano ancora incorporati alla comunità, ma venivano affidati all'“anziano” che sovrintendeva alla foresteria, e per un anno intero aiutavano a servire gli ospiti, esercitandosi nell'umiltà e nella pazienza; infine passavano a far parte di una decania ed erano candidati ormai membri della comunità cenobitica e ricevevano una formazione specifica (Inst. 4,3-7). SB adottò più o meno questo schema, ma con molte modifiche, o sue originali o attingendo ad altri autori, come la RM, che in questa sezione è lunghissima e particolareggiata. Trattiamo qui dell'ammissione più comune e ordinaria (RB 58), e poi alcuni casi speciali di ingresso in comunità: l'oblazione dei fanciulli (RB 59), l'ammissione dei sacerdoti e chierici (RB 60) e di monaci di altri monasteri (RB 61); per associazione di idee, si parla poi dei sacerdoti del monastero (RB 62).

Preliminari al c. 58 È uno dei più importanti capitoli della Regola, perché non parla solo della procedura per l'accettazione, ma del contenuto stesso della vita monastica, con le idee fondamentali secondo SB: il QUAERERE DEUM, la STABILITAS, la CONVERSATIO MORUM, la OBOEDIENTIA. A questo capitolo corrispondono RM 87-88 e 89-90, molto lunghi, con tutti i dialoghi tra postulante e abate e le esortazioni di quest'ultimo, soprattutto il c.90, in cui quasi tutti i 95 versetti (!) sono occupati da un'omelia dell'abate. SB ha modificato molte cose, ha abbreviato moltissimo, ha soppresso la distinzione tra i postulanti iam conversi (già conversi, cioè coloro che vivevano nel mondo alla maniera dei monaci con una vita penitente, semplice e nel celibato) e i postulanti ancora laici.

1-4: L'ingresso Non bisogna essere facili all'accettazione: la sincerità e la solidità di una vocazione devono essere provate, come suggerisce l'Apostolo (che in questo caso non è S. Paolo, ma S. Giovanni, 1Gv 4,1; il testo si riferisce direttamente ai falsi profeti). Al v. 1 per “vita monastica” c'è il termine “conversatio” che è termine tecnico: per il senso preciso, vedi più avanti (commento al v. 17). Il nuovo venuto, dunque, comincia a trovare difficoltà davanti alla porta. SB però è più discreto: i “pochi giorni” di cui parla Pacomio (Reg 49) e che erano diventati “una settimana” secondo la Reg IV Patrum 2,25 e “dieci giorni” secondo Cassiano (Inst 4,3), diventano quattro o cinque giorni (v. 3). Non è verosimile che in tali giorni restasse sempre all'aperto e allo scoperto, forse veniva ricoverato presso la “cella” del portinaio. Dopo una prima fase davanti alla porta, un'altra breve fase nella foresteria (v. 4).

5-16: Il noviziato Comincia quindi un periodo di prova più definito e specifico, che si svolge in un locale apposito, cella novitiorum (noviziato) per un anno intero, sotto la guida di un “anziano” (che col tempo si chiamerà maestro dei novizi): tutte queste cose sono innovazioni proprie di SB. Nel locale a parte, i novizi passano tutto il tempo libero dall'Ufficio divino e dal lavoro: lì mangiano, dormono e “meditano”: un termine tecnico, quest'ultimo, che comprende sia la lectio divina, sia l'imparare a memoria i testi (la “exercitatio”), l'apprendere, quindi tutto il lavoro di studio e di formazione (vedi commento a RB 48,23).

6: ...un anziano capace di guadagnare le anime L'espressione di questo v. 6 è di origine biblica (Mt 18,15; 1Cor 9,20) e richiama un passo analogo della “Vita Pachomii”,25. Il metodo da seguirsi nel noviziato consta di due parti: da un lato il candidato stesso deve verificare (e il maestro deve osservare questo) se è disposto a cercare Dio attraverso un cammino spirituale specifico; dall'altro il maestro gli deve porre davanti le difficoltà che tale cammino comporta.

7-8: Punti fondamentali di verifica I vv.7-8 sono molto importanti: abbiamo alcune linee fondamentali della vita monastica.

  • Si revera Deum quaerit (se veramente cerca Dio): è colta qui tutta l'essenza e il programma della vita monastica. Si viene al monastero non per uno scopo particolare o per una missione specifica di bene (predicazione, insegnamento, ecc...), ma solo per la ricerca di Dio: è un atteggiamento generale di fondo, un'attitudine religiosa essenziale. Per i monaci, l'assidua ricerca di Dio, dopo che essi sono stati cercati da Lui (cf. Prol 14), diventa la loro ultima ragion d'essere.

  • Se e` pronto all'Opus Dei, all'obbedienza, alle umiliazioni: tre esplicitazioni della sincera ricerca di Dio che il novizio deve verificare; il maestro, poi, dovrà non nascondere le difficoltà del cammino: omnia dura et aspera per quae itur ad Deum (tutte le difficoltà e le asprezze attraverso le quali si va a Dio) (v. 8): anche questa frase è rimasta proverbiale e programmatica nell'iter di formazione del monaco. SB divide l'anno di noviziato in tre periodi disuguali: primi due mesi (v. 9), i successivi sei mesi (v. 12), gli ultimi quattro mesi (v. 13). Alla fine di ciascun periodo si legge al novizio l'intera Regola, “perché conosca bene che cosa affronta entrando” (v. 12). Oggi si usa leggere la Regola durante tutto il noviziato, accompagnata dalla spiegazione particolareggiata del maestro; gli antichi, anzi, raccomandavano di impararla a memoria, e l'uso è rimasto presso alcuni monasteri. Così il novizio va maturando la sua esperienza “in ogni pazienza” (v. 11), ascolta la triplice lettura della Regola (vv. 9.12.13), delibera (v. 14) di osservare tutte le prescrizioni della vita comune, della legge sotto la quale intende militare (v. 10). Allora, al termine del noviziato, lo si ritiene degno di essere aggregato alla comunità monastica (vv.14-16).

17-29: La professione monastica Il suscipiendus (colui che deve essere ammesso) (v. 17) farà ufficialmente professione di vita monastica. Al tempo di SB e per molti secoli non esisteva che una unica professione. La Chiesa è intervenuta, per vari motivi, ad obbligare un periodo di voti temporanei, della durata di almeno tre anni. Quanto è ordinato e descritto qui da SB vale oggi pienamente solo della professione “solenne”, che si usa chiamare anche consacrazione monastica.

17: Contenuto della professione SB fa promettere al candidato tre cose, che impropriamente furono definiti “i tre voti monastici”. In realtà SB non intende qui stabilire tre voti distinti, ma solo indicare l'oggetto della promessa del monaco. Nei pacomiani non si parla mai di voti, anche se c'era la pratica dei consigli evangelici; Basilio parla di consacrazione al Signore fatta per voto (Reg. 14), ma non menziona “voti” espliciti. Certamente la disposizione di SB ha avuto il merito di polarizzare la pratica dei voti monastici (castità e povertà erano inclusi nel fatto stesso di farsi monaco, nella “conversatio”) ed ha influito sulla organizzazione posteriore della vita religiosa. E passiamo al contenuto. Il novizio promette: “de stabilitate sua et conversatione morum suorum et oboedientia” (stabilità, conversione dei costumi, obbedienza9.

Stabilitas Che cos'è veramente la “stabilità”? Senza dubbio è anzitutto la perseveranza (cf. v. 9), cioè stabilità, costanza, fermezza, permanenza in uno stato determinato. La cosa è più complicata (e controversa) quando si vuol determinare con precisione l'oggetto della perseveranza. Tenendo presente il contesto, risulta abbastanza chiaro che si tratta di perseverare nel monastero come monaco sotto la Regola che si accetta di professare, praticamente è il “compromettersi totalmente nella vita monastica”, perseverando fino alla morte, in una comunità, in una permanenza abituale nei recinti del monastero, con l'accettazione della vita comune e l'osservanza regolare. Ricordiamo la finale del Prologo: “perseverando nel monastero fino alla morte, parteciperanno con la pazienza ai patimenti di Cristo” (Prol. 50). Ricordiamo ancora il 4° grado di umiltà: “conservare la pazienza... chi persevererà sino alla fine...” (RB 7,36). Ricordiamo ancora la finale del c. 4: ”... stabilitas in congregatione” (la stabilità nei recinti del monastero), che è l'“officina” dove si adoperano gli strumenti dell'arte spirituale (RB 4,78). Contro il disordine dei monaci girovaghi (RB 1,10-11), contro la “in-stabilitas” lamentata da Cassiano (Inst. 7,9), SB vuole come una delle sue caratteristiche una stabilità di luogo e di famiglia che aiuta a superare la instabilità del cuore. Il concetto di stabilità ha oggi un significato più allargato, secondo le diverse Congregazioni monastiche, e ammette delle eccezioni anche dove si è legati ad un singolo monastero. Rimane comunque il senso primordiale e fondamentale della perseveranza, con la pazienza, sull'esempio di Cristo: “In ultima analisi, promettere la stabilità è compromettersi nel partecipare alla pazienza, nella obbedienza, nella perseveranza di Cristo che furono totali, assolute, senza limiti...” (J. Leclerq). “È l'incarnazione, la cristallizzazione di un'attitudine, e di un'attitudine puramente spirituale...; la vita religiosa è un compromettersi per tutta la vita...; si entra in uno stato cristiforme...; si rimane in monastero perché si rimane in Cristo” (H. U. Von Balthasar).

La conversatio morum Prima si leggeva conversio monastica, cioè il novizio prometteva di cambiar vita, lasciare i costumi del mondo per acquistare quelli di un vero monaco. I recenti studi critici fanno ritenere genuina la lezione conversatio, piuttosto che conversio. Il termine “conversatio” può derivare dall'intransitivo “conversari” e significa: modo, tenore di vita, condotta; oppure dal transitivo “conversare”, da “convertere”, nel senso di rivoltare, rigirare, e allora equivale a “conversio”, sia in senso proprio che figurato. Come termine specifico monastico può quindi significare, oltre il semplice “modo di vivere”, anche l'entrata, la dimora in monastero, l'appartenenza allo stato monastico, oppure, in senso più limitato, la vita ascetica nello stato monastico; infine, come equivalente di “conversio”, significa la conversione, il mutamento di vita. Nella RB queste sfumature ci sono; nei passi in cui appare il termine, può valere in genere “vita monastica”: Prol. 49; RB 1.3; 1,12; 2,18; 21,1; 22,2; 58,1; 63,1; 63,7; 73,1-2. Però qui, in RB 58,17, l'aggiunta morum suorum (dei propri costumi) crea difficoltà. Secondo Steidle, la :“conversatio”_ designa qui ugualmente la vita monastica stessa (secondo un gran numero di testi antichi) e “morum suorum” non è che un “genitivo di ridondanza”, cioè una forma letteraria in cui nome e genitivo non sono realtà diverse, ma due sinonimi che si rafforzano reciprocamente. Il novizio così promette di osservare quella “conversatio” che aveva voluto abbracciare bussando la prima volta alla porta del monastero (v. 1). D'altronde la Mohrman ha dimostrato egregiamente lo scambio avvenuto tra i due termini e l'uso di “conversatio” anche nel significato di “conversio”. Tra “conversione dei costumi” come condotta virtuosa, oppure come stile di vita, applicati ambedue all'esistenza del monaco, non c'è dunque grande differenza, ma vogliono in fondo significare la medesima cosa. Potremmo vedere nel termine due prospettive secondo le due etimologie: la prima indicherebbe l'aspetto statico (cioè uno “stile” da monaci secondo la Regola); l'altra indicherebbe l'aspetto dinamico (la promessa di andare dal male verso il bene, e dal bene verso il meglio, l'impegno nel continuo superamento, nel rifiuto di fermarsi o di stagnarsi nella “corsa spirituale”). Ricapitolando, all'origine del termine c'è l'idea del genere di vita, la vita in comune, la maniera di vivere (“conversari”); ma questa maniera di vivere suppone e implica un cambiamento della condotta (“conversare”, da cui “convertere”), per cui il monaco è cosciente sempre di dover tendere ad perfectionem conversationis. Così “conversatio morum” non indica solamente il passaggio dal mondo alla vita monastica, ma la vita monastica stessa in ogni momento della sua tensione dinamica (e include e trascende i tre voti di povertà, castità e obbedienza). La vita monastica deve essere una corsa continua, un progresso nella “conversatio” e nella fede, come dice Prol. 49; la “conversatio morum” assicura l'“allargamento del cuore” (il “dilatato corde”) di cui parla ancora Prol. 49: per correre nella ineffabile dolcezza dell'amore di Cristo (cf. RB 7,68-70 con Prol. 49), nel cammino del ritorno verso il Padre (Prol. 2).

La Oboedientia Dei tre voti essenziali ad ogni stato religioso e già inclusi nella precedente “conversatio”, è espressamente nominata l'obbedienza, perché è il dono più elevato, perché indispensabile alla interna organizzazione del cenobio, perché per SB è la cosa più importante; praticamente ne ha parafrasato la materia nei vv. 14-16. Il novizio allora, al termine di un anno di prova e di matura riflessione, promette solennemente di perseverare nel recinto del monastero e nella comunità, a cui da allora in poi appartiene (stabilitas), in un costante progresso nelle virtù monastiche (conversatio) e nella docilità ai precetti della Regola e ai comandi dell'abate (oboedientia). Oggi la professione si emette “secondo la Regola di S. Benedetto e le Costituzioni della Congregazione ... ” cui si appartiene, perché le Dichiarazioni e le Costituzioni approvate dalla S. Sede integrano e interpretano la Regola secondo le particolari esigenze di tempo e di luogo e le tradizioni proprie di ciascuna Congregazione.

17-29: Rito della professione Dopo la riflessione sopra il contenuto della professione monastica, esaminiamone brevemente il rito come descritto da SB. Il novizio farà la sua professione davanti a tutti (v. 17) e soprattutto davanti a Dio e ai suoi Santi (v. 18). Deve redigere un documento giuridico, la “petitio” (oggi diciamo “la carta di professione”) scritta possibilmente di suo pugno, da lui firmata e che poi egli stesso porterà sull'altare (vv. 19-20). Benché la Regola non lo dica espressamente, da questo e da altri indizi (soprattutto da RB 59,2 e 8 in cui si dice di unire la “petitio” alla “oblatio”, cioè il pane e il vino per l'Eucarestia), si deduce che la professione avveniva durante la Messa, al momento della presentazione dei doni: la tradizione benedettina è unanime su questo punto. In tal modo la professione monastica acquista la sua dimensione teologica piena: nel contesto eucaristico viene espresso pienamente il dono di se stesso che il monaco fa a Cristo e in unione al sacrificio di Cristo.

Dopo la deposizione del documento sull'altare vicino alle offerte, il triplice canto del Suscipe (Sal 118, 116) intonato dal novizio e ripetuto dalla comunità intera (vv. 21-22), è molto significativo: Accoglimi, Signore, secondo la tua parola..., canta il monaco al momento supremo della sua consacrazione a Dio, in risposta alla chiamata che il Signore gli ha diretto (cf. Prol. 14-20). Non c'è monaco che non senta riempirsi l'anima di commozione e di dolcezza al ricordo del suo “Suscipe”. La rubrica seguente (v. 23) contiene ugualmente un significato profondo: il neo professo si prostra ai piedi dei fratelli chiedendo preghiere; quanto più arduo è il cammino, tanto più c'è bisogno della Grazia, e la preghiera fraterna costituisce il primo aiuto che riceve dalla comunità di cui ormai fa parte. Nei vv. 24-25 si parla della disappropriazione che deve essere fatta o distribuendo i beni ai poveri (prima della professione) o cedendoli al monastero con una donazione legale, dato che “da quel giorno non sarà più padrone nemmeno del proprio corpo” (v. 25).

Poi si parla della “vestizione” in maniera alquanto sorprendente e diversa da come aspetteremmo noi oggi e anche da quanto appare in Cassiano e in RM. SB non parla di “abito monastico” (l'espressione non appare mai nella Regola), ma solo che “sia svestito dei propri abiti e rivestito con quelli del monastero” (v. 26): è solo un segno e una conseguenza della totale disappropriazione; a lui non resta di proprio assolutamente nulla, neanche i vestiti con cui giunse al monastero; SB insomma non dà importanza all'abito monastico (vedi a questo proposito quanto detto nel commento a RB 55). Il capitolo si conclude alludendo al caso di abbandono e, incidentalmente, sappiamo che l'abate prende dall'altare la “petitio” e la fa conservare nel monastero per sempre, anche nel caso di infedeltà del monaco. Tale prescrizione ha un senso giuridico ed economico: siccome nella petitio era inserita la “donatio” dei beni, la carta non veniva restituita per evitare reclami da parte dell'uscito.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LVII – I monaci che praticano un’arte o un mestiere

1 Se in monastero ci sono dei fratelli esperti in un’arte o in un mestiere, li esercitino con la massima umiltà, purché l’abate lo permetta. 2 Ma se qualcuno di loro monta in superbia, perché gli sembra di portare qualche utile al monastero, 3 sia tolto dal suo lavoro e non gli sia più concesso di occuparsene, a meno che rientri in se stesso, umiliandosi, e l’abate non glielo permetta di nuovo. 4 Se poi si deve vendere qualche prodotto del lavoro di questi monaci, coloro, che sono stati incaricati di trattare l’affare, si guardino bene da qualsiasi disonestà. 5 Si ricordino sempre di Anania e Safira, per non correre il rischio che la morte, subita da quelli nel corpo, 6 colpisca le anime loro e di tutte le persone, che hanno comunque defraudato le sostanze del monastero. 7 Però nei prezzi dei suddetti prodotti non deve mai insinuarsi l’avarizia, 8 ma bisogna sempre venderli un po’ più a buon mercato dei secolari «affinché in ogni cosa sia glorificato Dio». =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

La povertà individuale del monaco, lo spogliamento di sé acquista qui un aspetto più spirituale che materiale: il monaco deve essere distaccato dalla proprietà privata anche nei suoi pensieri.

1-3: Gli artigiani del monastero La base di sussistenza del monastero, secondo la RB è la terra lavorata da operai a pagamento o dai monaci stessi (cf. RB 48). Tra i fratelli potrebbero trovarsi alcuni che o già nel mondo o in monastero si sono resi abili in un'arte. SB non specifica nulla; pare gli interessi poco; ciò che a lui interessa è il bene spirituale, quindi evitare il rischio della mancanza di umiltà: cose che sono al di sopra di ogni considerazione di guadagno per il monastero. Perciò potranno questi monaci esercitare la loro arte, ma solo con il consenso dell'abate (v. 1) e senza ritenersi indispensabili, vantandosi di portare un utile al monastero. Forse SB si ispira a S. Agostino, il quale parla di monaci che hanno portato delle sostanze al monastero e che potrebbero insuperbirsi di ciò. Potrebbe ispirarsi anche a Cassiano (Inst. 4,14) che parla del lavoro dei monaci egiziani. Per SB, se gli artigiani non sono capaci di disinteresse e di distacco, deve proibirsi loro di esercitare la loro arte (v. 3).

4-9: Vendita dei prodotti del lavoro Per la vendita dei prodotti del monastero sono due i vizi da evitare: la frode e l'avarizia. La frode potevano commetterla o gli artigiani stessi o altri monaci o altri intermediari. L'avarizia, sotto il pretesto di maggiori introiti per il monastero, sarebbe una cosa grave sia per i monaci singoli che per il buon nome del monastero stesso. Per evitare ciò, si venderà aliquantulum (un pochino) di meno di quanto vendono i secolari. S. Girolamo (Epist. 22,34) parla con ironia dei monaci sarabaiti, i quali, “come se fosse santo il loro lavoro, e non la vita, vendevano a prezzi maggiori”!

9: _Ut in omnibus glorificetur Deus..._ ...Affinché in tutto sia glorificato Dio. Anche nel trattare interessi così secondari e temporali, il fine e l'ispirazione devono essere di carattere soprannaturale. La bella sentenza, presa da S. Pietro (1Pt 4,11), ricordata quasi incidentalmente in un passo secondario della Regola e a proposito di un argomento così poco spirituale, esprime bene lo spirito di fede del S. Patriarca, ed è divenuta un programma e un motto dei nostri monasteri, dove si trova spesso anche abbreviata in sigla: U. I. O. G. D.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LVI – La mensa dell’abate

1 L’abate mangi sempre in compagnia degli ospiti e dei pellegrini. 2 Ma quando gli ospiti sono pochi, può chiamare alla sua mensa i monaci che vuole. 3 Sarà bene tuttavia lasciare uno o due monaci anziani con la comunità per il mantenimento della disciplina.

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Approfondimenti

1-3: Senso del capitolo Il breve capitolo va considerato come complemento del capitolo dell'ospitalità: c'è una cucina e una mensa propria per i forestieri e per l'abate. Questi mangia sempre con gli ospiti e, nel caso questi fossero pochi, l'abate può invitare alcuni dei fratelli, purché rimangano sempre uno o due seniori a tutelare la disciplina nel refettorio comune.

Il capitolo, uno dei più brevi di tutta la Regola, è stato il tormento dei commentatori, antichi e moderni. Alcuni hanno ritenuto inammissibile che SB faccia mancare abitualmente l'abate dalla mensa comunitaria, che è uno dei segni maggiori della vita fraterna e della comunità radunata nel nome di Cristo. DeVogué ha interpretato che gli ospiti fossero introdotti nel refettorio monastico e mangiassero alla “tavola” (“mensa” = nel senso di tavola) dell'abate, in giorno di digiuno con orario diverso (in modo che l'abate – solo lui – interrompesse il digiuno), negli altri giorni insieme alla comunità. Ma questa ipotesi renderebbe incomprensibile il v. 3 e non risponderebbe alla “mens” di SB, il quale vuole che gli ospiti non disturbino con la loro presenza la vita regolare dei monaci.

Dobbiamo dire che separare l'abate dai fratelli in un momento così significativo della vita della comunità come la refezione comune, costituisce il prezzo che SB si considerò obbligato a pagare affinché l'esercizio dell'ospitalità non intralciasse lo svolgimento normale del ritmo della giornata monastica. Certo, la cosa generò, nel corso dei secoli, abusi e inconvenienti: si pensi alla grande stortura che più tardi si verificò dando alla “mensa abbatis” il senso di “beneficio ecclesiastico”, con patrimonio proprio, distinto da quello della comunità; fu il pretesto per una lunga serie di gravi abusi che influirono molto negativamente sullo spirito monastico, specialmente nel periodo dei cosiddetti “abati commendatari”.

Naturalmente, oggi, tutto ciò è sorpassato e l'abate presiede abitualmente ai pasti comuni; gli ospiti o mangiano a parte o sono ammessi al refettorio monastico assieme alla comunità.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LV – Gli abiti e le calzature dei monaci

1 Bisogna dare ai monaci degli abiti adatti alle condizioni e al clima della località in cui abitano, 2 perché nelle zone fredde si ha maggiore necessità di coprirsi e in quelle calde di meno: 3 il giudizio al riguardo è di competenza dell’abate. 4 Comunque riteniamo che nei climi temperati bastino per ciascun monaco una tonaca e una cocolla, 5 quest’ultima di lana pesante per l’inverno e leggera o lisa per l’estate; 6 inoltre lo scapolare per il lavoro e come calzature, scarpe e calze. 7 Quanto al colore e alla qualità di tutti questi indumenti, i monaci non devono attribuirvi eccessiva importanza, accontentandosi di quello che si può trovare sul posto ed è più a buon mercato. 8 L’abate però stia attento alla misura degli abiti, in modo che non siano troppo corti, ma della taglia di chi li indossa. 9 I monaci che ricevono gli indumenti nuovi, restituiscano i vecchi, che devono essere riposti nel guardaroba per poi distribuirli ai poveri. 10 Infatti a ogni monaco bastano due cocolle e due tonache per potersi cambiare la notte e per lavarle; 11 il di più è superfluo e dev’essere eliminato. 12 Anche le calze e qualsiasi altro oggetto usato dev’essere restituito, quando ne viene assegnato uno nuovo. 13 I monaci, che sono mandati in viaggio, ricevano dal guardaroba gli indumenti occorrenti, che restituiranno poi lavati al ritorno. 14 Anche le cocolle e le tonache per il viaggio siano un po’ migliori di quelle portate usualmente; gli interessati le prendano in consegna dal guardaroba, quando partono, e le restituiscano al ritorno. 15 Per la fornitura dei letti poi bastino un pagliericcio, una coperta di grossa tela, un coltrone e un cuscino di paglia o di crine. 16 I letti, però, devono essere frequentemente ispezionati dall’abate, per vedere se non ci sia nascosta qualche piccola proprietà personale. 17 E se si scoprisse qualcuno in possesso di un oggetto che non ha ricevuto dall’abate, sia sottoposto a una gravissima punizione. 18 Ma, per strappare fin dalle radici questo vizio della proprietà, l’abate distribuisca tutto il necessario 19 e cioè: cocolla, tonaca, calze, scarpe, cintura, coltello, ago, fazzoletti e il necessario per scrivere, in modo da togliere ogni pretesto di bisogno. 20 In questo, però, deve sempre tener presente quanto è detto negli Atti degli Apostoli e cioè che «Si dava a ciascuno secondo le sue necessità». 21 Quindi prenda in considerazione le particolari esigenze dei più deboli, anziché la malevolenza degli invidiosi. 22 Comunque, in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio.

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Approfondimenti

1-8: I vestiti dei monaci Anche S. Agostino, subito dopo le norme sull'accettazione di lettere o regali, parla del vestiario dei monaci: un punto su cui è più facile che si insinui il vizio della proprietà. Questo capitolo della RB si ricollega a RM. 81 e, nella seconda parte, a RM. 82. Che cosa deve avere dunque ciascun monaco per uso suo personale? Vestiti, calzature e pochi utensili: lo stretto necessario. RB 55 intende precisarlo, ma solo fino a un certo punto. Perché SB ha troppa esperienza, prudenza e sensatezza per imporre un vestito uniforme, un “abito religioso” nel senso moderno della parola, valido e obbligatorio per tutti i luoghi e per tutte le persone. SB vuole che si tenga conto del clima (vv. 1-3), e ciò fa capire che egli ha una prospettiva ampia (non pensa solo al monastero di Montecassino o di Terracina); esprime la sua opinione su ciò che basta in un clima temperato (vv. 4-6); non gli interessano il colore e la qualità, e vuole che i monaci non se ne curino (vv. 7-8). Ciò che gli interessa è la povertà, o meglio la semplicità: che ci si accontenti del necessario; difatti SB insiste sulla sobrietà (sufficit “basta” dei vv. 4 e 10) e sul ruolo dell'abate nel fornire il vestiario (v. 8).

L'elenco del vestiario fornito dalla Regola è abbastanza ridotto: una cocolla di lana per l'inverno e un'altra più leggera o consumata per l'estate, la tunica, lo scapolare “per il lavoro” propter opera, scarpe e calze (vv. 4-6). Tutto sembrerebbe chiaro, e invece non lo è affatto, perché nessuno dei capi di vestiario menzionati corrisponde a quelli in uso oggi nei monasteri; anche se i nomi sono rimasti, il significato è mutato. Vediamo in breve:

L'evoluzione dell'abito monastico Gli storici disputano sul senso degli antichi testi relativi all'abito dei monaci. Alcuni dicono che esso era certamente riconoscibile e che, sin dai testi pacomiani, “prendere l'abito”, o riceverlo dalle mani di un altro monaco equivaleva a impegnarsi nello stato monastico. Altri dicono che l'abito monastico non aveva nulla di specifico, in quanto ciò non era ammissibile per gli usi del tempo. La cosa è discutibile e i testi sono interpretati nell'uno o nell'altro senso. Certo è che l'abito monastico doveva mettere in risalto la povertà, l'umiltà: ora il problema è sapere se facevano questo prendendo un abito particolare, oppure scegliendo l'abito comune della gente più povera e più semplice.

In oriente In oriente gli anacoreti usavano la massima libertà. Forse il primo abito monastico distintivo fu la “melota”: una specie di zimarra larga, fatta di pelli di capra o di altro animale, stretta al corpo da una cintura di cuoio; ricordava – e senza dubbio voleva pure imitare – il vestito di Elia (cf. 2Re 1,8) e di Giovanni Battista (cf. Mt 3,4), i due precursori dei monaci cristiani. I monaci d'Egitto continuarono per molto tempo a usare la melota, però, in genere, solo come difesa dal freddo. Abitualmente invece indossavano una tunica con o senza maniche, una cintura di cuoio e un cappuccio “Koukoullion” che copriva il capo e il collo. Così la maggior parte degli eremiti e cenobiti di S. Pacomio. S. Basilio non prescrive un abito tipico, ma un vestito povero, semplice, simbolo della rinunzia alla vanità del mondo.

In occidente In occidente l'abito monastico è stato il più vario. S. Girolamo descrive – esagerando un pò – le bizzarrie e le stravaganze nel vestire dei vari monaci che giravano per Roma. S. Martino di Tours e i suoi monaci indossavano una tunica tessuta con pelle di cammello e un “pallium” o mantello nero. Il pallium era a quel tempo il contrassegno più comune del monaco in Gallia e nell'Africa romana. Cassiano attribuisce grande importanza all'abito monastico, cui dedica tutto il primo libro delle Institutiones. In occidente comunque finì per imporsi il cappuccio, tanto che i monaci furono conosciuti come gens cucullata (persone incappucciate), e si conservava anche la melota: S. Benedetto eremita a Subiaco andava vestito di pelli (II Dial. 1) e da abate continuò a portarla (II Dial. 7). La RM (90,82-86) usa le espressioni “vestiti santi”, “abiti sacri”, “abito di Cristo”, abito del santo proposito”, cioè per il Maestro esiste un abito distintivo.

La RB Al contrario, la RB non ha nulla di esplicito: probabilmente né la cuculla, né la tunica, né lo scapulare che i primi monaci di S. Benedetto indossavano, erano abiti specificamente monastici. La “tunica” di lana era l'indumento più importante, insostituibile; tutti i romani l'avevano; già fin dal secolo III d.C. si usava un cinturone di cuoio: “bracile”; in RB 22,5 si parla di corde o tunicelle: “cingulis aut funibus”). La “cuculla” consisteva originariamente in un semplice cappuccio che copriva la testa, il collo e parte delle spalle; più tardi si modificò. La cocolla di SB era forse un mantello semicircolare chiuso (molto simile alle ampie casule); costituiva il vestito esteriore del monaco, come lo prova il fatto di averne due, una per l'inverno e una per l'estate. Probabilmente se la toglievano per lavorare, sostituendola con lo scapolare. Lo “scapulare” è il pezzo più discusso: alcuni lo identificano con lo “analabos” di cui parla Evagrio Pontico, cioè la cinta di lana che girava intorno al corpo per aggiustare e adattare il vestito alla persona; altri pensano a un modello più ridotto di cocolla, più adatto per il lavoro manuale, una cocolla particolarmente corta da coprire poco più che le spalle (“scapulare”, appunto). Quest'ultima opinione è la più probabile. Per i piedi si parla di pedules et caligae (calze e scarpe), ma non si è affatto d'accordo sul significato dei termini usati da SB. Secondo alcuni, i “pedules” sarebbero una specie di sandali legati al collo del piede con lacci (come le “ciocie” usate nella zona di Cassino I (che è la “Ciociaria”); le “caligae” invece erano stivaletti da viaggio e da campagna. Sembra più probabile che “pedules” fossero un indumento di stoffa che avevano l'ufficio delle nostre calze, e “caligae” fossero le scarpe simili alle calzature militari, stivaletti che coprivano interamente il piede. Comunque, a parte queste considerazioni archeologiche di importanza relativa, certo è che SB lascia una grande libertà per quanto riguarda la qualità, il colore, la foggia dei vestiti (v. 7). Da questo e da altri indizi, pare che nessuno dei capi di vestiario citati in questo capitolo appartenga esclusivamente ai monaci: l'abito dei primi benedettini non differiva essenzialmente da quello dei contadini, dei poveri e degli schiavi, cioè delle classi inferiori della società. È sintomatico che SB non parla mai dell'abito monastico, se non nel momento della professione (RB 58,26), il che è tanto più strano in quanto Cassiano, il suo autore preferito, e la RM trattano di esso lungamente ed esaltano il valore religioso e il simbolismo dell'abito monastico come segno distintivo (cf. Inst. 1: tutta la descrizione dell'abito e il suo simbolismo; RM 81; 90,82-85; 95,21; ecc...). Per SB il distintivo del monaco è la tonsura (RB 1,7). Se nella professione il monaco viene spogliato del suo abito e ne riceve un altro completo (e notiamo che lì non si dice “abito monastico” o “abito santo” o simili, ma semplicemente “vestiti” – anzi “rebus” (le robe) – del monastero, RB 58,26), ciò vuol significare direttamente che egli ha perduto il diritto di proprietà. Insomma, SB non dà importanza a queste cose. Fare una storia dell'evoluzione dell'abito monastico lungo i secoli è pressoché impossibile. Certamente nel sec. VI non era usato il colore nero, che era ritenuto un lusso (S. Cesario lo proibisce espressamente). Oggi quasi tutti i benedettini usano il nero; i Camaldolesi, gli Olivetani e i monaci di Montevergine usano il bianco; i cisterciensi e i Trappisti usano tonaca bianca e scapolare nero.

Nella Congregazione Silvestrina, all'inizio l'abito era de gattinello, cioè di un panno di lana di colore misto risultante dalla combinazione del grigio o cenerino con il lionato. Per questo nel medioevo i Silvestrini furono chiamati, come i Vallombrosani, monaci “grisei” (grigi). Col passare del tempo il lionato prese il sopravvento sul grigio, fino a diventare tanè, come si può vedere da numerose pitture esistenti. Nel 1663, al tempo dell'unione con i Vallombrosani, fu adottato il colore nero. Le Costituzioni del 1690 stabiliscono l'abito di colore tanè o lionato che pieghi allo scuro. In seguito, non sappiamo precisamente quando, si adottò il colore bleu fino al 1933. Attualmente, a partire da quella data, l'abito è nero e la cocolla (abito corale) è di colore turchino tendente al nero. In India e Sri Lanka, viene usato il bianco. In Australia, da qualche anno, usano, opzionale d'estate, anche il colore bianco.

9-14: Disciplina per rilevare e consegnare i vestiti SB vuole evitare che i monaci accrescano il guardaroba. “Bastano due tuniche e due cocolle”. Sappiamo che i monaci dormivano vestiti, per essere pronti a recarsi all'Ufficio notturno (RB 22), e quindi avevano la tunica e forse anche la “cuculla”... Notiamo il vigoroso sufficit (basta) all'inizio del v. 10 e tutto il v. 11: quel che è in più è superfluo e si deve eliminare (così anche in Pacomio, Reg. 81). Al v. 13 si parla di femoralia (femorali): corrispondono pressappoco alle odierne “mutande”. Ordinariamente non erano usati, ma solo in viaggio, soprattutto per cavalcare. Nei monasteri il loro uso fu però assai vario: in alcuni luoghi li portavano abitualmente tutti (come a Cluny); in altri chi li voleva, in altri era addirittura proibito. Notiamo anche la delicatezza e la signorilità di SB nel prescrivere vestiti migliori per chi viaggia (v. 14).

15-19: Fornitura del letto e precauzioni contro il vizio della proprietà La stessa semplicità che distingue l'abito del monaco, deve contrassegnare il suo letto: sufficiant (bastano), (di nuovo, per la terza volta, appare questo verbo!), un pagliericcio, una coperta leggera, un cuscino (v.15). Il letto era allora l'unico mobilio personale del monaco, e pare che servisse da nascondiglio per le piccole cose che i monaci sottraevano all'uso comune. La RB, come tutti i documenti monastici antichi, invita l'abate a ispezionare con frequenza e a punire severamente i colpevoli di un vizio così odioso, cioè la proprietà (vv.1 6-17). Sono rimasti famosi alcuni fatti di monaci trovati in possesso di denaro dopo la morte e trattati molto rudemente per tale motivo (privati della sepoltura ecclesiastica!): cf. S. Girolamo in Epist. 22,23 e il fatto di S. Gregorio Magno quando era abate al Celio. L'ispezione “opus peculiare” del v. 16, si ispira a Cassiano (Inst. 4,14), dove significa: guadagno procurato con lavori particolari. In RB, invece, ha il senso di “cose ritenute senza il permesso dell'abate”.

20-22: L'abate deve provvedere ai singoli Però, per estirpare dalle radici il “vizio della proprietà” (di nuovo appare l'espressione usata in RB 33,1), l'abate deve dare a tutti i fratelli il necessario. Osservazione molto pertinente: altrimenti se lo procurano di nascosto! è stato sempre così!. In tal modo invece, non hanno alcun pretesto per compiere atti di proprietà. Le disposizioni precedenti ricordano l'energico c. 33; solo che, invece di dirigersi ai monaci, qui la Regola parla all'abate: dia egli tutto il necessario, secondo la frase di Atti 4,35 già citata nel c. 34: “veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”. E di nuovo la Regola parla a favore dei deboli che necessitano di più. A queste necessità deve badare l'abate nel dare le cose, e “non alla cattiva volontà degli invidiosi” (v. 21); cioè non deve omettere di soddisfare le necessità dei monaci più deboli per dare retta a quelli che, mossi da invidia, non tollerano eccezioni o agevolazioni. Così il trattato sulla proprietà (spogliamento di sé) costituito dai cc. 33-34 riceve nel c. 55 un complemento indispensabile, che potrebbe intitolarsi “la responsabilità dell'abate nel mantenimento della vita comune” (DeVogué).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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