Lettera agli Ebrei – Capitolo 5

La natura del sacerdozio 1Ogni sommo sacerdote, infatti, è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. 2Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. 3A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. 4Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne.

L'attuazione in Cristo del sacerdozio 5Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato, gliela conferì 6come è detto in un altro passo: Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek. 7Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. 8Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì 9e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, 10essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchìsedek.

Discorso impegnativo per ascoltatori distratti 11Su questo argomento abbiamo molte cose da dire, difficili da spiegare perché siete diventati lenti a capire. 12Infatti voi, che a motivo del tempo trascorso dovreste essere maestri, avete ancora bisogno che qualcuno v’insegni i primi elementi delle parole di Dio e siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido. 13Ora, chi si nutre ancora di latte non ha l’esperienza della dottrina della giustizia, perché è ancora un bambino. 14Il nutrimento solido è invece per gli adulti, per quelli che, mediante l’esperienza, hanno le facoltà esercitate a distinguere il bene dal male.

Approfondimenti

(cf LETTERA AGLI EBREI – Introduzione, traduzione e commento a cura di Filippo Urso © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

La natura del sacerdozio Nella sua frase iniziale: «Ogni sommo sacerdote», Eb 5,1-4 sembrerebbe una pericope programmatica e completa sul sacerdozio, ma in realtà presenta solo alcuni degli elementi del sacerdozio, quelli cioè che saranno perfezionati e portati a compimento da Cristo:

Ciò che subito viene messo in rilievo dal predicatore, quindi, è il duplice legame di ogni sacerdote alla famiglia umana sia riguardo all'origine – egli è «preso fra gli uomini» – sia in riferimento alla destinazione – è «costituito» in loro «favore» (v. 1). Con queste due espressioni piuttosto generiche viene allargata all'infinito la solidarietà sacerdotale del sommo sacerdote con tutti gli uomini. I verbi sono usati al passivo, per suggerire come ci sia Dio all'origine della vocazione del sacerdozio.

Il sommo sacerdote può avere comprensione per i peccatori perché anche lui è soggetto a debolezza e a causa di questa «deve» (v. 3) offrire sacrifici «per i peccati» suoi e del popolo. Egli deve prima di tutto attendere alla propria santificazione per poi essere degno di espiare i peccati del popolo e di intercedere per sé. C'è quindi, nell'Antico Testamento, un aspetto di somiglianza tra il sommo sacerdote e il popolo in riferimento alla necessità dell'espiazione (cf. Lv 4,3; 9,8; 16,6-11).

Il sommo sacerdote, segnato anche lui da un'umanità debole e peccatrice come gli altri uomini, riconosce umilmente che l'onore (v. 4) del sacerdozio non può venire da lui, ma da Dio che lo ha nominato. Non è l'uomo che prende da sé il compito del sacerdozio, ma è Dio che nella sua iniziativa di misericordia lo dona. L'autore non nega l'aspetto glorioso del sacerdozio, ma sottolinea l'umiltà necessaria al sacerdote per essere mediatore di altri uomini presso Dio.

Quelli che vengono delineati in questi versetti sono i tratti fondamentali del sacerdozio antico, visti però sotto la prospettiva della passione di Cristo, per cui il sacerdote è presentato come «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), mite verso i suoi fratelli miserabili (cf. Eb 5,2-3), umile con loro davanti a Dio (cf. v. 4).

L'attuazione in Cristo del sacerdozio Il rapporto di somiglianza tra il sacerdozio antico e la posizione di Cristo è attuato mediante un parallelismo simmetrico tra l'ultimo stico della descrizione precedente («come Aronne», v. 4), e il primo stico dell'applicazione che si riferisce a Cristo («così anche il Cristo», v. 5); in entrambi i casi è Dio che nomina il sacerdote e l'accento è posto sull'umiltà di colui che è scelto, rivestito tuttavia di onore e gloria propri della dignità del sacerdozio nell'Antico Testamento (cf. Es 28,2.40). Il predicatore ravvisa, così, un rapporto di somiglianza tra il sacerdozio antico e la posizione di Cristo, e dà un messaggio molto importante ai suoi uditori: essi possono riconoscere in Cristo il loro sommo sacerdote, il cui sacerdozio è in continuità con quello di Aronne. Il Cristo nella gloria dopo la sua morte faceva parte del patrimonio di fede dei cristiani, ma il Cristo sommo sacerdote ancora no. L'autore della lettera agli Ebrei ora vuole che il Cristo glorificato da Dio dopo la sua morte sia riconosciuto come il loro sommo sacerdote. Gesù è stato Figlio da sempre e mai lo dovette diventare; diventò invece sommo sacerdote. Dunque, la citazione del Sal 2,7 in 5,5 non ha lo scopo di fondare scritturisticamente il sacerdozio di Cristo, poiché si riferisce all'intronizzazione regale del Messia; questo è anche il significato che l'autore di Ebrei dà al Sal2,7, in riferimento a Gesù, che presenta come glorificato e assiso alla destra del trono di Dio. Non c'è posizione migliore di quella del Figlio per espletare efficacemente il compito di mediatore presso Dio a favore degli uomini. E Gesù, proprio perché è Figlio, comunica questa filiazione a tutti gli uomini verso i quali rivolge la sua mediazione sacerdotale. Dovrebbe così risultare chiaro che la citazione del Sal 109,4 LXX (TM 110,4) costituisce l'argomento scritturistico sul sacerdozio di Cristo glorificato, prefigurato dal personaggio di Melchisedek, re e sacerdote, il cui ruolo nel piano divino è determinato da Cristo stesso.

Nei vv. 7-8 l'evento drammatico della passione e morte è descritto secondo la duplice prospettiva dell'offerta che Gesù fece di sé attraverso preghiere e suppliche poi esaudite e dell'educazione dolorosa, attraverso le quali compì la piena comunione e la totale condivisione della natura umana (cf. 2,14). Come il sommo sacerdote dell'Antico Testamento poteva comprendere gli uomini peccatori, perché anche lui era «circondato di debolezza» (5,2), così Gesù, per farsi solidale con gli uomini in tutto – «escluso il peccato» (4,15) –, si pose alloro livello di creature fragili e votate alla morte, condividendo le tristi condizioni della vita umana. Questa solidarietà si è attuata attraverso l'esperienza di una sofferenza che ha visto Gesù pregare e supplicare con intenso ardore Dio, che solo poteva salvarlo dalla morte. La domanda di Gesù durante la preghiera, e attraverso la preghiera, si modificò e da richiesta di allontanare il calice della passione si trasformò, poi, nel profondo desiderio di conformità alla volontà di Colui che avrebbe deciso la migliore modalità di salvezza (cf. Mt 26,39); infine diventò adesione perfetta alla volontà del Padre (cf. Mt 26,42). Dunque, la preghiera di Gesù non consistette solo in una supplica per la salvezza degli uomini, né nella richiesta di preservazione dalla morte o di risurrezione, ma nel desiderio anzitutto di compiere la volontà di Dio di rimanere in comunione con lui e di salvare gli uomini. Una preghiera così docile e aperta alla volontà di colui che tutto avrebbe po- tuto, non poteva non essere ascoltata e, difatti, il predicatore afferma che Gesù «fu esaudito per la sua pietà». Ciò che a Gesù più premeva, mentre pregava e chiedeva aiuto e salvezza, era di conservare la relazione di perfetta comunione con Dio e di salvare gli uomini. Quindi, in atteggiamento di apertura e disponibilità, di abbandono e profondo rispetto nei confronti di Dio, si dispose con umile sottomissione e amore generoso a compiere la volontà salvifica del Padre, anche se attraverso la sofferenza e la morte (cf. Fil 2,8). Dunque, l'esaudimento di Gesù, senza alcun salvacondotto, consistette nel compimento della volontà del Padre di completa vittoria sopra la morte attraverso la stessa morte (cf. Eb 2,14), secondo un processo doloroso di apprendimento dell'obbedienza attraverso la sofferenza. Nell'obbedienza a Dio e nella completa solidarietà verso i fratelli, si congiungono in Cristo le due dimensioni relazionali dell'amore, l'amore a Dio e l'amore al prossimo: mediante l'obbedienza Gesù si è unito perfettamente alla volontà del Padre, manifestando il suo amore filiale ben diverso dalla filantropia, e nello stesso tempo si è unito più perfettamente agli uomini, perché ha preso su di sé la loro sorte, non elevandosi sopra di essi, ma percorrendo la strada dell'umiliazione per salvarli. In Gesù, grazie alla sua sofferenza trasformata dalla preghiera, è stato creato un uomo nuovo, rispondente all'intenzione divina perché stabilito nell'obbedienza più completa. Dunque, Cristo, attraverso la sua obbedienza, ha rimesso di nuovo l'uomo in comunione con Dio, dopo averne espiato i peccati (cf. Eb 2,17; 9,26). Inoltre, attraverso la sua misericordia sacerdotale Gesù ha dato al credente la capacità di trasformare le sofferenze in offerta gradita a Dio, per mezzo della preghiere e della docilità filiale.

Nei vv. 9-10 il predicatore, ricollegandosi all'evento della passione e morte, espone le conseguenze soteriologiche per gli uomini dell'educazione dolorosa di Gesù, a cominciare dalla trasformazione per cui è «reso perfetto». L'offerta che Cristo fa della sua stessa vita è un sacrificio personale, esistenziale, fatto nell'assoluto rispetto della volontà divina (cf. 5,7) ed esente da ogni complicità con il peccato: per questo è perfetta. Essa è oblazione perfetta – cioè compiuta – anche perché è stata accolta da Dio: Cristo ha offerto ed è stato esaudito. Dunque, il perfezionamento, invocato da Gesù nella preghiera e accolto con docilità, viene operato da Dio attraverso la sofferenza e la morte e consacra Gesù sommo sacerdote perfetto: una vera consacrazione sacerdotale doveva consistere in una trasformazione esistenziale, non rituale ma reale, non materiale ma spirituale, non esterna ma intima e profonda, secondo un processo di radicale maturazione attraverso la sofferenza, così da essere degno di entrare in rapporto con Dio. Grazie alla «perfezione» raggiunta, per l'obbedienza filiale al Padre (dimensione verticale del sacerdozio) e per la solidarietà radicale con l'umanità (dimensione orizzontale), Gesù può esplicare le sue funzioni sacerdotali verso «tutti quelli che gli obbediscono» (chiara allusione a «obbedienza» del v. 8). Gesù, per la sua obbedienza appresa nella sofferenza, è diventato la condizione di possibilità perché gli uomini, obbedendo a lui e per mezzo di lui (cf. 13,21 ), accedano alla salvezza divina. In ordine alla sua azione sacerdotale – e per la comunicazione che fa agli uomini di questa trasformazione – Cristo è causa e mezzo «di salvezza eterna» sia perché il suo sacrificio è eternamente efficace, sia perché è la salvezza che alla fine darà a coloro che lo accolgono al suo ritorno (cf. 9,28), dopo aver perseverato fino all'ultimo nella fede e nella speranza (cf. 3,6.14).

Le tre affermazioni presenti in Eb 5,9-10, su Gesù «reso perfetto», «causa di salvezza eterna» e «proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedek», costituiscono la conclusione della seconda parte della lettera agli Ebrei e, nello stesso tempo, l'annuncio degli argomenti che saranno sviluppati nella terza parte.

Discorso impegnativo per ascoltatori distratti La terza parte della lettera inizia con il richiamo piuttosto energico del predicatore affinché gli uditori stiano più attenti a ciò che verrà loro detto. La sfida dell'oratore è quella di invitare la comunità ad affrontare con rinnovato impegno ciò in cui crede e a progredire verso una fede autenticamente matura. La provocazione continua mediante il ricorso alla metafora familiare del latte, che è il nutrimento dei bambini, e del cibo solido, che è delle persone mature. La metafora del latte e del cibo solido viene usata anche da Paolo in 1Cor 3,1-2 con intento polemico verso quei Corinzi neofìti, spiritualmente ancora bambini perché carnali (divisi tra invidie e dissensi) e quindi incapaci di cibo solido. A causa del tempo trascorso i destinatari dell'esortazione di Ebrei dovrebbero essere già «maestri» (v. 12) e, invece, hanno ancora bisogno che qualcuno li istruisca sui primi elementi della fede cristiana; avrebbero, cioè, ancora bisogno di un'istruzione catechetica iniziale sulla conoscenza delle verità rivelate.


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