📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Vanità dei piaceri, delle ricchezze e del lavoro 1Io dicevo fra me: “Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia. Gusta il piacere!”. Ma ecco, anche questo è vanità. 2Del riso ho detto: “Follia!” e della gioia: “A che giova?”. 3Ho voluto fare un'esperienza: allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza. Volevo scoprire se c'è qualche bene per gli uomini che essi possano realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita. 4Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. 5Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d'ogni specie; 6mi sono fatto vasche per irrigare con l'acqua quelle piantagioni in crescita. 7Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme. 8Ho accumulato per me anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. 9Sono divenuto più ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza. 10Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d'ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche. 11Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c'è alcun guadagno sotto il sole.

C’è una stessa sorte per tutti 12Ho considerato che cos'è la sapienza, la stoltezza e la follia: “Che cosa farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui”. 13Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è come il vantaggio della luce sulle tenebre: 14il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Eppure io so che un'unica sorte è riservata a tutti e due. 15Allora ho pensato: “Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Perché allora ho cercato d'essere saggio? Dov'è il vantaggio?”. E ho concluso che anche questo è vanità. 16Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto.

Perché faticare, per poi lasciare tutto a un altro? 17Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento. 18Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. 19E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità! 20Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica che avevo sostenuto sotto il sole, 21perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. 22Infatti, quale profitto viene all'uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? 23Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità! 24Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche; mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. 25Difatti, chi può mangiare o godere senza di lui? 26Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre a chi fallisce dà la pena di raccogliere e di ammassare, per darlo poi a colui che è gradito a Dio. Ma anche questo è vanità e un correre dietro al vento!

_________________ Note

2,24 mangiare e bere: tra le modeste gioie della vita, la più frequentemente ricordata è la gioia della tavola, intesa come benedizione predisposta dal Signore per l’uomo (3,12-13).

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Approfondimenti

vv. 1-3. Il vino (2,3) è il simbolo di tutto ciò che rallegra la vita dell'uomo (Sal 104,15), dell'allegria stessa, del piacere. E anche l'esperienza del piacere è presentata nell'eccesso, laddove si rivela il suo limite, la sua incapacità a soddisfare le attese che aveva suscitato. Pure questa apparente perversione è posta sotto il segno della sapienza, dal momento che mira a scoprire che cosa sia il bene per l'uomo. E una ricerca spinta fino all'eccesso della perversione è giustificata dall'incombere della morte, che la rende urgente, urgente di un'urgenza cronologica (i giorni della vita sono pochi; cfr. Sal 90, 10) e di un'urgenza filosofica, esistenziale (la fragilità dei figli di Adamo, sempre sul punto di ritornare a quella terra ’adamah, da cui sono stati tratti).

vv. 4-8. Qoelet enumera i frutti del suo agire. Tra i beni immobili bisogna notare i «parchi»: il termine ebraico è pardēsîm, una parola presa in prestito dal persiano (da cui il nostro “paradiso”); il primo a creare dei parchi fu Tiglat-Pilezer I, re d'Assiria (XII-XI sec. a.C.), che vi radunava animali esotici in una vegetazione lussureggiante, come simbolo del suo dominio universale; con i Persiani il “paradiso” diventa parte dell'immagine regale, tanto che i satrapi vollero avere ciascuno il suo parco, per essere simili al gran re (e quest'idea vale probabilmente anche in Qo 2,5).

v. 9. Osserviamo che la sapienza, che in 1,16 era l'oggetto accumulato, dopo l'enumerazione di tutti gli oggetti che il cuore umano può concupire, diventa il soggetto di un'avversativa: «eppure mi era rimasta la mia sapienza». Quasi a dire che, se da un lato solo l'eccesso permette al sapiente di discernere chiaramente l'assurdità, dall'altro è molto difficile conservare la sapienza attraversando gli eccessi.

v. 10. L'assenza di limite al desiderio, punto focale del pezzo in esame, risulta evidente dalla doppia negazione dei verbi indicanti rifiuto. La motivazione che si dà di questo non-rifiuto riflette non un edonismo decadente, ma un vero atteggiamento sapienziale (il “godere” di 2,10 è in parallelo con il “conservare la sapienza” di 2,9). Abbandonato il piano esteriore, ci si muove solo più su quello interiore: l'allegria è vista come un'attitudine interiore durevole (il verbo è un participio), dunque: «il mio cuore si rallegrava sempre», «il mio cuore sapeva rallegrarsi».

v. 11. I vv. 9-10 sono un riassunto dell'enumerazione e dell'accumulazione di beni di 2,4-8 ed esprimono la sintesi massima del desiderabile: avere tutto quel che poté avere un Salomone, ma senza perdere la testa (v. 9; c'è forse qui una punta d'ironia nei confronti del grande sovrano che si era lasciato traviare dalle sue donne, cfr. 1Re 11,1-13); avere tutto quel che si può desiderare, oggetti e stati d'animo, essere ricchi e saperne godere (v. 10). Eppure Qoelet si volta a guardare ciò che ha realizzato, la ricchezza per cui ha faticato (v. 11), e il suo sguardo diventa un giudizio quanto mai negativo e disilluso (v. 11: assurdità totale, tormento inutile). Tale giudizio è per ora immotivato, ma è solo l'anticipazione di quanto verrà esposto nelle pericopi seguenti.

vv. 12-16. In 2,11 veniva anticipato un giudizio di generale assurdità e assenza di vantaggio. In 2,12 viene introdotto un elemento nuovo: la successione, che implica la morte. Contro la morte si scontrano tutte le realtà comparse nei versi precedenti, e la morte ne manifesta il non-senso. In 2,13 si trova una tesi contraddittoria rispetto al giudizio di 2,11 («pare che un vantaggio ci sia...»), appoggiata dalla tradizione con il proverbio di 2,14; ma lo stesso v. 14 aggiunge subito un dato d'esperienza che smentisce radicalmente la tesi tradizionale: non c'è vantaggio del saggio sullo stolto, perché tutti muoiono. Il centro del chiasmo è davvero il perno intorno al quale ruota l'intero discorso: la scoperta della morte – una scoperta non astratta ma esistenziale, coinvolgente – appiattisce la differenza tra saggezza e idiozia, e pertanto rende assurdo lo sforzo del saggio. Nei versetti che seguono viene sviluppata proprio quest'ultima idea, dapprima in chiave di coinvolgimento personale (v. 15), il che acuisce la coscienza dell'assurdità; viene poi la prospettiva dell'oblio: se il ricordo poteva sembrare una scappatoia dalla fine di tutto, in realtà non lo è; e se non ci sono scappatoie, non resta che il grido, il lamento (v. 16).

vv. 17-23. La parte 2,17-23 è ritmata in senso longitudinale dal ritornello della «vanità», dell'assurdità, alternando forma ampliata (17 e 21) e forma breve (19 e 23); tuttavia la struttura della parte, se si tralasciano i ritornelli, è concentrica. Se in 2,3 ci si impegnava a indagare che cosa fosse “bene” per l'uomo fare nei pochi giorni della sua vita, in 2,17 ecco la risposta (in ordine inverso): la vita è odiosa. perché è “male” tutto ciò che si fa sotto il sole. Il v. 17 chiude la pericope precedente e apre al tempo stesso quella seguente. Il vero problema non è l'eredità, né per chi lascia, né per chi riceve, stolto o saggio che sia; il dramma è dover morire, e l'eredità ne è solo un corollario. La radice che più ricorre in questa pericope è ‘ml (dieci volte in cinque versetti), ovvero la fatica e il suo frutto. Abbiamo, inoltre, già notato il martellare del ritornello «anche questo è vanità». Possiamo allora concludere che il motivo del lascito e dell'erede non è il tema della pericope, ma soltanto un modo di esprimere il non-senso della fatica umana davanti alla morte. Osserviamo infine che, se in filigrana c'è ancora l'immagine di Salomone, non è difficile pensare che questo erede sia simbolicamente il figlio Roboamo, definito dal Siracide «pieno di stoltezza e vuoto di senno» (Sir 47,23, tr. Vaccari dal testo ebraico).

vv. 24-26. In 2,26 (non consideriamo ora il giudizio conclusivo) si combinano uno schema parallelo – evidenziato dai due “dare” di Dio – e uno schema chiastico, agli estremi del quale si trova «colui che è gradito a Dio», mentre in centro compare il «peccatore» (che letteralmente vuol dire «fallito»). Non è senza significato questo gioco tra lo schema parallelo e quello chiastico: infatti, sotto il velo di una sentenza tradizionale riguardo alla retribuzione temporale (schema parallelo), si rivela un'intuizione angosciata: il «peccatore-fallito» (centro del chiasmo) è Qoelet stesso. Ricordiamo come in 2,20-21 Qoelet era disperato a motivo di tutto ciò per cui aveva faticato nella sua vita, perché avrebbe dovuto darlo a un altro che non vi aveva faticato per nulla. Eppure il motivo della disperazione non erano i beni. La sua fatica si era qualificata per sapienza, competenza e perizia (cfr. 2,21), proprio quelle qualità che sembrano essere dono di Dio a chi gli è gradito (cfr. 2,26b: al posto della perizia c'è la gioia), e invece il dover faticare per poi dare tutto a un altro, lo identifica con il peccatore, o meglio, il “fallito”. La sentenza tradizionale non sarà forse verificata dalla realtà dei fatti, tuttavia ha focalizzato e portato a coscienza esplicita un'intuizione dura e grave. La conclusione è un giudizio di vanità, una solenne affermazione dell'assurdità tanto della condizione umana, quanto di una sapienza tradizionale che pretende di dirne la verità.

Interpretazione globale della sequenza 1,12-2,26 Qoelet vuole riflettere con sapienza su ciò che si fa sotto il sole; questo lavoro che Dio ha dato agli uomini perché vi lavorino è male (1,12-13).

Qoelet riflette innanzitutto sugli atteggiamenti che gli servono da strumenti conoscitivi: la sapienza che aumenta si rivela un tormento crescente (1,16-18), l'alternativa (allegria, riso, idiozia; 2, 1-3), per quanto volta alla ricerca del bene per l'uomo, e di un bene da “fare”, si rivela assurda.

Qoelet esplora dunque tutte le potenzialità del fare umano, espresse al massimo grado per concluderne l'assurdità e il tormento (2, 4-11).

Egli esamina ancora i diversi atteggiamenti che forse possono dare senso alla produzione dei beni, ma constata che la differenza significativa tra saggezza e idiozia è eliminata dalla morte (2,12-16). Ne conclude che l'agire umano, il fare che si fa sotto il sole, è male per lui, poiché tutto è assurdo e un tormento inutile (2,17).

Qoelet riprende a riflettere sui beni che aveva prodotto e sul fatto che, morendo, dovrà lasciarli a un successore che non li merita (2,18-21), il che è assurdo (2,19.21), come assurda è la condizione umana nel suo insieme (2,22-23).

Il lavoro umano, che in 1,13 era «male» (ra‘), qui è «afflizione» (ka‘as). E se in 2,1.3 si cercava un bene per l'uomo negli atteggiamenti umani di maggiore o minore saggezza, ora si afferma che non c'è altro bene per l'uomo se non nella fruizione immediata delle cose (2,24).

Ma neppure questo bene, per quanto minimo, è a disposizione dell'uomo, dal momento che sembra dipendere da Dio, e Dio sembra assegnarlo a chi è “buono davanti a lui”. L'uomo dovrebbe dunque cercare di essere “buono davanti a Dio” per avere il “bene”? Ma cosa significa essere “buoni davanti a Dio”? Di fatto l'esperienza mostra che le categorie teologiche sono insufficienti a rendere ragione della realtà, poiché lo stesso individuo è per un verso “buono davanti a Dio” e per l'altro “peccatore”. Perciò anche quest'ultimo ragionamento è un'assurdità e un tormento inutile.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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TITOLO DEL LIBRO (1,1)

1Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re a Gerusalemme.

PROLOGO (1,2-11)

Tutto è vanità, vuoto immenso 2Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. 3Quale guadagno viene all'uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? 4Una generazione se ne va e un'altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa. 5Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce. 6Il vento va verso sud e piega verso nord. Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento. 7Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono, continuano a scorrere. 8Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo. Non si sazia l'occhio di guardare né l'orecchio è mai sazio di udire. 9Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c'è niente di nuovo sotto il sole. 10C'è forse qualcosa di cui si possa dire: “Ecco, questa è una novità”? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto. 11Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito.

L’UOMO DI FRONTE AI SUOI LIMITI (1,12-6,12)

Il sapere, inutile fatica 12Io, Qoèlet, fui re d'Israele a Gerusalemme. 13Mi sono proposto di ricercare ed esplorare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. Questa è un'occupazione gravosa che Dio ha dato agli uomini, perché vi si affatichino. 14Ho visto tutte le opere che si fanno sotto il sole, ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. 15Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare.

16Pensavo e dicevo fra me: “Ecco, io sono cresciuto e avanzato in sapienza più di quanti regnarono prima di me a Gerusalemme. La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza”. 17Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho capito che anche questo è un correre dietro al vento. 18Infatti: molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere aumenta il dolore.

_________________ Note

1,2 Vanità delle vanità: è una forma di superlativo, propria della lingua ebraica. Il termine ebraico corrispondente a “vanità” (hebel) indica il soffio, il vuoto, il nulla; il superlativo si potrebbe tradurre: “assoluta vanità”, “perfetto nulla”. Il termine “vanità” ricorre una trentina di volte in questo libro.

1,12-6,12 Il contenuto di questa prima ampia sezione prende in esame tutto ciò che si fa sotto il cielo (1,13). Nelle vesti del re Salomone, Qoèlet coglie i limiti di quanto la tradizione ha sempre considerato fonte della felicità dell’uomo.

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Approfondimenti

vv. 1-2. Il primo versetto sembra essere un titolo posticcio, applicato da uno scriba posteriore forse per catalogare l'opera tra gli scritti sacri. La formula «Parole di...» è molto antica; la si trova, per esempio, in Am 1,1; Ger 1,1; Pr 30,1; 31,1; Ne 1,1. Il v. 2 invece è con buona probabilità il titolo originale del libro, opera di Qoelet stesso. Infatti il versetto ha un ritmo chiaramente poetico, ed è quasi identico a 12,8 che conclude il libro (12,9-14 costituiscono un epilogo composto da altra mano); abbiamo cosi tra 1,2 e 12,8 una grande inclusione poetica che mette in evidenza il tema dell'opera («Vanità delle vanità», o, più esattamente, «completa assurdità» e contiene pure la firma dell'autore («dice Qoelet»).

«completa assurdità» L'espressione emblematica di Qoelet «vanità delle vanità» è talmente entrata nel nostro modo di parlare, che ci risulta difficile proporre e accogliere una traduzione più fedele all'originale ebraico. La parola hebel (che ricorre 38 volte in Qo e più o meno altrettante in tutto il resto dell'AT) ha una vasta gamma di significati, tanto che risulta essere piuttosto vaga. Come quasi tutti i termini ebraici, il primo senso è concreto: «alito», «vapore», insomma qualcosa che ha una consistenza minima, effimera. Il Targum del Salmo 90, al v. 9 parla di «vapore di fiato nell'inverno». E questo carattere di apparenza-inconsistenza che ha portato alla traduzione latina che ci è familiare, vanitas vanitatum, quasi ad affermare l'inganno e il non-senso, l'illusione e la delusione di ogni realtà. Poiché le nostre lingue non hanno parole che possano riflettere insieme la concretezza vaporosa e l'astratto non-senso dell'originale ebraico, siamo obbligati a operare una scelta, e tale scelta cade sull'accezione di «assurdità», precisamente in quanto implica l'incapacità della ragione umana di cogliere il senso di ciò che accade, il nesso di causalità tra i fenomeni, la corrispondenza tra la realtà e le aspettative che si intrecciano nel cuore dell'uomo. La frase ebraica habēl habālîm è un superlativo assoluto dello stesso tipo di «Cantico dei Cantici» (Ct 1,1), cioè «il cantico supremo», «malvagità delle malvagità» (Os 10,15), cioè «la più atroce malvagità»; possiamo pertanto rendere l'espressione ebraica con «completa assurdità». Il problema di Qoelet non è la vanitas, l'evanescenza di una vita su cui sempre incombe la morte, perché questo rientra nell'ordine della natura; in questione è piuttosto il “senso” di una vita che è fatica, una fatica di cui la morte evidenzia tutta l'inutilità. È questo “senso” che Qoelet non riesce a trovare, e perciò, tormentato, è costretto ad arrendersi all'assurdità. Tuttavia l'assurdità non si situa per Qoelet a livello della realtà – infatti mai si mette in dubbio la libertà e la sovranità di Dio, garanzia di un senso che noi chiameremmo “ontologico” – ma a livello della comprensione umana, che, limitata per volere del creatore, non riesce a cogliere il disegno che soggiace al fluire degli eventi (cfr. 3,11).

v. 3. La ricerca di Qoelet riguarda ciò che accade «sotto il sole»: si tratta della vita umana e del suo senso. L'essere umano è indicato con il termine ’adam, e dunque si sottolinea l'aspetto effimero, mortale, di quello che è stato tratto dalla terra (’adamah) e deve ritornare alla terra. È dunque propriamente una meditazione sapienziale sul muoversi di tutte le cose e più in particolare dell'uomo, un muoversi che è fatica, una fatica che dovrebbe produrre qualcosa. Ma che cosa produce, in realtà? Qual è il senso di tutto l'affannarsi della natura e dell'uomo? La domanda è retorica, poiché il versetto precedente ha già dato una risposta negativa globale e radicale; ora inizia la dimostrazione.

v. 4. Le generazioni si succedono su una terra che resta sempre uguale malgrado l'affannarsi degli uomini. Se nella tradizione la terra era una terra-madre, ora è una madre indifferente al nascere e al morire dei suoi figli, niente di più di un palcoscenico.

v. 5. Il sole non è più la divinità della giustizia, come nelle antiche religioni mesopotamiche e cananaiche, né tantomeno il dio supremo del faraone Akhenaton: non è che un servo solerte nel suo lavoro monotono.

v. 6. Il moto del vento che gira da sud a nord si incrocia con quello del sole, da est a ovest, e così tutta l'estensione della terra diviene luogo di movimento perenne. Ma c'è qualcosa di più di un moto incrociato: il voltarsi del vento da sud a nord è il primo passo di una danza che inizia a volteggiare fino a diventare vorticosa e affascinante.

v. 7. Tutti i torrenti corrono verso il mare, senza riempirlo mai. Appena vi giungono riprendono la loro corsa instancabile che dall'abisso li riporta per canali sotterranei alle polle sorgive: così pensavano gli antichi, che non conoscevano con precisione il meccanismo dell'evaporazione.

v. 8. Ci sono buone probabilità che il membro iniziale del versetto funga da perno per la parte 1,5-8, giocando sui due significati della radice dbr: nel senso di «cosa» indica gli elementi della natura dei vv. 5-7; nel senso di «parola» apre al mondo dell'uomo cui si accenna nel seguito del v. 8. Si passa così dal macrocosmo che ha la terra per palcoscenico al microcosmo che si recita nell'uomo. Il vento diviene il parlare, un inutile parlare al vento; il sole diventa l'occhio, mai sazio di percorrere una terra sempre uguale; il mare è ora l'orecchio, che sempre riceve ondate di suoni e rumori e non ne ha mai abbastanza.

v. 9. La visuale si allarga dall'uomo al teatro del suo agire, cioè alla storia: un monotono ripetersi di avvenimenti e di imprese. Nel mondo umano («sotto il sole») è impossibile qualunque novità. Se una qualche novità poteva lasciare aperta la possibilità di un “profitto” per il vivere dell'uomo, basta uno sguardo retrospettivo per spazzar via anche questa possibilità.

v. 10. Qoelet si contrappone provocatoriamente alla tradizione profetica che annunciava una novità, una novità preparata da Dio (cfr. Is 43,19; Ger 31,22); l'esperienza non trova nessuna novità «sotto il sole», e sopra il sole, cioè nel mondo di Dio, non è dato all'uomo di spingere lo sguardo.

v. 11. Ritorna il succedersi delle generazioni, come al v. 4. L'indifferenza della terra al passare degli uomini diviene qui l'oblio della storia. Vedremo più avanti (2,16) che la solennità austera di questo preludio maschera in realtà il dramma lancinante dell'uomo davanti alla morte, quando prende coscienza che non resterà proprio nulla di lui, neppure il ricordo.

vv. 12-13. Notiamo che all'espressione del TM «applicare il cuore a ricercare» l'AT ha sempre applicato l'oggetto «Dio», «JHWH», «legge», «comandamenti» (Dt 4,29; Ger 29,13; Sal 69,33; 119,2; Esd 7,10; 1Cr 22,19; 2Cr 12,14; 15,12; 19,3; 22,9; 30,19; 31,21). Qoelet cambia l'oggetto di questa ricerca che lo coinvolge totalmente (il cuore è il luogo e il simbolo dell'interiorità, soprattutto in quanto intelligenza e volontà). Non è più JHwH, il Dio rivelatosi a Israele, che Qoelet cerca, ma «ciò che si fa sotto il cielo». Dio viene invece citato come il responsabile della fatica e del dolore umano, poiché l'uomo non può rinunciare a cercare un senso al suo agire, anche se tale ricerca, radicata nella condizione umana e nella volontà creatrice divina, è fallimentare quanto l'agire stesso.

v. 14. Il parallelismo tra il v. 13 e il v. 14 lascia ambiguo il referente di «un'occupazione penosa»: può essere tanto il conoscere quanto il fare, e d'altra parte nel mondo semitico lo scopo della sapienza e sempre essenzialmente pratico.

v. 15. La struttura simmetrica e il ritmo identico dei due stichi fanno pensare a un proverbio che ha la funzione di amplificare e spiegare il fallimento del fare/conoscere ribadendo, in posizione finale, l'impotenza umana («non si può»). Il versetto diventa più esplicito se si considera la somiglianza di 1,15 con 7,13, «Osserva l'opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo?», dove i soggetti sono Dio, che fa qualcosa curvo, e l'uomo, che non lo può raddrizzare.

vv. 16-18. La parte 1, 16-18 ruota intorno al v. 17, che oppone la coppia sapienza-scienza alla coppia stoltezza-follia; abbiamo così un binomio di totalità (si citano gli estremi per riferirsi a tutta la gamma compresa tra essi) che sottolinea la massima estensione dell'impegno conoscitivo. Dal parallelismo tra il v. 16 e il v. 18 si ricava che quanto più sapere si accumula, tanto più se ne vede il limite e l'illusorietà. È nell'eccesso che si manifesta l'assurdità latente di ogni realtà umana, poiché l'uomo è abituato a motivare l'inadeguatezza di ciò che vive con la brevità o la pochezza delle opportunità; si illude che, se ne avesse di più (non importa di che cosa), allora la sua sarebbe vita vera e piena. Bisogna sperimentare l'eccesso per capire che questo non è vero. Notiamo che in tutti gli altri giudizi della pericope ricorre il termine hebel, o, meglio, «vanità», «assurdità», mentre qui si trova solamente l'espressione più rara «inseguire il vento», cioè «un tormento inutile»: di tutto si può affermare l'assurdità, tranne della saggezza, poiché essa è lo strumento conoscitivo, e come tale non può smentire se stesso; se ne può tuttavia dichiarare l'assillo, l'angoscia, come sarà confermato da 3,11: comprendere è per l'uomo un'esigenza tanto irrinunciabile quanto fallimentare, a motivo della sua strutturale limitatezza di creatura.

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Insegnamenti di Lemuèl 1Parole di Lemuèl, re di Massa, che apprese da sua madre. 2Che mai, figlio mio! Che mai, figlio del mio grembo! Che mai, figlio dei miei voti! 3Non concedere alle donne il tuo vigore, né i tuoi fianchi a quelle che corrompono i re. 4Non conviene ai re, Lemuèl, non conviene ai re bere il vino, né ai prìncipi desiderare bevande inebrianti, 5per paura che, bevendo, dimentichino ciò che hanno decretato e tradiscano il diritto di tutti gli infelici. 6Date bevande inebrianti a chi si sente venir meno e il vino a chi ha l'amarezza nel cuore: 7beva e dimentichi la sua povertà e non si ricordi più delle sue pene. 8Apri la bocca in favore del muto, in difesa di tutti gli sventurati. 9Apri la bocca e giudica con equità, rendi giustizia all'infelice e al povero.

ELOGIO DELLA DONNA VIRTUOSA (31,10-31)

È la felicità del marito Alef 10Una donna forte chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore. Bet 11In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Ghimel 12Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita.

È intraprendente e laboriosa Dalet 13Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani. He 14È simile alle navi di un mercante, fa venire da lontano le provviste. Vau 15Si alza quando è ancora notte, distribuisce il cibo alla sua famiglia e dà ordini alle sue domestiche. Zain 16Pensa a un campo e lo acquista e con il frutto delle sue mani pianta una vigna. Het 17Si cinge forte i fianchi e rafforza le sue braccia. Tet 18È soddisfatta, perché i suoi affari vanno bene; neppure di notte si spegne la sua lampada. Iod 19Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. Caf 20Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero. Lamed 21Non teme la neve per la sua famiglia, perché tutti i suoi familiari hanno doppio vestito. Mem 22Si è procurata delle coperte, di lino e di porpora sono le sue vesti. Nun 23Suo marito è stimato alle porte della città, quando siede in giudizio con gli anziani del luogo. Samec 24Confeziona tuniche e le vende e fornisce cinture al mercante. Ain 25Forza e decoro sono il suo vestito e fiduciosa va incontro all'avvenire. Pe 26Apre la bocca con saggezza e la sua lingua ha solo insegnamenti di bontà. Sade 27Sorveglia l'andamento della sua casa e non mangia il pane della pigrizia.

È lodata dai figli Kof 28Sorgono i suoi figli e ne esaltano le doti, suo marito ne tesse l'elogio: Res 29“Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti, ma tu le hai superate tutte!“. Sin 30Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare. Tau 31Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città.

_________________ Note

31,1-9 Lemuèl: questo sapiente che ora entra in scena, egli pure sconosciuto come Agur, probabilmente era il capo autorevole di un clan. L’insegnamento che trasmette è quello che ha ricevuto dalla madre, mentre nei capitoli precedenti, come in tutta la tradizione sapienziale, era il padre ad avere la prerogativa dell’insegnamento.

31,10-31 Il ritratto della donna ideale, come era vista nell’antica società patriarcale, suggella il libro. La forma della composizione è quella “acrostica”, ossia del poemetto alfabetico: ciascuna delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, nella loro successione, apre un versetto. Il discepolo, ora che ha terminato la propria formazione alla scuola della sapienza e si prepara alla vita, cerca di scoprire e trovare la sua donna ideale.

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Approfondimenti

vv. 1-9. Una tipica istruzione rivolta al re (sull'esempio di quelle note dall'Egitto e dalla Mesopotamia). Il fatto insolito è che a impartire tale istruzione sia una donna, la madre del re. Il TM chiama Lemuel «re di Massa» e ciò induce a ritenere che ci troviamo di fronte a un testo sapienziale non israelitico (forse edomitico) che i saggi hanno accolto. Due pericoli vede in agguato la madre per il figlio re: le donne, che come nel caso di Salomone (cfr. 1Re 11,14; Sir 47,19-20), possono determinare la sua politica, se lascia campo agli intrighi covati nell'harem; il vino, che non consente al re di assolvere ai suoi doveri, in particolare quello di amministrare la giustizia.

vv. 10-31. Si tratta di un poema alfabetico, in cui ogni versetto inizia con una lettera diversa e che perciò si compone di 22 versetti, quante sono appunto le lettere dell'alfabeto ebraico (per questa forma letteraria cfr. Sal 119; Lam 1; Sir 51,13-20). La struttura è già formalmente espressa dall'acrostico, ma ciò potrebbe dare un'impressione di artificiosità. Un'osservazione più attenta permette di mettere in rilievo ulteriori aspetti formali che illustrano il movimento del testo. Anzitutto si può rilevare che i due versetti conclusivi (vv. 30-31) non hanno la funzione descrittiva dei precedenti e perciò rappresentano una coda generalizzante. Il corpo del poema è dunque costituito dai vv. 10-29 in cui possiamo evincere indizi di un procedimento di inclusione tra i vv. 10-11 e i vv. 28-29, nella ripresa del vocaboli ḥayil (tradotto dapprima con «forte», v. 10, e poi con «cose eccellenti», v. 29) e ba‘ᵉlāh («suo marito»). Al centro del poema è riconoscibile nei vv. 19-20 una disposizione chiastica, sulla base dei vocaboli yādêāh šillᵉḥàh («stende la sua mano», vv. 19a.20b) e kapêâh/kapāh («dita... mani», vv. 19b.20a) e questa piccola unità funge da perno a tutto il carme. Ne risulta perciò la seguente divisione: a) Unità con nove versetti (vv. 10-18). b) Chiasmo (vv. 19-20). c) Unità con nove versetti (vv. 21-29). d) Conclusione (vv. 30-31). Tra le unità a) e c) troviamo inoltre numerose corrispondenze tematiche: l'incomparabilità della donna (vv. 10.29), il vantaggio per suo marito (vv. 11.23), le sue qualità morali (vv. 12.26), la sua abilità nei lavori manuali (v. 13.22.24), in quelli domestici (vv. 15.27) e nel commercio (vv. 16.24). Degna di nota è infine la ricorrenza degli stessi vocaboli in queste due sezioni. La breve sezione centrale mette in rilievo due qualità essenziali della donna: la sua laboriosità e la sua generosità verso i poveri e queste si collocano entrambe a livello del «fare». Inoltre il poema si concentra quasi del tutto su ciò che fa la donna: il verbo “fare” e il sostantivo “azione” ricorrono nei vv. 13.24.29.31. Il poeta non canta la bellezza della donna, ma loda le sue mani (vv. 19.20.31), il palmo (vv. 13.16.19.20), le braccia (v. 17). La sua attività è instancabile: fila (v. 19) e vende ciò che ha filato (v. 24), acquista provviste (v. 14.16) e pianta vigneti (v. 16), si alza presto (v. 15) e si corica tardi (v. 18). Perché il libro termina con questo canto di lode alla donna eccellente? Si deve osservare in particolare un dato che immediatamente risalta: il rilievo dato al femminile in Pr 1-9 e in tutto il c. 31. E ciò induce a ritenere che questi testi non siano stati posti casualmente all'inizio e alla fine del libro. Osserviamo i collegamenti stilistici e tematici tra le due parti:

1) L'insegnamento della madre (Pr 1,8) ricompare tematicamente in 31,1-9, presentato appunto come istruzione della madre di Lemuel, e pure in 31, 26, dove si parla della saggezza della donna.

2) La donna perfetta è reputata in 31,10 «ben superiore alle perle», come la sapienza in 3,15 e 8,11.

3) A colui che «trova» la donna perfetta (31,11) o la sapienza (3,13; 8,17) non mancherà il profitto (31,11; 3,14; 8,21).

4) Anche un sentimento e un legame profondi nei confronti di queste figure femminili trovano espressione nei testi: alla sapienza ci si stringe (3,18), la si stima e la si abbraccia (4,8) e a lei è diretto l'amore (4,6; 8,17.21); così è della donna: di essa ci si invaghisce (5,19) e in lei si confida (31,11).

5) Come la sapienza invita le persone alla sicurezza, alla felicità e al benessere della sua casa (8,34; 9,1-6), anche l'attività della donna perfetta assicura non solo il benessere e la pace della sua famiglia (31,21), ma estende tale abbondanza anche al povero e al bisognoso (31,20).

6) Come la sapienza proclama il suo messaggio alle porte della città (1,21; 8,3), così le opere della donna perfetta la lodano in quell'ambito (31,31).

Vi è dunque una serie consistente di indizi che provano come le figure femminili di Pr 1-9 e 31 siano il frutto di una intenzionale opera redazionale del libro, per creare una specie di cornice attorno alla collezione dei detti. Aver attorniato le collezioni di Pr con i poemi sulla sapienza personificata e sulla donna di valore attua un riorientamento delle stesse: la loro funzione non è più di essere un manuale scolastico per studenti, perché sono trasformate in un testo che appartiene a una letteratura religiosa. Perché questo espediente letterario della personificazione? Si possono individuare alcune funzioni che essa assolve: anzitutto attira l'attenzione sull'unità del soggetto trattato, serve cioè a unificare i differenti tipi di sapienza presenti nel testo; permette di risalire dalla molteplicità delle esperienze umane al loro significato universale (dal singolo al tipico); unisce a un soggetto puramente letterario un attributo metaforico (in questo caso la donna). Per l'editore finale del libro il referente della personificazione è dunque la collezione dei Proverbi. Non va infine dimenticato che la sapienza personificata non svolge solo una funzione letteraria: come mostrano soprattutto i poemi sulla sapienza, essa avanza anche una pretesa religiosa, poiché afferma che la sua opera è rafforzata e autenticata da JHWH. In tal senso in essa si può altresì riconoscere un simbolo religioso autorevole, la cui funzione è di mediare tra l'esperienza vissuta e una visione religiosa particolare del mondo. Nella Giudea postesilica, in un contesto culturale frammentato, in cui ormai la voce dei grandi profeti non risuona più, la voce della sapienza si propone ora come quella che avvicina Dio agli uomini e che permette loro di integrarsi armoniosamente nell'ordine che Dio ha instaurato nel creato. Alle molteplici sfide che l'Israele postesilico ha di fronte (i culti pagani e le loro filosofie, così come il rischio dell'assimilazione etnica), i saggi oppongono un sapere che viene dall'alto e che attira a sé gli uomini per il suo fascino: la priorità non va quindi all'esecuzione del comandamento, ma all'assunzione responsabile di un progetto esistenziale, che nasce dall'ascolto di una parola che si impone per la sua capacità di rendere ragione dell'esperienza umana. Il discepolo del saggio non è un puro esecutore, ma uno che è invitato a diventare come il maestro, capace cioè di rendere ragione dell'esperienza. Perciò la sapienza non è soltanto la regina, ma l'amante, la compagna della vita, colei che si sceglie per amore, perché accanto a lei si può godere della benedizione che Dio riversa sull'umanità.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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INSEGNAMENTI DI ALTRI SAGGI (30,1-31,9)

Insegnamenti di Agur 1Detti di Agur, figlio di Iakè, da Massa. Dice quest'uomo: Sono stanco, o Dio, sono stanco, o Dio, e vengo meno, 2perché io sono il più stupido degli uomini e non ho intelligenza umana; 3non ho imparato la sapienza e la scienza del Santo non l'ho conosciuta. 4Chi è salito al cielo e ne è sceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso le acque nel suo mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra? Come si chiama? Qual è il nome di suo figlio, se lo sai? 5Ogni parola di Dio è purificata nel fuoco; egli è scudo per chi in lui si rifugia. 6Non aggiungere nulla alle sue parole, perché non ti riprenda e tu sia trovato bugiardo. 7Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia: 8tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il mio pezzo di pane, 9perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: “Chi è il Signore?”, oppure, ridotto all'indigenza, non rubi e abusi del nome del mio Dio. 10Non calunniare lo schiavo presso il padrone, perché egli non ti maledica e tu non venga punito. 11C'è gente che maledice suo padre e non benedice sua madre. 12C'è gente che si crede pura, ma non si è lavata della sua lordura. 13C'è gente dagli occhi così alteri e dalle ciglia così altezzose! 14C'è gente i cui denti sono spade e le cui mascelle sono coltelli, per divorare gli umili eliminandoli dalla terra e togliere i poveri di mezzo agli uomini.

Proverbi numerici 15La sanguisuga ha due figlie: “Dammi! Dammi!”. Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai: “Basta!”: 16il regno dei morti, il grembo sterile, la terra mai sazia d'acqua e il fuoco che mai dice: “Basta!”. 17L'occhio che guarda con scherno il padre e si rifiuta di ubbidire alla madre sia cavato dai corvi della valle e divorato dagli aquilotti. 18Tre cose sono troppo ardue per me, anzi quattro, che non comprendo affatto: 19la via dell'aquila nel cielo, la via del serpente sulla roccia, la via della nave in alto mare, la via dell'uomo in una giovane donna. 20Così si comporta la donna adultera: mangia e si pulisce la bocca e dice: “Non ho fatto nulla di male!”. 21Per tre cose freme la terra, anzi quattro non può sopportare: 22uno schiavo che diventa re e uno stolto che si sazia di pane, 23una donna già trascurata da tutti che trova marito e una schiava che prende il posto della padrona. 24Quattro esseri sono fra le cose più piccole della terra, eppure sono più saggi dei saggi: 25le formiche sono un popolo senza forza, eppure si provvedono il cibo durante l'estate; 26gli iràci sono un popolo imbelle, eppure hanno la tana sulle rupi; 27le cavallette non hanno un re, eppure marciano tutte ben schierate; 28la lucertola si può prendere con le mani, eppure penetra anche nei palazzi dei re. 29Tre cose hanno un portamento magnifico, anzi quattro hanno un'andatura maestosa: 30il leone, il più forte degli animali, che non indietreggia davanti a nessuno; 31il gallo pettoruto e il caprone e un re alla testa del suo popolo. 32Se stoltamente ti sei esaltato e se poi hai riflettuto, mettiti una mano sulla bocca, 33poiché, sbattendo il latte ne esce la panna, premendo il naso ne esce il sangue e spremendo la collera ne esce la lite.

_________________ Note

30,1 INSEGNAMENTI DI ALTRI SAGGI (30,1-31,9) Nei capitoli 30-31 confluisce altro materiale proveniente dal patrimonio della letteratura sapienziale dei popoli del Vicino Oriente antico, come sembrano indicare i nomi dei personaggi sulle cui labbra sono poste queste massime (Agur, figlio di Iakè, da Massa e Lemuèl, re di Massa, vedi 30,1 e 31,1).

30,1-14 Insegnamenti di Agur – Questa breve serie di massime ricorda l’insegnamento dei saggi racchiuso in 22,17-24,34. Agur: è personaggio sconosciuto; Massa è il nome di una tribù dell’Arabia settentrionale (vedi Gen 25,14): gli Arabi erano rinomati per la loro sapienza. Ma la versione è incerta. Alcuni intendono la parola ebraica Massa non come nome di tribù, ma nel senso di “oracolo” (o anche “carico”, “peso”). I LXX collocano i vv. 1-30 all’interno del c. 24: vv. 1-14 dopo 24,22; vv. 15-33 dopo 24,34.

30,15-33 Proverbi numerici – Alcune massime ritmate sul gioco dei numeri erano già presenti in 6,16-19. Si tratta di un espediente letterario, con il quale si cercava di favorire la memoria. Era già conosciuto dalle antiche popolazioni cananee, come documenta l’opera Storia e massime di Achikàr (risalente al V sec.).

30,20 mangia e si pulisce la bocca: la frase può essere compresa nel significato di darsi al piacere.

30,26 iràci: piccoli mammiferi delle dimensioni di un coniglio.

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Approfondimenti

vv. 1-14. Non vi è accordo tra gli interpreti sulla delimitazione esatta dei detti di Agur (v. 4? v. 6? o v. 14?). Nei LXX questo capitolo è spezzato, per cui 30, 1-14 segue 22, 17-24, 22 e 1 vv. 15-33 seguono 24, 23-24. Si è generalmente d'accordo sulla necessità di emendare il TM del v. 1b (cfr. nota al testo).

vv. 1-6. Nel v. 2 Agur afferma di essere piuttosto un animale che un uomo e che egli non possiede né intelligenza né perspicacia e il v. 3 mostra che con ciò egli intende dire che non possiede la conoscenza di Dio. Non va escluso un deliberato intento ironico in queste affermazioni, quasi a contrastare l'atteggiamento di altri che presumono invece con le loro speculazioni di essere in grado di far luce sui misteri divini (cfr. v. 4). Contro coloro che parlano di Dio con tale sicumera da sembrare di essergli familiari e di non avere alcun dubbio al riguardo, Agur afferma che l'uomo da solo non è in grado di conoscere Dio. Affermazioni dello stesso tenore ricorrono altrove nella letteratura sapienziale (cfr. Gb 11,7-9; 38-40; Sir 18,3-6; Bar 3,9-4,4). Il saggio tuttavia non si ferma qui: se la ricerca umana da sola fallisce, non per questo l'essere umano deve dimenticare che Dio stesso ha parlato e che dunque attraverso questa parola egli ha accesso a Dio: citando un salmo (v. 5, cfr. Sal 18,31) e riprendendo un'ingiunzione presente nei testi legislativi (cfr. Dt 4,2), Agur mostra che vi è una conoscenza di Dio concessa all'uomo, che tuttavia è ben diversa da quella che ritengono di possedere coloro che il saggio contesta (nello stesso senso si veda Gb 28,20-28).

vv. 7-9. La preghiera cui si volge ora il saggio collega la condizione sociale dell'uomo al suo modo di parlare di Dio: il contesto mostra che con «falsità e menzogna» non si ha di mira soltanto il rapporto interumano, ma anche il parlare di Dio in modo corretto. Il saggio non ha pretese di arricchirsi, perché è consapevole che la ricchezza può rendere l'uomo arrogante e indurlo a credersi autosufficiente, disprezzando perciò il potere di Dio. D'altro canto l'indigenza potrebbe indurre l'uomo a dubitare della provvidenza divina e della sua giustizia.

vv. 11-14. Una serie di detti in forma constatativa: non si tratta però soltanto di un quadretto descrittivo, ma con molta probabilità di un'accusa che il saggio lancia ai suoi contemporanei.

vv. 15-33. Sui detti numerici, cfr. il commento a 6,16-19.15-16. Si osservi in tutta questa pericope l'efficace osservazione del mondo fisico e animale, da cui il saggio sa trarre orientamenti per la condotta umana. Dopo un detto che intende illustrare plasticamente la bramosia e la cupidigia (v. 15a), si introduce il primo detto numerico, che tuttavia non è ben riuscito dal punto di vista formale, dato che è appesantito da inutili spiegazioni. Significativo è l'accostamento tra grembo sterile e terra: la terra è come una madre e l'acqua è l'elemento che la feconda.

vv. 18-19. Una quaterna molto efficace, anche sotto il profilo ritmico e sonoro, dove l'accento cade sul quarto elemento, che non è una pura osservazione di un fatto naturale, dato che il «sentiero» (derek) in questo caso non è più soltanto un fenomeno fisico, ma riguarda la condotta, il comportamento (un ulteriore significato del vocabolo ebraico). Il volo di un'aquila, il guizzo del serpente sulla roccia, il passaggio di una nave sul mare sono meravigliosi e misteriosi: sono movimenti attraenti e allo stesso tempo sorprendenti. Il quarto elemento che viene evocato si collega ai precedenti proprio per queste caratteristiche: si tratta dell'irresistibile e inesplicabile attrazione naturale che porta l'uomo a unirsi alla donna. La riflessione verte dunque sul mistero della sessualità umana.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Vale la pena essere saggi 1Chi disprezza i rimproveri con ostinazione sarà rovinato all'improvviso, senza rimedio. 2Quando dominano i giusti, il popolo gioisce, quando governano i malvagi, il popolo geme. 3Chi ama la sapienza allieta il padre, ma chi frequenta prostitute dissipa il patrimonio. 4Il re con la giustizia rende prospero il paese, quello che aggrava le imposte lo rovina. 5L'uomo che adula il suo prossimo gli tende una rete davanti ai piedi. 6Con la sua trasgressione l'iniquo si prepara un trabocchetto, mentre il giusto giubila e si rallegra. 7Il giusto riconosce il diritto dei miseri, il malvagio invece non intende ragione. 8Gli uomini senza scrupoli sovvertono una città, mentre i saggi placano la collera. 9Se un saggio entra in causa con uno stolto, si agiti o rida, non troverà riposo. 10Gli uomini sanguinari odiano l'onesto, mentre i giusti hanno cura di lui. 11Lo stolto dà sfogo a tutto il suo malanimo, il saggio alla fine lo sa calmare. 12Se un principe dà ascolto alle menzogne, tutti i suoi ministri sono malvagi. 13Il povero e l'oppressore s'incontrano in questo: è il Signore che illumina gli occhi di tutti e due. 14Se un re giudica i poveri con equità, il suo trono è saldo per sempre. 15La verga e la correzione danno sapienza, ma il giovane lasciato a se stesso disonora sua madre. 16Quando dominano i malvagi, dominano anche i delitti, ma i giusti ne vedranno la rovina. 17Correggi tuo figlio e ti darà riposo e ti procurerà consolazioni. 18Quando non c'è visione profetica, il popolo è sfrenato; beato invece chi osserva la legge. 19Lo schiavo non si corregge a parole: comprende, infatti, ma non obbedisce. 20Hai visto un uomo precipitoso nel parlare? C'è più da sperare da uno stolto che da lui. 21Chi accarezza lo schiavo fin dall'infanzia, alla fine se lo vedrà contro. 22Un uomo collerico suscita litigi e l'iracondo commette molte colpe. 23L'orgoglio dell'uomo ne provoca l'umiliazione, l'umile di cuore ottiene onori. 24Chi spartisce con un ladro odia se stesso: egli sente la maledizione, ma non rivela nulla. 25Chi teme gli uomini si mette in una trappola, ma chi confida nel Signore è al sicuro. 26Molti ricercano il favore di chi comanda, ma è il Signore che giudica ognuno. 27L'iniquo è un orrore per i giusti e gli uomini retti sono un orrore per i malvagi.

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Approfondimenti

vv. 2.4.16. Il benessere di un regno è garantito dalla applicazione della giustizia da parte di chi ne decide le sorti: un re malvagio si preoccupa soltanto del suo tornaconto e non della prosperità del suo popolo. Tutta la vicenda storica narrata nei Libri dei Re ne è un'illustrazione lampante.

vv. 13-14. I due versetti sono collegati dal riferimento ai poveri presente in entrambi. Il v. 13 è un'osservazione sulla realtà: sia il povero che il suo sfruttatore sono tenuti in vita da Dio e questo impone la domanda sul modo di agire di Dio. Perché il malvagio può sussistere nonostante la sua malvagità? Il versetto non spiega tale situazione, ma afferma soltanto che ogni struttura sociale possiede al suo interno tale polarità tra poveri e ricchi. Il saggio deve tener conto di questo e nello stesso tempo tener presente che la malvagità, anche se non incontra subito la sua punizione, non è affatto mezzo per riuscire nella vita. Per il v. 13, cfr. anche 22,2.

v. 18. I due vocaboli «rivelazione», «legge» non trovano una interpretazione univoca. Il primo (ḥāzôn) è termine tecnico per definire la visione profetica (cfr. Is 29,7; Ez 12,22-24.27), ma anche la rivelazione profetica nel suo complesso (cfr. Ger 14,14; 23,16), mentre il secondo può indicare sia l'istruzione impartita dal saggio (cfr. 28,4.7.9) sia la legge divina rivelata a Mosè. Troviamo forse qui il riflesso di una specifica situazione che il saggio deve fronteggiare: la profezia non è sempre all'opera nel popolo (e ciò vale in modo speciale per l'epoca successiva all'esilio), di conseguenza il saggio deve attenersi alla legge per conformare la sua vita al volere divino.

vv. 25-26. Concludendo, il saggio riassume i suoi insegnamenti indicando al discepolo una strada di libertà. Di fronte ai potenti, il saggio sa che nulla ha da temere, perché la sua garanzia è il Signore; né il successo della vita è garantito dall'adulazione dei potenti, perché chi giudica le azioni degli uomini sta al di sopra anche di costoro: a lui dunque deve essere gradita la condotta di ognuno.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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L’empio e il giusto 1Il malvagio fugge anche se nessuno lo insegue, mentre il giusto è sicuro come un giovane leone. 2Quando un paese è in subbuglio sono molti i suoi capi, ma con un uomo intelligente e saggio l'ordine si mantiene. 3Un povero che opprime i miseri è come pioggia torrenziale che non porta pane. 4Quelli che trasgrediscono la legge lodano il malvagio, quelli che la osservano gli si mettono contro. 5I malvagi non comprendono la giustizia, ma quelli che cercano il Signore comprendono tutto. 6Meglio un povero dalla condotta integra che uno dai costumi perversi, anche se ricco.

Massime varie 7Osserva la legge il figlio intelligente, chi frequenta gli ingordi disonora suo padre. 8Chi accresce il patrimonio con l'usura e l'interesse, lo accumula per chi ha pietà dei miseri. 9Chi allontana l'orecchio per non ascoltare la legge, persino la sua preghiera è spregevole. 10Chi fa deviare i giusti per la via del male, nel suo tranello lui stesso cadrà, mentre gli integri erediteranno il bene. 11Il ricco si crede saggio, ma il povero intelligente lo valuta per quello che è. 12Grande è l'onore quando esultano i giusti, ma se prevalgono gli empi ognuno si dilegua. 13Chi nasconde le proprie colpe non avrà successo, chi le confessa e le abbandona troverà misericordia. 14Beato l'uomo che sempre teme, ma chi indurisce il cuore cadrà nel male. 15Leone ruggente e orso affamato, tale è un cattivo governatore su un popolo povero. 16Un principe privo di senno moltiplica le angherie, ma chi odia il lucro prolungherà i suoi giorni. 17Un uomo che è perseguito per omicidio fuggirà fino alla tomba: non lo si trattenga! **18vChi procede con rettitudine sarà salvato, chi va per vie tortuose cadrà all'improvviso. 19Chi coltiva la sua terra si sazia di pane, chi insegue chimere si sazia di miseria. 20L'uomo leale sarà colmo di benedizioni, chi ha fretta di arricchirsi non sarà esente da colpa. 21Non è bene essere parziali, ma per un tozzo di pane si può prevaricare. 22L'avaro è impaziente di arricchire, ma non pensa che gli piomberà addosso la miseria. 23Chi corregge un altro troverà alla fine più favore di chi ha una lingua adulatrice. 24Chi deruba il padre o la madre e dice: “Non è peccato”, è simile a un assassino. 25L'avido suscita litigi, ma chi confida nel Signore sarà arricchito. 26Chi confida nel suo senno è uno stolto, chi cammina nella saggezza sarà salvato. 27Per chi dona al povero non c'è indigenza, ma chi chiude gli occhi avrà grandi maledizioni. 28Se prevalgono i malvagi, tutti si nascondono; se essi periscono, dominano i giusti.

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Approfondimenti

Pr 28,1-28. Il capitolo è quasi totalmente contrassegnato dalla preoccupazione per la sfera etica. L'uso ricorrente del participio («Colui che...» BC: «Chi...») permette ulteriormente di porre in rilievo la condotta del giusto e quella del malvagio.

vv. 4.7.9. La menzione così frequente della «legge» (torah) è insolita nel libro e in genere si ritiene che con tale vocabolo ci si riferisca all'«istruzione», cioè alle sentenze dei saggi. In questi versetti non va tuttavia ignorato il chiaro tono religioso (soprattutto i v. 9, ma cfr. anche il v. 5), e perciò si può presumere che a fondamento della «legge» qui accennata stia la volontà di Dio.

v. 5. La vera sapienza scaturisce dalla relazione con Dio (cfr. Pr 1,7), ma la sapienza che viene dall'alto rende il saggio capace di attuare la giustizia e di armonizzare la propria vita con i precetti divini (cfr. Pr 2,7-9; Gb 28,28). Tale collegamento tra conoscenza/sapienza (sia essa intellettuale o etica) e ricerca di Dio è originario nel pensiero sapienziale e non solo di quello israelitico.

v. 8. Contro la pratica dell'usura (cfr. Lv 25,35-37) il detto ribadisce che l'ingiustizia non ripaga.

v. 14. Collegandolo al versetto precedente, si potrebbe qui cogliere un riferimento al timore di Dio. Il detto sembra però contrastare l'arroganza di coloro che ritengono di non sbagliare mai e che non hanno mai dubbi riguardo alle proprie scelte: l'uomo che teme non è dunque il pavido, ma colui che conosce i limiti della sua conoscenza e delle sue possibilità, perciò si lascia consigliare e agisce sempre con prudenza e riflessione, per evitare il peccato (verso Dio) e non mancare mai di giustizia verso il prossimo.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Vanità, ira e gelosia 1Non vantarti del domani, perché non sai neppure che cosa genera l'oggi. 2Ti lodi un estraneo e non la tua bocca, uno sconosciuto e non le tue labbra. 3La pietra è greve, la sabbia è pesante, ma più d'entrambi la collera dello stolto. 4L'ira è crudele, il furore è impetuoso, ma alla gelosia chi può resistere?

L’amicizia e la cura delle cose 5Meglio un rimprovero aperto che un amore nascosto. 6Leali sono le ferite di un amico, ingannevoli i baci di un nemico. 7Lo stomaco sazio disprezza il miele, per lo stomaco affamato anche l'amaro è dolce. 8Come un uccello che vola lontano dal nido, così è l'uomo che va errando lontano da casa. 9Profumo e incenso allietano il cuore e il consiglio dell'amico addolcisce l'animo. 10Non abbandonare il tuo amico né quello di tuo padre, non entrare nella casa di tuo fratello nel giorno della tua disgrazia. Meglio un amico vicino che un fratello lontano. 11Sii saggio, figlio mio, e allieterai il mio cuore; così avrò di che rispondere a colui che mi insulta. 12L'accorto vede il pericolo e si nasconde, gli inesperti vanno avanti e la pagano. 13Prendigli il vestito perché si è fatto garante per un estraneo, e tienilo in pegno per uno sconosciuto. 14Chi benedice il prossimo di buon mattino ad alta voce, sarà considerato come se lo maledicesse. 15Lo stillicidio incessante in tempo di pioggia e una moglie litigiosa si rassomigliano: 16chi vuole trattenerla, trattiene il vento e raccoglie l'olio con la mano destra. 17Il ferro si aguzza con il ferro e l'uomo aguzza l'ingegno del suo compagno. 18Chi custodisce un fico ne mangia i frutti, chi ha cura del suo padrone ne riceverà onori. 19Come nell'acqua un volto riflette un volto, così il cuore dell'uomo si riflette nell'altro. 20Come il regno dei morti e l'abisso non si saziano mai, così non si saziano mai gli occhi dell'uomo. 21Come il crogiuolo è per l'argento e il forno è per l'oro, così l'uomo rispetto alla bocca di chi lo loda. 22Anche se tu pestassi lo stolto nel mortaio tra i grani con il pestello, non si allontanerebbe da lui la sua stoltezza. 23Preòccupati dello stato del tuo gregge, abbi cura delle tue mandrie, 24perché le ricchezze non sono eterne e una corona non dura per sempre. 25Tolto il fieno, ricresce l'erba nuova e si raccolgono i foraggi sui monti; 26gli agnelli ti danno le vesti e i capretti il prezzo per comprare un campo, 27le capre ti danno latte abbondante per nutrire te, per nutrire la tua famiglia e mantenere le tue domestiche.

_________________ Note

27,14 Chi benedice il prossimo…: un richiamo a non esagerare nelle lodi.

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Approfondimenti

vv. 1-2. La radice hll, «lodare, vantare» collega i due versetti. Confidare su meriti o realizzazioni future è per i saggi assurdo: l'uomo non può in alcun modo disporre del domani, perciò non deve mai vantarsi anzitempo. La lode vera è quella che proviene alla persona da un estraneo e ciò significa non solo che la persona non è un buon giudice di se stessa, ma anche che bisogna essere cauti rispetto alle lodi di chi ci è familiare, dato che potrebbero essere dettate da servilismo (se rivolte a un'autorità) o mosse da secondi fini.

v. 7. Anche la pietanza più appetitosa è rifiutata da colui che ormai è sazio, ma chi è affamato può ritenere prelibato anche il peggiore dei cibi.

v. 13. Il versetto riprende 20,16.

vv. 15-16. La donna litigiosa è descritta attraverso tre metafore: la sua condotta è fastidiosa e snervante come una pioggerella persistente ed è inoltre incorreggibile, per cui il marito che la tiene con sé è costretto ad affrontare un'impresa pressoché disperata, dato che ella come il vento è indomabile e come l'olio è sempre sfuggente.

v. 19. Le incertezze del testo non consentono un'interpretazione univoca. Se si traduce «come l'acqua (riflette) il volto per il volto, così il cuore dell'uomo a se stesso» il significato è che ognuno conosce se stesso se sa guardare dentro di sé, alla sua coscienza e perciò ai suoi pensieri e alle sue aspirazioni. Se invece la seconda parte si traduce «così il cuore dell'uomo a un altro», si può collegare con il v. 17 e in tal modo il versetto sarebbe da interpretare nel senso che la persona si conosce nella relazione con l'altro: si ha bisogno del prossimo per conoscere se stessi.

vv. 23-27. Un quadretto di vita pastorale che il saggio presenta come stile di vita da seguire: non le ricchezze facili (commercio, usura?) e neppure l'attività agricola (v. 25) consentono di guardare con fiducia al futuro: l'attività tradizionale (la pastorizia) rappresenta invece il provento sicuro e la garanzia per sé e la propria famiglia.

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il ritratto dello stolto 1Come neve d'estate e pioggia alla mietitura, così l'onore non conviene allo stolto. 2Come passero che svolazza, come rondine che volteggia, così una maledizione immotivata non ha effetto. 3La frusta per il cavallo, la cavezza per l'asino e il bastone per la schiena degli stolti. 4Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza, per non divenire anche tu simile a lui. 5Rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza, perché egli non si creda saggio. 6Si taglia i piedi e beve amarezze chi invia messaggi per mezzo di uno stolto. 7Come pendono le gambe da uno zoppo, così una massima sulla bocca dello stolto. 8Come chi lega una pietra alla fionda, così chi attribuisce onori a uno stolto. 9Come ramo spinoso in mano a un ubriaco, così una massima sulla bocca dello stolto. 10È come un arciere che colpisce a caso chi paga lo stolto o stipendia il primo che passa. 11Come il cane torna al suo vomito, così lo stolto ripete le sue stoltezze. 12Hai visto un uomo che è saggio ai suoi occhi? C'è più da sperare da uno stolto che da lui.

Il ritratto del pigro 13Il pigro dice: “C'è una belva per la strada, un leone si aggira per le piazze”. 14La porta gira sui cardini, così il pigro sul suo letto. 15Il pigro immerge la mano nel piatto, ma dura fatica a riportarla alla bocca. 16Il pigro si crede più saggio di sette persone che rispondono con senno.

Il ritratto del denigratore e del bugiardo 17È simile a chi prende un cane per le orecchie un passante che si intromette nella lite di un altro. 18Come un pazzo che scaglia tizzoni e frecce di morte, 19così è colui che inganna il suo prossimo e poi dice: “Ma sì, è stato uno scherzo!”. 20Per mancanza di legna il fuoco si spegne; se non c'è il calunniatore, il litigio si calma. 21Mantice per il carbone e legna per il fuoco, tale è l'attaccabrighe per attizzare le liti. 22Le parole del calunniatore sono come ghiotti bocconi, che scendono fin nell'intimo. 23Come patina d'argento su un coccio di creta sono le labbra lusinghiere con un cuore maligno. 24Chi odia si maschera con le labbra, ma nel suo intimo cova inganni; 25anche se usa espressioni melliflue, non credergli, perché nel cuore egli ha sette obbrobri. 26Chi odia si nasconde con astuzia, ma la sua malizia apparirà pubblicamente. 27Chi scava una fossa vi cadrà dentro e chi rotola una pietra, gli ricadrà addosso. 28Una lingua bugiarda fa molti danni, una bocca adulatrice produce rovina.

_________________ Note

26,6 Si taglia i piedi: cioè arreca un danno gravissimo a se stesso.

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Approfondimenti

vv. 1-28. Possiamo individuare nel capitolo una certa organizzazione per temi: lo stolto (vv. 1-12), il pigro (vv. 13-16), le liti (vv. 17-19), l'uso della lingua (vv. 20-28).

v. 2. La maledizione non è efficace di per se stessa, come un atto magico, ma rappresenta un modo di invocare l'intervento divino sul colpevole, che altrimenti rimarrebbe impunito; di conseguenza una maledizione pronunciata contro un innocente non sortirà alcun effetto, perciò non la si deve temere.

vv. 4-5. I due detti sono apparentemente contraddittori, ma essi esprimono un paradosso: non si intende negare la validità dell'uno affermando l'altro, ma dire che entrambi contengono un aspetto di verità e che la verità completa si realizza accogliendoli entrambi. La risposta è un atto che consegue a un altro e che dipende dalla situazione concreta: in un caso si risponde con prudenza, senza entrare in contraddittorio, per non essere sminuiti, in un altro si ribatte apertamente, per dare una lezione allo stolto.

vv. 20-28. L'accento è di nuovo posto sull'uso negativo del linguaggio: la calunnia, che suscita contese e inimicizie (vv. 20-22), l'adulazione (v. 23), la simulazione (vv. 24-26).

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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ALTRI PROVERBI DI SALOMONE RACCOLTI DAGLI UOMINI DI EZECHIA, RE DI GIUDA (25,1-29,27)

Massime, consigli, raccomandazioni 1Anche questi sono proverbi di Salomone, raccolti dagli uomini di Ezechia, re di Giuda. 2È gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle. 3I cieli per la loro altezza, la terra per la sua profondità e il cuore dei re sono inesplorabili. 4Togli le scorie dall'argento e l'orafo ne farà un bel vaso; 5togli il malvagio dalla presenza del re e il suo trono si stabilirà sulla giustizia. 6Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, 7perché è meglio sentirsi dire: “Sali quassù”, piuttosto che essere umiliato davanti a uno più importante. Ciò che i tuoi occhi hanno visto, 8non esibirlo troppo in fretta in un processo; altrimenti che farai alla fine, quando il tuo prossimo ti svergognerà? 9La tua causa discutila con il tuo vicino, ma non rivelare il segreto altrui, 10perché chi ti ascolta non ti biasimi e il tuo discredito sarebbe irreparabile. 11Come mele d'oro su vassoio d'argento cesellato, è una parola detta a suo tempo. 12Come anello d'oro e collana preziosa è un saggio che ammonisce un orecchio attento. 13Come il fresco di neve al tempo della mietitura è un messaggero fedele per chi lo manda: egli rinfranca l'animo del suo signore. 14Nuvole e vento, ma senza pioggia, tale è l'uomo che si vanta di regali che non fa. 15Con la pazienza il giudice si lascia persuadere, una lingua dolce spezza le ossa. 16Se hai trovato il miele, mangiane quanto ti basta, per non esserne nauseato e poi vomitarlo. 17Metti di rado il piede in casa del tuo vicino, perché, stanco di te, non ti prenda in odio. 18Mazza, spada e freccia acuta è colui che depone il falso contro il suo prossimo. 19Quale dente cariato e quale piede slogato, tale è l'appoggio del perfido nel giorno della sventura. 20Come chi toglie il mantello in un giorno di freddo e come chi versa aceto su una piaga viva, tale è colui che canta canzoni a un cuore afflitto. 21Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere, 22perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà. 23La tramontana porta la pioggia, la lingua maldicente provoca lo sdegno sul volto. 24È meglio abitare su un angolo del tetto, che avere casa in comune con una moglie litigiosa. 25Come acqua fresca per una gola riarsa è una buona notizia da un paese lontano. 26Fontana torbida e sorgente inquinata, tale è il giusto che vacilla di fronte al malvagio. 27Mangiare troppo miele non è bene, né cercare onori eccessivi. 28Una città smantellata, senza mura, tale è chi non sa dominare se stesso.

_________________ Note

25,1-29,27 La quinta raccolta di proverbi, che qui inizia e si protrae fino a 29,27, è abbastanza ampia. Anche questa è attribuita a Salomone, il sovrano saggio per eccellenza. Come è detto in 25,1, si tratta di proverbi e massime fissati nello scritto al tempo del re Ezechia (VIII-VII sec.).

25,1 Ezechia: regnò in Gerusalemme dal 716 al 687 circa, al tempo del profeta Isaia. Gli uomini erano probabilmente gli scribi della corte reale.

25,7 è meglio sentirsi dire: è interessante confrontare questo passo con Lc 14,7-11.

25,22 ammasserai carboni ardenti: è un’immagine che significa “far arrossire dalla vergogna” (vedi Rm 12,20).

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Approfondimenti

vv. 2-7b. I detti sono accomunati dal riferimento al re. A differenza dell'agire di Dio, che l'uomo non può mai totalmente afferrare, un re sarà tanto più stimato e le sue scelte tanto più apprezzate, quanto più esse saranno intelligibili e ponderate con attenzione (v. 2); tuttavia egli deve essere a tal punto acuto e penetrante e flessibile nei suoi pensieri da non essere mai totalmente prevedibile e scontato nelle sue decisioni: ciò innalza il suo prestigio (v. 3). Non basta però al re la destrezza: se vuole davvero consolidare il suo trono egli deve eliminare gli elementi negativi dalla sua corte e dal suo popolo (vv. 4-5). Il saggio si volge poi a consigliare l'atteggiamento da tenere davanti al re: nessuna ambizione e nessuna vanità, ma piuttosto il fedele adempimento dei propri doveri che solo può motivare l'apprezzamento del superiore (vv. 6-7b; cfr. Lc 14,7-11).

vv. 7c-10. Le controversie tra i cittadini si risolvono in tribunale, attraverso un dibattito che si basa sulle testimonianze. Incontriamo qui l'accostamento di due detti (vv. 7c-8 e 9-10) che esprimono talune riserve su un ricorso facile al tribunale per risolvere le questioni con il prossimo: anche se si è testimoni oculari di un fatto, non bisogna agire affrettatamente, perché si può essere sempre smentiti da un osservatore più attento; inoltre è sempre opportuno risolvere in privato talune controversie che potrebbero mettere in cattiva luce una persona, perché in tal caso l'accusatore stesso potrebbe essere poi considerato sleale e inaffidabile dai suoi vicini (un comportamento simile è suggerito in Mt 18, 15).

vv. 21-22. Un consiglio ripreso alla lettera da Paolo (Rm 12, 20).

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Massime di vita pratica 1Non invidiare le persone malvagie, non desiderare di stare con loro, 2poiché il loro cuore trama rovine e le loro labbra non esprimono che malanni. 3Con la sapienza si costruisce una casa e con la prudenza la si rende salda; 4con la scienza si riempiono le sue stanze di tutti i beni preziosi e deliziosi. 5Il saggio cresce in potenza e chi è esperto aumenta di forza. 6Perché con le strategie si fa la guerra e la vittoria dipende dal numero dei consiglieri. 7È troppo alta la sapienza per lo stolto, alla porta della città egli non potrà aprire bocca. 8Chi trama per fare il male si chiama mestatore. 9Il proposito dello stolto è il peccato e lo spavaldo è aborrito da tutti. 10Se te ne stai indolente nel giorno della sventura, ben poca è la tua forza. 11Libera quelli che sono condotti alla morte e salva quelli che sono trascinati al supplizio. 12Se tu dicessi: “Io non lo sapevo”, credi che non l'intenda colui che pesa i cuori? Colui che veglia sulla tua vita lo sa; egli renderà a ciascuno secondo le sue opere. 13Mangia il miele, figlio mio, perché è buono e il favo è dolce al tuo palato. 14Sappi che tale è la sapienza per te; se la trovi, avrai un avvenire e la tua speranza non sarà stroncata. 15Non insidiare, come un malvagio, la dimora del giusto, non distruggere la sua abitazione, 16perché se il giusto cade sette volte, egli si rialza, ma i malvagi soccombono nella sventura. 17Non ti rallegrare per la caduta del tuo nemico e non gioisca il tuo cuore, quando egli soccombe, 18perché il Signore non veda e se ne dispiaccia e allontani da lui la sua collera. 19Non irritarti per i malfattori e non invidiare i malvagi, 20perché non ci sarà avvenire per il cattivo e la lampada dei malvagi si spegnerà. 21Figlio mio, temi il Signore e il re, e con i ribelli non immischiarti, 22perché improvviso sorgerà il loro castigo e la rovina mandata da entrambi chi la conosce?

ALTRI INSEGNAMENTI DEI SAGGI (24,23-34)

Non fare preferenze 23Anche queste sono parole dei saggi. Avere preferenze personali in giudizio non è bene. 24Chi dice al malvagio: “Tu sei innocente”, i popoli lo malediranno, le genti lo detesteranno; 25a chi invece lo punisce tutto andrà bene, su di lui si riverserà la benedizione. 26Dà un bacio sulle labbra chi risponde con parole giuste. 27Cura prima il tuo lavoro di fuori e prepàratelo nel tuo campo, e poi costruisciti la casa. 28Non testimoniare senza motivo contro il tuo prossimo, non ingannare con le labbra. 29Non dire: “Come ha fatto a me così io farò a lui, renderò a ciascuno come si merita”.

Il ritratto del pigro 30Sono passato vicino al campo di un pigro, alla vigna di un uomo insensato: 31ecco, ovunque erano cresciute le erbacce, il terreno era coperto di cardi e il recinto di pietre era in rovina. 32Ho osservato e ho riflettuto, ho visto e ho tratto questa lezione: 33un po' dormi, un po' sonnecchi, un po' incroci le braccia per riposare, 34e intanto arriva a te la povertà, come un vagabondo, e l'indigenza, come se tu fossi un accattone.

_________________ Note

24,7 alla porta della città: vedi 1,20-21 e nota relativa.

24,12 Se tu dicessi…: invito a testimoniare per un innocente.

24,23 Come lascia intendere il v. 23, inizia qui un’altra piccola raccolta di parole dei saggi. È la quarta che troviamo nel libro dei Proverbi e ha un contenuto che la differenzia poco dalle precedenti raccolte.

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Approfondimenti

vv. 1-7. A un ammonimento in forma negativa seguito dalla motivazione (vv. 1-2) che riprende 23,17, fanno seguito tre sentenze che intendono esaltare i vantaggi che la sapienza conferisce a colui che si pone alla sua sequela: una vita sicura, nel benessere e nella prosperità, è garantita dalla sapienza (vv. 3-4); la vittoria non dipende soltanto dalla forza dei combattenti e dalla consistenza degli eserciti, ma dall'abilità degli strateghi e dai consiglieri che fanno loro corona (vv. 5-6); nella pubblica assemblea o nel tribunale la parola dello stolto non sarà presa in considerazione: nulla di convincente saprà esporre (v. 7).

vv. 10-12. La connessione tematica fra i tre versetti non è del tutto sicura, anche se non va esclusa. Ammesso che siano da leggere insieme, possiamo evincere una situazione in cui il saggio deve affrontare il caso di una persona ingiustamente accusata e di cui egli debba prendere le difese, pur andando incontro ad avversità (vv. 10-11). Il saggio è invitato a non trarsi da parte con scuse gratuite: il vero giudice è il Signore (v. 12) e a lui compete anche di valutare la condotta del saggio e quindi la coerenza tra i suoi principi e le sue azioni.

vv. 21-22. L'istruzione si conclude sottolineando l'atteggiamento fondamentale che deve ispirare la condotta del saggio, il «timore». A differenza delle precedenti ricorrenze (cfr. 1,7; 9,10; 15,33), qui al timore del Signore è unito quello del re e la motivazione aggiunta all'esortazione (v. 22), che sottolinea il castigo e la calamità, mostra che in questo caso il vocabolo indica la paura vera e propria. Il cortigiano deve sempre agire con prudenza per non suscitare mai l'ira del re (cfr. 16,14; 19,12; 20,2), ma deve anche tener presente che al di sopra del re vi è un altro che valuta le sue azioni, il cui castigo è ancor più temibile.

vv. 23-34. Questa breve collezione si divide in tre parti: una condanna della parzialità nei giudizi (vv. 23b-25); alcuni detti singoli (vv. 26-29); un quadretto descrittivo che tratta del pigro e ne valuta il comportamento (vv. 30-34).

vv. 23b-25. L'imparzialità da parte dei giudici è esigenza fondamentale di ogni società, perciò l'insistenza sul tema accomuna il nostro testo sia alle sezioni legali dell'AT (cfr. Lv 19,15; Dt 1,17; 16,19) che a quelle profetiche (cfr. Is 10,1-2; Am 5,12.15; Mic 3,9-11).

v. 29. I saggi hanno già indicato che la vendetta non è una risposta adeguata al male subito (cfr. 20,22) e ancora ammoniscono a non covare né rancori né vendette. Tale insegnamento è ulteriormente sviluppato in Sir 28,1-7 e troverà il suo completamento nel NT (cfr. Mt 5,38-40; 6,12.14-15; Rm 12,17-19).

(cf. FLAVIO DALLA VECCHIA, Proverbi di Salomone – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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