📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

1Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. 2Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.

La moderazione di Dio verso i Cananei 3Tu hai odiato gli antichi abitanti della tua terra santa, 4perché compivano delitti ripugnanti, pratiche di magia e riti sacrileghi. 5Questi spietati uccisori dei loro figli, divoratori di visceri in banchetti di carne umana e di sangue, iniziati in orgiastici riti, 6genitori che uccidevano vite indifese, hai voluto distruggere per mezzo dei nostri padri, 7perché la terra a te più cara di tutte ricevesse una degna colonia di figli di Dio. 8Ma hai avuto indulgenza anche di costoro, perché sono uomini, mandando loro vespe come avanguardie del tuo esercito, perché li sterminassero a poco a poco.

La bontà di Dio spinge alla conversione 9Pur potendo in battaglia dare gli empi nelle mani dei giusti, oppure annientarli all'istante con bestie terribili o con una parola inesorabile, 10giudicando invece a poco a poco, lasciavi posto al pentimento, sebbene tu non ignorassi che la loro razza era cattiva e la loro malvagità innata, e che la loro mentalità non sarebbe mai cambiata, 11perché era una stirpe maledetta fin da principio; e non perché avessi timore di qualcuno tu concedevi l'impunità per le cose in cui avevano peccato. 12E chi domanderà: “Che cosa hai fatto?”, o chi si opporrà a una tua sentenza? Chi ti citerà in giudizio per aver fatto perire popoli che tu avevi creato? Chi si costituirà contro di te come difensore di uomini ingiusti? 13Non c'è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall'accusa di giudice ingiusto. 14Né un re né un sovrano potrebbero affrontarti in difesa di quelli che hai punito. 15Tu, essendo giusto, governi tutto con giustizia. Consideri incompatibile con la tua potenza condannare chi non merita il castigo. 16La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti.

La bontà di Dio è un esempio per tutti 17Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti l'insolenza di coloro che pur la conoscono. 18Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. 19Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento. 20Se infatti i nemici dei tuoi figli, pur meritevoli di morte, tu hai punito con tanto riguardo e indulgenza, concedendo tempo e modo per allontanarsi dalla loro malvagità, 21con quanta maggiore attenzione hai giudicato i tuoi figli, con i cui padri concludesti, giurando, alleanze di così buone promesse! 22Mentre dunque correggi noi, tu colpisci i nostri nemici in tanti modi, perché nel giudicare riflettiamo sulla tua bontà e ci aspettiamo misericordia, quando siamo giudicati. 23Perciò quanti vissero ingiustamente con stoltezza tu li hai tormentati con i loro stessi abomini. 24Essi si erano allontanati troppo sulla via dell'errore, scambiando per dèi gli animali più abietti e più ripugnanti, ingannati come bambini che non ragionano. 25Per questo, come a fanciulli irragionevoli, hai mandato un castigo per prenderti gioco di loro. 26Ma chi non si lascia correggere da punizioni derisorie, sperimenterà un giudizio degno di Dio. 27Infatti, soffrendo per questi animali, s'indignavano perché puniti con gli stessi esseri che stimavano dèi, e capirono e riconobbero il vero Dio, che prima non avevano voluto conoscere. Per questo la condanna suprema si abbatté su di loro.

_________________ Note

12,4-5 compivano delitti ripugnanti: vengono elencate alcune abominevoli usanze (sacrifici umani, magia, infanticidio, cannibalismo) di cui erano accusati i Cananei (vedi Lv 18,21; Dt 18,9-14; 2Re 3,27; 23,10).

12,11 stirpe maledetta: richiama la vicenda narrata in Gen 9,20-27, dove Noè aveva maledetto Canaan, figlio di Cam e capostipite dei Cananei.

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Approfondimenti

vv. 3-27. Questa seconda riflessione h a per oggetto i Cananei: a chi volesse obiettare contro la filantropia divina adducendo il fatto dello sterminio degli antichi abitanti di Canaan, l'autore risponde che Dio anche nei loro confronti ha agito con moderazione. I Cananei erano gravemente colpevoli e meritevoli di morte (vv. 3-7), ma, essendo uomini, Dio fu loro indulgente (v. 8a) e li colpì a poco a poco, concedendo loro la possibilità di pentirsi, nonostante l'atavica ostinazione nel male (vv. 8b-11). L'azione di Dio è strutturalmente fondata sulla giustizia (vv. 13-15), anzi la sua giustizia proviene direttamente dalla sua onnipotenza (v. 16a), per cui egli agisce con indulgenza verso gli uomini (vv. 16b-18). Seguono infine due riflessioni conclusive, una su Israele (vv. 19-22) e l'altra sugli Egiziani (vv. 23-27). La presente riflessione teologica continua certamente quella iniziata nella sezione precedente; la scelta però del caso dei Cananei è dovuta alla necessità di giustificare teologicamente la conquista israelitica di Canaan, argomento questo particolarmente dibattuto nella letteratura apologetica giudaico-ellenistica.

vv. 3-7. «terra santa»: quest'appellativo, noto già nell'AT (cfr. Zc 2,16; 2Mac 1,7), è specialmente usato dal giudaismo della diaspora e sottolinea non solo il profondo vincolo che univa quest'ultimo alla terra dei padri, ma anche una concezione teologica; si tratta infatti di un «paese che è possesso del Signore, dove è stabilita la Dimora del Signore» (Gs 22, 19); perciò ogni peccato ne costituisce una contaminazione (cfr. Lv 18,24-30; Ez 36,16-18). L'autore dapprima qualifica e determina progressivamente i peccati dei Cananei (v. 4) e poi li descrive (vv. 5.6a). Si tratta anzitutto di delitti ripugnanti, tali quindi da giustificare l'odio divino appena menzionato; più specificatamente sono pratiche di magia e come tali condannate da Dio (cfr. Dt 18,10-12); ma la magia è ancora un concetto notevolmente ampio, per cui lo Pseudo-Salomone determina ulteriormente il campo con l'espressione «riti sacrileghi», che fa chiaramente riferimento a riti di iniziazione e a riti cultuali. Segue la menzione specifica di due orrendi delitti, cioè dell'infanticidio e del cannibalismo; la prima accusa è ben documentata sia dall'AT (cfr. Dt 12,31; 18,10; 2Re 3,27), sia dall'archeologia, a differenza della seconda il cui vocabolario tradisce un influsso della tragedia greca, dove i temi dell'infanticidio e del cannibalismo all'interno di riti religiosi sono conosciuti. È probabile che l'autore voglia oltrepassare il giudizio storico e allargare l'orizzonte dai Cananei al mondo greco-romano contemporaneo, fonte di forte seduzione per molti suoi correligionari. «Tu odiavi... tu li hai voluti distruggere»: non si tratta di contraddizione con le affermazioni precedenti sull'amore universale di Dio per le creature (11,24-25); l'odio di Dio per i Cananei, infatti, è l'odio contro i loro delitti e la durezza dei termini è dovuta al sentimento di orrore che la menzione di tali delitti suscita, tanto più che si tratta di creature piccole, indifese ed innocenti.

v. 8a. Nessun delitto, per quanto grave, può cancellare la realtà della dignità umana. Quest'argomento molto moderno, che l'autore prende a prestito dalla filosofia stoica, fonda il comportamento indulgente di Dio e si riallaccia alla precedente riflessione di 11,23-12,1.

vv. 8b-11. L'autore vede questa indulgenza divina nel previo invio delle vespe, che offre così ai Cananei l'opportunità e il tempo per il pentimento; si tratta di una nuova interpretazione dei testi biblici, che infatti presentano questa piaga come una misura di ordine economico (Es 23,28-30), oppure di ordine militare (Gs 24,12; Dt 7,20-22). È evidente lo sforzo dello Pseudo-Salomone di far entrare anche il caso dei Cananei nel quadro della sua tesi generale. Per sottolineare maggiormente l'indulgenza divina egli ripete quanto aveva già osservato a proposito degli Egiziani (cfr. 11,17-20), cioè la possibilità da parte di Dio di sterminare subito in vari modi i Cananei (cfr. v. 9) e soprattutto evidenzia che la perversione di questi ultimi è atavica e innata, risalendo a una maledizione originale (vv. 10c-11a); è evidente l'allusione alla maledizione lanciata da Noè su Canaan (Gn 9, 25), interpretata però non più in senso politico ed etnico, bensì morale.

v. 12. Queste quattro domande retoriche, dove si sente l'eco della lingua di Giobbe (cfr. Gb 9, 12.19), costituiscono il centro dell'intera riflessione e portano tutte sulla inappellabilità del giudizio di Dio, tuttavia con una differenza di prospettiva appena percettibile. Mentre le prime due possono concernere sia l'agire misericordioso di Dio, sia l'attività della sua giustizia vendicatrice, le altre due riguardano l'eliminazione finale dei Cananei. L'autore menziona in modo discreto, lo sterminio degli antichi abitanti di Canaan.

vv. 13-15. Se il giudizio di Dio è inappellabile, non è tuttavia arbitrario! Nessuna altra autorità, né divina (cfr. v. 13), né tanto meno umana (cfr. v. 14) potrebbe chiedere conto del suo comportamento o accusarlo in tribunale. Segue poi (cfr. v. 15) una nuova e solenne affermazione della giustizia di Dio, dove, sulla scia dell'ideale regale ellenistico, egli è presentato come colui che governa l'universo (BC = «tutto») con giustizia.

vv. 16-18. Un'ultima considerazione dell'autore fonda la giustizia del comportamento di Dio sulla stessa forza (termine-chiave che compare regolarmente all'inizio di ogni versetto)! L'esperienza umana insegna che i re terrestri, appunto perché detentori di un potere limitato ed effimero, tendono a esercitarlo in modo arrogante e ingiusto; al contrario, possedendo la pienezza del potere, Dio può operare secondo una perfetta giustizia; così in lui la forza diventa davvero «principio di giustizia» (v. 16a). Certo l'indulgenza divina non impedisce l'esercizio della forza nel caso dell'incredulità o dell'arroganza (cfr. v. 17); tuttavia è proprio questa indulgenza che caratterizza il comportamento divino (v. 18). Per sottolineare ancora una volta questa attitudine fondamentale di Dio, l'autore sceglie il termine «mitezza»; questo vocabolo, applicato ai sovrani ellenistici e poi romani, indica nella lingua contemporanea l'opposto del potere arbitrario e tirannico; applicato a Dio, mostra bene come la mitezza dei suoi giudizi storici non è segno di impotenza, bensì di un amore misericordioso e indulgente.

v.19ab. L'attitudine di Dio indulgente verso i Cananei, «perché uomini» (v. 8) e dotato di una sapienza «amica degli uomini» (cfr. 1,6; 7,23), deve spingere Israele a un amore universale verso tutte le creature, quelle stesse creature che Dio ama e protegge (11,24-12,1). Se l'espressione «amare gli uomini» tradisce un influsso dello stoicismo, che propugnava pure un tale amore universale, qui la ragione di fondo però è ancorata alla storia salvifica. È possibile che l'autore voglia pure rispondere indirettamente alle accuse di separatismo e di odio verso gli altri uomini, che i pagani lanciavano contro i Giudei.

v. 19cd. Non solo ai Cananei, ma anche e soprattutto agli Ebrei, Dio offre l'opportunità del pentimento. Con ciò l'autore, lungi da un atteggiamento manicheo, riconosce anche in Israele la realtà del peccato!

vv. 20-21. Si tratta di un invito a considerare le sofferenze subite da Israele, sia in Egitto che nel deserto, non come castigo e vendetta da parte di Dio, ma alla luce della sua condotta verso i Cananei , e cioè come correzione nell'ambito della sua opera educatrice e amorosa di padre verso i propri figli.

v. 22. La conclusione (cfr. «dunque») è rivolta alla comunità giudaica contemporanea; la prima persona plurale, infatti, coinvolge autore e ascoltatori. Lo Pseudo-Salomone invita i suoi correligionari ad abbandonare un giudizio settario e manicheo nei confronti dei non-Giudei, specialmente nei confronti degli Egiziani, e ad assumere l'atteggiamento indulgente e misericordioso di Dio.

vv. 23-25. La perifrasi di 23a designa gli Egiziani, sottolineandone particolarmente la stoltezza. Si tratta però, all'inizio, della stoltezza di bambini ingannati (v. 24c), cioè di bambini ancora privi della facoltà di ragionare, come mostra l'espressione parallela «fanciulli irragionevoli» del versetto seguente (v. 25a). Perciò Dio si comporta come avviene nell'educazione dei bambini, usando castighi derisori, cioè ricorrendo a piaghe leggere (cfr. Es 10,2 LXX).

vv. 26-27. In opposizione ai castighi derisori, l'autore menziona ora il giudizio degno di Dio (v. 26b); non si tratta solo di una possibilità teorica, bensì di una realtà storica, essendo gli Egiziani incappati in questo supremo castigo (v. 27e); l'autore allude con ciò alla morte dei primogeniti egiziani e alla catastrofe nel mare. La ragione sta nel fatto che gli Egiziani arrivarono a una conoscenza di Dio soltanto forzata e intellettuale (cfr. v. 27) e non a un rapporto personale ed esistenziale con lui, vero e unico scopo della pedagogia misericordiosa divina (cfr. 12,2).

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La sapienza ha guidato Israele nel deserto 1La sapienza favorì le loro imprese per mezzo di un santo profeta. 2Attraversarono un deserto inospitale, fissarono le tende in terreni impraticabili, 3resistettero agli avversari, respinsero i nemici.

L’acqua: castigo per gli Egiziani, beneficio per gli Israeliti 4Ebbero sete e ti invocarono e fu data loro acqua da una rupe scoscesa, rimedio alla sete da una dura roccia. 5Ciò che era servito a punire i loro nemici, per loro, nel bisogno, fu strumento di favori. 6Invece dello sgorgare perenne di un fiume, reso torbido da putrido sangue 7in punizione di un decreto infanticida, contro ogni speranza tu desti loro acqua abbondante, 8mostrando attraverso la sete di allora come avevi punito i loro avversari. 9Difatti, messi alla prova, sebbene puniti con misericordia, compresero come gli empi, giudicati nella collera, erano stati tormentati; 10perché tu provasti gli uni come un padre che corregge, mentre vagliasti gli altri come un re severo che condanna. 11Lontani o vicini erano ugualmente tribolati, 12perché li colse un duplice dolore e un sospiro per i ricordi del passato. 13Quando infatti seppero che dal loro castigo quelli erano beneficati, si accorsero della presenza del Signore; 14poiché colui che prima avevano esposto e poi deriso, al termine degli avvenimenti dovettero ammirarlo, dopo aver patito una sete ben diversa da quella dei giusti.

La moderazione di Dio nel castigare gli Egiziani 15In cambio dei ragionamenti insensati della loro ingiustizia, in cui, errando, rendevano onori divini a rettili senza parola e a bestie spregevoli, tu inviasti contro di loro come punizione una moltitudine di animali irragionevoli, 16perché capissero che con le cose con cui uno pecca, con quelle viene punito. 17Non era certo in difficoltà la tua mano onnipotente, che aveva creato il mondo da una materia senza forma, a mandare loro una moltitudine di orsi o leoni feroci 18o bestie molto feroci, prima sconosciute e create da poco, che esalano un alito infuocato o emettono un crepitìo di vapore o sprizzano terribili scintille dagli occhi, 19delle quali non solo l'assalto poteva sterminarli, ma lo stesso aspetto terrificante poteva annientarli. 20Anche senza queste potevano cadere con un soffio, perseguitati dalla giustizia e dispersi dal tuo soffio potente, ma tu hai disposto ogni cosa con misura, calcolo e peso. 21Prevalere con la forza ti è sempre possibile; chi si opporrà alla potenza del tuo braccio? 22Tutto il mondo, infatti, davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.

Bontà e compassione di Dio 23Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento. 24Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure formata. 25Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l'avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all'esistenza? 26Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita.

_________________ Note

11,4-14 La sorte dei giusti, rappresentati idealmente negli Ebrei, e quella degli empi, simboleggiati negli Egiziani, sono spiegate mediante l’enunciazione di un principio: Ciò che era servito a punire i loro nemici, per loro, nel bisogno, fu strumento di favori (v. 5); ossia: lo stesso elemento, utile a chi è fedele a Dio, è strumento di castigo a chi si oppone a lui. Questo principio è alla base dell’interpretazione delle “piaghe”: ciò che era servito a Dio per punire gli Egiziani, diveniva fonte di salvezza per gli Israeliti.

11,6 dallo sgorgare perenne di un fiume: allusione all’acqua mutata in sangue, come si legge in Es 7,17-21.

11,14 colui che prima avevano esposto: il riferimento è a Mosè.

11,15-22 Questo richiamo alla moderazione di Dio è frequente nella riflessione che l’autore fa sulle vicende dell’esodo. Anche se nel v. 16 viene affermato il principio secondo il quale con le cose con cui uno pecca, con quelle viene punito, tuttavia è ribadita la pazienza di Dio, amante della vita (v. 26).

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Approfondimenti

vv. 1-5. Dopo la descrizione delle gesta della sapienza a partire da Adamo fino a Mosè (c. 10), l'autore ci offre in questi ultimi capitoli un grande affresco degli eventi dell'esodo e del deserto nella forma della comparazione Egitto-Israele. Sette dittici oppongono drammaticamente Egiziani ed Ebrei, gli uni colpiti dalle piaghe, gli altri compensati da benefici; un'unica presentazione introduce però le due piaghe delle bestiole (11,15), così come un'unica presentazione introduce la morte dei primogeniti egiziani e l'annegamento nel Mar Rosso (18, 5), sicché risultano sette dittici introdotti da cinque presentazioni. Infine, tra la presentazione delle due piaghe delle bestiole e la loro descrizione, l'autore inserisce due lunghe digressioni, l'una sulla filantropia divina (11, 15 – 12, 27) e l'altra sulla critica delle religioni pagane (cc. 13-15). Risulta il seguente quadro:

I 11,6-14: acqua del Nilo – acqua dalla roccia 11,15 presentazione del secondo e terzo dittico 11,15-12,27: prima digressione 13,1-15,19: seconda digressione

II 16,1-4: rane – quaglie

II16,5-14: tafani e cavallette – serpente di bronzo

IV 16,15-29: piogge e grandine – manna

V 17,1-18,4: tenebre – luce 18,5: presentazione del sesto e settimo dittico

VI 18,6-25: morte dei primogeniti – salvezza di Israele nel deserto

VII 19,1-21: annegamento – passaggio del Mar Rosso 19,22: conclusione.

I vv. 1-4 formano una piccola unità di transizione; da un lato, infatti, si riprende il discorso del capitolo precedente con la menzione della sapienza (v. 1) e di Mosè, dall'altro si riassume la storia delle peregrinazioni nel deserto fino all'arrivo al monte Sinai (vv. 2-4). A questo punto l'autore può esplicitare il principio teologico che guiderà i sette dittici (v. 5).

v. 1. Soggetto implicito è la sapienza; ancora una volta l'autore ribadisce questo concetto di una sapienza artefice della storia salvifica, ma sarà anche l'ultima volta, perché poco dopo, al v. 4, egli passa direttamente a Dio (cfr. «ti»); nei capitoli seguenti, con l'eccezione di una fugace menzione in 14,5, non compare la sapienza come soggetto di storia, ma Dio oppure il suo spirito (11,20; 12,1), la sua parola (12,9; 16,12; 18,15), la sua mano (11,17; 14,6; 16,15; 19,8), il suo braccio (11,21; 16,16). La naturalezza con cui l'autore opera questo passaggio significa che si tratta unicamente di sottolineature teologiche dell'azione divina, che fa comunque sempre ed unicamente capo a Dio. «un santo profeta»: Mosè, che accanto al titolo di servo (cfr. 10,16), riceve ora quello di profeta (cfr. Nm 12,6; Dt 18,15.18; Os 12,14).

v. 5. Il dato più caratteristico ed immediato del grande affresco storico di questa terza parte di Sapienza è la comparazione Egitto-Israele, fondata sul principio della comunanza dei mezzi usati ora per il premio, ora per il castigo, comunanza che fa riferimento a un unico soggetto: Dio; a un'unica storia: la storia salvifica. In questo principio appare immediatamente l'importanza del cosmo, perché qui la natura non è spettatrice neutrale nella contrapposizione Ebrei-Egiziani, bensì partecipa attivamente a favore dei primi; il cosmo diventa luogo e soprattuto attore del combattimento, con un crescendo stupendo nel settimo dittico, dove l'autore descrive la nuova creazione. I cc. 11-19 illustrano così la cosmo-soteriologia preannunciata in Sap 1,13b; 5,17-23 e conferiscono al dramma storico dell'esodo una portata universale e tipologica degli ultimi tempi. All'interno di questa legge di fondo annunciata in Sap 11,5 si inserisce poi un altro principio assai noto: il principio del contrappasso, secondo cui la pena inflitta corrisponde al peccato commesso. Trattandosi di un principio negativo, lo si applica soltanto agli Egiziani. Esso serve in genere da introduzione ai vari dittici (11,6.7a; 11,15; 16,16; 17,2; 18,5) con la sola differenza che in 11,6-7a il principio del contrappasso è strettamente inserito nella comparazione Ebrei-Egitto (11,6-8), mentre negli altri passi è formulato indipendentemente e introduce esso stesso il confronto Ebrei-Egitto.

vv. 6-7. La prima piaga egiziana, l'acqua del Nilo mutata in sangue (cfr. Es 7,14-25), viene contrapposta al dono miracoloso dell'acqua fatto da Dio a Israele nel deserto (cfr. Es 17,1-7; Nm 20,7-13). È il principio del contrappasso, secondo cui la pena inflitta corrisponde al peccato «in punizione di un decreto infanticida»: nel testo biblico non c'è alcun collegamento tra i due episodi; però in alcune tradizioni giudaiche essi vengono visti insieme (cfr. ad es. il Targum a Es 2,23). Fondandosi sul principio del contrappasso, il nostro autore considera la piaga come la risposta punitrice di Dio al decreto del faraone sulla soppressione dei bambini ebrei (Es 1, 23); non è tuttavia semplicemente una punizione, ma una punizione con fine educativo, che deve indurre gli Egiziani alla riflessione e al pentimento.

vv. 8-10. Questa storia di castigo e di salvezza è anzitutto un insegnamento per Israele: attraverso la sete provata nel deserto esso comprende quali tormenti avevano sofferto gli Egiziani. Nel linguaggio biblico la giustizia divina viene espressa mediante i simboli della collera (v. 9) e del re severo che vaglia e condanna (v. 10). Questi simboli rinviano spesso al tempo escatologico, al tempo cioè del giudizio finale; di qui l'invito pressante a Israele perché, partendo da una condanna storica come quella degli Egiziani, rifletta sulla condanna finale e irrevocabile che spetterà a tutti gli empi. Positivamente l'autore evidenzia il tempo della misericordia divina (v. 9) e l'agire paterno di Dio (v. 10).

vv. 11-12. Se nei versetti precedenti l'autore ha illustrato l'insegnamento di Dio agli Israeliti tramite la piaga e il miracolo dell'acqua nel deserto, ora in questa seconda parte del dittico (vv. 11-14) egli descrive le conseguenze dei medesimi fatti nell'animo degli Egiziani; la storia salvifica infatti ha un valore didattico anche per questi ultimi. «Lontani o vicini»: sia quando gli Egiziani erano ormai lontani dagli Ebrei, cioè dopo la partenza di quest'ultimi, sia quando gli Egiziani erano ancora vicini agli Ebrei, cioè durante il soggiorno di questi in Egitto, gli Egiziani furono ugualmente tribolati. Infatti la conoscenza da parte di quest'ultimi del miracolo dell'acqua nel deserto (lo Pseudo-Salomone presuppone questa conoscenza, forse sulla base di Es 15,14) provoca in essi un «duplice dolore» (cfr. v. 12a): da un lato fa riemergere il ricordo della dolorosa sete subita al tempo della prima piaga, dall'altro li fa consci d'essere oggetto del castigo divino. La menzione del «pianto» (cfr. v. 12b) aggiunge una nota di sconforto e di disperazione.

vv. 13-14. Questo senso della presenza del Signore negli Egiziani va al di là del limitato confronto tra la prima piaga e il miracolo dell'acqua nel deserto; infatti il v. 14 colloca la riflessione degli Egiziani e la loro ammirazione di Mosè «alla fine degli eventi»; dunque anche la percezione del Signore avviene allora, essendo la ritrattazione circa la figura di Mosè un segno di questo riconoscimento della presenza divina nella storia. Il racconto di Esodo ricorda un atteggiamento rispettoso degli Egiziani verso Mosè solo al momento dell'annuncio della decima piaga (Es 11,3) e una loro percezione della presenza di Dio solo al momento del miracolo del mare (Es 14,25); è verosimile perciò che il nostro autore dall'acqua della prima piaga passi all'acqua del Mar Rosso, dove la duplice caratterizzazione di salvezza e di morte è particolarmente evidente. Le due digressioni di Sap 11,15-12,27 e di Sap 13-15. Il midrash sull'esodo appena iniziato viene interrotto da due lunghe digressioni portanti l'una sulla moderazione divina nei confronti degli Egiziani e dei Cananei (11,15-12,27), l'altra sulla critica alla religione pagana (cc. 13-15). Il termine digressione, tuttavia, non deve trarre in inganno, perché, anche se di fatto interrompono la sequenza dei dittici, si tratta di capitoli ben integrati nel contesto generale di Sap 11-19; infatti le due digressioni sono delimitate da tre passi strettamente uniti fra loro (cfr 11,15-16; 12,23-27; 15,18-16,1), dove per tre volte l'autore menziona e caratterizza negativamente gli animali oggetto di culto; per tre volte sottolinea che la punizione avviene mediante gli stessi animali oggetto di venerazione e per tre volte insiste sul valore pedagogico di tale punizione. Dunque «gli animali più ripugnanti» menzionati in 15,18 sono gli stessi animali citati in 11,15! Ma qual è il senso generale di questa lunga parentesi? Lo Pseudo-Salomone, dopo il primo dittico in cui evoca la piaga dell'acqua mutata in sangue (11, 6-14), arriva alle piaghe delle bestiole (rane, tafani, cavallette), che presenta in forma ancora generale in 11,15; prima però di evocarle dettagliatamente si pone due domande:

1) Perché Dio non punisce in modo immediato e definitivo Egiziani e Cananei, preferendo invece inviare piaghe non mortali come appunto quelle delle bestiole?

2) Perché le piaghe colpiscono ripetutamente gli Egiziani fino alla tragica fine nel Mar Rosso?

La risposta alla prima domanda costituisce la prima digressione e ha come contenuto una riflessione sulla moderazione divina (11,15-12,27); la risposta alla seconda domanda provoca la seconda digressione e permette all'autore di condurre una profonda riflessione sull'idolatria in genere e sulla zoolatria in particolare, giudicata come la peggiore aberrazione di cui gli Egiziani appunto sono colpevoli (13-15). Dopodiché lo Pseudo-Salomone in 15,18-16,1 può riprendere il discorso sulle piaghe delle bestiole (11,15-16) e continuare il suo midrash sull'esodo.

11,15-12,2. Una prima riflessione (11,15-12,2) ha per oggetto gli Egiziani: malgrado la loro zoolatria furono colpiti a poco a poco dal castigo divino, come appare chiaro dalla storia delle piaghe. L'articolazione dei versetti è accurata;

  • vv. 15-16: principio generale;
  • vv. 17-20c: potenza, molteplice capacità di annientamento;
  • v. 20d: affermazione centrale sulla moderazione divina;
  • vv. 11,21-12,1: onnipotenza e misericordia divina:
  • v. 12,2: la fede come scopo ultimo della pedagogia divina.

vv. 15-16. Il riferimento è alle piaghe narrate in Es 7,26-8,28; 10,1-20. Non si tratta più della comparazione Egiziani-Ebrei, come in 1,5, bensì del principio del contrappasso riguardante i soli Egiziani.

vv. 17-20c. Se qualcuno volesse obiettare affermando l'incapacità divina di annientare gli Egiziani, dovrebbe ricredersi! Con uno stile barocco, ridondante di aggettivi difficili e ricercati, l'autore illustra i mezzi di cui Dio avrebbe potuto disporre: moltiplicazione delle fiere esistenti (v. 17c), oppure creazione di nuove fiere tanto terribili quanto immaginarie (vv. 18-19), oppure un semplice cenno della sua giustizia (v. 20abc). La prova di tutto ciò sta nell'onnipotenza creatrice di Dio (v. 17ab). «materia senza forma» (v. 17b): l'autore nel contesto della dimostrazione dell'onnipotenza di Dio vuole sottolineare la sua capacità creatrice, per cui non si limita ad affermare il fatto della creazione del mondo, ma anche il come. L'espressione, appartenente al vocabolario filosofico contemporaneo, designa il sostrato primitivo e comune della materia, anteriore alla differenziazione negli elementi costitutivi del cosmo; è precisamente la disponibilità che Dio ha su questa materia che gli ha permesso di creare tutti gli esseri dell'universo, di operare i miracoli dell'esodo e che gli permetterebbe, volendolo, di creare nuovi e terribili animali in vista di una punizione. L'autore non si pone qui la domanda se questa materia informe sia stata creata da Dio, perché il suo centro di interesse è sulla onnipotenza divina; non si vede comunque come questa materia potrebbe sfuggire all'azione creatrice di Dio (cfr. 11,24-25)!

v. 20d. Una sottolineatura unilaterale dell'onnipotenza divina potrebbe far emergere la concezione di un Dio caratterizzato soltanto dalla forza e dal potere; al contrario guardando al creato l'autore invita a scoprirvi una meravigliosa sapienza, che si esprime: nella «misura», cioè nelle proporzioni armoniose ed equilibrate proprie degli esseri; nel «calcolo», cioè nel loro profondo valore simbolico (cfr. la concezione pitagorica); nel «peso», valore essenziale nella genesi meccanica delle cose (cfr. la concezione epicurea). Se l'espressione ha antecedenti biblici (Is 40,12 e Gb 28,25-26), pare riflettere però un'espressione greca ricca di motivi filosofici contemporanei, che naturalmente l'autore reinterpreta alla luce della fede in Dio creatore.

vv. 21-22. L'assoluta onnipotenza divina emerge ancora di più dalla plastica immagine di un universo enormemente piccolo ed evanescente di fronte a Dio. Le due immagini della polvere sulla bilancia e della stilla di rugiada mattutina si rifanno a Is 40,15.

vv. 23. Un nuovo, inaspettato e paradossale argomento emerge ora dalla riflessione dell'autore di fronte alla domanda perché Dio non abbia subito annientato gli Egiziani colpevoli di zoolatria: l'incomparabile misericordia divina. Proprio perché onnipotente, Dio ha compassione di tutti! L'AT conosce certo la misericordia di Dio, ma raramente la presenta come una conseguenza della sua onnipotenza (cfr. Nm 14,17-20; Sir 18,1-14). Il significato teologico di questa misericordia divina oltrepassa di gran lunga il semplice livello psicologico: ne sono beneficiarie non solo delle creature, ma delle creature peccatrici; essa ha per oggetto non solo il popolo eletto d'Israele, ma tutti gli uomini; il suo scopo non è semplicemente un rinvio del castigo, ma la conversione dei cuori.

vv. 24-25. L'autore vuole giustificare l'apparente paradosso di una misericordia divina motivata dalla stessa onnipotenza ed adduce anzitutto la dimensione dell'amore di Dio per tutte le sue creature. L'espressione del v. 24a ha già un sapore neotestamentario (cfr. Gv 3, 16) ed è l'unico passo dell'AT dove l'amore universale di Dio è espresso col verbo agapan (amare), parola-chiave del nostro passo. Il suo profondo significato appare immediatamente dal contesto: è l'amore dell'Onnipotente, di fronte al quale l'universo è nulla (vv. 21-22); è l'amore di colui che ha creato e che mantiene tuttora in vita il mondo ed i suoi esseri (vv. 24-25); è un amore misericordioso (v. 23a), fondato su una volontà (v. 25a), contrario a ogni forma di disprezzo o di odio (v. 24), tendente unicamente al pentimento degli uomini (v. 23a); è un amore, infine, che diventa dono di Dio stesso agli uomini tramite il suo spirito (12,1). Appare evidente la novità dello Pseudo-Salomone: l'onnipotenza divina si manifesta sì nella creazione, ma in una creazione motivata unicamente dall'amore, sia nella sua genesi, sia nella sua permanenza attraverso la storia. Nessuna frontiera, né antropologica, né cosmica, limita questo amore divino, la cui dimensione universale risuona tramite la ripetuta menzione dell'aggettivo «tutto».

vv. 11,26-12,1. Il v. 26 costituisce una ripresa del v. 23; l'autore infatti aggiunge un'altra motivazione alla realtà della misericordia divina: Dio risparmia tutte le cose perché esse gli appartengono. Come gli appartengono? Anzitutto in quanto «amante della vita»; pur essendo Signore, anzi proprio perché tale, egli ama la vita! Traspare qui tutto l'ottimismo del pensiero dell'autore, che riprende in forma positiva quanto aveva già affermato in forma negativa in 1,13-14. 12,1 dà il motivo profondo di questo amore divino per la vita delle sue creature: egli stesso è in esse presente tramite il suo spirito incorruttibile! L'autore riprende verosimilmente l'immagine di Gn 2,7, dove Dio soffia nell'uomo un alito di vita, allargandola però a ogni creatura. Si tratta di una affermazione nuova nell'AT, che risente l'influsso della concezione stoica del pneuma cosmico presente in tutti gli esseri, senza però condividerne il panteismo e il materialismo.

v. 12,2. Questo versetto costituisce la conclusione, ma anche l'apice di questa prima riflessione dell'autore (11,15-12,2); tutte le considerazioni precedenti trovano qui la loro spiegazione ultima: la scelta di un castigo lieve, articolato nel tempo e capace di suscitare il ricordo dei loro peccati, ha come unico scopo il conseguimento da parte degli Egiziani della fede in Dio. Questa consiste in un rapporto personale ed esistenziale con Dio (cfr. la sottolineatura: «in te, Signore»), in una risposta cioè che riconosca nella propria esistenza e nel mondo intero il progetto d'amore di Dio. E questo Dio non è il Dio intellettuale dei filosofi, ma il Dio che s'è rivelato a Israele. È alla comunione con questo Dio che sono chiamati gli Egiziani.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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LA SAPIENZA NELLA STORIA D’ISRAELE (10,1-19,22)

La sapienza nella storia delle origini 1Ella protesse il padre del mondo, plasmato per primo, che era stato creato solo, lo sollevò dalla sua caduta 2e gli diede la forza per dominare tutte le cose. 3Ma un ingiusto, allontanatosi da lei nella sua collera, si rovinò con il suo furore fratricida. 4La sapienza salvò di nuovo la terra sommersa per propria colpa, pilotando il giusto su un semplice legno.

Abramo e Lot 5Quando i popoli furono confusi, unanimi nella loro malvagità, ella riconobbe il giusto, lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la sua tenerezza per il figlio. 6Mentre perivano gli empi, ella liberò un giusto che fuggiva il fuoco caduto sulle cinque città. 7A testimonianza di quella malvagità esiste ancora una terra desolata, fumante, alberi che producono frutti immaturi e, a memoria di un'anima incredula, s'innalza una colonna di sale. 8Essi infatti, incuranti della sapienza, non solo subirono il danno di non conoscere il bene, ma lasciarono anche ai viventi un ricordo di insipienza, perché nelle cose in cui sbagliarono non potessero rimanere nascosti. 9La sapienza invece liberò dalle sofferenze coloro che la servivano.

Giacobbe 10Per diritti sentieri ella guidò il giusto in fuga dall'ira del fratello, gli mostrò il regno di Dio e gli diede la conoscenza delle cose sante; lo fece prosperare nelle fatiche e rese fecondo il suo lavoro. 11Lo assistette contro l'ingordigia dei suoi oppressori e lo rese ricco; 12lo custodì dai nemici, lo protesse da chi lo insidiava, gli assegnò la vittoria in una lotta dura, perché sapesse che più potente di tutto è la pietà.

Giuseppe 13Ella non abbandonò il giusto venduto, ma lo liberò dal peccato. 14Scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene, finché gli procurò uno scettro regale e l'autorità su coloro che dominavano sopra di lui; mostrò che i suoi accusatori erano bugiardi e gli diede una gloria eterna.

La sapienza e la liberazione d’Israele 15Ella liberò il popolo santo e la stirpe senza macchia da una nazione di oppressori. 16Entrò nell'anima di un servo del Signore e con prodigi e segni tenne testa a re terribili. 17Diede ai santi la ricompensa delle loro pene, li guidò per una strada meravigliosa, divenne per loro riparo di giorno e luce di stelle nella notte. 18Fece loro attraversare il Mar Rosso e li guidò attraverso acque abbondanti; 19sommerse invece i loro nemici e li rigettò dal fondo dell'abisso. 20Per questo i giusti depredarono gli empi e celebrarono, o Signore, il tuo nome che è santo, e lodarono concordi la tua mano che combatteva per loro, 21perché la sapienza aveva aperto la bocca dei muti e aveva reso chiara la lingua dei bambini.

_________________ Note

10,1-19,22 La lunga sezione racchiusa nei cc. 10-19 è una riflessione sulla storia d’Israele, compresa come storia di salvezza. Essa è concentrata soprattutto sui fatti dell’esodo, letti alla luce dei grandi interventi di Dio, fonte della salvezza (cc. 11-19; il c. 10, invece, contiene la riflessione sulla storia delle origini e dei patriarchi fino a Mosè). Gli studiosi chiamano questa sezione “racconto midrashico”, ispirato cioè al genere letterario del midrash (termine ebraico che significa “ricerca”, “adattamento”), mediante il quale i maestri del giudaismo commentavano e adattavano con una certa libertà i testi biblici.

10,1-4 Alla sapienza, che l’autore in 9,2-3 aveva presentato come protagonista nella creazione, viene attribuita la liberazione di Adamo, chiamato padre del mondo (v. 1), dal peccato. A lui, immagine del giusto, viene contrapposto Caino, figura dell’empio che non segue l’insegnamento della sapienza. Il suo fratricidio è visto come causa del diluvio, il castigo che Dio inflisse agli empi e dal quale fu preservato il solo Noè con la famiglia (Gen 6-9). I nomi dei personaggi biblici (facilmente individuabili) sono taciuti, perché in essi l’autore vede il prototipo dei giusti di ogni epoca, con particolare riferimento alla situazione degli Ebrei che vivono in Alessandria d’Egitto, in mezzo ai pagani.

10,5-9 Anche le vicende dei patriarchi (Gen 12-50) sono poste sotto l’azione salvifica della sapienza. Abramo emerge come figura del giusto dall’insipienza del progetto orgoglioso degli abitanti di Sinar (allusione all’episodio della torre di Babele: Gen 11,1-9), mentre Lot viene preservato dal castigo con cui il Signore punisce gli abitanti corrotti delle città di Sòdoma e Gomorra e di tutta la loro regione (le cinque città, v. 6: Gen 18-19).

10,7 terra desolata, fumante: la regione del Mar Morto, zona desertica e con abbondante evaporazione delle acque di questo lago. L’anima incredula è la moglie di Lot, trasformata in statua di sale (Gen 19,26).

10,10-12 Giacobbe sperimenta la guida della sapienza tra le drammatiche vicende che caratterizzano la sua esistenza (fuga dal fratello Esaù, visione di Dio a Betel, contrasti e fatiche presso lo zio Làbano, protezione dai nemici: Gen 27-32). Anche l’autore del libro della Sapienza, come Os 12,5, interpreta la lotta notturna di Giacobbe con il misterioso personaggio (Gen 32,23-33) come immagine profonda della preghiera, che tutto può: perché sapesse che più potente di tutto è la pietà (v. 12).

10,13-14 Chiamato il giusto venduto, Giuseppe è collocato nella luce della sapienza, che è capace di trasformare in bene anche ciò che è negativo, facendo trionfare la giustizia sulla prevaricazione, la verità sulla menzogna, l’innocenza sull’accusa falsa. In brevissime battute, l’autore sintetizza quanto è detto in Gen 37; 39-41.

10,15-21 10,20 e celebrarono, o Signore, il tuo nome che è santo: la meditazione sulle vicende dell’esodo si svolge come una grande preghiera di lode a Dio, fino al termine del libro.

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Approfondimenti

10,1-19,22. Dopo aver contemplato ed elogiato la sapienza in se stessa (cc. 6-9), l'autore in questi cc. 10-19, che costituiscono la terza ed ultima parte del libro, passa a descriverne l'attività nella storia, esemplifica cioè l'affermazione di 9, 18 secondo cui gli uomini furono salvati per mezzo della sapienza. Al c. 10, in uno scorcio grandioso, lo Pseudo-Salomone passa in rassegna l'opera salvifica della sapienza da Adamo fino a Mosè; segue poi una seconda sezione (cc. 11-19) dove l'attenzione si focalizza su un periodo storico assai più limitato, l'esodo, per offrire però una teologia della salvezza ricca ed articolata. In questa terza parte l'autore è particolarmente legato alla tradizione giudaica e l'assenza di nomi propri gli permette di superare il limitato ambito storico dei singoli episodi, per assurgere a una riflessione paradigmatica valevole per tutti i tempi e in modo speciale per la sua epoca.

vv. 1-21. Seguendo l'ordine cronologico di Genesi e di Esodo l'autore evoca successivamente le figure salienti della prima storia biblica: Adamo (vv. 1-2), Caino (v. 3), Noè (v. 4), Abramo (v. 5), Lot (vv. 6-9), Giacobbe (v. 10-12), Giuseppe (vv. 13-14) ed infine il popolo eletto al momento dell'esodo (vv. 15-21). Siamo in presenza di una nomenclatura simile a quella di Sir 44-49; 1Mac 2,51-64; Eb 11. Risultano otto quadri, di diversa lunghezza, facenti capo ciascuno a un noto personaggio biblico, con l'eccezione dell'ultimo dove, pur venendo menzionato Mosè (cfr. v. 16), tuttavia il personaggio è costituito dal popolo eletto. Si tratta di figure tutte positive, ad eccezione di Caino, che richiama però di riflesso il fratello Abele; d'altronde anche gli altri personaggi sono posti in contrasto o con una situazione di peccato o con un empio. Questa contrapposizione fra empi e giusti era già emersa nei quattro dittici di Sap 3-4; riappare qui, ma sul terreno della storia biblica. Secondo il suo costume l'autore non cita alcun nome proprio, allargando così la prospettiva interpretativa. Due termini teologicamente rilevanti caratterizzano l'unità: «sapienza» e «giusto». Il primo termine appare una volta nella forma sostantivale (v. 4) e sette volte nella forma pronominale (vv. 1.3.5.6 [manca nella traduzione BC].10.13.15); questa insistenza non è casuale, ma è volta a sottolineare la sapienza come soggetto dell'azione salvifica di Dio. Il risultato dell'azione della sapienza è espresso dal secondo termine, «giusto», che costantemente qualifica i vari personaggi biblici da Noè fino al popolo (vv. 4.5.6.10.13.20), tolta l'eccezione del primo quadro dove è assente e del secondo dove, trattandosi di Caino, l'epiteto è «ingiusto». Appare cosi evidente che la giustizia di questi grandi uomini biblici è il frutto dell'azione della sapienza, che si conferma veramente come salvatrice (cfr. 9, 18c).

vv. 1-2: Adamo: l'espressione «formato per primo da Dio» fa riferimento a Gn 2,7 e indica Adamo, come già in Sap 7,1. Appunto perché plasmato per primo da Dio, egli può essere definito come padre del mondo, cioè come antenato di tutta l'umanità. L'aggettivo «solo» rinvia ancora al momento della creazione di Adamo, quando egli è l'unico essere umano dell'universo e quando non gli è ancora stata messa accanto Eva; dunque l'aggettivo sottolinea l'unicità e la solitudine del primo uomo al momento della creazione. Unicità e solitudine non sono da intendersi negativamente, ma piuttosto positivamente, in quanto segno di grandezza, come conferma la tradizione targumica che, commentando Gn 3,22, dice: «Allora JHWH Elohim disse “Ecco che il primo uomo che ho creato è solo nel mondo, proprio come io sono solo nelle altezze del cielo”». La tradizione giudaica e patristica evidenzia il pentimento e la penitenza di Adamo dopo il peccato. Verosimilmente il nostro autore ha in mente la stessa tradizione quando accenna alla liberazione di Adamo da parte della sapienza dopo la caduta.

v. 3. Caino. Il versetto rievoca Caino, l'uccisore del fratello Abele (cfr. Gn 4,6-13). Ciò che costituisce la differenza fra il suo peccato e quello di Adamo è il rifiuto ostinato della sapienza, per cui Caino diventa l'esemplificazione di quegli empi che portano in sé già fin dalla loro esistenza terrena la perdizione definitiva (cfr. Sap 1,12-13).

v. 4. Noè. In accordo con la tradizione interpretativa giudaica (cfr. ad es. Ant. 1,65-66) l'autore vede il diluvio come la conseguenza del peccato di Caino e dei suoi discendenti. Il giusto è Noè (cfr. Gn 6,9; 7,1; Sir 44,17). La povertà del mezzo (un semplice legno; cfr. l'espressione parallela «minuscolo legno» di Sap 14, 5) vuole evidenziare naturalmente il soggetto salvifico, cioè la sapienza.

v. 5. Abramo. L'autore rievoca non solo l'episodio della torre di Babele (Gn 11, 1-9), ma soprattutto la situazione che ne era derivata, situazione paradossale, perché caratterizzata da un lato dalla confusione e perciò dalla divisione fra i popoli, dall'altro dalla concordia, concordia però nella malvagità! Dietro l'ironia dello Pseudo-Salomone c'è una critica profonda agli imperi, incapaci di unificare veramente i popoli. In questo contesto la sapienza riprende il progetto di unità iniziando con Abramo (cfr. Gn 12). La vocazione del patriarca è caratterizzata dal verbo «riconoscere», che evidenzia l'intensità e l'intimità con cui Dio si fa presente nella vita del chiamato; si tratta d'una presenza non limitata al momento della vocazione, ma continua: grazie ad essa Abramo potrà perseverare irreprensibile e anche superare la terribile prova del Moria (cfr. Gn 22).

vv. 6-9. Lot. I versetti formano una breve unità delimitata dall'inclusione «liberò» (v. 6: BC = «salvò») – «liberò» (v. 9). Il riferimento è a Gn 19, che descrive il castigo divino sulla pentapoli e la liberazione di Lot. A differenza del racconto biblico, dove il giusto per eccellenza è Abramo e dove la salvezza stessa di Lot avviene grazie all'intercessione del patriarca (cfr. v. 29), qui emerge in primo piano la figura di Lot, definito come giusto (la medesima tradizione riapparirà in 2Pt 2,7); inoltre all'azione degli angeli (cfr. Gn 19,12-22) subentra quella della sapienza, unico soggetto di salvezza. L'autore riprende alcune tradizioni popolari e leggendarie, con cui la fantasia popolare aveva interpretato la desolazione della regione attorno al Mar Morto, specie nella sua parte sud-occidentale, per vedervi la testimonianza perenne di quanto sia letale per l'uomo l'abbandono della sapienza: l'esalazione di fumo dalla terra (verosimilmente in relazione all'abbondante evaporazione emanante dal Mar Morto oppure a persistenti attività vulcaniche), i frutti che non giungono mai a maturazione, una colonna di sale (la forma capricciosa di una roccia formata dall'erosione del terreno e somigliante a una figura umana poté far pensare alla statua di sale della moglie di Lot: Gn 19,21).

vv. 10-12. Giacobbe. Seguendo il testo biblico l'autore illustra l'opera protettrice e salvifica della sapienza nelle varie fasi della vita del patriarca, anzitutto nel momento drammatico della fuga da Esaù (cfr. Gn 27,41-45). Nel sogno di Betel (cfr. Gn 28,10-22) la sapienza, tramite la visione dell'incessante movimento degli angeli lungo la scala, illustra l'incessante provvidenza divina verso gli uomini (= «regno di Dio: v. 10c) e illumina Giacobbe quand'egli concepisce il progetto di un santuario in quel luogo a memoria della teofania (questo pare il senso più probabile dell'espressione «conoscenza delle cose sante»: v. 10d). Con l'aiuto della sapienza poi Giacobbe ha successo sia nella vita familiare con una numerosa prole (v. 10ef), sia nella vita economica (v. 11); si allude qui al periodo trascorso in casa di Labano (cfr. Gn 29-30). Infine è ancora la sapienza ad assicurare al patriarca la vittoria nel misterioso combattimento con l'angelo di JHWH (cfr. Gn 32,24-31).

vv. 13-14. Giuseppe. Non solo l'autore rievoca la sua storia, ma ne fa il tipo del giusto perseguitato e poi glorificato. Nella tradizione Giuseppe rappresenta pure la figura del saggio, perciò a maggior ragione lo Pseudo-Salomone sottolinea qui l'azione liberatrice della sapienza.«lo preservò dal peccato»: in antagonismo alla seduzione ammaliante del peccato impersonato dalla moglie di Putifarre (cfr. Gn 39,7-12), si contrappone la sapienza, la vera sposa del giusto (cfr. 8,2.9, ecc.). «scese»: si riprende l'immagine dell'angelo del Signore disceso con Azaria e i suoi compagni nella fornace (Dn 3,49) e la si applica alla sapienza nei confronti di Giuseppe in prigione. «scettro regale»: lo Pseudo-Salomone segue la tradizione giudaica che tendeva a vedere in Giuseppe un autentico re; «avversari» e «accusatori»: gli avversari e gli accusatori del patriarca furono in realtà pochi; dietro queste espressioni si intravede probabilmente l'intenzione attualizzatrice dell'autore, che ha presente i numerosi denigratori e oppositori dei Giudei alessandrini del suo tempo.

vv.15-21. Il popolo dell'esodo. La serie dei grandi personaggi biblici sfocia ora nella rievocazione dell'Israele dell'esodo, proprio quando con la liberazione d'Egitto esso inizia la sua vera esistenza di popolo. Questa nascita del popolo è però opera della sapienza, la quale nella rilettura dell'autore rappresenta l'azione di Dio stesso; così la sapienza appare non più soltanto come la protettrice di alcuni uomini privilegiati, ma anche e soprattutto come la guida del popolo di Dio. Questi versetti preannunciano e introducono allo stesso tempo quello che sarà il tema di Sap 11-19.

v. 15. L'aggettivo «santo» non intende sottolineare primariamente il comportamento devoto dell'uomo – in tal caso la santità di Israele sarebbe contraddetta dalle sue numerose ribellioni a Dio –, quanto piuttosto l'azione di Dio a favore dell'uomo, specialmente tramite il dono dell'alleanza. Tuttavia c'è pure in questo versetto una certa idealizzazione dell'Israele dell'esodo, come nei profeti (cfr. Os 2,16-17; Ger 2,2-3) e l'indicazione di un ideale per la generazione contemporanea.

v. 16. «servo»: questo titolo in Esodo contrappone Mosè ai servi di faraone, in quanto il primo è servo del Signore (cfr. ad es. Es 4,10; 14,31), mentre i secondi sono semplicemente servi di faraone (cfr. Es 5,21; 7,9-10, ecc.). Ciò che la precedente tradizione biblica diceva dello spirito (cfr. Nm 11,17; Is 63,11) viene ora detto della sapienza, che costituisce infatti la vera guida interiore di Mosè. Il plurale «terribili re» è una generalizzazione oratoria o semplicemente un plurale maiestatico, indicante faraone.

v. 17. «ricompensa»: l'appropriazione da parte degli Ebrei di oggetti preziosi degli Egiziani (cfr. Es 12,35-36) viene interpretata come la restituzione d'un salario non pagato durante gli anni di schiavitù. «riparo»: la colonna di nube, che accompagna il cammino degli Ebrei dopo l'uscita dall'Egitto, diventa qui, nell'interpretazione dello Pseudo-Salomone, la sapienza stessa; più che indicare la strada (cfr. Es 13,21-22), essa copre e protegge il popolo (cfr. Nm 10,34; 14,14; Sal 105,39).

v. 20. La rievocazione del canto di ringraziamento degli Ebrei (cfr. Es 15) assurge a preghiera; ne sono segno il ritorno della seconda persona, l'invocazione «Signore» e il frasario di indubbio sapore liturgico. Questo non meraviglia sia perché si tratta di un momento drammatico della storia, dove Israele ha davvero toccato con mano la presenza salvifica del Signore, sia perché, tramite la preghiera, l'autore vuole coinvolgere la sua generazione, invitandola a scoprire nella propria storia la medesima presenza salvifica divina.

v. 21. Riappare la sapienza, apparentemente assente nel versetto e precedente, per sottolineare con vigore che era stata lei l'ispiratrice della lode al mare (dunque non era assente!) e soprattutto che era stata lei ad associare a quella lode i muti e gli infanti, facendone veramente un canto concorde (cfr. v. 20c). C'è qui l'eco di una tradizione interpretativa presente pure nel Targum a Es 15,2, dove si afferma infatti che dalle mammelle materne i lattanti facevano segno con le dita ai loro padri e si univano alla loro lode a Dio. Interpretando i due emistichi del v. 20 in rapporto di parallelismo sinonimico, i muti di 21a sarebbero precisamente questi lattanti ancora incapaci di parlare, ma a cui la sapienza ha ora sciolto la bocca.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La preghiera di Salomone per ottenere la sapienza 1“Dio dei padri e Signore della misericordia, che tutto hai creato con la tua parola, 2e con la tua sapienza hai formato l'uomo perché dominasse sulle creature che tu hai fatto, 3e governasse il mondo con santità e giustizia ed esercitasse il giudizio con animo retto, 4dammi la sapienza, che siede accanto a te in trono, e non mi escludere dal numero dei tuoi figli, 5perché io sono tuo schiavo e figlio della tua schiava, uomo debole e dalla vita breve, incapace di comprendere la giustizia e le leggi. 6Se qualcuno fra gli uomini fosse perfetto, privo della sapienza che viene da te, sarebbe stimato un nulla. 7Tu mi hai prescelto come re del tuo popolo e giudice dei tuoi figli e delle tue figlie; 8mi hai detto di costruirti un tempio sul tuo santo monte, un altare nella città della tua dimora, immagine della tenda santa che ti eri preparata fin da principio. 9Con te è la sapienza che conosce le tue opere, che era presente quando creavi il mondo; lei sa quel che piace ai tuoi occhi e ciò che è conforme ai tuoi decreti. 10Inviala dai cieli santi, mandala dal tuo trono glorioso, perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica e io sappia ciò che ti è gradito. 11Ella infatti tutto conosce e tutto comprende: mi guiderà con prudenza nelle mie azioni e mi proteggerà con la sua gloria. 12Così le mie opere ti saranno gradite; io giudicherò con giustizia il tuo popolo e sarò degno del trono di mio padre. 13Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? 14I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, 15perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla opprime una mente piena di preoccupazioni. 16A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? 17Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall'alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito? 18Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza”.

_________________ Note

9,1-18 Il brano si richiama alla preghiera di Salomone, ricordata in 1Re 3,6-9 e 2Cr 1,8-10.

9,8 enda santa: allusione alla tenda fatta costruire da Mosè nel deserto (Es 25,9.40).

9,15 tenda d’argilla: è immagine della condizione precaria dell’uomo. L’espressione un corpo corruttibile appesantisce l’anima vuole indicare le difficoltà che incontra il cammino spirituale dell’uomo. A differenza della filosofia greca, il pensiero biblico non contiene un giudizio negativo sul corpo.

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Approfondimenti

vv. 1-18. Preannunciata al capitolo precedente, si staglia ora imponente, ma anche delicata ed appassionata, la preghiera del c. 9, nella quale il giovane Salomone invoca da Dio il dono della sapienza. Questa preghiera è articolata in tre strofe (vv. 1-6; 7-12; 13-18), delimitata rispettivamente dalle inclusioni: «uomo-uomini» (vv. 2.6), «tuo popolo-tuo popolo» (7.12), «uomo-uomini» (vv. 13.18). Si tratta di termini significativi perché segno di un progressivo allargamento d'orizzonte: se nella prima strofa Salomone è presente come un uomo fra gli uomini con la medesima vocazione e i medesimi limiti, il Salomone della seconda strofa è specificatamente il re del popolo di Dio, chiamato a costruire il tempio; nell'ultima strofa Salomone non viene più menzionato; egli diventa l'uomo di ogni epoca e di ogni terra, invitato a realizzare il progetto di Dio; si prepara così l'orizzonte del c. 10, dove compariranno i grandi personaggi della storia universale. Al centro di ogni strofa spicca la richiesta della sapienza: vv. 4.10.17bc. Quella del v. 10 è l'invocazione più forte, sottolineata dalla ripetizione sinonimica; a ciò si aggiunga che il v. 10 non solo si trova al centro della seconda strofa, ma anche esattamente al centro dell'intero capitolo, avendo 22 emistichi prima e 2 emistichi dopo! Dunque, se ciascuna strofa converge verso i rispettivi centri, tutto il capitolo converge in particolar modo sul centro del v. 10; a ragione dunque si tratta qui al c. 9 di una preghiera! Il capitolo si apre e si chiude con l'espressione «per mezzo della sapienza» (vv. 2a.18c), unici passi di tutto il libro dove compaia questa espressione letteralmente. I due passi segnano pure i due poli della riflessione teologica dello Pseudo-Salomone, perché dalla sapienza creatrice operante all'inizio presso Dio si arriva alla sapienza salvifica operante nella storia degli uomini; in tal modo, in uno sguardo veramente unitario, la sapienza appare al centro dell'azione amorevole di Dio che crea e salva l'uomo; attraverso essa soltanto passa il rapporto Dio-uomo. Di qui l'appassionata e insistente invocazione della sapienza!

vv. 1-6. Salomone, uomo fra gli uomini, invoca la sapienza.

v. 1a. «Dio dei padri e Signore di misericordia»: sebbene in questa prima strota della preghiera, Salomone venga presentato semplicemente come uomo fra gli uomini, di Dio si sottolinea anzitutto la dimensione storico-salvifica, prima ancora di quella creazionale; egli è infatti il Dio dei padri, Il Dio cioè dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe (cfr. ad es. Es 3,6) e poi anche di Davide (cfr. 1 Re 3,6-7; 6,12-13). Grazie ai loro meriti, Israele possiede degli intercessori potenti; ma è soprattutto la misericordia dimostrata da Dio nei loro confronti ad infondere fiducia alla preghiera dello Pseudo-Salomone!

vv. 1b.2a. La disposizione chiastica dei due emistichi evidenzia il parallelismo parola-sapienza; i due termini rappresentano certamente entrambi l'intera opera creatrice di Dio, ma con due sfumature diverse: la parola sottolinea maggiormente la grandezza e la maestà di Dio che crea l'universo, la sapienza evidenzia specialmente l'intelligenza e la scienza che caratterizzano l'opera creatrice, specialmente nei confronti dell'uomo.

v. 3. Il binomio «santità e giustizia» esprime la collocazione esistenziale che, secondo il disegno di Dio, l'uomo deve assumere all'interno del creato. Tramite la santità l'uomo riconosce fondamentalmente la sua creaturalità nei confronti di Dio; tramite la giustizia, invece, si rapporta in modo corretto verso gli altri uomini e verso le creature irrazionali. Verosimilmente, a motivo della regalità di Salomone all'interno dell'esercizio della giustizia, l'emistichio seguente sottolinea l'importanza di un sereno e imparziale esercizio della giustizia.

v. 4. Esattamente al centro di questa prima unità risuona la preghiera d'invocazione della sapienza. Il giovane Salomone non solo richiede esplicitamente la virtù della sapienza, come già in 2Cr 1,10, ma la sapienza stessa personificata; questa sposa ideale, di cui s'era tessuto l'elogio nel capitolo precedente, appare qui come una regina in possesso di una piena dignità regale; è essa infatti colei che governa il mondo (cfr. 8,1) e soprattutto gli uomini (cfr. 7, 27).

v. 5. Nel contesto della preghiera emergono alcune reminiscenze di salmi atte ad esprimere le ragioni profonde di questa richiesta. Anzitutto con le parole del Sal 116,16 Salomone protesta con forza la sua dipendenza assoluta da Dio e dunque la sua appartenenza a lui; col Sal 90 (specialmente i vv. 5-6.9-10) riconosce poi la caducità della propria vita; infine adduce un motivo peculiare, inerente alla sua condizione di re, e cioè l'incapacità di discernere da solo ciò che è giusto e secondo le leggi. La richiesta della sapienza diventa così una necessità davvero vitale.

v. 6. La filosofia contemporanea, specialmente quella stoica, proponeva l'ideale della perfezione, ideale tuttavia assai difficile da raggiungere, se non impossibile. Ma anche una ipotetica perfezione umana sarebbe ancora radicalmente insufficiente in assenza della sapienza, cioè della prospettiva divina, che sola può dare senso alla vita dell'uomo.

vv. 7-12. Salomone in quanto re invoca la sapienza.

v. 7. Se già in quanto uomo Salomone necessita del dono della sapienza, tanto più gli è necessaria in quanto re. A questo compito egli e stato prescelto da Dio nel contesto li un disegno dove i titoli umani di primogenitura e di diritto cedono il passo all'imperscrutabile volontà di Dio: Salomone fu preferito ad Adonia (cfr. 1Re 1,5.28-40) e agli altri figli di Davide (cfr. 2Sam 3,2.5). Così egli dovrà esercitare non semplicemente una funzione giuridica o un potere, ma una missione, perché si tratta del popolo di Dio; quest'ultimo concetto è particolarmente sottolineato dal triplice aggettivo possessivo «tuo» e dall'espressione «tuoi figli/tue figlie», che non solo esplicita «tuo popolo», ma gli conferisce un carattere più personale e patetico. Di conseguenza è davvero necessaria la sapienza.

v. 8. Traspare tutto l'amore per il tempio proprio dello Pseudo-Salomone e della generazione contemporanea, amore cresciuto a dismisura dopo le vicissitudini della distruzione, dell'esilio e della perdita dell'indipendenza politica. Quest'amore nasce dalla scelta che Dio ha fatto di Gerusalemme ed in particolare del tempio come sua dimora; questo tempio infatti, come già la tenda del deserto, è la replica terrestre dell'autentico santuario celeste. Del tempio lo Pseudo-Salomone evidenzia l'altare degli olocausti, il luogo cioè dove, tramite il sacrificio, l'uomo riconosce e fa propria la presenza divina. Per questo sublime compito di liturgia Salomone necessita del dono della sapienza!

v. 10. Le due riflessioni precedenti su Salomone re e liturgo sfociano nell'invocazione forte e appassionata della sapienza, che si colloca al centro dell'intero capitolo. Si esclude con vigore una presenza superficiale e temporanea della sapienza; questa infatti condividerà davvero la vita di Salomone, permettendogli con la illuminazione interiore e con la compartecipazione alla fatica quotidiana di ottemperare alla sua missione.

v. 11. Riprendendo il verbo «guidare», che in Dt 1,33 (cfr. anche Ne 9,12; Sal 78,14) descrive l'accompagnamento del popolo di Dio nel deserto da parte della colonna di nube e di fuoco, l'autore prospetta ora la sapienza come la vera guida che accompagnerà e proteggerà Salomone nell'esodo della sua vita. L'emistichio 11c sottolinea ancora il concetto precedente con il termine «gloria», che significa non solo potenza, ma anche luce, e indica una presenza profonda, intima, permanente, di Dio stesso nella vita del giovane Salomone.

vv. 13-18. Necessità della sapienza per ogni uomo.

v. 13. Una duplice domanda retorica introduce quest'ultima unità, nella quale la preghiera assume un carattere dottrinale e sapienziale; prova ne sia la serie di domande retoriche e l'uso prevalente della terza persona (vv. 13-16). Scompare la figura storica di Salomone ed emerge l'uomo in generale, di ogni tempo e di ogni terra, nel suo confronto con l'insondabile disegno divino. Le due domande retoriche del versetto esprimono l'intima convinzione dell'autore che l'uomo, privo della sapienza, non può conoscere la volontà di Dio e quindi realizzare il progetto a cui è stato chiamato.

v. 14. A conferma dell'affermazione precedente l'autore adduce anzitutto l'esperienza della vita e della storia, da cui risulta l'incertezza e la fragilità delle riflessioni umane. Non si tratta di una mortificazione totale del pensiero umano, ma piuttosto della presa di coscienza delle sue inadeguatezze di fronte al mondo di Dio.

v. 15. Viene illustrata qui la ragione profonda dei limiti dell'uomo. Se l'autore ricorre a un vocabolario desunto dalla filosofia platonica (corpo-anima-mente-tenda d'argila), egli se ne differenzia quanto al pensiero: la mente non rappresenta un terzo elemento, ma l'anima in quanto fonte del pensiero, in armonia dunque con lo schema binario corpo-anima proprio del libro della Sapienza (cfr. ad es. 1,4; 8,19-20; 16,14); non si presuppone un'esistenza anteriore dell'anima, né questa viene ritenuta prigioniera di un corpo ed esortata a liberarsene il più presto possibile. Lo Pseudo-Salomone vuole semplicemente sottolineare la corruttibilità del corpo, la sua affinità con le realtà materiali e quindi la tensione con l'anima appartenente invece alle realtà spirituali; la metafora della tenda d'argilla evidenzia precisamente il legame del corpo con la materia e di conseguenza il fatto d'essere per l'anima una dimora fragile ed instabile. Queste considerazioni poggiano essenzialmente su un dato di fatto e non di speculazione e permettono all'autore di mostrare ancora una volta l'assoluta necessità della sapienza.

v. 17. Il versetto riprende la domanda iniziale del v. 13a, a cui però dà anche la risposta (v. 17bc). Il contenuto della risposta alla domanda è naturalmente il dono della sapienza (v. 17b); ad esso si aggiunge pure il dono del santo spirito (v. 17c). L'autore specifica l'attività della sapienza tramite la nozione biblica di spirito. Un testo di Isaia (Is 63, 8-14) aveva presentato lo spirito come la guida di Israele durante l'esodo; lo Pseudo-Salomone riprende questo concetto nell'imminenza della descrizione dell'opera della sapienza nella storia salvifica (Sap 10-19), dandogli pero un orizzonte universale.

v. 18. Questo versetto serve da transizione. Da un lato si riallaccia al versetto precedente tramite l'avverbio iniziale«così» e la ripresa del termine «sapienza»; inoltre completa la risposta alla domanda precedente con l'affermazione che storicamente gli uomini furono salvati per mezzo della sapienza; dall'altro proprio con quest'ultima affermazione preannuncia quanto verrà narrato nella terza parte del libro. Il senso dell'immagine dei sentieri raddrizzati, immagine che ritornerà poco dopo a proposito della fuga di Giacobbe (10,10), viene dato esplicitamente dall'emistichio seguente; si tratta cioè della conoscenza della volontà di Dio nelle evenienze concrete della vita e della sua attuazione.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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I vantaggi della sapienza 1La sapienza si estende vigorosa da un'estremità all'altra e governa a meraviglia l'universo. 2È lei che ho amato e corteggiato fin dalla mia giovinezza, ho bramato di farla mia sposa, mi sono innamorato della sua bellezza. 3Ella manifesta la sua nobile origine vivendo in comunione con Dio, poiché il Signore dell'universo l'ha amata; 4infatti è iniziata alla scienza di Dio e discerne le sue opere. 5Se la ricchezza è un bene desiderabile in vita, che cosa c'è di più ricco della sapienza, che opera tutto? 6Se è la prudenza ad agire, chi più di lei è artefice di quanto esiste? 7Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Ella infatti insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza, delle quali nulla è più utile agli uomini durante la vita. 8Se uno desidera anche un'esperienza molteplice, ella conosce le cose passate e intravede quelle future, conosce le sottigliezze dei discorsi e le soluzioni degli enigmi, comprende in anticipo segni e prodigi e anche le vicende dei tempi e delle epoche.

La sapienza, fonte di gloria e di immortalità 9Ho dunque deciso di dividere con lei la mia vita, certo che mi sarebbe stata consigliera di buone azioni e conforto nelle preoccupazioni e nel dolore. 10Per lei avrò gloria tra le folle e, anche se giovane, onore presso gli anziani. 11Sarò trovato perspicace nel giudicare, sarò ammirato di fronte ai potenti. 12Se tacerò, resteranno in attesa, se parlerò, mi presteranno attenzione, e se mi dilungo nel parlare, si tapperanno la bocca. 13Grazie a lei avrò l'immortalità e lascerò un ricordo eterno a quelli che verranno dopo di me. 14Governerò popoli, e nazioni mi saranno soggette. 15Sentendo parlare di me, crudeli tiranni si spaventeranno; mi mostrerò buono con il popolo e coraggioso in guerra. 16Ritornato a casa, riposerò vicino a lei, perché la sua compagnia non dà amarezza, né dolore il vivere con lei, ma contentezza e gioia.

La sapienza è dono di Dio 17Riflettendo su queste cose dentro di me e pensando in cuor mio che nella parentela con la sapienza c'è l'immortalità 18e grande godimento vi è nella sua amicizia e nel lavoro delle sue mani sta una ricchezza inesauribile e nell'assidua compagnia di lei c'è la prudenza e fama nel conversare con lei, andavo cercando il modo di prenderla con me. 19Ero un ragazzo di nobile indole, ebbi in sorte un'anima buona 20o piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia. **21vSapendo che non avrei ottenuto la sapienza in altro modo, se Dio non me l'avesse concessa – ed è già segno di saggezza sapere da chi viene tale dono –, mi rivolsi al Signore e lo pregai, dicendo con tutto il mio cuore:

_________________ Note

8,6-7 prudenza… giustizia… temperanza… fortezza: si allude alle virtù ritenute fondamentali, inculcate dalla filosofia greca e conosciute comunemente come “virtù cardinali” (sono il “cardine” della vita morale dell’uomo). Qui esse vengono presentate non tanto come frutto dello sforzo dell’uomo, quanto piuttosto come dono della sapienza.

8,13 l’immortalità: qui va intesa non nel senso della vita eterna riservata ai giusti, ma come sopravvivenza nel ricordo dei posteri, dopo la morte (vedi anche 8,17).

8,20 ero entrato in un corpo senza macchia: più che riferirsi alla dottrina platonica della preesistenza dell’anima, qui si vuole accentuare la natura dell’anima stessa, quale espressione profonda dell’io e perciò superiore alla componente materiale dell’uomo.

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Approfondimenti

vv. 2-9. La sapienza, superiore a tutti i beni, sposa ideale di Salomone. Quest'unità riprende il tema della precedente unità parallela (7,13-21) circa la superiorità della sapienza sui beni culturali, ma allargando a tutti gli altri beni e soprattutto introducendo il motivo nuovo della sapienza sposa ideale; l'inclusione «prendermela come sposa» – «prendermela a compagna della mia vita» (vv. 2.9) evidenzia proprio quest'ultimo aspetto. La pericope è ben costruita: a un ampia introduzione sulla sapienza sposa divina e sposa ideale di Salomone (vv. 2-4 = sette emistichi), seguono quattro frasi introdotte da «se» (vv. 5-8 = 14 emistichi), di cui le prime due, più brevi, sono interrogative e le ultime due, più lunghe, sono condizionali; illustrando la superiorità radicale della sapienza rispetto a tutti gli altri beni, l'autore vuole così motivare la scelta esistenziale di Salomone. Il v. 9 conclude l'unità (cfr. «dunque») col ribadire la scelta sponsale del re israelita.

v. 2. «sposa»: l'autore rilegge il sogno di Gabaon (1Re 3,4-15) in chiave mistico-sponsale e descrive l'innamoramento del giovane Salomone. Il verbo greco che sta dietro «ho amato», più che un progetto volontario e deliberato, indica piuttosto un'attrazione, una inclinazione e un compiacimento, che nascono da una certa affinità e armonia comune. Non meraviglia che, nonostante la loro diseguaglianza ontologica, Salomone si senta fortemente attratto dalla sapienza verso un affetto e amore d'amicizia; infatti essa stessa con la sua ricerca amorosa previene ogni ricerca dell'uomo (cfr. 6, 12-16). Provando questo amore, Salomone s'è messo dunque alla ricerca della sapienza, una ricerca finalizzata al matrimonio. Infine, ancora una volta l'autore insiste sull'innamoramento del giovane re, sottolineando il motivo della bellezza della sapienza; si tratta di un motivo greco, ma anche biblico, perché evoca l'ambiente del Cantico, dove il tema della bellezza della sposa gioca un ruolo fondamentale; così la sposa del Cantico diventa qui la sapienza stessa.

v. 3. La nobiltà d'origine della sapienza, motivo assai importante nella scelta della sposa, eccelle su ogni altra a causa della sua comunione di vita con Dio; ritorna qui l'immagine sponsale, ma riferita al rapporto sapienza-Dio. La comunione di vita fra sapienza e Dio ha la sua fonte e il suo fondamento nell'iniziativa gratuita di quest'ultimo che l'ha scelta e amata; l'origine e la natura di questo amore coincidono con il mistero dell'origine e della natura della sapienza. Dunque, entrando in comunione sponsale con lei, Salomone entra in comunione d'amore con Dio stesso.

vv. 5-6. Fra i motivi di scelta di una sposa ci può essere anche quello della ricchezza; non solo la sapienza è superiore a ogni ricchezza (cfr. 7,8), ma la possiede tutta, essendo essa la creatrice d'ogni bene. Anche i beni creati dal genio artistico o artigianale dell'uomo dipendono dalla sapienza, essendo l'intelligenza artistica un'espressione di questa.

v. 7. Dai beni materiali l'autore passa ai valori morali, ai quali accorda un'importanza primaria, in consonanza d'altronde con la filosofia dell'epoca che poneva le virtù fra i beni essenziali d'una sposa. Il primo termine «giustizia» è certamente in riferimento alla giustizia di Sap 1,1; tuttavia qui rappresenta piuttosto l'ideale morale dell'uomo virtuoso quale propagandava la filosofia greca e quale può nascere nel progetto esistenziale di un uomo retto. L'esperienza umana ci dice però quanto sia difficile da raggiungere questo ideale! Di fronte a ciò l'autore propone la sapienza come la vera artefice della virtù. Precisa poi il concetto generale di giustizia enumerando le quattro virtù cardinali. Questo schema è noto alla filosofia greca e in particolare allo stoicismo; significativo è tuttavia il fatto che egli integri nel patrimonio biblico e reinterpreti alla luce della sapienza questo ideale morale pagano.

v. 8. Fra i prerequisiti di una sposa idelae lo Pseudo-Salomone pone anche la cultura; si tratta però non di una cultura libresca ed erudita, bensì di una esperienza molteplice. Ancora una volta è la sapienza che possiede in sommo grado una simile esperienza, mostrandosi perciò come la sposa ideale. Il versetto specifica poi in che cosa consista questa vasta conoscenza; possiamo vedervi un'allusione alla storia, alla dialettica e alla retorica – in tal caso l'autore completerebbe l'elenco delle discipline di 7,17-21 –, ma è insufficiente, perché qui egli descrive propriamente quella che è la conoscenza sapienziale, immersa nella realtà della storia e della vita, caratterizzata dall'osservazione, dalla riflessione e dal ripensamento, volta alla ricerca del senso profondo delle realtà, il tutto alo scopo di essere in grado di compiere le scelte giuste in ogni circostanza della vita. Passato e futuro vengono conosciuti in funzione del loro profondo significato esistenziale (v. 8b); i «discorsi» (v. 8c) sono gli oracoli profetici della tradizione biblica e le sentenze della sapienza pagana, che, formulati sovente in modo oscuro o apparentemente ambiguo, necessitano di una interpretazione; anche gli «enigmi» (v. 8c) abbisognano di una soluzione. L'espressione «segni e portenti» (v. 8d) è in riferimento sia agli eventi storico-salvifici della tradizione anticotestamentaria (cfr. Sap 10, 16), sia a quei fenomeni straordinari e particolari che attirano l'attenzione dell'uomo; questi e le «vicende» (v. 8e) storiche rientrano in questa vasta esperienza della sapienza, che permette di cogliere il senso profondo della storia.

v. 9. La precedente illustrazione delle qualità di una sposa ideale e la loro presenza in sommo grado nella sapienza confermano pienamente Salomone nella decisione di prenderla come sposa; ciò che al v. 2 è ancora progettuale «ho cercato...»), diventa qui decisione piena e cosciente. L'inclusione «comunione di vita» (v. 3b) – «comunione di vita» (v. 9a; BC = «compagna della mia vita») significa che, accogliendo la sapienza, Salomone partecipa alla sua stessa comunione di vita con Dio! Infine queste mistiche nozze con la sapienza partecipano a Salomone tutti quei beni (bellezza, nobiltà di lignaggio, ricchezze, intelligenza artistica, ideale virtuoso, discernimento sapienziale) sopra enumerati, presenti in pienezza nella sapienza.

vv. 10-16. La sapienza apporta a Salomone una fama incomparabile e l'immortalità. I vv. 10-16 formano un'unità che ha come centro il v. 13, preceduto e seguito da sette emistichi; nella prima parte si parla della gloria di Salomone presso gli uomini, al v. 13 del dono dell'immortalità. Ai vv. 10a.13a, costruiti parallelamente, i termini «gloria» e «immortalità» preannunciano e sottolineano i due temi principali della pericope, di cui il primo nell'ambito dell'esistenza terrena è la premessa del secondo nella vita dopo la morte.

vv. 10-12. Se il conseguimento della gloria presso le folle dei sudditi può essere relativamente facile, l'apprezzamento presso gli anziani è più difficile, sia perché costoro sono persone d'esperienza e di riflessione, sia perché Salomone è ancora un giovane (cfr. 1Re 3,7; Sir 47,14). L'autore menziona poi sulla scia della tradizione biblica la sua sagacità di giudice (cfr. 1Re 3,16-28), la sua rinomanza internazionale (cfr. 1Re 5,14.21; 10,1-10) ed infine la sua arte nel parlare, capace di suscitare attesa, desiderio d'ascolto, attenzione, applicazione prolungata.

v. 13. «immortalità»: la posizione enfatica del termine alla fine dell'emistichio e il parallelo col v. 17c gli conferiscono il significato di immortalità personale; è precisamente questa la gloria dopo la morte! La menzione del «ricordo eterno» non vuole limitare il significato dell'immortalità sopra menzionata semplicemente al concetto di memoria, bensì sottolineare che l'opera meravigliosa della sapienza nella vita di Salomone continuerà a vivere, e quindi a fare del bene, nella tradizione del popolo di Dio, come potrebbe testimoniare la presente rievocazione dell'autore.

vv. 14-15. A partire da alcuni testi biblici (cfr. 1Re 5,1.4) il nostro autore idealizza Salomone fino a descriverlo come un dominatore di popoli; ciò non gli è difficile, dal momento che Salomone è diventato lo sposo mistico della sapienza, apportatrice di un regno autentico e trascendente (cfr. Sap 6,20-21). In questa idealizzazione del regno salomonico potrebbe pure essere presente il motivo messianico della sottomissione definitiva dei popoli al regno di Dio.

v. 16. Nessun successo nella vita pubblica potrebbe compensare un insuccesso nella vita privata! Di qui il ritratto della sapienza come l'unica sposa che può rendere felice l'uomo. L'espressione «ritornato a casa» indica la sfera della vita privata e familiare ed il verbo «riposerò vicino a lei» significa una felice e serena intimità coniugale. Di fronte alla tradizione sapienziale spesso assai critica nei confronti della donna (cfr. ad es. Prv 19,13; Qo 7,26-28; Sir 25,12-26), qui l'autore non solo esclude l'amarezza, ma positivamente sottolinea la contentezza e la gioia che procura a Salomone una vita condivisa con la sapienza. Si tratta però di un ideale non ancora raggiunto, ma solo agognato (cfr. i verbi al futuro)! Si incomincia già a sentire l'esigenza di una preghiera che superi il semplice progetto umano e che raggiunga il cuore stesso di Dio.

vv. 17-21. La sapienza, bene supremo, è dono di Dio. È l'unità conclusiva del lungo discorso di Salomone; l'inclusione «cuore» «cuore» (vv. 17b.21f) sottolinea che tutte le considerazioni precedenti sulla sapienza e l'imminente preghiera per ottenerla sono il frutto d'una riflessione cosciente e matura, non un prodotto emozionale; il cuore infatti nel linguaggio biblico indica la sede dell'intelligenza e della volontà. I primi due versetti sono una ricapitolazione dei dati precedenti, dei beni cioè che la sapienza apporta all'uomo; i vv. 19-21 illustrano invece la necessità della preghiera come unico mezzo per ottenere la sapienza, fungendo così da introduzione alla preghiera vera e propria del c. 9.

vv. 17-18. L'autore, quasi per riaffermare a se stesso e ai suoi ascoltatori che la sapienza costituisce davvero la scelta esistenziale migliore, enumera ancora una volta i beni che essa apporta e cioè immortalità, godimento, ricchezza, prudenza, fama. Di fronte a una tale dote si comprende l'imbarazzo di Salomone e la sua ricerca di una via per ottenere la sapienza; chi gli darà questa sposa? Alla domanda rispondono vv. 19-21.

vv. 19-21. Il ragionamento è logico: «ero certo un fanciullo...; ma sapendo che non l'avrei..., mi rivolsi». Le due particelle «certo»-«ma», assenti nella traduzione BC, assicurano un coerente legame tra i vv. 19-20 e il v. 21. I vv. 19-20 costituiscono una doppia riflessione sulle buone qualità fisiche, intellettuali e morali proprie di Salomone, ma a partire da due aspetti diversi: al v. 19 l'autore considera le buone disposizioni dell'anima che egli ha ricevuto; al v. 20 invece parte dal corpo, che afferma d'aver ricevuto senza alcuna tara fisica o morale; non si tratta di una affermazione a favore della teoria della preesistenza dell'anima, ma semplicemente di una precisazione o di un completamento dell'asserzione precedente. Pur dotato di una natura umana ricca di qualita, Salomone è profondamente convinto che l'ideale del matrimonio mistico con la sapienza non sia raggiungibile con i soli sforzi umani – sta qui la differenza con le filosofie morali contemporanee –, essendo un dono gratuito di Dio. Anzi, già questo convincimento è frutto della sapienza che opera nell'uomo, prevenendo la sua ricerca; infatti dietro il termine «intelligenza» del v. 21c dobbiamo vedere un'intelligenza illuminata dalla sapienza operante nell'uomo. Sorge così spontaneo l'anelito alla preghiera, un anelito sempre più insistente, come denotano le tre espressioni di 21ef: «mi rivolsi», «pregai», «dicendo con tutto il cuore».

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Discorso di Salomone sulla sapienza 1Anch'io sono un uomo mortale uguale a tutti, discendente del primo uomo plasmato con la terra. La mia carne fu modellata nel grembo di mia madre, 2nello spazio di dieci mesi ho preso consistenza nel sangue, dal seme d'un uomo e dal piacere compagno del sonno. 3Anch'io alla nascita ho respirato l'aria comune e sono caduto sulla terra dove tutti soffrono allo stesso modo; come per tutti, il pianto fu la mia prima voce. 4Fui allevato in fasce e circondato di cure; 5nessun re ebbe un inizio di vita diverso. 6Una sola è l'entrata di tutti nella vita e uguale ne è l'uscita. 7Per questo pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza. 8La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, 9non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l'oro al suo confronto è come un po' di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l'argento. 10L'ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta. 11Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile. 12Ho gioito di tutto ciò, perché lo reca la sapienza, ma ignoravo che ella è madre di tutto questo. 13Ciò che senza astuzia ho imparato, senza invidia lo comunico, non nascondo le sue ricchezze. 14Ella è infatti un tesoro inesauribile per gli uomini; chi lo possiede ottiene l'amicizia con Dio, è a lui raccomandato dai frutti della sua educazione. 15Mi conceda Dio di parlare con intelligenza e di riflettere in modo degno dei doni ricevuti, perché egli stesso è la guida della sapienza e dirige i sapienti. 16Nelle sue mani siamo noi e le nostre parole, ogni sorta di conoscenza e ogni capacità operativa.

Dio dona la sapienza 17Egli stesso mi ha concesso la conoscenza autentica delle cose, per comprendere la struttura del mondo e la forza dei suoi elementi, 18il principio, la fine e il mezzo dei tempi, l'alternarsi dei solstizi e il susseguirsi delle stagioni, 19i cicli dell'anno e la posizione degli astri, 20la natura degli animali e l'istinto delle bestie selvatiche, la forza dei venti e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle piante e le proprietà delle radici. 21Ho conosciuto tutte le cose nascoste e quelle manifeste, perché mi ha istruito la sapienza, artefice di tutte le cose.

Le caratteristiche della sapienza 22In lei c'è uno spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile, agile, penetrante, senza macchia, schietto, inoffensivo, amante del bene, pronto, 23libero, benefico, amico dell'uomo, stabile, sicuro, tranquillo, che può tutto e tutto controlla, che penetra attraverso tutti gli spiriti intelligenti, puri, anche i più sottili. 24La sapienza è più veloce di qualsiasi movimento, per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa. 25È effluvio della potenza di Dio, emanazione genuina della gloria dell'Onnipotente; per questo nulla di contaminato penetra in essa. 26È riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell'attività di Dio e immagine della sua bontà. 27Sebbene unica, può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova e attraverso i secoli, passando nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti. 28Dio infatti non ama se non chi vive con la sapienza. 29Ella in realtà è più radiosa del sole e supera ogni costellazione, paragonata alla luce risulta più luminosa; 30a questa, infatti, succede la notte, ma la malvagità non prevale sulla sapienza.

_________________ Note

7,2 nello spazio di dieci mesi: i mesi del calendario ebraico lunare sono più brevi dei nostri. Qui si intendono nove mesi completi, seguendo questo calendario, e in più gli inizi del decimo. D’altra parte nel mondo antico era una concezione abbastanza diffusa che il parto avvenisse al decimo mese di gravidanza.

7,17-21 In questi versetti si coglie un riferimento alle discipline che costituivano oggetto di insegnamento nell’epoca ellenistica, dalla cosmologia all’astronomia, dalla zoologia alla botanica, dalla medicina alla filosofia e alla teologia.

7,22-30 Ispirandosi alla cultura dell’epoca, che vede l’espandersi e l’imporsi del pensiero filosofico dei Greci, il sapiente, identificato idealmente con il re Salomone, enumera una ventina di attributi della sapienza. Non manca, tuttavia, l’ancoramento alla tradizione biblica, che applica alla sapienza, come già alla legge, il ricco simbolismo della luce: è più radiosa del sole..., paragonata alla luce risulta più luminosa (v. 29). Anche il NT si ispirerà a questa celebrazione della sapienza, applicandola alla persona di Gesù (Gv 1,9; Col 1,15; Eb 1,3).

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Approfondimenti

vv. 1-6. Condivisione da parte di Salomone della mortale e fragile natura umana. Le espressioni «come tutti» e «alla stessa maniera», con identico vocabolario in greco, fanno da inclusione all'unità e ne sottolineano l'idea centrale, cioè l'uguaglianza, la solidarietà e il comune destino di ogni essere umano, incluso il re Salomone. Da un lato pare probabile, dietro queste affermazioni, l'espressione di una critica all'ideologia monarchica orientale, in particolare egiziana, che pretendeva di vedere nei re degli esseri di origine divina; dall'altro lo Pseudo-Salomone vuole mostrare come l'acquisizione della sapienza non sia frutto di un privilegio, ma possibilità offerta ad ogni uomo. L'illustrazione dell'uguaglianza radicale fra gli uomini avviene tramite alcuni tempi che articolano la vita umana: la comune discendenza dal primo essere umano, Adamo (7,1b); la concezione e la formazione dell'embrione nel seno materno (1c.2); la nascita (v. 3); la crescita (v. 4) e infine la morte (v. 6). Si tratta di una spiegazione popolare della biologia umana, dipendente dalle teorie contemporanee, come ad es. a proposito della funzione del sangue femminile nella concezione e nella formazione del feto, oppure a proposito della durata della gravidanza stimata a dieci mesi. Più importante però è notare come questa solidarietà fra gli uomini sia velata di pessimismo. C'è anzitutto la consapevolezza della morte come destino dell'uomo, perché egli, definito fin dall'inizio come mortale (v. 1), avrà come ultima tappa del suo cammino la morte (v. 6). Si comprende perciò come questa vita dell'uomo sia legata alla materia (cfr. «plasmato di creta», «caduto su una terra») e caratterizzata dalla sofferenza («e sono caduto su una terra uguale per tutti»: v. 3b) e dal pianto (v. 3c). Di fronte a questo ritratto pessimista dell'esistenza umana e come risposta al desiderio incontenibile della gioia e della vita, diventa urgente l'invocazione della sapienza.

vv. 7-12. Superiorità della sapienza rispetto ai beni regali. L'inclusione del termine «sapienza» (vv. 7b.12a) racchiude tutti gli altri beni elencati nella pericope, per significare la sua superiorità radicale; infatti essa ne è la «madre» e proprio su questo termine si conclude l'unità!

v. 7. Il «per questo» iniziale è in riferimento alla situazione esistenziale umana descritta nell'unità precedente. «pregai»: l'autore si riferisce a una preghiera determinata, quella fatta da Salomone a Gabaon (cfr. 1Re 3,5-12). Più che «prudenza» (BC) si dovrebbe tradurre «discernimento», perché viene designato l'aspetto concreto della sapienza, cioè la capacità pratica di scegliere il bene nelle varie circostanze della vita; «lo spirito della sapienza» invece caratterizza piuttosto la sapienza come principio interiore e dinamico. In dipendenza da 1Re 3,5-12 questa sapienza pare ancora configurata come un dono naturale, tramite cui Salomone/l'uomo ottiene illuminazione e scienza per poter compiere scelte di bene; sarà al c. 8 che Salomone approfondirà il concetto di sapienza sul piano mistico e soprannaturale.

v. 8. Sette beni vengono scartati in favore della sapienza: scettri, troni, ricchezza, gemma inestimabile, salute, bellezza, luce. Rispetto al testo di 1Re 3,11, l'autore tralascia il motivo della lunga vita, perché è un bene per lui relativo (cfr. Sap 4,8-16), e quello della morte dei nemici, perché non più conveniente nel contesto universalistico del libro; per questo medesimo motivo dietro il plurale «scettri, troni» c'è il rifiuto di una egemonia su altri popoli. Lo Pseudo-Salomone amplifica poi il motivo delle ricchezze (cfr. quattro emistichi su otto) ed aggiunge in conformità all'ambiente in cui vive due beni particolarmente apprezzati dai Greci, e cioè la salute e soprattutto la bellezza; forse per quest'ultimo è stato influenzato dalla tradizione giudaica che sottolineava fortemente la bellezza eccezionale di Salomone. Anche la menzione della luce è originale; pare preferibile intenderla come luce degli occhi anziché come luce del giorno. Ne risulta un'audace affermazione; al limite è preferibile rinunciare alla luce degli occhi, anziché alla luce della sapienza! Abbiamo così nell'elenco di questi beni un'accentuata progressione: si passa dai beni esterni e materiali a quelli concernenti la vita fisica dell'uomo; ma anche questi, perfino la luce degli occhi, sono un nulla a paragone con la sapienza, che viene a collocarsi così come il vero ed unico bene dell'uomo.

v. 11. Assicurata la preminenza della sapienza su tutti gli altri beni, l'autore può ora precisare che essa non è ad essi antitetica; anzi, chi accoglie la sapienza avrà pure tutti gli altri beni. Vengono in mente le parole di Mt 6,33.

v. 12b. Infine lo Pseudo-Salomone, rispetto alla precedente tradizione sapienziale (cfr. Gb 28,12ss.; Pr 8,22; Sir 1,1-10; 24), vuole approfondire maggiormente la riflessione sull'attività creatrice della sapienza, egli definisce come creatrice (BC = «madre») (cfr. Sap 7,21; 8,4-6). Non solo la sapienza guida, cioè dà un senso ai beni materiali, ma essa stessa ne è l'artefice. Arriviamo così già a una prima affermazione circa la sapienza divina personificata, che opera certo in dipendenza da lui, ma accanto a lui.

vv. 13-21. Superiorità della sapienza rispetto a ogni cultura enciclopedica. L'inclusione «non nascondo» – «nascosto» (vv. 13.21) evidenzia la volontà dell'autore di svelare che la conoscenza della sapienza è radicalmente superiore a ogni altra conoscenza, anzi, che ne è la fonte!Infatti essa è l'«artefice» di tutte le cose, termine questo che ricorre nel versetto finale, parallelamente al precedente «madre» (lett. «creatrice»: v. 12). Infine l'inclusione «egli» – «sapienza» (vv. 17.21) racchiude l'elenco del sapere enciclopedico di Salomone; questo sottolinea ancora una volta come la sapienza sta alla base di ogni conoscenza umana, essendo essa la personificazione della stessa conoscenza divina.

v. 14. È la sapienza che rende gli uomini amici di Dio. Nella tradizione biblica il titolo di «amico di Dio» è riservato in modo particolare ad Abramo (Is 41,8; 2Cr 20,7; cfr. Gc 2,23) ed indirettamente anche a Mosè (cfr. Es 33,11), questo specialmente a motivo della loro intimità con Dio. Al saggio si apre la medesima prospettiva, perché grazie alla sapienza egli gode di una presenza profonda e intima di Dio.

vv. 15-16. Ogni conoscenza proviene da Dio: di qui la preghiera spontanea e fiduciosa per ottenere il dono di questa conoscenza. L'autore non chiede a Dio semplicemente di poter parlare secondo conoscenza, ma l'illuminazione interiore, cioè un'autentica conoscenza spirituale, di cui le espressioni esterne possano essere uno specchio fedele. La motivazione teologica è duplice:

a) è il Signore che guida la sapienza verso l'uomo; non si tratta di un'appropriazione da parte di quest'ultimo; ogni concezione prometeica oppure volontaristica è qui esclusa. E anche quando l'uomo ha già ricevuto il dono della sapienza, non va da sé un cammino di saggezza, perché è ancora sempre Dio che orienta questo cammino;

b) tutta l'intelligenza dell'uomo, sia teorica che concreta, sia interiore che espressa, è dono di Dio; l'espressione «in sua mano» del testo greco (BC = «in suo potere») aggiunge una nota di delicatezza e di attenzione: la piccola creatura è tenuta attentamente nella mano del grande creatore.

vv. 17-20. Partendo dal testo di 1Re 5,13 si descrive la scienza enciclopedica che Salomone ha ricevuto da Dio. È un quadro della cultura ellenistica secondo le varie discipline; mancano però le scienze umanistiche (storia, retorica, dialettica), che verranno menzionate più tardi in 8,8. In capo all'elenco sta la cosmologia (v. 17), dove si sente l'influsso della filosofia greca tendente a concepire il cosmo come una unità, strutturata su alcuni elementi di base. Segue la cronologia, che comprende tre emistichi (vv. 18-19) e che ci ricorda il forte interesse dei contemporanei per questo campo. Della zoologia si sottolinea in particolare la conoscenza delle bestie selvagge, conoscenza difficile e pericolosa (v. 20a). Della conoscenza antropologica viene evidenziata la capacità di comprendere gli impulsi (BC = «poteri») subitanei e qualche volta irrazionali che si impadroniscono dell'uomo (forse in connessione con la precedente menzione dell'istinto delle fiere) ed i suoi «ragionamenti» (v. 20b). Conclude l'elenco la botanica, con un accenno alle virtù particolari e medicinali di certe piante (v. 20c). Il senso ultimo di quest'elenco sta nella profonda convinzione dell'autore che Dio è all'origine di ogni scienza; quella dello Pseudo-Salomone è una visione unitaria dell'uomo, delle sue attività e del cosmo, dove al centro c'è Dio. Non c'è spazio per una rivendicazione di indipendenza, foss'anche da parte di scienze tipicamente sperimentali!

v. 21. Con la menzione della sapienza si chiude il cerchio, aperto da Dio: questa conoscenza è giunta a Salomone grazie alla sapienza in quanto artefice di tutte le cose. Siamo qui in presenza della sapienza divina, che appare come una personificazione dell'attività creatrice di Dio o, meglio ancora, della profonda intelligenza che sta dietro la creazione. Perciò ogni scienza che attingerà a questa intelligenza insita nel cuore del cosmo, parteciperà alla sapienza stessa, ne sarà un'emanazione e un dono.

vv. 7,22-8,1. L'elogio-descrizione inizia con una serie di 21 (3x7) aggettivi, che formano una piccola unità (vv. 22-23), delimitata da una chiara inclusione: «spirito intelligente... sottile – spiriti intelligenti... sottilissimi». Nella catena degli aggettivi appaiono formazioni sempre più ampie. Questo segna il passaggio alla seconda parte dell'elogio, che è infatti articolato su una serie di proposizioni concernenti la natura e l'origine della sapienza e dove l'affermazione iniziale (v. 24) è ripresa e completata dal versetto finale (8, 1).

v. 22-23. I 21 attributi della sapienza costituiscono chiaramente una cifra simbolica, basata sui numeri sette (= perfezione) e tre (= pienezza). L'intento di raggiungere questa cifra e la volontà di esprimere tramite un'accumulazione di aggettivi la ricchezza della natura divina della sapienza comportano la presenza di sinonimi e di approssimazioni; la sequenza non segue apparentemente un ordine logico, tuttavia ha una propria coerenza. Il genere letterario è quello dell'“'accumulazione” degli epiteti, con una preoccupazione più dottrinale che retorica. Lo Pseudo-Salomone sottolinea la personificazione della sapienza attribuendole, come gli esseri razionali e soprattutto come Dio, uno spirito, cioè un principio vitale, dinamico e attivo; è proprio descrivendo questo spirito che egli caratterizza la sapienza, che emerge così come una figura parallela a quella dello spirito anticotestamentario, entrambi espressione dell'attività di Dio stesso. «intelligente» e «santo»: il primo, nel mondo greco, indica lo stato più elevato dello spirito; il secondo, proveniente dalla tradizione biblica, qualifica lo spirito della sapienza come appartenente alla sfera della divinità; sono dunque due vocaboli che esprimono la trascendenza divina. «unico» e «molteplice»: due attributi complementari, di cui il primo afferma l'unicità di questo spirito e il secondo la sua incomparabile ricchezza espressiva. «sottile e mobile»: si tratta di uno spirito immateriale, capace di raggiungere senza difficoltà ogni essere. I seguenti quattro epiteti, «penetrante (lett. distinto), senza macchia, terso, inoffensivo (lett. inalterabile)», esprimono tramite il simbolismo della purezza fisica l'idea della purezza spirituale, non alterabile da alcuna realtà materiale. Una serie di cinque aggettivi descrive poi secondo una progressione intenzionale le virtù “morali” di questo spirito della sapienza nel governo dell'universo e specialmente nella guida degli uomini: «amante del bene, acuto, libero, benefico, amico dell'uomo». Che non si tratti di qualità transeunti e che l'uomo possa perciò aprirsi alla speranza, è confermato dai seguenti qualificativi: «stabile, sicuro, senz'affanno», che sottolineano il modo sereno e tranquillo con cui lo spirito della sapienza opera nella storia degli uomini; esso, infatti, in quanto espressione dell'agire divino, è «onnipotente» e «onniveggente»! Gli ultimi due emistichi (23de) riprendono e sottolineano l'idea iniziale di uno spirito che «pervade» tutti gli spiriti intelligenti, senza eccezione alcuna.

v. 24. È la sapienza stessa soggetto grammaticale delle proposizioni fino al termine dell'unità (8, 1). L'autore riprende ancora una volta l'idea precedente di mobilità, per evidenziare la realtà di una sapienza dinamica, capace di incontrare in profondità ogni essere.

vv. 25-26. Attraverso cinque immagini vengono illustrate l'origine divina della sapienza e la sua identità di natura con Dio. La prima immagine della sapienza «emanazione» ricorda Sir 24,3a; l'originalità della nostra affermazione sta nella menzione della potenza di Dio, che accentua il carattere dinamico della sapienza: essa è l'espressione permanente dell'energia divina creatrice e vivificatrice. Passando dal campo semantico dell'aria a quello dell'acqua, l'autore descrive la sapienza come effluvio della gloria dell'Onnipotente; le opere della sapienza saranno dunque le opere della gloria divina, cioè di Dio in quanto si manifesta nella storia salvifica. Il campo semantico della luce offre allo Pseudo-Salomone tre ulteriori comparazioni: «riflesso, specchio, immagine». Se nella tradizione biblica compare piuttosto la metafora della luce (cfr. Is 60,19-20), il giudaismo ellenistico invece usa volentieri la metafora di Dio luce. Qui si sottolinea la perennità della luce divina e soprattutto il fatto che questa luce risplende nelle opere della sapienza. La tematica della sapienza-luce verrà ripresa ai vv. 29-30, dove la bellezza del sole, degli astri e della luce è radicalmente inferiore a quella della sapienza; il motivo è che la luce della sapienza, a differenza della luce fisica (cfr. v. 30a), non tramonta mai, partecipa cioè della perennità della luce divina (v. 26a).

vv. 27-28. Gli emistichi 27ab illustrano nuovamente il binomio precedente unico-molteplice (v. 22b), ma in funzione dell'attività della sapienza; lo Pseudo-Salomone poi richiama espressamente quella che è la sua meta privilegiata, cioè gli uomini, riprendendo così ed approfondendo il tema accennato sopra con l'epiteto «amico dell'uomo» (v. 23a). Lo sguardo adesso si pone sulle generazioni storiche degli uomini, senza restrizione alcuna di popolo o di luogo, perché il popolo della sapienza è costituito dalle anime sante, cioè da coloro che vivono nel timore di Dio e nell'apertura esistenziale ai suoi doni. Se nella precedente tradizione biblica il titolo di «amico di Dio» è riservato ad alcuni eminentissimi personaggi (cfr. sopra a 7,14) e se, parimenti, il titolo di «profeta» è proprio di alcune determinate persone chiamate da Dio a questo compito, ora viene offerta ad ogni uomo questa possibilità di diventare amico di Dio e profeta, purché egli accolga la sapienza nella propria vita! Abbiamo qui un meraviglioso allargamento d'orizzonte della precedente tradizione anticotestamentaria e insieme una sua reinterpretazione, perché appare chiaro che dietro un Abramo o un Mosè o un profeta c'era l'opera della sapienza; questo verrà ampiamente sviluppato negli esempi storici dei cc. 10-19. Però non si tratta semplicemente di accogliere la sapienza, bensì di accoglierla come sposa, come compagna di vita: è quanto afferma l'immagine coniugale del v. 28 ed è quanto ha fatto il Salomone ideale dell'autore, come apparirà immediatamente nella pericope seguente.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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LA RICERCA DELLA SAPIENZA (6,1-9,18)

Il giudizio del Signore su chi esercita il potere 1Ascoltate dunque, o re, e cercate di comprendere; imparate, o governanti di tutta la terra. 2Porgete l'orecchio, voi dominatori di popoli, che siete orgogliosi di comandare su molte nazioni. 3Dal Signore vi fu dato il potere e l'autorità dall'Altissimo; egli esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri propositi: 4pur essendo ministri del suo regno, non avete governato rettamente né avete osservato la legge né vi siete comportati secondo il volere di Dio. 5Terribile e veloce egli piomberà su di voi, poiché il giudizio è severo contro coloro che stanno in alto. 6Gli ultimi infatti meritano misericordia, ma i potenti saranno vagliati con rigore. 7Il Signore dell'universo non guarderà in faccia a nessuno, non avrà riguardi per la grandezza, perché egli ha creato il piccolo e il grande e a tutti provvede in egual modo. 8Ma sui dominatori incombe un'indagine inflessibile. 9Pertanto a voi, o sovrani, sono dirette le mie parole, perché impariate la sapienza e non cadiate in errore. 10Chi custodisce santamente le cose sante sarà riconosciuto santo, e quanti le avranno apprese vi troveranno una difesa. 11Bramate, pertanto, le mie parole, desideratele e ne sarete istruiti.

La sapienza si lascia trovare 12La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano. 13Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. 14Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta. 15Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; 16poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro. 17Suo principio più autentico è il desiderio di istruzione, l'anelito per l'istruzione è amore, 18l'amore per lei è osservanza delle sue leggi, il rispetto delle leggi è garanzia di incorruttibilità 19e l'incorruttibilità rende vicini a Dio. 20Dunque il desiderio della sapienza innalza al regno. 21Se dunque, dominatori di popoli, vi compiacete di troni e di scettri, onorate la sapienza, perché possiate regnare sempre.

Descrizione della sapienza 22Annuncerò che cos'è la sapienza e com'è nata, non vi terrò nascosti i suoi segreti, ma fin dalle origini ne ricercherò le tracce, metterò in chiaro la conoscenza di lei, non mi allontanerò dalla verità. 23Non mi farò compagno di chi si consuma d'invidia, perché costui non avrà nulla in comune con la sapienza. 24Il gran numero di sapienti è salvezza per il mondo, un re prudente è la sicurezza del popolo. 25Lasciatevi dunque ammaestrare dalle mie parole e ne trarrete profitto.

_________________ Note

6,17-20 Nei vv. 17-20 si sviluppa una riflessione che imita, con una certa libertà, un’argomentazione della filosofia greca chiamata “sorite”. In questa, il predicato di una affermazione (ad es. v. 17a: desiderio di istruzione) diviene il soggetto di una seconda affermazione (v. 17b); il predicato della seconda affermazione diviene poi soggetto di una terza, e così via. Nella conclusione (v. 20: Dunque…) il predicato della prima affermazione viene collegato con l’ultimo. È questa una singolare testimonianza dell’influsso della cultura greca sul libro della Sapienza.

6,22-25 Questi versetti (le parole sono messe sulle labbra di Salomone) fanno da introduzione all’ampio discorso sulla sapienza, che abbraccia i cc. 7-9.

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Approfondimenti

vv. 1-21. L'unità è delimitata dall'inclusione «re-regnare» (v. 1a; v. 21b), che sottolinea non solo i destinatari dell'esortazione, ma anche lo scopo, cioè un regno eterno. Col v. 22 già si annunciano i temi della sezione seguente. I vv. 1-21 sono poi strutturati in due unità minori (vv. 1-11; 12-21), segnate dalla congiunzione «dunque» (vv. 1 e 21) e soprattutto dagli imperativi, che ricorrono in numero decrescente: quattro nei vv. 1-2, due al v. 1 e uno al v. 21. Questa decrescenza numerica evidenzia un crescendo nell'esortazione: mentre i primi quattro imperativi invitano semplicemente all'ascolto, i secondi due specificano l'oggetto, cioè le parole del saggio Salomone e soprattutto esprimono l'invito a un'adesione esistenziale («desiderate», «bramate»); infine l'ultimo imperativo esorta a una sottomissione di tutta la vita, perché si tratta non di semplici parole d'un saggio, ma della sapienza stessa. Questa sapienza, già menzionata verso il termine della prima unità (v. 9) e di nuovo all'inizio della seguente (v. 12), riappare ancora una volta al termine dell'intera esortazione, ponendosi così come il vero centro di convergenza. I destinatari di questo forte invito a cercare la sapienza sono variamente denominati: «re» (v. 1a), «governanti di tutta la terra» (v. 1b), «voi che dominate le moltitudini» (v. 2a), «voi che siete orgogliosi per il gran numero dei vostri popoli» (v. 2b), «i potenti» (v. 6b), «i forti» (BC = «dominatori») (v. 8), «sovrani» (v.9). Questi vari titoli sono caratterizzati da una forma generale e onnicomprensiva; il loro ambito geografico è la terra intera ed il loro ambito antropologico è costituito da tutti i popoli. L'autore dunque oltrepassa l'ambito palestinese per abbracciare il mondo intero: si tratta di tutti coloro che esercitano un potere nella comunità degli uomini. Un'ulteriore specificazione proviene dal termine «accesso al potere» (v. 3a), che in Egitto designa l'avvento al potere dei Romani a partire dall'anno 30 a.C. I destinatari dell'invito dello Pseudo-Salomone potrebbero essere dunque i Romani, a cui converrebbe bene il carattere universale dei sopracitati titoli.

vv. 1-3. Questi detentori del potere sono pressantemente invitati all'ascolto, anzi all'apprendimento (cfr. vv. 1-2). Oggetto di questo insegnamento è la dottrina sull'origine divina del potere; più che di una dottrina si tratta piuttosto di una fede: ogni potere è un dono proveniente da Dio, non un diritto! Questa affermazione del v. 3a viene ancora ripresa una volta all'emistichio seguente (v. 3b) per sottolinearne maggiormente la portata. Di conseguenza ogni detentore di potere è sempre un ministro del regno di Dio. Se Dio è la fonte del potere, ne è pure il giudice finale: non soltanto esaminerà le opere esterne, ma vaglierà le intenzionalità stesse dei sovrani. Una giustizia puramente esteriore e giuridica viene sorpassata a favore di un comportamento che rispecchia in modo cristallino il cuore stesso dell'uomo.

v. 4. Il v. 4 non vuole essere anzitutto un atto d'accusa rivolta al potere, quanto piuttosto intende richiamare le premesse che conducono alla condanna finale. Queste premesse, lette in senso positivo, specificano l'ideale di un giusto potere. Esso è esercizio retto della giustizia («avete giudicato»; BC = «avete governato»), osservanza della legge divina, quale si manifesta all'uomo nella sua esigenza di fondo, e infine un comportamento secondo il volere di Dio; quest'ultimo serve a fermarsi non all'aspetto esteriore della legge, bensì a quella che è davvero la volontà divina.

vv. 5-8. Il tema centrale di questi versetti è il giudizio di Dio, tema ripreso dal v. 3 e sviluppato ora da un ricco vocabolario (cfr. vv. 5.6b.8). L'attività giudiziale di Dio costituisce un aspetto della sua sovranità illimitata, di cui l'autore ha parlato prima, e ne vuol essere una specificazione. Si tratta del giudizio finale – non viene specificato se è il giudizio dopo la morte o quello finale – dove obbligatoriamente i sovrani dovranno incontrare il Signore. Oltre alla repentinità (v. 5a), tipica del giudizio divino, due sono le caratteristiche di fondo: anzitutto la rigorosità estrema (cfr. vv. 5a.b.8), in contrasto con la clemenza verso i piccoli (v. 6a) e poi l'imparzialità verso tutti. Dietro l'apparente contraddizione di un comportamento diseguale, l'autore vuole sottolineare d a un lato la critica a una giustizia umana che troppo spesso serve i potenti e neglige i piccoli, dall'altro l'esigenza di una provvidenza divina, che non solo non conosce discriminazioni di comportamento verso le creature (v. 7d), ma che positivamente è vicina agli umili appunto a causa delle frequenti ingiustizie da loro subite (v. 6a).

vv. 9-11. Lo Pseudo-Salomone riprende qui l'esortazione iniziale e la menzione della sapienza conferisce un carattere personale all'invito dell'autore, confermato dai due imperativi finali: «desiderate-bramate» (v. 11). Il v. 10 specifica una duplice motivazione: se i sovrani osserveranno con sentita e religiosa partecipazione «le cose sante», cioè i precetti divini, saranno riconosciuti come santi, naturalmente al giudizio finale; bisogna dunque ora lasciarsi istruire a questa scuola dei precetti divini, per poter poi avere una difesa al momento del giudizio. Apparirà chiaro nei versetti seguenti che dietro queste «cose sante» c'è anzitutto la sapienza, la quale non solo è uno «spirito santo» (7,22), ma è pure l'artefice della santità degli uomini (cfr. 7, 27).

vv. 12-16. L'autore presenta ora la sapienza, ponendo l'accento sul tema della ricerca: l'uomo cerca, la sapienza cerca. Rileviamo un triplice movimento: dapprima è l'uomo che si mette alla ricerca della sapienza (v. 12); egli è mosso anzitutto dall'amore, dalla propensione e dall'affinità che sente verso di essa (v. 12b); non si tratta solo di un movimento emozionale, perché l'uomo è mosso da un reale sforzo di ricerca (v. 12c). Questa ricerca è coronata da successo, perché la sapienza è come una luce folgorante d'oriente, che non può passare inosservata. Ma la ragione profonda di questo successo non è data dalla qualità dell'uomo, bensi dal fatto che la sapienza stessa previene questa ricerca; siamo così al secondo movimento (vv. 13-14). È la sapienza stessa che si offre anticipatamente alla conoscenza di coloro che la desiderano (v. 13). Benché il discepolo si sia alzato di buon mattino per andare da lei o abbia vegliato a lungo, forse una notte intera, la sapienza si fa trovare già presente, seduta davanti alla sua casa. Queste immagini tradizionali (cfr. Pr 8) rinviano all'ambiente scolastico sapienziale, in particolare al discepolo che con assiduità e prontezza brama l'insegnamento del maestro. Una parentesi fra le due immagini sottolinea come questa ricerca del discepolo non sia solo emozionale, ma frutto di una attenta riflessione, la quale diventa così l'espressione perfetta della prudenza (BC = «saggezza»: v. 15a). Un'ultima riflessione dell'autore precisa infine il senso ultimo di questo movimento: non solo la sapienza previene la ricerca dell'uomo facendosi trovare, ma essa stessa si mette alla ricerca dell'uomo lungo le strade del mondo e con sentimenti di benevolenza (v. 16). L'eco di Pr 8,1-3 è evidente, ma qui nel contesto di Sap 6,12-16 emerge più chiaramente che ogni ricerca della sapienza da parte dell'uomo è già in realtà la conseguenza e il dono di un movimento anteriore della sapienza stessa. È lei che prende l'iniziativa e che si mette alla ricerca degli uomini! Così l'invito dello Pseudo-Salomone ai responsabili del potere e agli uomini in generale è precisamente un momento dell'iniziativa gratuita e amorosa della sapienza.

vv. 17-21. Questi versetti formano un sorite, procedimento letterario greco costituito da una catena di frasi, dove il predicato di una proposizione diventa soggetto della proposizione seguente e dove l'ultima frase ha come soggetto quello della prima e come predicato quello della penultima. L'intenzione è di serrare in unità la sequenza delle proposizioni. Il nostro sorite non è perfetto, perché lo Pseudo-Salomone preferisce usare dei sinonimi, tuttavia assai significativi. L'autore, dopo aver precisato nei versetti precedenti il significato della ricerca della sapienza, tramite questo sorite illustra ora il cammino concreto che conduce l'uomo alla sapienza. «istruzione»: è un termine-chiave, perché è proprio il desiderio autentico dell'istruzione che costituisce l'inizio del cammino che porta alla sapienza. Come la Grecia, anche Israele conosce una istruzione, ma di tipo ben diverso! Infatti questa istruzione avviene attraverso lo spirito (cfr. 1,5) e la torah (cfr. 2,12), e chi la disprezza è infelice (cfr. 3,11). Questa istruzione di Dio la si coglie in modo particolare nella storia salvifica del popolo d'Israele (11,9; 12,22), come apparirà nella rievocazione della storia dell'esodo (cc. 11-19) e anche nell'esistenza travagliata e problematica del giusto (3,5). Si tratta anzitutto di saper cogliere la presenza di Dio nella storia e di lasciarsi docilmente guidare, anche attraverso le prove. È quest'attitudine l'inizio della sapienza. Le tappe successive del cammino che porta alla sapienza sono: l'amore, l'osservanza delle leggi, l'immortalità, la vicinanza a Dio. Infatti la forte tensione e applicazione verso l'istruzione produce amore; quest'amore si concretizza nell'osservanza delle leggi, dalle quali scaturisce l'incorruttibilità (BC = «immortalità»), premessa indispensabile per poter stare vicini a Dio. La proposizione finale puntualizza le conclusioni di questo itinerario ascensionale (cfr. «condurre» del v. 20, che letteralmente corrisponde a «elevare»). Il desiderio d'istruzione (v. 17) è in realtà il desiderio della sapienza e questa consiste fondamentalmente nell'appartenenza al regno di Dio, o, per usare l'espressione equivalente del versetto precedente, nell'esperienza della presenza di Dio. Di qui l'invito finale ai re perché, tramite l'accoglienzadella sapienza, mirino all'unico, autentico ed imperituro regno di Dio.

6,22-9,18. È la parte centrale del libro, l'elogio della sapienza. L'autore sa che la ricerca e la realizzazione della giustizia non sono un compito umano, bensì un dono dall'alto, della sapienza divina; di essa perciò tesserà l'elogio e inviterà a perseguirla con la preghiera. Con una finzione letteraria l'autore diventa Salomone stesso; le sue parole acquistano così maggiore autorità ed egli può proporsi come il modello di colui che cerca, invoca e sposa la sapienza. La parte è articolata in due sezioni: il discorso di Salomone sulla sapienza (6, 22 – 8, 21) e la preghiera di Salomone per ottenere la sapienza (c. 9).

6,22-8,21. In connessione con la finale della prima parte (cfr. 6,1-21), segue il discorso diretto del grande Salomone concernente la sapienza; la prima persona e l'introduzione del famoso re israelita conferiscono a questi versetti una voluta importanza e solennità. Precede un introduzione, dove si preannuncia il tema (6,22-25); esso poi è articolato in sette brevi unità costruite secondo un piano concentrico: A) 7,1-6 B) 7,7-12 C) 7,13-21 D) 7,22-8,1 C') 8,2-9 B') 8,10-16 A') 8,17-21

Al centro emerge la pericope, 7,22-8,1, dove infatti viene descritta e magnificata la sapienza stessa e che costituisce il centro del discorso di Salomone e della seconda parte del libro, ma anche il centro dell'intero libro; si comprende perché l'autore abbia collocato qui l'elogio della sapienza! 6,22-25. Lo Pseudo-Salomone intende rispondere alle due domande che sorgono spontanee dall'esortazione precedente e cioè: che cos'è la sapienza? e qual è la sua origine? Sono domande che rimandano all'ambiente delle scuole sapienziali e filosofiche. L'autore insiste ripetutamente nel v. 22 sulla sua intenzione di rivelare tutto quanto è possibile circa la sapienza. C'è, in tali affermazioni, da un lato l'entusiasmo di un uomo profondamente innamorato della sapienza e desideroso di comunicarne l'esperienza, dall'altro la polemica contro determinate correnti misteriche greco-ellenistiche, che riservano gelosamente l'apprendimento delle dottrine sacre agli iniziati.

vv. 23-24. Infatti c'è incompatibilità assoluta fra la sapienza e l'invidia; Dio non ha riservato gelosamente per sé o per qualche eletto la sapienza, bensì la offre in dono a tutti.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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I giusti e gli empi di fronte al giudizio finale 1Allora il giusto starà con grande fiducia di fronte a coloro che lo hanno perseguitato e a quelli che hanno disprezzato le sue sofferenze. 2Alla sua vista saranno presi da terribile spavento, stupiti per la sua sorprendente salvezza. 3Pentiti, diranno tra loro, gemendo con animo angosciato: 4“Questi è colui che noi una volta abbiamo deriso e, stolti, abbiamo preso a bersaglio del nostro scherno; abbiamo considerato una pazzia la sua vita e la sua morte disonorevole. 5Come mai è stato annoverato tra i figli di Dio e la sua eredità è ora tra i santi? 6Abbiamo dunque abbandonato la via della verità, la luce della giustizia non ci ha illuminati e il sole non è sorto per noi. 7Ci siamo inoltrati per sentieri iniqui e rovinosi, abbiamo percorso deserti senza strade, ma non abbiamo conosciuto la via del Signore. 8Quale profitto ci ha dato la superbia? Quale vantaggio ci ha portato la ricchezza con la spavalderia? 9Tutto questo è passato come ombra e come notizia fugace, 10come una nave che solca un mare agitato, e, una volta passata, di essa non si trova più traccia né scia della sua carena sulle onde; 11oppure come quando un uccello attraversa l'aria e non si trova alcun segno del suo volo: l'aria leggera, percossa dal battito delle ali e divisa dalla forza dello slancio, è attraversata dalle ali in movimento, ma dopo non si trova segno del suo passaggio; 12o come quando, scoccata una freccia verso il bersaglio, l'aria si divide e ritorna subito su se stessa e della freccia non si riconosce tragitto. 13Così anche noi, appena nati, siamo già come scomparsi, non avendo da mostrare alcun segno di virtù; ci siamo consumati nella nostra malvagità”. 14La speranza dell'empio è come pula portata dal vento, come schiuma leggera sospinta dalla tempesta; come fumo dal vento è dispersa, si dilegua come il ricordo dell'ospite di un solo giorno.

Felicità e ricompensa dei giusti 15I giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e di essi ha cura l'Altissimo. 16Per questo riceveranno una magnifica corona regale, un bel diadema dalle mani del Signore, perché li proteggerà con la destra, con il braccio farà loro da scudo. 17Egli prenderà per armatura il suo zelo e userà come arma il creato per punire i nemici, 18indosserà la giustizia come corazza e si metterà come elmo un giudizio imparziale, 19prenderà come scudo la santità invincibile, 20affilerà la sua collera inesorabile come spada e l'universo combatterà con lui contro gli insensati. 21Partiranno ben dirette le saette dei lampi e dalle nubi, come da un arco ben teso, balzeranno al bersaglio; 22dalla sua fionda saranno scagliati chicchi di grandine pieni di furore. Si metterà in fermento contro di loro l'acqua del mare e i fiumi li travolgeranno senza pietà. 23Si scatenerà contro di loro un vento impetuoso e come un uragano li travolgerà. L'iniquità renderà deserta tutta la terra e la malvagità rovescerà i troni dei potenti.

_________________ Note

5,15-23 Le immagini racchiuse nei vv. 17-23 si ispirano, da una parte, agli eventi descritti nel libro dell’ Esodo, quando Dio offrì la liberazione al suo popolo, collocandosi al suo fianco; dall’altra si ispirano al linguaggio dell’apocalittica, un genere letterario assai diffuso allora per descrivere la fine del tempo e del mondo e, in definitiva, il trionfo di Dio.

5,17-20 arma, corazza, elmo, scudo, spada: nelle lettere di Paolo, questa diverrà l’armatura del cristiano, equipaggiato nella lotta contro il peccato (vedi, ad es., Ef 6,11-17).

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Approfondimenti

Il c. 5 costituisce un'unità ben delimitata dall'inclusione «starà» – «starà contro» (BC = «si scatenerà contro») (vv. 1.23). Il dramma escatologico degli empi si sviluppa infatti tra questi due verbi: all'inizio c'è lo stare del giusto di fronte ai suoi vecchi oppressori; questo stare provoca in essi il riconoscimento dei propri peccati, a cui segue la condanna di Dio espressa appunto dal suo «stare contro» (v. 23). L'articolazione del capitolo comprende un'introduzione (vv. 1-3), la confessione degli empi (vv. 4-14) e infine la contrapposizione tra il destino glorioso dei giusti e la battaglia divina contro gli empi (vv. 15-23). Il discorso-confessione degli empi (vv. 4-13) contiene notevoli richiami al precedente discorso degli empi di 2,1b-20. Una corrispondenza teologicamente importante è costituita dal termine «giustizia»: gli empi avevano proclamato con tracotanza che la regola della loro giustizia era la loro forza (2,11); al giudizio finale di fronte al giusto sono costretti ad ammettere che invero la luce della giustizia non è brillata su di loro (v. 6); la conseguenza sarà che la stessa giustizia divina diventerà punitrice nei loro confronti (5,18).

vv. 1-3. «Allora»: si riferisce al momento del rendiconto (4,20). Non sembra che si possa parlare qui di giudizio universale, perché mancano degli indizi di un coinvolgimento di tutti gli uomini e del cosmo, e perché il combattimento escatologico di JHWH dei vv. 16c-23 pare ancora orientato al futuro, più che al presente. Emerge invece l'idea di definitività, per cui la sorte degli uni e degli altri non muta più. Dunque si tratta piuttosto di una drammatizzazione letteraria, tramite la quale l'autore vuole presentare da un lato la nuova condizione del giusto e degli empi dopo la morte in radicale antitesi rispetto alle concezioni e alle attese di quest'ultimi, dall'altro la ragione profonda del trionfo del giusto e cioè il totale coinvolgimento di Dio nel combattimento contro gli empi; ma quest'ultima prospettiva rimane collocata in un futuro non meglio specificato. «grande fiducia»: il termine esprime non solo una sicurezza psicologica, che potrebbe però essere ingannata, ma soprattutto la sicurezza oggettiva che deriva dalla comunione con Dio (vv. 5.15). In stridente contrasto con essa si pone l'insicurezza degli empi, sottolineata da un vocabolario assai ricco: «tremanti» (4, 20), «terribile spavento» (5, 2a), «stupore» (5, 2b), «gemendo» (5,3), «spirito tormentato» (5,3); anche qui la paura non è solo un dato psicologico, bensì la conseguenza della presenza accusatrice di Dio, dapprima nella persona del giusto e poi nel suo giudizio stesso; «Pentiti»: non esprime la conversione, ma semplicemente il cambiamento di opinione.

vv. 4-14. In questo processo finale contro gli empi non c'è un accusatore ufficiale; infatti né il giusto né Dio prendono la parola; si tratta piuttosto di un'autoaccusa degli empi stessi posti di fronte alla vera identità del giusto. E un primo esempio, sebbene ancora implicito, della legge del contrappasso: essi che con dure parole avevano posto sotto accusa e condannato il giusto (2, 10-20), diventano ora con le loro stesse parole accusatori di se stessi.

v. 4. «stolti»: pesa su questa confessione degli empi il titolo iniziale di stolti (in greco è posto enfaticamente al termine della frase di 4ab), che, dopo essere risuonato già due volte come giudizio dell'autore (3, 2.12), emerge ora dalla loro stessa autocritica.

v. 5. Più che un'interrogazione, è un'esclamazione piena di stupore. Con particolare accanimento e anche cinismo avevano gli empi evocato la pretesa affermazione della figliolanza divina del giusto (2,13.16.18); ora la verità di questa affermazione si impone ai loro occhi increduli. «figli di Dio», «santi»: le due espressioni designano verosimilmente gli angeli, assieme ai quali il giusto partecipa ormai alla comunione con Dio. E una concezione presente in Daniele e soprattutto a Qumran.

vv. 6-7. «Cammino della verità»: la metafora della via applicata alla vita morale dell'uomo è classica nell'AT (cfr. ad es. Sal 1,1.6); così la vocazione di Abramo e specialmente la chiamata di Israele vengono presentate come un cammino e un esodo. E questa l'immagine dominante dei vv. 6-7, introdotti e conclusi dal medesimo termine: «via» (BC = «cammino») della verità – via del Signore. Tra i due c'è un crescendo significativo: dapprima l'errore degli empi è visto come una deviazione dottrinale (v. 6a); poi la loro vita appare come un antiesodo, dove, a differenza dell'epopea d'Israele (cfr. 18,3), manca una luce e un sole che illuminino il cammino, cioè la giustizia come opzione fondamentale; le vie che essi percorrono portano fatalmente alla perdizione, termine forte di chiaro significato escatologico (v. 7a); infatti la conclusione del v. 7c ridefinisce il significato della via del bene come un'esperienza profonda e intima (cfr. «conoscere») di Dio: una volta rifiutata questa comunione esistenziale con lui, non rimane come prospettiva che la perdizione.

v. 8. Due domande retoriche, tramite il richiamo al passato atteggiamento di superbia e di spavalderia, sottolineano ancora il contrasto radicale con il presente stato di insicurezza e di spavento (cfr. vv. 2-3).

vv. 9-13. Alle due domande retoriche segue una serie di cinque paragoni (vv. 9-12), che sfociano in una terribile conclusione-confessione sul fallimento della vita degli empi (v. 13). Mentre le prime due comparazioni sono molto brevi (v. 9a.b), le ultime tre sono assai più consistenti, in particolare la quarta che occupa ben sei emistichi (v. 11). Si sente il gusto ellenistico dell'autore, che tuttavia quando vuole strafare, come nel quarto paragone, diventa pesante ed affettato. Queste comparazioni ripropongono in immagini il precedente tema del cammino, ma da un'angolatura ben precisa: si tratta di percorsi veloci e senza traccia! Sta qui il senso di effimero che percorre questi versetti e che denuncia la coscienza di un profondo vuoto esistenziale. Questo avviene soprattutto nel momento del passaggio dalle immagini ala realtà della vita (v. 13); se durante la lunga sequenza dei paragoni ci si poteva illudere che questo senso d'effimero appartenesse solo al mondo della natura circostante, benché l'introduzione del v. 9 avesse già messo in guardia, il «cosi» iniziale del v. 13 toglie ogni illusione e pone gli empi di fronte al loro fallimento: l'unica realtà che nella vita dell'uomo lascia una traccia imperitura è la virtù!

v. 14. A conferma di quanto detto dagli empi lo Pseudo-Salomone aggiunge ancora a mo' di conclusione una riflessione personale sulla vanità del loro progetto esistenziale; si tratta di un versetto pieno di poesia, dove specialmente l'ultima immagine lascia un senso profondo di tristezza e di nostalgia.

v. 15. Una nuova riflessione personale dell'autore, parallela alla precedente ma avente come oggetto il giusto, segna l'inizio della terza parte del capitolo. È una chiara affermazione sulla vita eterna dei giusti, vista soprattutto come presenza personale di un Dio che ha cura dell'uomo; qui si misura la differenza con gli enunciati teorici della filosofia greca. È partendo da questa presenza personale di Dio che lo Pseudo-Salomone configurerà nei versetti seguenti la vita eterna dei giusti e il combattimento divino contro gli empi.

v. 16. L'autore non specifica quando avverrà l'incoronamento del giusto, se subito dopo la morte o dopo il giudizio finale; quest'ultima interpretazione pare tuttavia la più probabile, perché il futuro «riceveranno» è parallelo ai futuri seguenti che descrivono la battaglia finale di Dio contro gli empi. Più importante è notare la concezione del giusto come re; questa regalità, pur apparendo qui come un bene escatologico, affonda già le sue radici nella vita terrena del giusto ed è probabilmente una risposta polemica all'ideologia regale ellenistica. Gli ultimi due emistichi del versetto introducono già il tema del combattimento.

vv. 17-20. Il “combattimento di Dio” contro gli empi è un tema classico dell'AT (cfr. Es 15,3). Per l'immagine dell'armatura composta dai vari attributi divini l'autore si ispira a Is 59,16-19, collocandola però nel contesto escatologico del combattimento finale. Emerge in primo piano l'imponente presenza di Dio, che con i suoi attributi è totalmente coinvolto in questa lotta contro il male; la descrizione dettagliata dell'armatura divina vuole sottolineare appunto tale presenta e offrire così la garanzia della vittoria. Una novità di questo combattimento finale è la partecipazione del creato a fianco di Dio (vv. 17b.20b); infatti nello schema apocalittico tradizionale si parla più di sconvolgimento del creato che di una sua partecipazione attiva alla lotta. Per l'autore il cosmo non costituisce un elemento neutrale o semplicemente il palcoscenico sul quale si svolge il dramma della storia, ma ne è un elemento essenziale. Questa tematica verrà ripresa e ampiamente sviluppata nella terza parte del libro.

vv. 21-23ab. Fulmini, nubi, grandine, acqua del mare e dei fiumi costituiscono gli elementi tradizionali delle teofanie bibliche (cfr. ad es. Es 19,16-19; Sal 18,12-16); qui testimoniano la presenza punitrice divina e un giudizio inappellabile di condanna.

v. 23cd. Alla radice del fallimento escatologico degli empi c'è dunque il «rifiuto della torah» (BC = «iniquità») che rende deserta la terra e rovescia i troni; l'autore si riallaccia così alla pressante esortazione iniziale della giustizia (v. 1,1) ed introduce già l'argomento del capitolo successivo.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La virtù e il vizio 1Meglio essere senza figli e possedere la virtù, perché nel ricordo di questa c'è immortalità: essa è riconosciuta da Dio e dagli uomini. 2Presente, è imitata, assente, viene rimpianta; incoronata, trionfa in eterno, avendo vinto, in gara, premi incontaminati. 3La numerosa discendenza degli empi non servirà a nulla e dai suoi polloni spuri non metterà profonde radici né si consoliderà su una base sicura; 4anche se, a suo tempo, essa ramifica, non essendo ben piantata, sarà scossa dal vento e sradicata dalla violenza delle bufere. 5Saranno spezzati i ramoscelli ancora deboli; il loro frutto sarà inutile, acerbo da mangiare, e non servirà a nulla. 6Infatti i figli nati da sonni illegittimi saranno testimoni della malvagità dei genitori, quando su di essi si aprirà l'inchiesta.

La morte prematura del giusto 7Il giusto, anche se muore prematuramente, si troverà in un luogo di riposo. 8Vecchiaia veneranda non è quella longeva, né si misura con il numero degli anni; 9ma canizie per gli uomini è la saggezza, età senile è una vita senza macchia. 10Divenuto caro a Dio, fu amato da lui e, poiché viveva fra peccatori, fu portato altrove. 11Fu rapito, perché la malvagità non alterasse la sua intelligenza o l'inganno non seducesse la sua anima, 12poiché il fascino delle cose frivole oscura tutto ciò che è bello e il turbine della passione perverte un animo senza malizia. 13Giunto in breve alla perfezione, ha conseguito la pienezza di tutta una vita. 14La sua anima era gradita al Signore, perciò si affrettò a uscire dalla malvagità. La gente vide ma non capì, non ha riflettuto su un fatto così importante: 15grazia e misericordia sono per i suoi eletti e protezione per i suoi santi. 16Il giusto, da morto, condannerà gli empi ancora in vita; una giovinezza, giunta in breve alla conclusione, condannerà gli empi, pur carichi di anni. 17Infatti vedranno la fine del saggio, ma non capiranno ciò che Dio aveva deciso a suo riguardo né per quale scopo il Signore l'aveva posto al sicuro. 18Vedranno e disprezzeranno, ma il Signore li deriderà. 19Infine diventeranno come un cadavere disonorato, oggetto di scherno fra i morti, per sempre. Dio infatti li precipiterà muti, a capofitto, e li scuoterà dalle fondamenta; saranno del tutto rovinati, si troveranno tra dolori e il loro ricordo perirà. 20Si presenteranno tremanti al rendiconto dei loro peccati; le loro iniquità si ergeranno contro di loro per accusarli.

_________________ Note

4,7-20 Non raggiungere la vecchiaia era considerato, nell’insegnamento tradizionale, una punizione di Dio; qui viene ribaltata questa concezione. La pienezza di vita e la realizzazione di se stessi sono radicate non in realtà esterne, ma nella ricchezza interiore, nell’adesione a Dio e alla sua volontà.

4,11 Fu rapito: l’immagine del “rapimento” evoca l’assunzione di Enoc (Gen 5,24) e di Elia (2Re 2,11) e indica l’azione di Dio che chiama a sé qualcuno che gli è caro.

4,19 Il cadavere disonorato allude alla morte senza sepoltura, considerata grave offesa e punizione.

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Approfondimenti

4,1-6. Terzo dittico. vv. 1-2. Viene ripreso il tema della sterilità, ma in forma astratta tramite il termine «virtù»; essa, infatti, al pari della donna sterile del v. 13, conduce combattimenti senza macchia. L'immortalità conseguita dalla virtù è data dal suo ricordo, che non è effimero come quello degli empi (cfr. 2, 4), perché al riconoscimento umano si accompagna soprattutto il riconoscimento divino (cfr. v. 1c, dove Dio compare in prima posizione). Se l'empio coinvolge negativamente la sua famiglia, una vita virtuosa induce gli uomini all'imitazione e al suo desiderio (v. 2a); nasce così una fecondità spirituale che supera l'handicap della sterilità fisica e che troverà il suo coronamento nel trionfo finale (v. 2bc). La corona della virtù si contrappone radicalmente all'effimera corona degli empi (cfr. 2,8).

vv. 3-6. La contrapposizione al membro precedente avviene qui tramite un lungo paragone, che si trasforma in allegoria; ma lo stile è ridondante e ricercato e quindi poco incisivo. Due termini appartenenti in greco alla medesima radice aprono e chiudono la comparazione: «non servirà a nulla» (v. 3a) e «inutile» (v. 5b); il versetto 5 riprende inoltre il termine «frutto» dal dittico precedente (vv. 13.15), ma con una triplice sottolineatura negativa, per affermare l'assoluto fallimento degli empi e della loro prole. Il paragone degli empi con un albero infruttifero è noto alla tradizione anticotestamentaria (cfr. ad es. Gb 18,16; Sir 23,25; 40,15). L'ultimo versetto, senza immagine questa volta, aggiunge ancora una nota negativa alle precedenti: non solo la numerosa discendenza degli empi sarà buona a nulla, ma si trasformerà in teste e in accusatrice contro la perversità dei genitori.

4,7-20. Quarto dittico. vv. 4,7-16. Questi versetti costituiscono la prima parte del dittico, nel quale l'autore riprende la contrapposizione giusti-empi, ma nell'ambito del problema particolare della morte prematura del giusto; questa infatti pare contraddire la teologia classica anticotestamentaria, che considera la longevità come la ricompensa divina per una vita virtuosa (Es 20,12; Dt 30,20; Sal 21,5; Pr 3,1-2, ecc.). Lo Pseudo-Salomone risponde dapprima con alcune massime dicfilosofia popolare (vv. 7-9) e poi con la rievocazione della figura di Enoch (vv. 10-11); seguono ancora varie considerazioni di carattere più generale (vv. 12-16).

v. 7. «riposo»: in Esodo e in Levitico è un termine che definisce il riposo liturgico, in particolare il riposo sabbatico (Es 16,23; 23,12, ecc.; Lv 16,31; 23,3.24.39; 25,4); l'autore potrebbe aver concepito la condizione ultraterrena del giusto come il sabato eterno che corona la sua vita di quaggiù. Questa sfumatura liturgica avrebbe il vantaggio di esprimere meglio il carattere religioso di questo riposo del giusto.

vv. 8-9. La vecchiaia come maturazione sapienziale è un tema molto noto nell'ambiente ellenistico, sia pagano che giudaico (per quest'ultimo cfr. soprattutto Filone, Quaest. Gen. IV,14; Abr. 271; Fug. 146, ecc.).

vv. 10-11. Lo Pseudo-Salomone si rifà alla tradizione su Enoch (Gn 5,22.24; Sir 44,16) vedendo in lui il modello del giusto. Come questi, anche Enoch morì giovane, prima degli altri patriarchi prediluviani (Gn 5), ma la sua morte non fu un castigo, bensì un «trasferimento» a Dio, essendo divenuto caro a lui (cfr. Gn 5,22.24 LXX); il verbo «trasferire» sottolinea precisamente il carattere non punitivo di questa morte. Circa il motivo della morte, l'autore di Sapienza segue una tradizione diversa da quella di Sir 44,16, che cioè Dio volle sottrarre il patriarca alle seduzioni del male; questa tradizione è conosciuta pure dalla letteratura rabbinica (cfr. ad es. Beresh. Rabba 25, 1). Qui, come in tutto il libro, lo Pseudo-Salomone evita di menzionare per nome i personaggi biblici che egli richiama. Tale caratteristica è motivata sia dal pubblico giudaico, che sa cogliere immediatamente i riferimenti e le allusioni, sia soprattutto dall'intento catechetico ed esistenziale della lettura che l'autore fa della storia, per cui i personaggi di essa diventano tipo e modello per il presente.

v. 12. Questa mirabile sentenza sul fascino del vizio nelle anime semplici riflette forse la situazione della comunità giudaica di Alessandria, esposta alla seduzione del paganesimo.

v. 16. Il progetto di condanna del giusto da parte degli empi (2,20) può anche attuarsi materialmente; in realtà egli lascia una presenza insopprimibile, che costituisce una continua condanna contro gli empi ancora in vita. Da no- tare che anche qui, come già al v. 10, l'autore evita l'uso del verbo «morire» per designare la scomparsa del giusto; il termine greco corrispondente a «defunto» suona letteralmente: «che ha sopportato le fatiche della vita».

vv. 17-20. Alla sorte del giusto l'autore oppone quella degli empi con un crescendo implacabile: un vedere miope, perché soltanto materialistico (vv. 17-18), una sorte ignominiosa dopo la morte (v. 19), il giudizio finale (v. 20).

v. 17. «vedranno»: il verbo, di cui s'è rilevata sopra l'importanza, racchiude con la sua duplice menzione (vv. 17a.18a) l'espressione di 17bc, cioè una totale incomprensione della sorte del giusto. Segue poi drammaticamente l'espressione lapidaria di 18b, dove la derisione di Dio (cfr. Sal 2,4; 37,13; 59,9) suona gia come una sentenza di condanna.

v. 19. Il versetto descrive la condizione ignominiosa degli empi dopo la morte; il senso è chiaro, però abbastanza Alla derisione di Dio fa eco lo scherno subito a causa della mancata sepoltura, fatto questo gravissimo per una mentalità anticotestamentaria (cfr. 2Re 9,10; 2Mac 5,10). Seguono tre immagini (19c.d.e), ispirate verosimilmente alla satira di Isaia contro il re di Babilonia (14,4-20), dove l'autore evidenzia la vittoria totale di Dio. La conseguenza per gli empi sarà una situazione diametralmente opposta a quella dei giusti: costoro sono nella pace (3,3) e nel riposo (4,7), quelli invece nel dolore; costoro vengono ricordati (4,1), quelli no.

v. 20. Questo versetto conclude il dittico e nel medesimo tempo preannuncia la scena del capitolo seguente, dove davanti al tribunale di Dio gli empi vengono accusati dalle loro stesse iniquità.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La sorte dei giusti 1Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà. 2Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, 3la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. 4Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza resta piena d'immortalità. 5In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé; 6li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come l'offerta di un olocausto. 7Nel giorno del loro giudizio risplenderanno, come scintille nella stoppia correranno qua e là. 8Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro. 9Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità, i fedeli nell'amore rimarranno presso di lui, perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti.

La sorte degli empi 10Ma gli empi riceveranno una pena conforme ai loro pensieri; non hanno avuto cura del giusto e si sono allontanati dal Signore. 11Infatti è infelice chi disprezza la sapienza e l'educazione. Vana è la loro speranza e le loro fatiche inutili, le loro opere sono senza frutto. 12Le loro mogli sono insensate, cattivi i loro figli, maledetta la loro progenie.

La sterilità dei giusti e la fecondità degli empi 13Felice invece è la sterile incorrotta, che non ha conosciuto unione peccaminosa: avrà il frutto quando le anime saranno visitate. 14E felice l'eunuco la cui mano non ha fatto nulla d'ingiusto e non ha pensato male del Signore: riceverà una ricompensa privilegiata per la sua fedeltà, una sorte più ambita nel tempio del Signore. 15Poiché glorioso è il frutto delle opere buone e la radice della saggezza non conosce imperfezioni. 16I figli degli adulteri non giungeranno a maturità, il seme di un'unione illegittima scomparirà. 17Anche se avranno lunga vita, non saranno tenuti in alcun conto, e, infine, la loro vecchiaia sarà senza onore. 18Se poi moriranno presto, non avranno speranza né conforto nel giorno del giudizio, 19poiché dura è la fine di una generazione ingiusta.

_________________ Note

3,13-19 Il libro della Sapienza corregge la concezione che vedeva nei molti figli il segno della benedizione di Dio e nella sterilità il segno della maledizione. La donna sterile e l’eunuco, l’uomo cioè impossibilitato a generare, che vivono nella virtù, avranno una ricompensa gloriosa, perché è la virtù ciò che dà senso alla vita e attira la benedizione del Signore (per l’eunuco vedi anche Is 56,3-4).

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Approfondimenti

I c. 3-4 costituiscono il centro della prima parte del libro, dove tramite una serie di quattro dittici (3,1-12; 3,13-19; 4,1-6; 4,7-20) l'autore espone e contrappone la sorte del giusto a quella degli empi; è lo sviluppo di quanto preannunciato in 2,21-24.

  1. Il primo dittico (3,1-12) è delimitato da una doppia inclusione: «stolti» (v. 2a) – «stolte» (v. 12a; BC = «insensate»); la loro speranza è «piena» (v. 4b) – «vuota» (BC = «vana») la loro speranza (v. 11b); ai giusti dei vv. 1-9 fanno da contrapposizione (cfr. il «ma» introduttivo del v. 10) gli empi dei vv. 10-12. La sofferenza dei primi è solo un momento limitato e di prova, in vista d'una immortalità beata.
  2. Nel secondo dittico (3,13-19) domina invece il problema della sterile, che l'autore risolve allargando nuovamente lo sguardo ala prospettiva escatologica. La sterilità fisica in sé non è un castigo, ma una prova in vista di un grande frutto dopo la morte (vv. 13-15; cfr. l'inclusione «frutto»); per contro una discendenza illegittima, anche se numerosa, porterà dopo morte a una vera sterilità spirituale (vv.16-19).
  3. Questo tema continua nel terzo dittico (4,1-6; cfr. l'inclusione «senza figli» – «figli»: vv. 1a.6a), dove, in maniera più teorica, ad una sterilità fisica ma virtuosa (vv. 1-2) lo Pseudo-Salomone contrappone una paternità fisica, ma peccaminosa; la prima conduce all'immortalità, la seconda invece non servirà a nulla (cfr. v. 5).
  4. L'ultimo dittico (4,7-20) riprende la tematica del primo a nel contesto particolare della morte prematura del giusto; questa diventa nella prospettiva di fede una chiamata anticipata alla vita divina (vv. 7-16), mentre la longevità degli empi porta alla perdizione (vv. 17-20). La prima parte del dittico è chiaramente delimitata da alcune inclusioni: «giusto giusto» (vv. 7.16); «vecchiaia-vecchiaia» (vv. 8.16); «anni-anni» (lett.: «ricca d'anni») (vv. 8.16) e la seconda è caratterizzata da una serie di futuri.

Nell'insieme dei cc. 3-4 acquista un significato particolare il termine «vedere-vista» (BC = «occhi»), che compare due volte all'inizio e due volte al termine della grande unità: 3,2.4; 4,17.18. È un vedere fittizio quello degli empi a proposito della sorte del giusto, anche se il loro intento era precisamente di vedere (cfr. 2,17); i loro occhi, infatti, si spalancheranno solo al giorno del giudizio, dove la vista autentica sul giusto sarà per loro una drammatica sorpresa (5,2).

vv 1-12. Primo dittico. vv. 1-9. È la prima parte del dittico iniziale, nella quale l'autore illustra la precedente affermazione, ancora generica, sull'incorruttibilità del giusto. Dopo un primo sguardo sulla sorte futura dei giusti (vv. 1-3), segue una retrospezione sul significato della loro vita terrena (vv. 4-6) ed in- fine un nuovo sguardo sulla loro esistenza ultraterrena (vv. 7-9).

**v. 1 **. «sono nelle mani di Dio»: si tratta di un simbolo concreto per esprimere la protezione e l'amore di Dio e in particolare la protezione divina accordata ad Israele al momento del passaggio del Mar Rosso (10,20; 19,8) e a Noè durante i quaranta giorni sull'arca (14,6). Per lo Pseudo-Salomone anche la morte è un esodo (cfr. «fine» del v. 2b, traduzione libera del greco «esodo») e la partenza di un viaggio (cfr. v. 3a), nei quali i giusti sperimenteranno la medesima mano protettrice di Dio.

v. 3. «pace»: il termine corrisponde all'ebraico šālôm e indica tutti i beni accordati e promessi da Dio tramite l'alleanza, qui però col carattere di stabilità proprio di un'esistenza oltre la storia.

vv. 4-6. Talmente è vera questa vita con Dio dopo la morte che l'autore la considera già come un magnifico presente, dal quale può perciò rivolgere lo sguardo indietro alla vita terrena per una nuova rilettura. Così appare il significato autentico della sofferenza dei giusti: essa fa parte dell'educazione divina («in cambio di una breve pena» = letteralmente: «per essere stati corretti leggermente»: v. 5a), suscita e accresce l'attesa dell'immortalità (v. 4b) e infine purifica dai peccati (vv. 5b.c.6). La conseguenza è che non solo i giusti diventano degni di Dio (v. 5c), in radicale contrasto con gli empi che sono degni della morte (1, 16), ma la loro stessa vita diventa un olocausto gradito a Dio. Abbiamo qui il superamento di un culto ritualistico, in favore di una visione dove l'intera esistenza dell'uomo diventa sacrificio; l'autore si riallaccia alla migliore tradizione anticotestamentaria (cfr. ad es. Am 5,21-24; Mic 6,1-8; Sal 51,19) e prelude già al NT (Rm 12,1; Fil 4,18; Eb 13,15-16).

vv. 7-9. Lo sguardo ritorna sulla vita ultraterrena dei giusti, descritta con un crescendo di espressioni. L'immagine dello splendore dei giusti si riallaccia a Dn 12, 3 (cfr. Mt 13,43) e l'esempio esplicativo seguente a Is 1,31 e Abd 18; ma più in generale dobbiamo pensare alla nuova Gerusalemme del Tritoisaia (cc. 60.62) dove lo splendore che la inonda proviene dalla luce stessa di Dio ivi presente. La seconda immagine è la compartecipazione dei giusti alla regalità divina; rimanendo su un piano abbastanza generale, lo Pseudo-Salomone vuole sottolineare un tipo di regalità diverso da quello dei grandi sulla terra, incarnato già nell'esistenza del giusto (non è il saggio il vero re? cfr. 1, 1) e pienamente realizzato nella vita dopo la morte. Infine quattro termini di forte significato teologico descrivono questa comunione con Dio: «verità-amore-grazia-misericordia»; essi rappresentano infatti l'amore fedele e misericordioso che Dio offre all'uomo nella storia salvifica.

vv. 10-12. All'immortalità dei giusti si contrappone il castigo degli empi; l'affermazione è ancora generale, ma senza equivoci. In particolare gli empi vengono presentati nella loro dimensione familiare: «empi-mogli-figli-progenie»; si prepara così il passaggio all'argomento seguente della sterilità.

v. 10. «per i loro pensieri»: l'autore insiste sulla radice del male, che consiste in una intenzionalità voluta e meditata (cfr. 1,3.5; 2, 1.21). Disprezzo del giusto e ribellione a Dio sono i due aspetti dell'unica realtà del peccato. L'idea è sottolineata dal chiasmo, che unisce appunto giusto e Dio (letteralmente: «essi che hanno disprezzato il giusto e al Signore si sono ribellati»).

v. 11 Gli empi sono coloro che concretamente disprezzano l'insegnamento dei saggi, sulla cui scia si pone lo Pseudo-Salomone. Il v. 11a è una ripresa letterale di Prv 1,7, e il vocabolario sottolinea ripetutamente la vacuità e la nullità dell'agire degli empi: «chi ritiene nulla» (BC = «chi disprezza»), «vuota» (BC = «vana»), «senza frutto», «inutili». Ritenendo nulla la sapienza, di conseguenza gli empi hanno una speranza «vuota» (al contrario, la speranza dei giusti è «piena» di immortalità: 3, 4), così come la loro laboriosità e le loro realizzazioni sono inutili.

3,13-19. Secondo dittico. vv. 13-15. Questo primo membro del dittico è dominato dall'aggettivo iniziale «beata», che non si riferisce soltanto alla sterile (v. 13), ma anche all'eunuco (v 14); i vv. 13-14, costruiti parallelamente, illustrano la beatitudine di queste due figure; il v. 15 conclude la riflessione riprendendo e sviluppando il tema della vera fecondità (cfr. l'inclusione di «frutto»: vv. 13c.15a).

v. 13. «sterile»: in rapporto all'AT, dove la sterilità è considerata un castigo divino (cfr. ad es. 1Sam 1,5-6; Os 9,14), abbiamo qui un approfondimento del concetto. Tramite due determinazioni («non contaminate» + v. 13b) emerge un tipo nuovo di sterilità non più dominato dall'aspetto fisico, bensì dall'atteggiamento religioso della fedeltà a Dio. Questa donna sterile incarna l'ideale di Israele sposa fedele di JHWH, a cui viene perciò promessa una fecondità abbondante al momento della rassegna delle anime.

v. 14. «eunuco»: se la tradizione deuteronomica escludeva l'eunuco dall'appartenenza alla comunità a causa della sua impotenza fisica (Dt 23,2), per l'autore di Sapienza il vero metro di giudizio è costituito dall'attitudine religiosa, considerata nelle sue due dimensioni fondamentali: intenzionalità (v. 14b) ed azioni (v. 14a). Un eunuco dal cuore limpido e dalla condotta irreprensibile verrà glorificato e parteciperà all'eredità nel tempio celeste, cioè nella comunione con Dio. Lo Pseudo-Salomone riprende Is 56,4-5, ma con una rilettura più universalistica e meno attaccata alle istituzioni cultuali di Israele.

v. 15. L'immagine della radice evidenzia la causa della glorificazione della sterile e dell'eunuco, cioè la saggezza, sicché il frutto della loro esistenza non può che essere la glorificazione.

vv. 16-19. Alla precedente sterilità benedetta l'autore contrappone una fecondità maledetta. L'articolazione è chiara: alla tesi iniziale (v. 16) seguono le due esemplificazioni di una vita lunga (v. 17) e di una vita breve (v. 18); la conclusione del v. 19 riprende e universalizza la tesi iniziale. In questi versetti si avverte il carattere retorico delle affermazioni; esso mira non a negare la responsabilità individuale – lo stesso autore in Sap 11,23 – 12,2 riconosce la possibilità del perdono e della conversione – , bensì a sottolineare la terribile solidarietà che coinvolge la famiglia e la discendenza dell'empio. L'adulterio acquista qui, oltre il significato proprio, quello simbolico di infedeltà al Dio dell'alleanza; così l'empio diventa il simbolo di Israele sposa infedele a JHWH.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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