LUMEN GENTIUM 66-69

DOCUMENTI DEL CONCILIO VATICANO II Costituzione dogmatica sulla Chiesa LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964)

CAPITOLO VIII – LA BEATA MARIA VERGINE MADRE DI DIO NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA

IV. Il culto della beata Vergine nella Chiesa

Natura e fondamento del culto 66 Maria, perché madre santissima di Dio presente ai misteri di Cristo, per grazia di Dio esaltata, al di sotto del Figlio, sopra tutti gli angeli e gli uomini, viene dalla Chiesa giustamente onorata con culto speciale. E di fatto, già fino dai tempi più antichi, la beata Vergine è venerata col titolo di «madre di Dio» e i fedeli si rifugiano sotto la sua protezione, implorandola in tutti i loro pericoli e le loro necessità [Cf. Breviario Romano, ant. “Sub tuum praesidium” ai I Vespri del Piccolo Ufficio della Beata Vergine Maria; nella Liturgia delle Ore, antifona mariana di Compieta]. Soprattutto a partire dal Concilio di Efeso il culto del popolo di Dio verso Maria crebbe mirabilmente in venerazione e amore, in preghiera e imitazione, secondo le sue stesse parole profetiche: «Tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose mi ha fatto l'Onnipotente» (Lc 1,48). Questo culto, quale sempre è esistito nella Chiesa sebbene del tutto singolare, differisce essenzialmente dal culto di adorazione reso al Verbo incarnato cosi come al Padre e allo Spirito Santo, ed è eminentemente adatto a promuoverlo. Infatti le varie forme di devozione verso la madre di Dio, che la Chiesa ha approvato, mantenendole entro i limiti di una dottrina sana e ortodossa e rispettando le circostanze di tempo e di luogo, il temperamento e il genio proprio dei fedeli, fanno si che, mentre è onorata la madre, il Figlio, al quale sono volte tutte le cose (cfr Col 1,15-16) e nel quale «piacque all'eterno Padre di far risiedere tutta la pienezza» (Col 1,19), sia debitamente conosciuto, amato, glorificato, e siano osservati i suoi comandamenti.

Norme pastorali 67. Il santo Concilio formalmente insegna questa dottrina cattolica. Allo stesso tempo esorta tutti i figli della Chiesa a promuovere generosamente il culto, specialmente liturgico, verso la beata Vergine, ad avere in grande stima le pratiche e gli esercizi di pietà verso di lei, raccomandati lungo i secoli dal magistero della Chiesa; raccomanda di osservare religiosamente quanto in passato è stato sancito circa il culto delle immagini di Cristo, della beata Vergine e dei Santi [Cf. CONCILIO DI NICEA II, anno 787: MANSI 13, 378-279; Dz 302 (600-01) [Collantes 7.336-37]; CONC. DI TRENTO, Sess. 25: MANSI 33, 171-172 Dz 1821-25; Collantes 7.343-47]. Esorta inoltre caldamente i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione, come pure da una eccessiva grettezza di spirito, nel considerare la singolare dignità della Madre di Dio [Cf. PIO XII, Messaggio radiof., 24 ott. 1954: AAS 46 (1954), p. 679; Encicl. Ad caeli Reginam, 11 ott. 1954: AAS 46 (1954), p. 637]. Con lo studio della sacra Scrittura, dei santi Padri, dei dottori e delle liturgie della Chiesa, condotto sotto la guida del magistero, illustrino rettamente gli uffici e i privilegi della beata Vergine, i quali sempre sono orientati verso il Cristo, origine della verità totale, della santità e della pietà. Sia nelle parole che nei fatti evitino diligentemente ogni cosa che possa indurre in errore i fratelli separati o qualunque altra persona, circa la vera dottrina della Chiesa. I fedeli a loro volta si ricordino che la vera devozione non consiste né in uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una certa qual vana credulità, bensì procede dalla fede vera, dalla quale siamo portati a riconoscere la preminenza della madre di Dio, e siamo spinti al filiale amore verso la madre nostra e all'imitazione delle sue virtù.

V. Maria, segno di certa speranza e di consolazione per il peregrinante popolo di Dio

Maria, segno del popolo di Dio 68 La madre di Gesù, come in cielo, in cui è già glorificata nel corpo e nell'anima, costituisce l'immagine e l'inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell'età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore (cfr. 2Pt 3,10).

Maria interceda per l'unione dei cristiani 69 Per questo santo Concilio è di grande gioia e consolazione il fatto che vi siano anche tra i fratelli separati di quelli che tributano il debito onore alla madre del Signore e Salvatore, specialmente presso gli Orientali, i quali vanno, con ardente slancio ed anima devota, verso la madre di Dio sempre vergine per renderle il loro culto [Cf. PIO XI, Encicl. Ecclesiam Dei, 12 nov. 1923: AAS 15 (1923), p. 581. PIO XII, Encicl. Fulgens corona, 8 sett. 1953: AAS 45 (1953), pp. 590-591]. Tutti i fedeli effondano insistenti preghiere alla madre di Dio e madre degli uomini, perché, dopo aver assistito con le sue preghiere la Chiesa nascente, anche ora, esaltata in cielo sopra tutti i beati e gli angeli, nella comunione dei santi interceda presso il Figlio suo, fin tanto che tutte le famiglie di popoli, sia quelle insignite del nome cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro Salvatore, in pace e concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di Dio, a gloria della santissima e indivisibile Trinità.

21 novembre 1964

DAGLI ATTI DEL SS. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II

Notificazioni

Fatte dall’Ecc.mo Segretario Generale del Ss. Concilio nella CXXIII Congregazione Generale del 16 novembre 1964

È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla Chiesa e sottoposto alla votazione. La commissione dottrinale ha dato al quesito questa risposta: «Come è di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute». In pari tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui trascriviamo il testo:

«Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali».

«Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica».

Per mandato dell'autorità superiore viene comunicata ai Padri una nota esplicativa previa circa i «modi» concernenti il capo terzo dello schema sulla Chiesa. La dottrina esposta nello stesso capo terzo deve essere spiegata e compresa secondo lo spirito e la sentenza di questa nota.

16 novembre 1964

NOTA ESPLICATIVA PREVIA La commissione ha stabilito di premettere all'esame dei “modi” le seguenti osservazioni generali:

1) “Collegio” non si intende in senso « strettamente giuridico », cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandata la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo stabile, la cui struttura e autorità deve essere dedotta dalla Rivelazione. Perciò nella risposta al modus 12 si dice esplicitamente dei Dodici che il Signore li costituì « a modo di collegio o “gruppo” (coetus) stabile ». Cfr. anche il modus 53, c. Per la stessa ragione, per il collegio dei vescovi si usano con frequenza anche le parole “ordine” (ordo) o “corpo” (corpus). Il parallelismo fra Pietro e gli altri apostoli da una parte, e il sommo Pontefice e i vescovi dall'altra, non implica la trasmissione della potestà straordinaria degli apostoli ai loro successori, né, com'è chiaro, “uguaglianza” (aequalitatem) tra il capo e le membra del collegio, ma solo “proporzionalità” (proportionalitatem) fra la prima relazione (Pietro apostoli) e l'altra (papa vescovi). Perciò la commissione ha stabilito di scrivere nel n. 22 non “medesimo” (eodem) ma “pari” modo. Cfr. modus 57.

2) Si diventa “membro del collegio” in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le membra. Cfr. n. 22.

Nella consacrazione è data una “ontologica” partecipazione ai “sacri uffici”, come indubbiamente consta dalla tradizione, anche liturgica. Volutamente è usata la parola “uffici” (munerum), e non “potestà” (potestatum), perché quest'ultima voce potrebbe essere intesa di potestà esercitabile di fatto (ad actum expedita). Ma perché si abbia tale potestà esercitabile di fatto, deve intervenire la “determinazione” canonica o “giuridica” (iuridica determinatio) da parte dell'autorità gerarchica. E questa determinazione della potestà può consistere nella concessione di un particolare ufficio o nell'assegnazione dei sudditi, ed è concessa secondo le norme approvate dalla suprema autorità. Una siffatta ulteriore norma è richiesta “dalla natura delle cose”, trattandosi di uffici, che devono essere esercitati da “più soggetti”, che per volontà di Cristo cooperano in modo gerarchico. È evidente che questa “comunione” è stata applicata nella vita della Chiesa secondo le circostanze dei tempi, prima di essere per così dire codificata “nel diritto”. Perciò è detto espressamente che è richiesta la comunione “gerarchica” col capo della Chiesa e con le membra. “Comunione” è un concetto tenuto in grande onore nella Chiesa antica (ed anche oggi, specialmente in Oriente). Per essa non si intende un certo vago “sentimento”, ma una “realtà organica”, che richiede una forma giuridica e che è allo stesso tempo animata dalla carità. La commissione quindi, quasi d'unanime consenso, stabilì che si scrivesse: « nella comunione “gerarchica” ». Cfr. Mod. 40 ed anche quanto è detto della “missione canonica”, sotto il n. 24. I documenti dei recenti romani Pontefici circa la giurisdizione dei vescovi vanno interpretati come attinenti questa necessaria determinazione delle potestà.

3) Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto essere: «anche esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale ». Ciò va necessariamente ammesso, per non porre in pericolo la pienezza della potestà del romano Pontefice. Infatti il collegio necessariamente e sempre si intende con il suo capo, “il quale nel collegio conserva integro l'ufficio di vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale”. In altre parole: la distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il romano Pontefice insieme con i vescovi. E siccome il romano Pontefice e il “capo” del collegio, può da solo fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell'azione, ecc. Cfr. Modo 81. Il sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo collegiale. Il romano Pontefice nell'ordinare, promuovere, approvare l'esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa.

4) Il sommo Pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la propria potestà in ogni tempo a sua discrezione, come è richiesto dallo stesso suo ufficio. Ma il collegio, pur esistendo sempre, non per questo permanentemente agisce con azione “strettamente” collegiale, come appare dalla tradizione della Chiesa. In altre parole: Non sempre è «in pieno esercizio», anzi non agisce con atto strettamente collegiale se non ad intervalli e “col consenso del capo”. Si dice « col consenso del capo », perché non si pensi a una “dipendenza”, come nei confronti di chi è “estraneo”; il termine “consenso” richiama, al contrario, la “comunione” tra il capo e le membra e implica la necessità dell'atto”, il quale propriamente compete al capo. La cosa è esplicitamente affermata nel n. 22 ed è ivi spiegata. La formula negativa “se non” (nonnisi) comprende tutti i casi, per cui è evidente che le “norme” approvate dalla suprema autorità devono sempre essere osservate. Cfr. modus 84.

Dovunque appare che si tratta di “unione” dei vescovi “col loro capo”, e mai di azione dei vescovi “indipendentemente” dal papa. In tal caso, infatti, venendo a mancare l'azione del capo, i vescovi non possono agire come collegio, come appare dalla nozione di “collegio”. Questa gerarchica comunione di tutti i vescovi col sommo Pontefice è certamente abituale nella tradizione.

N. B.– Senza la comunione gerarchica l'ufficio sacramentale ontologico, che si deve distinguere dall'aspetto canonico giuridico, “non può” essere esercitato. La commissione ha pensato bene di non dover entrare in questioni di “liceità” e “validità”, le quali sono lasciate alla discussione dei teologi, specialmente per ciò che riguarda la potestà che di fatto è esercitata presso gli Orientali separati e che viene spiegata in modi diversi.

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Approfondimenti

Cap. VII. — LA BEATA MARIA VERGINE MADRE DI DIO NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA

Il capitolo si chiude con la raccomandazione che la devozione speciale a Maria non diventi culto di adorazione che è riservato solo alla Trinità e al Verbo incarnato.

https://www.chiesadilavenomombello.it/items/consiglio_pastorale/29/allegati/Lumen%20Gentium%20-%20riduzione%20ppt.pdf

NOTA ESPLICATIVA PREVIA La “nota esplicativa previa” circa la dottrina sulla collegialità episcopale, dovrebbe essere letta prima del Cap. III, perché risponde a una necessità di un approfondimento, dato che non vi era un consenso consolidato sulla comprensione dei termini utilizzati circa la collegialità episcopale. In sintesi dice che:

  1. Il termine «collegio» non si deve intendere in senso strettamente giuridico, ma in quello di gruppo stabile, nel quale non vige l’uguaglianza tra i membri e il loro capo.
  2. L’incorporazione in esso si realizza attraverso la consacrazione episcopale consistente nella comunione gerarchica con i membri del collegio e il suo capo.
  3. L'autorità del suo capo è tale da costituire un elemento necessario al collegio stesso e da potersi esercitare sempre e con piena e universale potestà anche al di fuori di esso.
  4. L’autorità collegiale dei suoi membri, pur esistendo sempre, non viene esercitata che ad intervalli e col consenso del capo del collegio.

Questa nota non apporta alcun elemento nuovo al testo votato dal Concilio.

«La collegialità è solo una parte del discorso più ampio della sinodalità: il limite più grande della dottrina sulla collegialità proposta dal Concilio che costituisce anche uno dei nodi più grossi dell’intera questione – è la sua declinazione assoluta, senza alcun riferimento al popolo di Dio e alle sue funzioni, come dimostra il silenzio totale della costituzione – e di tutto il Concilio – sulla sinodalità della chiesa». (Dario Vitali, Verso la sinodalità, Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, Magnano (BI) 2014, 62).


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