Libro dell’Apocalisse – Capitolo 15

Il segno grande e meraviglioso 1E vidi nel cielo un altro segno, grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli; gli ultimi, poiché con essi è compiuta l’ira di Dio. 2Vidi pure come un mare di cristallo misto a fuoco; coloro che avevano vinto la bestia, la sua immagine e il numero del suo nome, stavano in piedi sul mare di cristallo. Hanno cetre divine e 3cantano il canto di Mosè, il servo di Dio, e il canto dell’Agnello: «Grandi e mirabili sono le tue opere, Signore Dio onnipotente; giuste e vere le tue vie, Re delle genti! 4O Signore, chi non temerà e non darà gloria al tuo nome? Poiché tu solo sei santo, e tutte le genti verranno e si prostreranno davanti a te, perché i tuoi giudizi furono manifestati». 5E vidi aprirsi nel cielo il tempio che contiene la tenda della Testimonianza; 6dal tempio uscirono i sette angeli che avevano i sette flagelli, vestiti di lino puro, splendente, e cinti al petto con fasce d’oro. 7Uno dei quattro esseri viventi diede ai sette angeli sette coppe d’oro, colme dell’ira di Dio, che vive nei secoli dei secoli. 8Il tempio si riempì di fumo, che proveniva dalla gloria di Dio e dalla sua potenza: nessuno poteva entrare nel tempio finché non fossero compiuti i sette flagelli dei sette angeli.

Approfondimenti

(cf APOCALISSE – introduzione, traduzione e commento di CLAUDIO DOGLIO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

Il segno grande e meraviglioso Il trittico dei segni raggiunge la sua completezza: a quelli del conflitto (12,1.3) si aggiunge il segno della soluzione. I due blocchi sono stati separati dai simboli del potere demoniaco e dell'intervento messianico, culminante con il versamento del sangue di Cristo. Il terzo segno concentra l'attenzione proprio su questo ultimo evento, nucleo fondamentale del piano divino di salvezza; ma lo svolgimento del tema si avrà nel settenario delle coppe (c. 16). Il capitolo 15 ne costituisce l'immediata preparazione e, secondo il metodo tipic odell'autore, riprende e riassume molti temi già presentati. Come gli altri due segni, anche il terzo è collocat oa livello della trascendenza divina; è «grande» (come il primo; cfr. 12,1) e «meraviglioso», non tanto per i sette angeli quanto piuttosto per l'evento che essi rappresentano. Il settenario delle coppe pertanto coincide con le «lezioni» definitive che segnano il compimento del furore divino, cioè l'intervento «punitivo» decisivo, che determina il superamento dell'universale situazione di cattiva relazione con Dio.

Il canto dei vincitori (15,2-4). La formula generale di introduzione lascia il posto a un'altra visione, un quadro di sintesi che riprende immagini e messaggi dalla visione iniziale del trono e dell'Agnello (cc. 4-5)e dalla scena dell'Agnello sul monte Sion con i centoquarantaquattromila (14,1-5). Protagonisti sono «coloro che riportano la vittoria», cioè coloro che non si lasciano piegare dalle forze diaboliche operanti nella storia: il combattimento è ancora in corso. Essi stanno in piedi, nella posizione dei viventi, come l'Agnello (la forma verbale è la stessa di 5,6 e 14,1); dominano il mare, che richiama il mostro caotico primitivo simbolo del male, divenuto ormai solido cristallo, cioè vinto e reso simile al cielo; tengono tra le mani gli strumenti musicali per celebrare Dio, come i viventi e gli anziani (cfr. 5.8; 14,2) ed eseguono un canto di lode (cfr. 5,9; 14,3). L'inno che era di Mosè diviene ora il cantico dell'Agnello, in quanto le sue parole riguardano Gesù: infatti, il mistero pasquale del Cristo morto e risorto interpreta e realizza le antiche prospettive bibliche di liberazione dal dominio del male. Il testo riportato (15,3b-4) costituisce forse un autentico inno liturgico, adoperato nella comunità giovannea, anche se non contiene elementi propriamente cristiani. Tema del canto è la celebrazione di Dio per le sue opere, non tanto per la creazione, quanto per i suoi interventi storici. L'insistenza cade sulle «genti», cioè i non-Israeliti, e la gioia del canto consiste proprio in questa certezza: si è manifestata la volontà divina di salvare tutta l'umanità e questo progetto si realizzerà. L'intermezzo lirico serve come valido commento alla narrazione simbolica: ciò che viene descritto in seguito è il compimento di questo progetto salvifico.

L'apertura del santuario celeste (15.5-8). L'ultima unità di questa sezione introduttiva al settenario delle coppe forma una perfetta inclusione con il finale del settenario delle trombe (11,19): l'apertura del tempio nel cielo costituisce la grande immagine che racchiude tutta la sezione 12,1-15,8. Secondo il procedimento circolare consueto nell'Apocalisse siamo tornati al punto di partenza, dopo un notevole approfondimento sulla storia del genere umano. Il tempio è luogo della presenza di Dio (come segnala il vocabolo «tenda») ed è segno della sua rivelazione (cfr. l'uso di «testimonianza»): l'edificio terreno era solo un'immagine, ma Giovanni parla ora della realtà stessa «in cielo». La sua apertura allude alla possibilità di accesso, cioè l'incontro personale con Dio; a livello simbolico, questa può corrispondere alla rottura del velo del tempio, narrata dagli evangelisti nel momento della morte di Gesù (Mt 27,51; Mc 15,38; Lc 23,45), e allude probabilmente alla liturgia dello Yom Kippur («giorno del'Espiazione»; cfr. Lv 16), unica occasione in cui, nella liturgia di Israele, era consentito a un uomo l'accesso al Santo dei Santi, la parte più interna del tempio (cfr. Lv 16). Molti altri elementi concordano per questo orientamento: gli angeli vestono di lino (15,6) come il sommo sacerdote (Lv 16,4); il fumo dell'incenso riempie il santuario celeste (15,8) come avveniva nel tempio (Lv 16,13), le sette coppe consegnate agli angeli (15,7) corrispondono ai recipienti rituali per il sangue delle sette aspersioni che il celebrante portava nel Santo dei Santi (Lv 16,14.15.19). La comunità cristiana di Giovanni sa rileggere i testi liturgici dell'Antico Testamento come «un'ombra e una copia delle realtà celesti» (Eb 8,5)e ritiene che la liturgia terrena di Israele sia una figura della realtà: le celebrazioni nel tempio celeste mirano dunque a spiegare il compimento delle antiche rappresentazioni e la liturgia di espiazione viene interpretata come figura del sacrificio redentore di Cristo (cfr. Rm 3,25: Eb 9.1-14). Dal santuario escono i sette angeli con i sette castighi, che costituiscono le “lezioni” definitive (v. 6); il termine greco indica il colpo inferto e anche la ferita o la piaga prodotta, cfr. Lc 10,30; At 16,23.33; 2Cor 6,5; 11,23. L'uso apocalittico della parola è differente: non si intende infatti dire che gli angeli sono «piagati»; è d'altronde impossibile vedere angeli che «hanno sette colpi». La traduzione «flagelli» o «calamità» risente di un'interpretazione negativa del linguaggio catastrofico tipico di questo genere letterario; il significato più probabile è quello di «castigo pedagogico», ciò che comunemente si intende con «dare una “bella” lezione». La stessa espressione si trova in Lv 26,21 LXX: il Signore minaccia una punizione «sette volte» superiore ai peccati del popolo (cfr. Lv 26,14-46 LXX).

I sette angeli sono caratterizzati da un vestiario che è tipicamente sacerdotale; essi ricevono i sette recipienti d'oro (cfr. 5,8) che contengono l'ira di Dio. Sono pertanto il simbolo del giudizio divino, ovvero del suo intervento risolutivo nel dramma della storia (cfr. 14,10). Infine la gloria e la potenza di Dio invadono il tempio, come è simboleggiato nella liturgia dalle dense nuvole di incenso (cfr. Es 40,34; 1Re 8,10-11; Is 6,4); l'accesso a questo luogo sacro è impossibile: ritorna la formula che era già servita per indicare l'impossibilità di aprire il rotolo (5,3) e di imparare il canto celeste (14,3); essa ha valore teologico e dice l'assoluta impotenza umana di fronte all'evento della salvezza. Attraverso il rivestimento metaforico, dunque, Giovanni sottolinea come non fosse possibile per l'umanità entrare realmente in contatto con Dio fino al compimento della *“lezione perfetta”, cioè l'evento decisivo della morte di Cristo.


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