📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

La virtù e il vizio 1Meglio essere senza figli e possedere la virtù, perché nel ricordo di questa c'è immortalità: essa è riconosciuta da Dio e dagli uomini. 2Presente, è imitata, assente, viene rimpianta; incoronata, trionfa in eterno, avendo vinto, in gara, premi incontaminati. 3La numerosa discendenza degli empi non servirà a nulla e dai suoi polloni spuri non metterà profonde radici né si consoliderà su una base sicura; 4anche se, a suo tempo, essa ramifica, non essendo ben piantata, sarà scossa dal vento e sradicata dalla violenza delle bufere. 5Saranno spezzati i ramoscelli ancora deboli; il loro frutto sarà inutile, acerbo da mangiare, e non servirà a nulla. 6Infatti i figli nati da sonni illegittimi saranno testimoni della malvagità dei genitori, quando su di essi si aprirà l'inchiesta.

La morte prematura del giusto 7Il giusto, anche se muore prematuramente, si troverà in un luogo di riposo. 8Vecchiaia veneranda non è quella longeva, né si misura con il numero degli anni; 9ma canizie per gli uomini è la saggezza, età senile è una vita senza macchia. 10Divenuto caro a Dio, fu amato da lui e, poiché viveva fra peccatori, fu portato altrove. 11Fu rapito, perché la malvagità non alterasse la sua intelligenza o l'inganno non seducesse la sua anima, 12poiché il fascino delle cose frivole oscura tutto ciò che è bello e il turbine della passione perverte un animo senza malizia. 13Giunto in breve alla perfezione, ha conseguito la pienezza di tutta una vita. 14La sua anima era gradita al Signore, perciò si affrettò a uscire dalla malvagità. La gente vide ma non capì, non ha riflettuto su un fatto così importante: 15grazia e misericordia sono per i suoi eletti e protezione per i suoi santi. 16Il giusto, da morto, condannerà gli empi ancora in vita; una giovinezza, giunta in breve alla conclusione, condannerà gli empi, pur carichi di anni. 17Infatti vedranno la fine del saggio, ma non capiranno ciò che Dio aveva deciso a suo riguardo né per quale scopo il Signore l'aveva posto al sicuro. 18Vedranno e disprezzeranno, ma il Signore li deriderà. 19Infine diventeranno come un cadavere disonorato, oggetto di scherno fra i morti, per sempre. Dio infatti li precipiterà muti, a capofitto, e li scuoterà dalle fondamenta; saranno del tutto rovinati, si troveranno tra dolori e il loro ricordo perirà. 20Si presenteranno tremanti al rendiconto dei loro peccati; le loro iniquità si ergeranno contro di loro per accusarli.

_________________ Note

4,7-20 Non raggiungere la vecchiaia era considerato, nell’insegnamento tradizionale, una punizione di Dio; qui viene ribaltata questa concezione. La pienezza di vita e la realizzazione di se stessi sono radicate non in realtà esterne, ma nella ricchezza interiore, nell’adesione a Dio e alla sua volontà.

4,11 Fu rapito: l’immagine del “rapimento” evoca l’assunzione di Enoc (Gen 5,24) e di Elia (2Re 2,11) e indica l’azione di Dio che chiama a sé qualcuno che gli è caro.

4,19 Il cadavere disonorato allude alla morte senza sepoltura, considerata grave offesa e punizione.

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Approfondimenti

4,1-6. Terzo dittico. vv. 1-2. Viene ripreso il tema della sterilità, ma in forma astratta tramite il termine «virtù»; essa, infatti, al pari della donna sterile del v. 13, conduce combattimenti senza macchia. L'immortalità conseguita dalla virtù è data dal suo ricordo, che non è effimero come quello degli empi (cfr. 2, 4), perché al riconoscimento umano si accompagna soprattutto il riconoscimento divino (cfr. v. 1c, dove Dio compare in prima posizione). Se l'empio coinvolge negativamente la sua famiglia, una vita virtuosa induce gli uomini all'imitazione e al suo desiderio (v. 2a); nasce così una fecondità spirituale che supera l'handicap della sterilità fisica e che troverà il suo coronamento nel trionfo finale (v. 2bc). La corona della virtù si contrappone radicalmente all'effimera corona degli empi (cfr. 2,8).

vv. 3-6. La contrapposizione al membro precedente avviene qui tramite un lungo paragone, che si trasforma in allegoria; ma lo stile è ridondante e ricercato e quindi poco incisivo. Due termini appartenenti in greco alla medesima radice aprono e chiudono la comparazione: «non servirà a nulla» (v. 3a) e «inutile» (v. 5b); il versetto 5 riprende inoltre il termine «frutto» dal dittico precedente (vv. 13.15), ma con una triplice sottolineatura negativa, per affermare l'assoluto fallimento degli empi e della loro prole. Il paragone degli empi con un albero infruttifero è noto alla tradizione anticotestamentaria (cfr. ad es. Gb 18,16; Sir 23,25; 40,15). L'ultimo versetto, senza immagine questa volta, aggiunge ancora una nota negativa alle precedenti: non solo la numerosa discendenza degli empi sarà buona a nulla, ma si trasformerà in teste e in accusatrice contro la perversità dei genitori.

4,7-20. Quarto dittico. vv. 4,7-16. Questi versetti costituiscono la prima parte del dittico, nel quale l'autore riprende la contrapposizione giusti-empi, ma nell'ambito del problema particolare della morte prematura del giusto; questa infatti pare contraddire la teologia classica anticotestamentaria, che considera la longevità come la ricompensa divina per una vita virtuosa (Es 20,12; Dt 30,20; Sal 21,5; Pr 3,1-2, ecc.). Lo Pseudo-Salomone risponde dapprima con alcune massime dicfilosofia popolare (vv. 7-9) e poi con la rievocazione della figura di Enoch (vv. 10-11); seguono ancora varie considerazioni di carattere più generale (vv. 12-16).

v. 7. «riposo»: in Esodo e in Levitico è un termine che definisce il riposo liturgico, in particolare il riposo sabbatico (Es 16,23; 23,12, ecc.; Lv 16,31; 23,3.24.39; 25,4); l'autore potrebbe aver concepito la condizione ultraterrena del giusto come il sabato eterno che corona la sua vita di quaggiù. Questa sfumatura liturgica avrebbe il vantaggio di esprimere meglio il carattere religioso di questo riposo del giusto.

vv. 8-9. La vecchiaia come maturazione sapienziale è un tema molto noto nell'ambiente ellenistico, sia pagano che giudaico (per quest'ultimo cfr. soprattutto Filone, Quaest. Gen. IV,14; Abr. 271; Fug. 146, ecc.).

vv. 10-11. Lo Pseudo-Salomone si rifà alla tradizione su Enoch (Gn 5,22.24; Sir 44,16) vedendo in lui il modello del giusto. Come questi, anche Enoch morì giovane, prima degli altri patriarchi prediluviani (Gn 5), ma la sua morte non fu un castigo, bensì un «trasferimento» a Dio, essendo divenuto caro a lui (cfr. Gn 5,22.24 LXX); il verbo «trasferire» sottolinea precisamente il carattere non punitivo di questa morte. Circa il motivo della morte, l'autore di Sapienza segue una tradizione diversa da quella di Sir 44,16, che cioè Dio volle sottrarre il patriarca alle seduzioni del male; questa tradizione è conosciuta pure dalla letteratura rabbinica (cfr. ad es. Beresh. Rabba 25, 1). Qui, come in tutto il libro, lo Pseudo-Salomone evita di menzionare per nome i personaggi biblici che egli richiama. Tale caratteristica è motivata sia dal pubblico giudaico, che sa cogliere immediatamente i riferimenti e le allusioni, sia soprattutto dall'intento catechetico ed esistenziale della lettura che l'autore fa della storia, per cui i personaggi di essa diventano tipo e modello per il presente.

v. 12. Questa mirabile sentenza sul fascino del vizio nelle anime semplici riflette forse la situazione della comunità giudaica di Alessandria, esposta alla seduzione del paganesimo.

v. 16. Il progetto di condanna del giusto da parte degli empi (2,20) può anche attuarsi materialmente; in realtà egli lascia una presenza insopprimibile, che costituisce una continua condanna contro gli empi ancora in vita. Da no- tare che anche qui, come già al v. 10, l'autore evita l'uso del verbo «morire» per designare la scomparsa del giusto; il termine greco corrispondente a «defunto» suona letteralmente: «che ha sopportato le fatiche della vita».

vv. 17-20. Alla sorte del giusto l'autore oppone quella degli empi con un crescendo implacabile: un vedere miope, perché soltanto materialistico (vv. 17-18), una sorte ignominiosa dopo la morte (v. 19), il giudizio finale (v. 20).

v. 17. «vedranno»: il verbo, di cui s'è rilevata sopra l'importanza, racchiude con la sua duplice menzione (vv. 17a.18a) l'espressione di 17bc, cioè una totale incomprensione della sorte del giusto. Segue poi drammaticamente l'espressione lapidaria di 18b, dove la derisione di Dio (cfr. Sal 2,4; 37,13; 59,9) suona gia come una sentenza di condanna.

v. 19. Il versetto descrive la condizione ignominiosa degli empi dopo la morte; il senso è chiaro, però abbastanza Alla derisione di Dio fa eco lo scherno subito a causa della mancata sepoltura, fatto questo gravissimo per una mentalità anticotestamentaria (cfr. 2Re 9,10; 2Mac 5,10). Seguono tre immagini (19c.d.e), ispirate verosimilmente alla satira di Isaia contro il re di Babilonia (14,4-20), dove l'autore evidenzia la vittoria totale di Dio. La conseguenza per gli empi sarà una situazione diametralmente opposta a quella dei giusti: costoro sono nella pace (3,3) e nel riposo (4,7), quelli invece nel dolore; costoro vengono ricordati (4,1), quelli no.

v. 20. Questo versetto conclude il dittico e nel medesimo tempo preannuncia la scena del capitolo seguente, dove davanti al tribunale di Dio gli empi vengono accusati dalle loro stesse iniquità.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La sorte dei giusti 1Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà. 2Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, 3la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. 4Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza resta piena d'immortalità. 5In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé; 6li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come l'offerta di un olocausto. 7Nel giorno del loro giudizio risplenderanno, come scintille nella stoppia correranno qua e là. 8Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro. 9Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità, i fedeli nell'amore rimarranno presso di lui, perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti.

La sorte degli empi 10Ma gli empi riceveranno una pena conforme ai loro pensieri; non hanno avuto cura del giusto e si sono allontanati dal Signore. 11Infatti è infelice chi disprezza la sapienza e l'educazione. Vana è la loro speranza e le loro fatiche inutili, le loro opere sono senza frutto. 12Le loro mogli sono insensate, cattivi i loro figli, maledetta la loro progenie.

La sterilità dei giusti e la fecondità degli empi 13Felice invece è la sterile incorrotta, che non ha conosciuto unione peccaminosa: avrà il frutto quando le anime saranno visitate. 14E felice l'eunuco la cui mano non ha fatto nulla d'ingiusto e non ha pensato male del Signore: riceverà una ricompensa privilegiata per la sua fedeltà, una sorte più ambita nel tempio del Signore. 15Poiché glorioso è il frutto delle opere buone e la radice della saggezza non conosce imperfezioni. 16I figli degli adulteri non giungeranno a maturità, il seme di un'unione illegittima scomparirà. 17Anche se avranno lunga vita, non saranno tenuti in alcun conto, e, infine, la loro vecchiaia sarà senza onore. 18Se poi moriranno presto, non avranno speranza né conforto nel giorno del giudizio, 19poiché dura è la fine di una generazione ingiusta.

_________________ Note

3,13-19 Il libro della Sapienza corregge la concezione che vedeva nei molti figli il segno della benedizione di Dio e nella sterilità il segno della maledizione. La donna sterile e l’eunuco, l’uomo cioè impossibilitato a generare, che vivono nella virtù, avranno una ricompensa gloriosa, perché è la virtù ciò che dà senso alla vita e attira la benedizione del Signore (per l’eunuco vedi anche Is 56,3-4).

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Approfondimenti

I c. 3-4 costituiscono il centro della prima parte del libro, dove tramite una serie di quattro dittici (3,1-12; 3,13-19; 4,1-6; 4,7-20) l'autore espone e contrappone la sorte del giusto a quella degli empi; è lo sviluppo di quanto preannunciato in 2,21-24.

  1. Il primo dittico (3,1-12) è delimitato da una doppia inclusione: «stolti» (v. 2a) – «stolte» (v. 12a; BC = «insensate»); la loro speranza è «piena» (v. 4b) – «vuota» (BC = «vana») la loro speranza (v. 11b); ai giusti dei vv. 1-9 fanno da contrapposizione (cfr. il «ma» introduttivo del v. 10) gli empi dei vv. 10-12. La sofferenza dei primi è solo un momento limitato e di prova, in vista d'una immortalità beata.
  2. Nel secondo dittico (3,13-19) domina invece il problema della sterile, che l'autore risolve allargando nuovamente lo sguardo ala prospettiva escatologica. La sterilità fisica in sé non è un castigo, ma una prova in vista di un grande frutto dopo la morte (vv. 13-15; cfr. l'inclusione «frutto»); per contro una discendenza illegittima, anche se numerosa, porterà dopo morte a una vera sterilità spirituale (vv.16-19).
  3. Questo tema continua nel terzo dittico (4,1-6; cfr. l'inclusione «senza figli» – «figli»: vv. 1a.6a), dove, in maniera più teorica, ad una sterilità fisica ma virtuosa (vv. 1-2) lo Pseudo-Salomone contrappone una paternità fisica, ma peccaminosa; la prima conduce all'immortalità, la seconda invece non servirà a nulla (cfr. v. 5).
  4. L'ultimo dittico (4,7-20) riprende la tematica del primo a nel contesto particolare della morte prematura del giusto; questa diventa nella prospettiva di fede una chiamata anticipata alla vita divina (vv. 7-16), mentre la longevità degli empi porta alla perdizione (vv. 17-20). La prima parte del dittico è chiaramente delimitata da alcune inclusioni: «giusto giusto» (vv. 7.16); «vecchiaia-vecchiaia» (vv. 8.16); «anni-anni» (lett.: «ricca d'anni») (vv. 8.16) e la seconda è caratterizzata da una serie di futuri.

Nell'insieme dei cc. 3-4 acquista un significato particolare il termine «vedere-vista» (BC = «occhi»), che compare due volte all'inizio e due volte al termine della grande unità: 3,2.4; 4,17.18. È un vedere fittizio quello degli empi a proposito della sorte del giusto, anche se il loro intento era precisamente di vedere (cfr. 2,17); i loro occhi, infatti, si spalancheranno solo al giorno del giudizio, dove la vista autentica sul giusto sarà per loro una drammatica sorpresa (5,2).

vv 1-12. Primo dittico. vv. 1-9. È la prima parte del dittico iniziale, nella quale l'autore illustra la precedente affermazione, ancora generica, sull'incorruttibilità del giusto. Dopo un primo sguardo sulla sorte futura dei giusti (vv. 1-3), segue una retrospezione sul significato della loro vita terrena (vv. 4-6) ed in- fine un nuovo sguardo sulla loro esistenza ultraterrena (vv. 7-9).

**v. 1 **. «sono nelle mani di Dio»: si tratta di un simbolo concreto per esprimere la protezione e l'amore di Dio e in particolare la protezione divina accordata ad Israele al momento del passaggio del Mar Rosso (10,20; 19,8) e a Noè durante i quaranta giorni sull'arca (14,6). Per lo Pseudo-Salomone anche la morte è un esodo (cfr. «fine» del v. 2b, traduzione libera del greco «esodo») e la partenza di un viaggio (cfr. v. 3a), nei quali i giusti sperimenteranno la medesima mano protettrice di Dio.

v. 3. «pace»: il termine corrisponde all'ebraico šālôm e indica tutti i beni accordati e promessi da Dio tramite l'alleanza, qui però col carattere di stabilità proprio di un'esistenza oltre la storia.

vv. 4-6. Talmente è vera questa vita con Dio dopo la morte che l'autore la considera già come un magnifico presente, dal quale può perciò rivolgere lo sguardo indietro alla vita terrena per una nuova rilettura. Così appare il significato autentico della sofferenza dei giusti: essa fa parte dell'educazione divina («in cambio di una breve pena» = letteralmente: «per essere stati corretti leggermente»: v. 5a), suscita e accresce l'attesa dell'immortalità (v. 4b) e infine purifica dai peccati (vv. 5b.c.6). La conseguenza è che non solo i giusti diventano degni di Dio (v. 5c), in radicale contrasto con gli empi che sono degni della morte (1, 16), ma la loro stessa vita diventa un olocausto gradito a Dio. Abbiamo qui il superamento di un culto ritualistico, in favore di una visione dove l'intera esistenza dell'uomo diventa sacrificio; l'autore si riallaccia alla migliore tradizione anticotestamentaria (cfr. ad es. Am 5,21-24; Mic 6,1-8; Sal 51,19) e prelude già al NT (Rm 12,1; Fil 4,18; Eb 13,15-16).

vv. 7-9. Lo sguardo ritorna sulla vita ultraterrena dei giusti, descritta con un crescendo di espressioni. L'immagine dello splendore dei giusti si riallaccia a Dn 12, 3 (cfr. Mt 13,43) e l'esempio esplicativo seguente a Is 1,31 e Abd 18; ma più in generale dobbiamo pensare alla nuova Gerusalemme del Tritoisaia (cc. 60.62) dove lo splendore che la inonda proviene dalla luce stessa di Dio ivi presente. La seconda immagine è la compartecipazione dei giusti alla regalità divina; rimanendo su un piano abbastanza generale, lo Pseudo-Salomone vuole sottolineare un tipo di regalità diverso da quello dei grandi sulla terra, incarnato già nell'esistenza del giusto (non è il saggio il vero re? cfr. 1, 1) e pienamente realizzato nella vita dopo la morte. Infine quattro termini di forte significato teologico descrivono questa comunione con Dio: «verità-amore-grazia-misericordia»; essi rappresentano infatti l'amore fedele e misericordioso che Dio offre all'uomo nella storia salvifica.

vv. 10-12. All'immortalità dei giusti si contrappone il castigo degli empi; l'affermazione è ancora generale, ma senza equivoci. In particolare gli empi vengono presentati nella loro dimensione familiare: «empi-mogli-figli-progenie»; si prepara così il passaggio all'argomento seguente della sterilità.

v. 10. «per i loro pensieri»: l'autore insiste sulla radice del male, che consiste in una intenzionalità voluta e meditata (cfr. 1,3.5; 2, 1.21). Disprezzo del giusto e ribellione a Dio sono i due aspetti dell'unica realtà del peccato. L'idea è sottolineata dal chiasmo, che unisce appunto giusto e Dio (letteralmente: «essi che hanno disprezzato il giusto e al Signore si sono ribellati»).

v. 11 Gli empi sono coloro che concretamente disprezzano l'insegnamento dei saggi, sulla cui scia si pone lo Pseudo-Salomone. Il v. 11a è una ripresa letterale di Prv 1,7, e il vocabolario sottolinea ripetutamente la vacuità e la nullità dell'agire degli empi: «chi ritiene nulla» (BC = «chi disprezza»), «vuota» (BC = «vana»), «senza frutto», «inutili». Ritenendo nulla la sapienza, di conseguenza gli empi hanno una speranza «vuota» (al contrario, la speranza dei giusti è «piena» di immortalità: 3, 4), così come la loro laboriosità e le loro realizzazioni sono inutili.

3,13-19. Secondo dittico. vv. 13-15. Questo primo membro del dittico è dominato dall'aggettivo iniziale «beata», che non si riferisce soltanto alla sterile (v. 13), ma anche all'eunuco (v 14); i vv. 13-14, costruiti parallelamente, illustrano la beatitudine di queste due figure; il v. 15 conclude la riflessione riprendendo e sviluppando il tema della vera fecondità (cfr. l'inclusione di «frutto»: vv. 13c.15a).

v. 13. «sterile»: in rapporto all'AT, dove la sterilità è considerata un castigo divino (cfr. ad es. 1Sam 1,5-6; Os 9,14), abbiamo qui un approfondimento del concetto. Tramite due determinazioni («non contaminate» + v. 13b) emerge un tipo nuovo di sterilità non più dominato dall'aspetto fisico, bensì dall'atteggiamento religioso della fedeltà a Dio. Questa donna sterile incarna l'ideale di Israele sposa fedele di JHWH, a cui viene perciò promessa una fecondità abbondante al momento della rassegna delle anime.

v. 14. «eunuco»: se la tradizione deuteronomica escludeva l'eunuco dall'appartenenza alla comunità a causa della sua impotenza fisica (Dt 23,2), per l'autore di Sapienza il vero metro di giudizio è costituito dall'attitudine religiosa, considerata nelle sue due dimensioni fondamentali: intenzionalità (v. 14b) ed azioni (v. 14a). Un eunuco dal cuore limpido e dalla condotta irreprensibile verrà glorificato e parteciperà all'eredità nel tempio celeste, cioè nella comunione con Dio. Lo Pseudo-Salomone riprende Is 56,4-5, ma con una rilettura più universalistica e meno attaccata alle istituzioni cultuali di Israele.

v. 15. L'immagine della radice evidenzia la causa della glorificazione della sterile e dell'eunuco, cioè la saggezza, sicché il frutto della loro esistenza non può che essere la glorificazione.

vv. 16-19. Alla precedente sterilità benedetta l'autore contrappone una fecondità maledetta. L'articolazione è chiara: alla tesi iniziale (v. 16) seguono le due esemplificazioni di una vita lunga (v. 17) e di una vita breve (v. 18); la conclusione del v. 19 riprende e universalizza la tesi iniziale. In questi versetti si avverte il carattere retorico delle affermazioni; esso mira non a negare la responsabilità individuale – lo stesso autore in Sap 11,23 – 12,2 riconosce la possibilità del perdono e della conversione – , bensì a sottolineare la terribile solidarietà che coinvolge la famiglia e la discendenza dell'empio. L'adulterio acquista qui, oltre il significato proprio, quello simbolico di infedeltà al Dio dell'alleanza; così l'empio diventa il simbolo di Israele sposa infedele a JHWH.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Le scelte degli empi 1Dicono fra loro sragionando: “La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio quando l'uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti. 2Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati: è un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore, 3spenta la quale, il corpo diventerà cenere e lo spirito svanirà come aria sottile. 4Il nostro nome cadrà, con il tempo, nell'oblio e nessuno ricorderà le nostre opere. La nostra vita passerà come traccia di nuvola, si dissolverà come nebbia messa in fuga dai raggi del sole e abbattuta dal suo calore. 5Passaggio di un'ombra è infatti la nostra esistenza e non c'è ritorno quando viene la nostra fine, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. 6Venite dunque e godiamo dei beni presenti, gustiamo delle creature come nel tempo della giovinezza! 7Saziamoci di vino pregiato e di profumi, non ci sfugga alcun fiore di primavera, 8coroniamoci di boccioli di rosa prima che avvizziscano; 9nessuno di noi sia escluso dalle nostre dissolutezze. Lasciamo dappertutto i segni del nostro piacere, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. 10Spadroneggiamo sul giusto, che è povero, non risparmiamo le vedove, né abbiamo rispetto per la canizie di un vecchio attempato. 11La nostra forza sia legge della giustizia, perché la debolezza risulta inutile.

La condotta del giusto è rimprovero per l’empio 12Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d'incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l'educazione ricevuta. 13Proclama di possedere la conoscenza di Dio e chiama se stesso figlio del Signore. 14È diventato per noi una condanna dei nostri pensieri; ci è insopportabile solo al vederlo, 15perché la sua vita non è come quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade. 16Siamo stati considerati da lui moneta falsa, e si tiene lontano dalle nostre vie come da cose impure. Proclama beata la sorte finale dei giusti e si vanta di avere Dio per padre. 17Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. 18Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. 19Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. 20Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà”.

Origine del male e della morte 21Hanno pensato così, ma si sono sbagliati; la loro malizia li ha accecati. 22Non conoscono i misteriosi segreti di Dio, non sperano ricompensa per la rettitudine né credono a un premio per una vita irreprensibile. 23Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. 24Ma per l'invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.

_________________ Note

2,1-11 Per gli empi l’uomo è frutto del caso e tutto finisce con la morte. Da qui le loro scelte, dettate dall’egoismo e dalla frenesia di godere il momento presente (vv. 6-11).

2,2-3 fumo, scintilla, cenere: sembrano allusioni alla concezione greca dell’anima, considerata come un principio igneo.

2,12-20 Il ritratto del giusto, qui delineato, si ispira al quarto canto del Servo sofferente (Is 52,13-53,12) e a Sal 22,8. La totale fiducia che il giusto ripone in Dio, il suo rigore morale e la sua fedeltà alla legge diventano un monito insopportabile per l’empio, che decide di sottoporlo a tortura con violenze e tormenti (v. 19) e poi sopprimerlo.

2,24 Il serpente del racconto di Gen 3 viene qui identificato con il diavolo. La morte fisica è effetto della condizione terrestre dell’uomo, quella spirituale è invece opera del peccato.

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Approfondimenti

v. 1a. Il giudizio negativo dell'autore, che si ripeterà altrettanto esplicitamente al termine del discorso (v. 21a), non ha solo una funzione introduttiva, ma conferisce alle parole degli empi il carattere di una autodenuncia forte e drammatica.

vv. 1b-5. La prima parte del discorso degli empi (vv. 1b-9) è formata da due unità minori (1b-5; 6-9). Nella prima gli empi espongono la loro concezione teorica della vita, dominata dal materialismo, cioè dalla consapevolezza che la vita è determinata essenzialmente dalla morte; non a caso la coppia vita-morte apre (v. 1b.c; BC = «morire») e chiude (vv. 4c.5b) questa unità. Lo stile è descrittivo e ridondante di immagini. Il termine «morte» (letteralmente: «fine») sottolinea la fine d'un processo biologico, indipendentemente da ogni volontà superiore divina. Il ragionamento degli empi parte dalla constatazione di fondo della brevità della vita, a cui s'aggiunge un carattere di tristezza e di ineluttabilità (v. 1); il motivo è dato sia dall'occasionalità del sorgere della vita (v. 2ab), sia dalla sua stessa struttura materiale: l'alito vitale è semplicemente fumo e il pensiero un'effimera scintilla (v. 2cd), per cui non sussisterà nulla (v. 3). Anche il ricordo del nome o delle opere passerà come una nube, senza lasciare traccia alcuna (v. 4); a tutto questo non possiamo opporci, perché si tratta d'una sorte prestabilita (v. 5). Queste sentenze riecheggiano alcuni passaggi biblici di Giobbe e di Qoelet, prescindendo però sovente dal loro contesto e senza dipenderne esplicitamente; sono soprattutto l'eco di teorie filosofiche allora in voga (in particolare stoicismo ed epicureismo), senza tuttavia una vera assimilazione, e l'eco di concezioni mediche contemporanee. Al di là di tutto questo si sente l'ironia silenziosa dell'autore e forse una voluta banalizzazione o, almeno, una eccessiva semplificazione.

vv. 6-9. Un netto cambiamento di stile caratterizza questa seconda unità minore, introdotta da una interiezione («su»: v. 6a), dalla quale dipendono sette imperativi, uno per emistichio. La forma prevalente della prima persona plurale conferisce alle parole degli empi un caratteredi intensa partecipazione e di invito pressante, ma anche affannoso; questo loro buttarsi letteralmente nei piaceri della vita tradisce non soltanto la coscienza della brevità della vita, ma anche una certa insicurezza e pessimismo, nonostante il tono cinico e sicuro delle loro parole. La serie degli imperativi sfocia nella motivazione finale, dove la concisa costruzione chiastica (letteralmente: «perché questa la nostra parte, la nostra eredità questa») intende sottolineare la scelta definitiva di costoro. Dopo aver illustrato la concezione teorica della vita, si tirano ora le conseguenze a livello di comportamento. Domina l'idea della giovinezza: ardore giovanile, fiore della primavera, boccioli di rose; ciò è in relazione alla brevità della vita, di cui bisogna dunque approfittare fin dalle prime opportunità. «vino, profumi, fiore»: costituiscono tre elementi che rimandano ai noti simposi pagani, dove agli invitati venivano portati profumi, corone di fiori e coppe di vino. «questo ci spetta, questa è la nostra parte» (lett. = «questa è la nostra parte, questa l'eredità»). «parte» e «eredità» sono due termini che nell' AT definiscono l'elezione e l'alleanza di Israele, in forza delle quali esso diventa la parte privilegiata e l'eredità di Dio. È evidente l'intento polemico dello Pseudo-Salomone, che vuole evidenziare come questi Ebrei paganizzanti abbiano rifiutato radicalmente la loro identità giudaica.

vv. 10-20. Questa seconda parte del discorso degli empi è così articolata: quattro imperativi di prima persona plurale introducono il tema della persecuzione del giusto («spadroneggiamo»: v. 10a; «non risparmiamo»: v. 10b; «non rispettiamo» [BC = «nessun riguardo»]: v. 10c; «tendiamo insidie»: v. 12a), su un piano tuttavia ancora generico; altri quattro imperativi di prima persona plurale chiudono l'unità («vediamo»: v. 17a; «proviamo»: 17b; «mettiamolo alla prova»: v. 19a; «condanniamolo»: v. 20a) con un forte crescendo però, perché gli intenti ancora abbastanza generici di prima sono ora diventati propositi di morte e soprattutto perché la sfida degli empi contro il giusto diventa in realtà una sfida contro Dio. Le due serie di imperativi convergono al centro, dove domina la figura del giusto (vv. 12-16); letterariamente essa corrisponde al giudizio negativo dell'autore (2, 1a.21a); infatti nelle parole con cui gli empi descrivono e denunciano la condotta del giusto diventa egli stesso loro accusatore e giudice; quella che voleva essere una denuncia diventa in realtà un elogio. Il concetto di giustizia difeso e proposto dallo Pseudo-Salomone nel primo capitolo si incarna ora concretamente in un uomo, il giusto, che assume perciò una funzione paradigmatica.

v. 10. «Spadroneggiare» allude probabilmente al fatto che gli empi agiscono da una posizione di forza e di potere. «poveri, vedove e vecchi», simboli delle categorie più disagiate, sono additati specialmente nella predicazione profetica come l'oggetto primario dell'amore al prossimo e della giustizia.

v. 11. La giustizia degli empi è dettata dalla legge del più forte. Il v. 11a è parallelo a Sap 12,16a; la differenza radicale però emerge dall'emistichio seguente: mentre la forza spinge gli empi a disprezzare la debolezza (v. 11b), rende invece Dio indulgente verso gli uomini (12, 16b).

v. 12. Un netto contrasto separa la torah (= «legge»), simbolo della fedeltà alle tradizioni dei padri, dall'educazione greca.

vv. 13-20. «figlio del Signore». La figliolanza divina del giusto è un tema centrale di questo brano; ritorna infatti in 16d e in 18a. Nell'Antico Testamento Israele è proclamato figlio di Dio (cfr. ad es. Es 4,22-23; Dt 14,1; Os 11,1) di fronte agli altri popoli; ma a poco a poco cresce la consapevolezza che solo gli Israeliti fedeli alla torah possono dirsi figli di Dio; l'opzione di fede fa perciò convergere l'attenzione sull'individuo, come in Sir 51,10 e nel testo di Sapienza. Il v. 16ab in particolare sottolinea con forza che l'appartenenza alla comunità è essenzialmente religiosa e spirituale; questa figliolanza dunque è sempre vista all'interno del popolo eletto, vero figlio di Dio, tanto più nel nostro caso, dove il valore paradigmatico del giusto lo rende simbolo della comunità credente giudaica. Infine nell'AT si manifesta sempre più forte (cfr. già Os 2,1) la coscienza che la figliolanza divina dell'Israele fedele sarà un dono escatologico; le parole degli empi ai vv. 17-20 acquistano perciò il carattere d'una sfida a questa speranza. Nel contesto della figliolanza divina la conoscenza di Dio (v. 13a) si colloca non su un piano filosofico e teorico, bensì concreto, d'esperienza di fede.

v. 20. Si tratta davvero d'una condanna a morte? Avevano responsabili giudei della diaspora un tale potere? Sul piano storico l'autore potrebbe ricordare qui le persecuzioni subite dai farisei da parte di Alessandro Ianneo (103-76 a.C.), oppure le violente ritorsioni dei primi anni del regno di Erode (40-35 a.C.). È più probabile tuttavia che lo Pseudo-Salomone intenda presentare un caso emblematico di persecuzione, valevole per ogni caso e situazione concreta.

vv. 21-24. Alla concezione materialistica precedente l'autore, dopo averne ancora una volta affermata l'infondatezza (vv. 21-22), contrappone positivamente la fede nell'immortalità come ricompensa dei giusti (vv. 23-24); è l'annuncio d'un tema che verrà sviluppato a fondo nei capitoli seguenti.

v. 21. «si sbagliano»: a partire dal Deuteronomio il verbo indica in particolare l'idolatria; così in Sap 11,15; 12,24; 13,6; 14,22; 15,4; dunque lo sbaglio degli empi (2,21; cfr. pure 17,1) è di natura religiosa e, in quanto rifiuto di Dio, si pone sulla linea dell'idolatria; però solo al giudizio finale ne saranno coscienti 5,6).

v. 22. «segreti di Dio»: in antitesi al giusto che possiede la conoscenza di Dio (v. 13), gli empi non ne conoscono il piano salvifico, in particolare la ricompensa del giusto dopo la morte (cfr. v. 22bc).

vv. 23-24. Positivamente l'autore afferma ora che il destino dato dal creatore all'uomo è l'incorruttibilità (BC = «immortalità»). Questo termine ricorre solo più una volta in 6,19, dove in modo stupendo l'incorruttibilità viene definita come «stare vicino a Dio» e promessa a coloro che sono fedeli alla torah (6,18). L'incorruttibilità è dunque una partecipazione alla vita di Dio; in questa prospettiva lo Pseudo-Salomone rilegge ed interpreta l'espressione di Gn 1,26.27 (cfr. Gn 5,1; 9,6), dove per l'uomo essere immagine di Dio significa di conseguenza partecipazione all'incorruttibilità divina. All'incorruttibilità si contrappone la dura realtà della morte; essa però è opera dell'invidia del diavolo – si tratta di una interpretazione originale di Gn 3 che è propria dello Pseudo-Salomone e sarà seguita poi dalla tradizione giudaica – ed è retaggio solo di coloro che ne fanno la scelta (cfr. sopra 1,16).

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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LA SAPIENZA E IL DESTINO DELL’UOMO (1,1-5,23)

Invito a cercare la giustizia 1Amate la giustizia, voi giudici della terra, pensate al Signore con bontà d'animo e cercatelo con cuore semplice. 2Egli infatti si fa trovare da quelli che non lo mettono alla prova, e si manifesta a quelli che non diffidano di lui. 3I ragionamenti distorti separano da Dio; ma la potenza, messa alla prova, spiazza gli stolti. 4La sapienza non entra in un'anima che compie il male né abita in un corpo oppresso dal peccato. 5Il santo spirito, che ammaestra, fugge ogni inganno, si tiene lontano dai discorsi insensati e viene scacciato al sopraggiungere dell'ingiustizia.

La sapienza nel mondo 6La sapienza è uno spirito che ama l'uomo, e tuttavia non lascia impunito il bestemmiatore per i suoi discorsi, perché Dio è testimone dei suoi sentimenti, conosce bene i suoi pensieri e ascolta ogni sua parola. 7Lo spirito del Signore riempie la terra e, tenendo insieme ogni cosa, ne conosce la voce. 8Per questo non può nascondersi chi pronuncia cose ingiuste, né lo risparmierà la giustizia vendicatrice. 9Si indagherà infatti sui propositi dell'empio, il suono delle sue parole giungerà fino al Signore a condanna delle sue iniquità, 10perché un orecchio geloso ascolta ogni cosa, perfino il sussurro delle mormorazioni non gli resta segreto. 11Guardatevi dunque da inutili mormorazioni, preservate la lingua dalla maldicenza, perché neppure una parola segreta sarà senza effetto; una bocca menzognera uccide l'anima.

La morte è opera del peccato 12Non affannatevi a cercare la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani, 13perché Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. 14Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c'è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. 15La giustizia infatti è immortale. 16Ma gli empi invocano su di sé la morte con le opere e con le parole; ritenendola amica, si struggono per lei e con essa stringono un patto, perché sono degni di appartenerle.

_________________ Note

1,1 Questa esortazione è posta sulle labbra di Salomone, il re celebre per la sua saggezza; è rivolta ai capi delle comunità giudaiche presenti in Egitto e, nello stesso tempo, ai pagani perché si convertano dall’idolatria.

1,4 anima e corpo: i due elementi di cui è costituito l’uomo, secondo la filosofia greca, alla quale attinge anche l’autore del libro della Sapienza.

1,12-16 L’uomo è stato creato per l’immortalità, intesa come vita senza fine in Dio. L’autore non parla qui tanto della morte fisica, ma di quella che è provocata dal peccato, ed è la rovina dei viventi (v. 13), rende cioè definitiva la separazione da Dio (vedi v. 16).

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

I cc. 1-6 costituiscono la prima parte del libro della Sapienza, dove emerge l'antico e difficile problema del rapporto giusti-empi. Apparentemente questi ultimi hanno la meglio sul terreno concreto dei temi esistenziali: morte-vita, adulterio-fedeltà, sterilità-prole numerosa, longevità-morte prematura; in realtà lo Pseudo-Salomone invita ad andare oltre l'apparenza in favore dell'autentica realtà, allargando l'orizzonte fino a comprendere l'immortalità promessa ai giusti e il giudizio finale che pende sugli empi. Viene così capovolta la situazione, e il pressante invito iniziale ad amare la giustizia e a ricercare il Signore (v. 1,1) sfocia nell'esortazione a ricercare la sapienza (6, 1-21). Questa parte è così articolata: invito a scegliere la giustizia (1,1-15), la scelta degli empi (1,16-2,24), la sorte del giusto e la sorte degli empi (3,1-4,19), il giudizio di Dio (5,1-23), l'esortazione a ricercare la sapienza (6, 1-21).

vv. 1-15. Questi versetti formano un'unità, di cui l'indizio letterario più appariscente è costituito dall'inclusione del termine «giustizia» (vv. 1.15), con al centro la duplice menzione di due termini della medesima radice («cose ingiuste», «giustizia»: v. 8); il termine «giustizia» si rivela dunque teologicamente importante. L'unità si articola poi al suo interno secondo un movimento di corti brani, determinati da indizi letterari e tematici (vv. 1-5; 6-11; 12-15). I vv 1-5 invitano pressantemente (cfr. i tre imperativi del v. 1) alla scelta di Dio in opposizione al progetto interiore degli stolti. Nei vv. 6-11 appare un denso vocabolario riguardante la parola: «labbra» (v. 6b), «parole della sua bocca» (v. 6e), «voce» (v. 7b), «proferire» (v. 8a), «parole» (v. 9b), «sussurro» (v. 10b), «mormorazioni-mormorare» (vv. 10b.11a): si tratta del progetto interiore degli empi, che si concretizza in un cattivo uso della parola; contro di esso, però, s'erge il giudizio divino di condanna. I vv. 12-15 hanno una duplice funzione: da un lato, tramite due nuovi imperativi negativi («non provocate», «non attiratevi»: v. 12) chiudono la precedente serie di cinque imperativi, invitando ad opporre un rifiuto al progetto dei malvagi; dall'altro preannunciano, tramite i vocaboli «morte» (vv. 12a.13a.14c), «rovina» (v. 12b.13b), il tema dell'unità seguente. Il versetto conclusivo riprende il termine iniziale dell'unità, «giustizia», specificandolo però come apportatore di immoralità, in contrasto con il progetto degli empi apportatore di rovina e di morte.

v. 1. «giustizia»: si tratta della giustizia dell'uomo, come in Sap 1,15; 5,6; 8,7 (due volte); 9,3; 14,7 (BC = «opera giusta»); 15,3. Essa consiste fondamentalmente nel conoscere Dio (15,3), da cui deriva un corretto rapporto con le creature (9,3) e un agire regolato secondo la volontà di Dio (14,7); ad essa si oppone l'idolatria (cfr. 14, 8). La giustizia rappresenta perciò un'attitudine globale, che include tutte le virtù (8,7) e anche la virtù cardinale della giustizia (8,7). Il verbo «amare», posto enfaticamente all'inizio, sottolinea infine il carattere esistenziale di questa giustizia, che coinvolge infatti l'intera esistenza dell'uomo. Questo tema troverà il suo apice nei cc. 6-9, dove l'autore illustra lo sposalizio di Salomone con la sapienza e dove, non a caso, compaiono gli unici altri tre usi del verbo «amare» con soggetto l'uomo (6,12; 7,10; 8,7). «voi che governate sulla terra»: verosimilmente coloro che detengono una qualche responsabilità politica sulle comunità giudaiche d'Egitto e della Palestina; questo, tra l'altro, permette all'autore di introdurre in scena il re Salomone. Ma la riflessione si allarga subito e principalmente ai connazionali ebrei, minacciati dalla seduzione del paganesimo. Nella tradizione sapienziale alcuni testi presentano la figura del saggio sotto i tratti del re (Pr 4,9; Sir 4,15 ebr.; 6,29-31) e lo stesso autore di Sapienza presenta il saggio nell'esistenza ultraterrena sotto i medesimi tratti regali (3,8; 5,16; 6,20); potremmo essere dunque davanti a una regalità politica fittizia.

v. 2. I due verbi «lasciarsi trovare» e «mostrarsi» sono complementari; il primo indica specialmente il cammino che conduce l'uomo all'esperienza di Dio, e il secondo specifica che da parte di Dio si tratta d'una manifestazione profonda e interiore, per nulla emozionale o intellettuale soltanto. L'uomo tenta Dio soprattutto con un atteggiamento di totale chiusura a una prospettiva di fede.

v. 3. L'espressione «i ragionamenti tortuosi» introduce la serie di vocaboli relativi alla parola, ma li caratterizza sul piano esistenziale. Infatti il termine definisce la zoolatria egiziana (11, 15), l'empietà cananea (12, 10) e la decisione egiziana di inseguire gli Ebrei fuggiaschi (19,3); in un contesto più vicino questi ragionamenti troveranno espressione nel discorso degli empi, dove è tutta una concezione e scelta di vita a essere illustrata; un verbo appartenente alla medesima radice del nostro termine introduce il discorso (cfr. «sragionando»: 2,1). «l'onnipotenza»: il termine, come mostra il parallelismo con l'emistichio precedente, rappresenta Dio stesso, di cui si vuole però sottolineare l'attributo della potenza; cosi in Sap 5,23.

v. 4. Il peccato colpisce l'uomo integralmente, cioè nelle sue due componenti essenziali: anima e corpo, che vengono però viste unitariamente. È anzitutto nell'anima che viene concepito il male, il quale poi pervade così il corpo da renderlo asservito completamente. «sapienza»: all'interno d'una medesima riflessione lo Pseudo-Salomone passa con tutta naturalezza dalla menzione di Dio (v. 3a) e di un suo attributo sostitutivo (v. 3b) a quella della sapienza, che compare qui per la prima volta. Ciò significa anzitutto che egli concepisce la sapienza strettamente unita a Dio e da lui inseparabile; infatti essa scaturisce da Dio (7,25-26) ed è in comunione di vita con lui (8,3). Rispetto all'onnipotenza, la sapienza sottolinea in modo particolare una relazione personale con l'uomo, perché entra in lui e vi abita; quest'aspetto verrà illustrato ampiamente ai cc. 7-8 a proposito di Salomone. La presenza della sapienza in Salomone, negli uomini di buona volontà (6,12-21), nell'uomo in generale (9,18) e specialmente nel popolo eletto (10,1-11,1), è essenzialmente una presenza benefica e salvifica, paragonabile all'aspetto positivo della provvidenza. In particolare l'autore nel corso del libro insisterà sulla sapienza come principio interiore di vita morale e religiosa dell'uomo, come presenza divina che dà forza e luce; la sapienza appare così l'erede della nozione anticotestamentaria di spirito.

v. 5. Per spiegare l'incompatibilità della sapienza con il male, lo Pseudo-Salomone introduce il concetto parallelo dello «spirito santo che ammaestra»; l'identificazione spirito-sapienza sarà esplicita al versetto seguente. Lo spirito rappresenta ancora concretamente la presenza di Dio, ma con l'intento di porre in risalto l'aspetto della santità.

v. 6. La presenza della sapienza nell'uomo è qualificata dall'espressione «spirito amico degli uomini» (letteralmente: «spirito filantropo»); questo amore dell'umanità, fondato sulla coscienza dell'appartenenza alla medesima natura e compito precipuo dei sovrani, viene in realtà riconosciuto unicamente alla sapienza. Però di fronte alla seduzione e all'ambiguità d'un linguaggio spesso vuoto e falso – dobbiamo pensare al fascino esercitato sugli Ebrei alessandrini dalla filosofia e dalla retorica greca – la sapienza sola ne vede la radice interiore e ne giudica perciò l'errore. L'autore segue lo schema psicologico ebraico secondo cui i reni (BC = «sentimenti») sono la sede dei sentimenti e delle passioni e il cuore la sede del pensiero e della decisione. E partendo dai reni e dal cuore che si può giudicare le parole della bocca.

v. 7. Estensione della precedente riflessione antropologica a tutti gli uomini grazie al concetto parallelo di spirito, che con la sua presenza universale può cosi conoscere ogni voce.

v. 8. Ci troviamo di fronte a una nuova personificazione dell'agire di Dio tramite il concetto di giustizia vendicatrice (= punitrice o accusatrice).

vv. 9-11. Passaggio dalla conoscenza all'ascolto tramite i termini «suono» (v.9b), «orecchio» (v. 10a), «ascoltare» (v. 10a). «mormorazioni»: il termine designa le mormorazioni degli Israeliti contro Mosè e Aronne (Es 16,7.8.9.12; Nm 17,20.25; Sir 46,7), segno d'una mancanza di fede in Dio. L'insistenza dello Pseudo-Salomone su questo termine e su un vocabolario ad esso parallelo («sussurro-maldicenza-parola segreta-bocca menzognera») è verosimilmente una denuncia contro le critiche velenose che serpeggiavano nella comunità di Alessandria e che avevano come bersaglio i Giudei fedeli alla torah; il discorso degli empi nel capitolo seguente ne sarà un esempio. Queste mormorazioni sono il segno di una mancanza di fede verso Dio stesso, che perciò non le lascerà impunite. A Qumran le mormorazioni e in generale i peccati di lingua sono severamente puniti (1QS VII,4-5.15-18).

v. 12. «morte»: già al versetto precedente l'autore aveva cominciato a delineare il concetto di morte parlando di uccisione dell'anima. Qui morte assume il significato di morte escatologica; essa rimane certo in relazione alla morte fisica – è quest'ultima infatti che immetterà gli empi definitivamente nella morte escatologica – e tuttavia la trascende, in quanto essa è già presente in qualche modo nell'esistenza terrena degli empi e soprattutto perché essa rappresenta, dopo la morte fisica, una condizione di dannazione e di non-realizzazione. È evidente che in questo contesto e a motivo dello stretto parallelismo tra i due emistichi del v. 12 anche «rovina» acquista il significato di rovina escatologica. Questo è confermato da Sap 1,14c dove «rovina» (BC = «morte») è parallelo ad inferi (il v. 14d letteralmente suona: «né regno degli inferi sulla terra»); questi ultimi infatti non corrispondono semplicemente allo šᵉ’ôl ebraico, luogo dove, secondo la concezione comune anticotestamentaria, dopo la morte confluiscono in un'esistenza larvata buoni ed empi, bensì tendono a rappresentare un luogo di sofferenza e di tormenti riservato ai cattivi; sono dunque il regno della morte e della rovina radicale. Infine anche il termine «rovina» del v. 13, parallelo a morte, assume il significato di perdizione definitiva ed escatologica. L'autore dunque, tramite i vocaboli di «morte», «rovina», vuole sottolineare la realtà della morte spirituale, già presente nel peccatore, che avrà però la sua portata definitiva soltanto con la morte fisica e con il giudizio finale.

vv. 13-15. Questi versetti sono così costruiti: due emistichi affermativi (v. 14a.b) sono incorniciati da due coppie di emistichi negativi (vv. 13a.b; 14c.d); segue lapidaria e forte la frase dell'emistichio finale (v. 15). Al centro abbiamo due proposizioni che costituiscono il commento dello Pseudo-Salomone a Gn 1,3 e che affermano con forza che JHWH è il Dio dell'essere e della vita e che la creazione è essenzialmente positiva; i concetti di «tutto» e di «mondo» non ammettono limitazioni di sorta, e le forme verbali del passato e del presente («ha creato»; «sono») allargano a tutta la storia quest'affermazione. Il creatore è un Dio personale, che perciò non gode per la rovina dell'uomo (cfr. Ez 18,23.32). Il concetto di «inferi», luogo tenebroso dove la morte esercita il suo dominio sugli empi, riporta l'attenzione sull'uomo, a cui è infatti rivolta specificatamente l'affermazione finale del v. 15: Dio ha chiamato l'uomo all'immortalità e questa si acquisisce tramite la giustizia. Appare così la forza dell'imperativo iniziale: amate la giustizia (v. 1)!

vv. 1,16-2,24. Alla scelta esistenziale di Dio (1, 1-15) si contrappone la scelta degli empi. Questa è illustrata da un brano delimitato dall'inclusione d'un termine significativo: «appartenere» (1,16; 2,24), indicante appunto la parte scelta. Una breve unità (1,16-2,1a) introduce gli empi e soprattutto il loro falso ragionare (v. 1a); parallela ad essa un'altra breve unità (2,21-24) fa da conclusione al discorso degli empi richiamando in inclusione il verbo «ragionare» (v. 21; BC = «pensare»). Imponente e drammatico si erge al centro un lungo discorso in cui gli empi espongono la loro filosofia della vita (vv. 2,1b-20). Esso si articola fondamentalmente in due parti (1b-9; 10-20), la cui cesura è costituita dalla parola-chiave «parte» (v. 9c). La prima descrive la filosofia edonistica dei protagonisti, mossi unicamente alla ricerca del piacere quotidiano; che non si tratti d'una scelta pacifista, è ampiamente illustrato dalla seconda parte, dominata dalla tematica della persecuzione degli empi contro il giusto, termine-chiave di questi versetti (cfr. vv. 10a.12a.16c.18a). Nei vv. 23-24, facenti parte della conclusione del discorso degli empi, riappare il medesimo vocabolario della conclusione dell'unità precedente (1,13-15): «Dio», «creare», «mondo», «morte». Quelle ragioni che motivavano prima l'invito pressante a scegliere la giustizia vengono ora riprese ed approfondite in funzione di condanna per la scelta degli empi.

v. 1,16. «Gli empi»: assai verosimilmente gli Ebrei apostati d'Alessandria, sono qui definiti tramite quattro verbi, che descrivono in crescendo un autentico processo di innamoramento con la morte: dopo un invito iniziale nasce un'amicizia, che cresce fino a diventare passione divorante e patto durevole. La personificazione della morte e questo processo d'innamoramento sono il segno d'una scelta esistenziale, che concerne tutto l'uomo, corpo e anima; lo stridore dell'accostamento innamoramento-morte fa sentire non solo l'ironia dell'autore, ma anche l'impossibilità del progetto: amando la morte si otterrà forse la vita? «appartenerle»: letteralmente «d'esserne parte». Nel linguaggio biblico Israele è la «parte» del Signore (Dt 32,9; Zc 2,16; 2Mac 1,26; 14,15); in radicale contrasto con l'ideale storico del popolo di Dio, gli empi hanno scelto d'essere la parte della morte.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Sapienza – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Desiderio dell’unione 1Come vorrei che tu fossi mio fratello, allattato al seno di mia madre! Incontrandoti per strada ti potrei baciare senza che altri mi disprezzi. 2Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; tu mi inizieresti all'arte dell'amore. Ti farei bere vino aromatico e succo del mio melograno. 3La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia. 4Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal sonno l'amore, finché non lo desideri.

EPILOGO (8,5-7)

5Chi sta salendo dal deserto, appoggiata al suo amato? Sotto il melo ti ho svegliato; là dove ti concepì tua madre, là dove ti concepì colei che ti ha partorito. 6Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l'amore, tenace come il regno dei morti è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina! 7Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo. Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe che disprezzo.

APPENDICI (8,8-14)

La sorella piccola 8Una sorella piccola abbiamo, e ancora non ha seni. Che faremo per la nostra sorella nel giorno in cui si parlerà di lei? 9Se fosse un muro, le costruiremmo sopra una merlatura d'argento; se fosse una porta, la rafforzeremmo con tavole di cedro. 10Io sono un muro e i miei seni sono come torri! Così io sono ai suoi occhi come colei che procura pace!

La vigna 11Salomone aveva una vigna a Baal-Amon; egli affidò la vigna ai custodi. Ciascuno gli doveva portare come suo frutto mille pezzi d'argento. 12La mia vigna, proprio la mia, mi sta davanti: tieni pure, Salomone, i mille pezzi d'argento e duecento per i custodi dei suoi frutti!

Ultimo reciproco invito 13Tu che abiti nei giardini, i compagni ascoltano la tua voce: fammela sentire. 14Fuggi, amato mio, simile a gazzella o a cerbiatto sopra i monti dei balsami!

_________________ Note

8,1-4 L’intenso desiderio della sposa di unirsi al suo amato (vv. 1-2) si va compiendo (vv. 3-4).

8,6 sigillo: veniva portato al collo o al braccio, appeso a una collana, o al dito come un anello. Nell’antichità serviva per indicare la proprietà e l’appartenenza, e per autenticare i documenti. Per la prima volta appare qui il nome di Dio: le vampe dell’amore sono una fiamma divina; letteralmente “una fiamma di Jah” (cioè di JHWH).

8,7 Le grandi acque: simbolo di tutto ciò che incute paura all’uomo.

8,8 Le ultime battute del Cantico sono composte da frammenti di poesia amorosa, posti sulle labbra ora del coro ora dell’amata e dell’amato. I vv. 8-10 e 11-12 sono canti nuziali espressi in forma di indovinelli scherzosi.

8,11-12 Baal-Amon (“il signore della moltitudine” oppure “il signore della ricchezza”): località sconosciuta; forse indica simbolicamente un luogo fertile e ricco di frutti.

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Approfondimenti

vv. 1-4. Il secondo monologo della donna ha per fondale non più la campagna, bensì la città. La vediamo fantasticare ingenuamente di poter baciare in pubblico l'uomo che ama e immaginare di donarglisi totalmente; vorrebbe che lo sposo fosse suo fratello di sangue o di latte per poterlo assalire di baci sulla pubblica strada, senza suscitare malignità come fosse una prostituta! Le rigide convenzioni orientali impedivano la spontaneità delle effusioni in luogo pubblico anche tra due sposi; soltanto «una prostituta» si poteva permettere di piombare addosso a un giovane per strada, come si legge in Pr 7,10-23. La donna del Ct vorrebbe condurre l'amato nella sua casa materna, essere da lui iniziata all'amore (v. 2a) e in cambio gli darebbe la dolcezza e l'ebbrezza del suo amore femminile (v. 2b). «Il sogno della sposa finisce nel v. 3 con lo stupendo ritratto che abbiamo già incontrato in 2,6-7 e 3,5: i due sono ormai abbracciati e lo sposo è assopito, avvolto nell'estasi dell'amore, avvinghiato al corpo della sposa» (G. Ravasi) Per il v. 4 vedi il commento a 2,7.

vv. 5-7. È il culmine del Ct, la vetta della sua esaltante rivelazione, autentica “teofania” dell'amore. Sullo sfondo della fanciulla che sale dal deserto appoggiata al suo diletto (v. 5a), nell'esaltazione che lei fa dell'amore consumato (v. 5b) che aspira a fecondare in profonda comunione l'intera esistenza dei due sposi (v. 6a), il redattore del Ct ci consegna la sua teologia sull'amore sponsale, «una fiamma di Dio» (vv. 6b-7). 5b. «Sotto il melo ti ho svegliato»: in conformità al TM, i cui pronomi suffissi sono qui tutti al maschile. È la donna che parla e dice di avere «svegliato» lo sposo addormentato all'ombra dell'amore consumato, di averlo svegliato «sotto il melo», che è l'albero dell'amore già cantato in 2,3. 6a. «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio»: «il cuore» è la sede del pensiero, «il braccio» è lo strumento principe dell'attività di una persona, «il sigillo» appeso al collo o come anello al dito serviva ad autenticare i documenti (cfr. Ez 28,12), ma anche a farsi identificare (cfr. Gn 41,42; Ger 22,24). È come se la sposa dicesse allo sposo: «Non devi pensare e progettare niente senza di me, non devi fare nulla senza la mia interiore presenza». La donna amata supplica l'amato «affinché lei stessa possa giacere come un eterno sigillo sul suo cuore palpitante, possa porsi come un anello che – saldo – circonda il suo braccio infaticabile. Il matrimonio è infinitamente più che amore; matrimonio è l'adempimento all'esterno, per il quale l'amore tende la mano fuori del suo intimo e beato appagamento» (F. Rosenzweig).

v. 6b. «Perché forte come la morte è l'amore...»: il causale (= perché) non introduce più (come in 1,2) una motivazione dettata dall'esperienza dei due amanti, in riferimento al loro amore, bensì una motivazione concernente l'amore come tale, l'amore di tutti gli sposi, l'amore di sempre. Le parole che il redattore mette in bocca alla donna assumono una solennità quasi oracolare che si accentua progressivamente. «Forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi (šᵉ’ôl) è la passione (BC: gelosia)». «La morte è il momento estremo, conclusivo e perfettivo della creazione, e l'amore è altrettanto forte. Nell'affermazione: “Forte come la morte è l'amore...” non parla l'amore in prima persona, ma tutto il mondo della creazione, vinto, viene posto ai suoi piedi. La morte, la vincitrice di ogni cosa, e lo šᵉ’ôl, che gelosamente trattiene nelle sue mani quanto è trapassato, sprofondano davanti alla sua forza e all'intensità del suo ardore. Il gelo di morte del passato, rigido come un oggetto, viene riscaldato dal fuoco dell'amore, dalle sue fiamme divine» (F. Rosenzweig). «Vampe di fuoco, una fiamma del Signore» (lett.: di Jah) (v. 6c): «Nelle vampe di fuoco, la grande rivelazione, semplicemente enunciata: “una fiamma del Signore”. L'amore è grande, è invincibile, perché è “fuoco che viene da Dio”» (L. Alonso Schökel). È l'unica menzione nel Ct del nome JHWH, nella forma abbreviava Jah, che qui non può esprimere semplicemente un superlativo («fiamma di Jah» = «fiamma più ardente che esista»): il contesto di Ct 8,6-7 è troppo ricco di assoluti (come «amore», «morte», «šᵉ’ôl» «grandi acque» della creazione) per non mantenere a JHWH il suo vero significato di nome di Dio. L'amore è fuoco che viene da Dio, perché «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). Si ha un bel dire che il Ct è una raccolta di canti d'amore profani. Chi parla così, intende esprimere nulla più e nulla meno se non il fatto che Dio non ama; ma ciò è esattamente il contrario del Dio raccontato dalla Bibbia, quel Dio che procurò una compagna all'uomo, gliela consegnò e l'uomo l'accolse come un dono di Dio (cfr. Gn 2, 18ss.). «Le grandi acque non possono spegnere l'amore...» (v. 7a): «le grandi acque» sono «le acque dell'abisso», l'elemento primordiale dominato da Dio nella creazione (cfr. Gn 1,2-10), il segno della distruzione e della morte, dalle quali l'orante implora Dio di salvarlo (cfr. Sal 69,2-3). Anche se il caos originale ritornasse, come al tempo del diluvio (cfr. Gn 8,2), l'amore sussisterebbe perché è più forte: «Anche se l'amore non salva gli amanti dalla morte, in ogni caso la morte non può niente sull'amore» (D. Lys). «Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell'amore...» (v. 7b): l'amore non è commerciabile, non si compra né si vende, anche perché una grossa dote, fosse anche l'intera fortuna di un uomo, non gli assicura l'amore di una donna.

vv. 8-10. Con una sorta di flash-back letterario, la sposa appagata dall'amore (8,5-7) ritorna qui come l'adolescente smaliziata dell'inizio (cfr. 1,5-6), una ragazza giovanissima che i fratelli progettano, o sognano, di dare in sposa nelle migliori condizioni (vv. 8-9); ma la ragazza risponde, rivendicando la sua piena libertà di scelta nell'amore (v. 10). «Sono ai tuoi occhi come colei che ha trovato pace» (v. 10b): davanti al suo amato, da lei liberamente scelto, la fanciulla si proclama come «colei che ha trovato» (môṣᵉ’ēt: participio gal del verbo _mṣ’ che significa «trovare»), oppure come «colei che procura» _(môṣᵉ’ēt: participio hifil del verbo yṣ’ = «uscire», cioè «far uscire, procurare pace»). Questa pace (šālôm) sembra richiamare la šulammît di 7,1 (vedi commento); la šulammît e insieme paciticata e pacificante: incontrato colui che essa ama e da cui è ricambiata, la fanciulla «ha trovato pace», cioè il suo compimento e la sua pienezza, e insieme «ha procurato pace» al suo amato.

vv. 11-12. Si tratta del penultimo frammento di canto amoroso in bocca allo sposo, il quale si confronta con lo storico re Salomone che poteva contare su un abbondante e fastoso harem (v. 11) e dice di preferire la sua donna (la vigna nel Ct è sinonimo di femminilità), che è il suo unico e supremo bene (v. 12). «Baal-Amon»: una località ignota, il cui significato è «Signore della moltitudine» e che la dice lunga sull'harem del re Salomone (cfr. 1Re 11,3), favoloso ma anche dispendioso da custodire. I «custodi» della vigna (v. 12b) sembrano un'allusione agli eunuchi che avevano il compito di occuparsi delle donne dell'harem (cfr. Est 2,3.14). Allo sposo del Ct basta la sua vigna, la sua donna: l'enfasi della ripetizione («la vigna mia, proprio mia» del v. 12a) attesta la profondità e l'infrangibilità del vincolo che lega l'amato alla sua amata.

vv. 13-14. Nessuno si aspetterebbe un epilogo simile. L'avventura dei due spasimanti sembra riportata agli inizi, come se tutto ricominciasse da capo. Sulla bocca di lui, l'appello a lei perché «gli faccia sentire la sua voce» (v. 13; cfr. 2,14 e commento); e lei gli risponde, invitando l'amato a «correre-venire-tornare-penetrare» (piuttosto che «fuggire», questo è il senso del verbo ebraico brḥ) sui «monti degli aromi», immagine già nota (cfr. 2,17) del corpo e della femminilità della donna. È un invito all'amore, è l'esaltazione dell'amore mai compiutamente consumato. «Il Cantico non conduce l'avventura dell'amore a un lieto fine, ma al termine dell'ultimo poema l'avventura continua» (D. Lys). L'amore è, e sarà sempre, un'opera aperta.

(cf. VALERIO MANNUCCI, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Nella sposa tutto è bellezza e armonia 1Vòltati, vòltati, Sulammita, vòltati, vòltati: vogliamo ammirarti. Che cosa volete ammirare nella Sulammita durante la danza a due cori? 2Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di principe! Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, opera di mani d'artista. 3Il tuo ombelico è una coppa rotonda che non manca mai di vino aromatico. Il tuo ventre è un covone di grano, circondato da gigli. 4I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella. 5Il tuo collo come una torre d'avorio, i tuoi occhi come le piscine di Chesbon presso la porta di Bat-Rabbìm, il tuo naso come la torre del Libano che guarda verso Damasco. 6Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo e la chioma del tuo capo è come porpora; un re è tutto preso dalle tue trecce. 7Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, piena di delizie! 8La tua statura è slanciata come una palma e i tuoi seni sembrano grappoli. 9Ho detto: “Salirò sulla palma, coglierò i grappoli di datteri”. Siano per me i tuoi seni come grappoli d'uva e il tuo respiro come profumo di mele. 10Il tuo palato è come vino squisito, che scorre morbidamente verso di me e fluisce sulle labbra e sui denti!

Canto d’amore 11Io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me. 12Vieni, amato mio, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. 13Di buon mattino andremo nelle vigne; vedremo se germoglia la vite, se le gemme si schiudono, se fioriscono i melograni: là ti darò il mio amore! 14Le mandragore mandano profumo; alle nostre porte c'è ogni specie di frutti squisiti, freschi e secchi: amato mio, li ho conservati per te.

_________________ Note

7,1-10 L’amata è chiamata ora con il nome di Sulammita: il termine porta in sé un’assonanza con Salomone e illumina così la simbologia regale, che fa da sfondo al Cantico. L’assonanza con shalòm (“pace”) rimanda all’idea di benessere, perfezione, compiutezza. la danza a due cori: probabilmente una particolare danza nuziale.

7,5 Chesbon: località della Transgiordania, corrisponde all’attuale Tell Hesban, circa 20 chilometri da Amman. La porta di Bat-Rabbìm (“la porta della figlia dei molti”) è da collocare probabilmente in questa stessa città.

7,6 Carmelo (“giardino”): monte sulla costa mediterranea; nel linguaggio poetico della Bibbia è simbolo di bellezza e di imponenza.

7,14 le mandragore: con i loro frutti gialli dolci e dall’intenso profumo, erano considerate un afrodisiaco.

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Approfondimenti

vv. 7,1-8,4. Il Ct ci offre un secondo canto al corpo della donna amata (7,2-6; cfr. 4,1-7), introdotto dal coro delle fanciulle estasiate dalla bellezza della šûlammît danzante (7,1). Questo elogio del corpo di lei può leggersi sulla bocca del diletto, ma più probabilmente sono ancora le fanciulle che inneggiano alla bellezza del corpo della sposa. Intervengono poi gli stessi sposi, lui che aspira a possedere l'amata (7,7-10a), lei che evoca l'amplesso appena consumato (7,10b-11). Segue infine un duplice monologo d'amore che lei indirizza al suo diletto: il primo (7,12-14) risuona nell'incanto dell'alba di una primavera campestre palestinese; il secondo (8, 1-2) ha per fondale le strade di una città, che l'amata vorrebbe testimone felice di un amore spassionatamente palese. Il tenero abbraccio dell'amato (8,3) chiude felicemente la storia sognata della fanciulla, che essa vorrebbe interminabile: «non destate, non scuotete dal sonno l'amata...» (8, 4).

v. 7,1. La ripetizione del verbo bisillabo šûbî (= «Volgiti»: quattro volte) dà al v. 1 un vivace ritmo di danza, quasi a voler accompagnare anche ritmicamente questa «danza a due schiere», così chiamata perché le fanciulle che danzano insieme alla sposa sono divise in due schiere (una schiera era quella dei giovani danzanti?), o forse perché la sposa danzante teneva nelle mani due spade per sconfiggere gli spiriti del male. Il nome _šûlammît: tra i molti nomi o titoli che la bella del Ct assume, questo (unicamente qui in 7,1; ma vedi anche 8,10) ha tutta l'aria di uno pseudonimo misterioso, ricco di simbolismo. La šûlammît (con l'articolo) è la Pacifica, la Perfetta, l'Integra, colei che trae nome e significato dal vocabolo ebraico šālôm «pace, benessere, perfezione» che sta alla base del nome Salomone, lo šᵉlōmōh di Ct 3,7.9.11 e Ct 8,11-12. Se lo sposo-re ha la regalità maestosa del re storico Salomone (3,7-11), se ne discosta da lui e dal suo copioso harem (6,8-9; 8,11-12), e pur tuttavia ne porta il nome. Egli è il vero e autentico šᵉlōmōh, l'uomo della pace, l'uomo della perfezione, dalla cui «costola» (cfr. Gn 2,21-23) nasce la sua unica, la Šulammît Il binomio šᵉlōmōh-šûlammît: è il corrispondente compiuto e perfetto del binomio ’îš-’îššâ: «uomo-donna» della prima creazione.

v. 7,2-6. La descrizione parallela di Ct 4,1-7 partiva dal capo e scendeva fino al bacino della donna; qui, invece, secondo la posizione normale di chi guarda una danzante, il movimento è inverso: dai piedi racchiusi in sandali da principessa (v. 2), si sale progressivamente per tutto il corpo sino al volto e alle chiome (v. 6).

v. 3. «Il tuo ombelico» (v. 3a): il termine ebraico šōr ricorre anche altrove (cfr. Ez 16,4) con il significato di ombelico (in arabo è detto šurr), che non contrasta affatto con la comparazione che il poeta ne fa: «come una coppa rotonda». Ciò è conforme anche ai canoni dell'arte egizia, secondo i quali l'ombelico di una donna tende ad allargarsi fino a configurarsi come una piccola coppa: l'ombelico, infatti, evoca il grembo fertile, la radice stessa della fecondità generativa. Ma šōr potrebbe anche indicare la stessa vulva, il sesso femminile (in arabo širr: širrî = «segreto, pudenda»), ammirato nel canto come «coppa rotonda» dalla quale fluisce «il vino» della fertilità e della vita. Il canto elogia, contestualmente e con immagini agresti, il ventre (o addome) della donna (v. 3b): «grano e gigli» sono parimenti un simbolo di fertilità. Il Ct, con questo e altri canti del corpo di lei e di lui, «ci invita ancora una volta a non relegare la fisicità e la sessualità a due sole aree, quella dell'anatomia fredda e quella della pornografia miserabile. Il corpo è anche una parola viva d'amore, un termine di linguaggio e di relazione interpersonale» (G. Ravasi).

vv. 4-6. «I seni», mobili e perfettamente uguali, sono paragonati a due «gemelli di gazzella» (v. 4; cfr. 4,5); «il collo» è slanciato «come torre d'avorio» (v. 5a), materiale prezioso e aristocratico (cfr. Am 3,15); «gli occhi» sono limpidi e luminosi come laghetti che riflettono il cielo («laghetti di Chesbon» del v. 5b, città regale della Transgiordania, celebre per le molte acque: cfr. Nm 21,26-34). «il naso» candido («libano» in ebraico significa anche «bianco») incombe come una torre di guardia sulla Siria e sulla sua capitale Damasco (v. 5c); infine, «il capo» che svetta come il «Carmelo» (v. 6a: Carmelo in ebraico significa alla lettera «la vigna di Dio», «la vigna fertile per eccellenza»), e le chiome d'un fulvo acceso simile alla porpora, capaci di impigliare con la loro magia lo sposo innamorato (v. 6b).

vv. 7-10a. Il “canto del corpo” della donna culmina in un brevissimo monologo dello sposo, il quale contempla rapito l'intero corpo di lei (vv. 7-8) e anela a possederlo (v. 9). Lo sposo immagina di salire su questa «palma» viva che è la sua donna, di stringerla a sé, di inebriarsi del suo profumo, di gustare i suoi frutti. I seni come «grappoli di palma» (vv. 8 e 9a) diventano «grappoli d'uva» nel v. 9b, immagine più consona al linguaggio erotico: infatti nel Ct il sesso femminile viene designato come vigna (1,6.14; 2,15; 8,12) o come una vite (7,13). E il v. 9c («il profumo del tuo respiro come di pomi») introduce il motivo dei baci, che viene ripreso nel v. 10a: «Il tuo palato», ovvero i tuoi baci e le tue parole d'amore, sono come vino squisito che scivola sulle labbra assopite dell'innamorato.

vv. 10b-11. Fino al v. 10a è lo sposo che si rivolge all'amata: vedi il suffisso al femminile de «il tuo palato» come i precedenti «i tuoi seni» e «il tuo respiro» del v. 9. Ma nel v. 10b incontriamo il termine dôdî (= «il mio diletto») che nel Ct è sempre usato da lei o dal coro per designare l'amato. Pertanto, dal v. 10b è la donna che parla come se interrompesse il complimento dello sposo sui baci di lei, per confermargli: «Sì! il mio palato (= i miei baci) scorre dolcemente verso il mio diletto» (v. 10b) e «fluisce sulle labbra dei dormienti» (v. 10c: secondo il TM), ovvero sulle labbra degli amanti assopiti nell'ebbrezza dell'amore. Il v. 11, uno dei vertici del messaggio del Ct, esprime la reciproca e paritaria esperienza del possesso totale, propria dell'amore sponsale. L'espressione in bocca all'amata: «e la sua brama è verso di me» (v. 11b) rimanda spontaneamente a Gn 3,16 che parla della brama (è lo stesso termine tᵉšûqâ) della donna verso l'uomo, effetto e segno dello scadimento originale: «Verso tuo marito sarà la tua brama». Una rivincita della donna sull'uomo? Certamente, la donna nel Ct riconquista il proprio posto e la propria dignità pari a quelli dell'uomo; l'amore sponsale ritrova il suo vero significato di mutua totale donazione dei due corpi.

vv. 12-8,4. L'ardente invito a uscire nei campi a primavera stagione dell'amore, che prima (cfr. 4,4-5) era stato di lui, risuona ora in bocca all'amata nel primo monologo (7,12-14). Accanto alla consueta immagine amorosa delle «vigne», della «vite» e dei «melograni», compaiono ora le «mandragore» dal mitico profumo, che maturano in maggio al tempo della mietitura del grano ed erano considerate (cfr. Gn 30,14-16) un afrodisiaco potente. Tutto è molto erotico in questo monologo, nel quale la donna è felice di donarsi al suo sposo («là ti darò le mie carezze» del v. 13d), per il quale essa tiene in serbo «ogni specie di frutti squisiti, frutti freschi insieme a frutti stagionali» (v. 14), che sono i doni dell'amore antichi e nuovi a un tempo.

(cf. VALERIO MANNUCCI, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Io sono del mio amato e il mio amato è mio 1Dov'è andato il tuo amato, tu che sei bellissima tra le donne? Dove ha diretto i suoi passi il tuo amato, perché lo cerchiamo con te? 2L'amato mio è sceso nel suo giardino fra le aiuole di balsamo, a pascolare nei giardini e a cogliere gigli. 3Io sono del mio amato e il mio amato è mio; egli pascola tra i gigli.

QUINTO POEMA (6,4-8,4)

Il fascino dell’amata 4Tu sei bella, amica mia, come la città di Tirsa, incantevole come Gerusalemme, terribile come un vessillo di guerra. 5Distogli da me i tuoi occhi, perché mi sconvolgono. Le tue chiome sono come un gregge di capre che scendono dal Gàlaad. 6I tuoi denti come un gregge di pecore che risalgono dal bagno; tutte hanno gemelli, nessuna di loro è senza figli. 7Come spicchio di melagrana è la tua tempia, dietro il tuo velo. 8Siano pure sessanta le mogli del re, ottanta le concubine, innumerevoli le ragazze! 9Ma unica è la mia colomba, il mio tutto, unica per sua madre, la preferita di colei che l'ha generata. La vedono le giovani e la dicono beata. Le regine e le concubine la coprono di lodi: 10“Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come un vessillo di guerra?“. 11Nel giardino dei noci io sono sceso, per vedere i germogli della valle e osservare se la vite metteva gemme e i melograni erano in fiore. 12Senza che me ne accorgessi, il desiderio mi ha posto sul cocchio del principe del mio popolo.

_________________ Note

6,1-3 Questo canto della reciprocità fa da sfondo a tutto il Cantico. Nella storia dell’interpretazione, è stata colta qui un’eco della formula dell’alleanza biblica (“Il Signore è il nostro Dio e noi siamo il suo popolo”), evidenziando nel poema il legame che unisce Dio e Israele. Vi si è anche visto un rimando allo stupore estatico dell’uomo di fronte alla donna nel giardino di Eden, dove la solitudine di Adamo è vinta da Dio con il dono di Eva, la donna, (Gen 2,18-25).

6,4 Tirsa (“la graziosa”): capitale del regno d’Israele, prima di Samaria.

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Approfondimenti

vv. 2-3. Il giardino, nel quale scende l'innamorato, è il corpo della donna con i suoi colori e i suoi profumi, che egli è venuto a esplorare per cogliervi e gustare i frutti di un amore consumato. È l'amore tra due persone che si esprime attraverso la fisicità di un amore completo, che fa gridare alla donna la mirabile formula di alleanza sponsale, di mutua appartenenza dei due mediata dall'amore: «Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me» (v. 3a). L'alleanza sponsale di lui e di lei è come l'alleanza sponsale tra Dio e Israele (cfr. Dt 26,17-18; 12-13).

vv. 4-12. Secondo il flusso a spirale, tipico della poesia orientale, il Ct torna con questo nuovo e solenne canto al corpo della donna, l'unica per il suo uomo, la sola che sempre gli rapisce il cuore, che lo fa uscire di senno. L'elogio del corpo di lei ricalca il precedente (cfr. 4,1-4), ma con un elemento nuovo che si chiama appunto unicità. La sposa è unica, la sola che colma il cuore dell'amato (vv. 8-9).

vv. 4-10. La bellezza della donna è maestosa come una città; il suo incedere come «vessilli spiegati» incute quasi paura e genera battaglie nel cuore dell'amante, lo rende ardente come fiamma in piena follia. Tirza (v. 4) è la città più bella del Nord, antica capitale di quel regno dopo Geroboamo I (cfr. 1Re 14,17; 15,21-23; 16,8-23); la ben nota Gerusalemme è la più bella città del Sud, capitale di tutto Israele da quando fu espugnata da Davide, e dopo la divisione de due regni, capitale del regno del Sud, centro culturale e spirituale di tutto Israele.

v. 5. Lo sguardo della donna ne fa una terribile incantatrice. I suoi occhi non sono più paragonati a «colombe» (cfr. 4,1), ma comunicano un potere magico che soggioga: il verbo ebraico hirhîbunî del v. 5b (tradotto con «mi turba») contiene la stessa radice del nome Rahab, il mitico mostro degli oceani che incuteva terrore!

vv. 8-9. Questi versetti ci introducono in un immenso harem, storico e immaginario a un tempo (cfr. le «settecento mogli e trecento concubine» del re Salomone in 1Re 11,3), nel quale si contano «sessanta regine» nel rango più alto, «ottanta concubine» al secondo livello e infine una moltitudine innumerevole di «fanciulle» addette ai numerosi servizi del palazzo. Ma ecco l'espressione più importante del brano: la sposa è per il suo sposo l'unica, è una sola (ripetuto due volte nel v. 9a.b). Ciò viene proclamato, non soltanto perché per ogni uomo innamorato la propria donna è la più bella che ci sia, l'unica al mondo; e neppure soltanto perché la sua sposa è davvero bellissima, come dice il coro di tutte le donne dell'harem, che cantano la beatitudine della sposa amata (v. 9c). Essa è l'unica, perché l'amore nella sua forma più forte e più alta è monogamico e totale. È questa la rivoluzionaria predica del Ct per la società ancora poligamica del postesilio israelita!

vv. 10. Come avveniva nel canto precedente (cfr. 6,1), anche qui il poeta, con un finissimo espediente letterario, introduce il coro che celebra con nuove immagini la bellezza della donna e prepara l'incontro d'amore evocato nei vv. 11-12. L'inno del coro, dai contorni cosmici, si affida tutto a immagini di luce: la sposa risplende come aurora che sorge, ha la delicatezza incantevole della luna, sprigiona il fulgore del sole.

v. 11. Il giardino, sempre nel Ct simbolo del corpo della sposa, viene chiamato qui «giardino dei noci» _(ebr. ginnat ’egôz: ’egôz = «noce» è di origine persiana ed è un hapax nella Bibbia): le noci in Siria erano un frutto associato al culto della dea Astarte, al fine di ottenere il dono della fecondità.

v. 12. Si tratta del versetto più oscuro del Ct, forse a causa della corruzione del testo ebraico qui difficilmente ricostruibile; da qui la diversità delle versioni proposte, addirittura la soluzione di chi si rifiuta semplicemente di tradurne il secondo stico. Sulla bocca di lui (ma grammaticalmente è possibile che siano parole di lei), viene evocata l'estasi d'amore, nella quale l'incontro (v. 11) avrebbe trascinato i due amanti: questo sembra essere il senso già del v. 12a lō yāda‘ tî napšî, alla lettera «non conosco la mia anima», cioè «non mi riconosco più, sono fuori di me», leggendo napšî = «la mia anima, il mio io» come complemento oggetto di «non conosco». Come il dolore (cfr. Gb 9,21), il piacere e la gioia dell'amore fanno perdere il controllo di sé. Comunque il senso non cambia molto, anche nel caso che si consideri napšî come soggetto del verbo successivo śāmatnî (v. 12b = «mi ha fatto», oppure «mi ha posto su»). Il diletto si sente come trasformato o rapito in un cocchio stupendo e alato ed esclama: «Non so (come), ma il mio desiderio mi ha rapito sui carri di Ammi-nadib!». Il carro di Ammi-nabid sarebbe l'emblematico carro di un nobile principe (possibile significato di ’ammi-nādib), sul quale si è rapiti o nel quale si è trasformati nella folle corsa dell'amore.

(cf. VALERIO MANNUCCI, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte. Mangiate, amici, bevete; inebriatevi d'amore.

QUARTO POEMA (5,2-6,3)

L’amato bussa alla porta 2Mi sono addormentata, ma veglia il mio cuore. Un rumore! La voce del mio amato che bussa: “Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, mio tutto; perché il mio capo è madido di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne”. 3“Mi sono tolta la veste; come indossarla di nuovo? Mi sono lavata i piedi; come sporcarli di nuovo?“. 4L'amato mio ha introdotto la mano nella fessura e le mie viscere fremettero per lui. 5Mi sono alzata per aprire al mio amato e le mie mani stillavano mirra; fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello. 6Ho aperto allora all'amato mio, ma l'amato mio se n'era andato, era scomparso. Io venni meno, per la sua scomparsa; l'ho cercato, ma non l'ho trovato, l'ho chiamato, ma non mi ha risposto. 7Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città; mi hanno percossa, mi hanno ferita, mi hanno tolto il mantello le guardie delle mura. 8Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate l'amato mio che cosa gli racconterete? Che sono malata d'amore! 9Che cosa ha il tuo amato più di ogni altro, tu che sei bellissima tra le donne? Che cosa ha il tuo amato più di ogni altro, perché così ci scongiuri?

L’incanto dell’amato 10L'amato mio è bianco e vermiglio, riconoscibile fra una miriade. 11Il suo capo è oro, oro puro, i suoi riccioli sono grappoli di palma, neri come il corvo. 12I suoi occhi sono come colombe su ruscelli d'acqua; i suoi denti si bagnano nel latte, si posano sui bordi. 13Le sue guance sono come aiuole di balsamo dove crescono piante aromatiche, le sue labbra sono gigli che stillano fluida mirra. 14Le sue mani sono anelli d'oro, incastonati di gemme di Tarsis. Il suo ventre è tutto d'avorio, tempestato di zaffiri. 15Le sue gambe, colonne di alabastro, posate su basi d'oro puro. Il suo aspetto è quello del Libano, magnifico come i cedri. 16Dolcezza è il suo palato; egli è tutto delizie! Questo è l'amato mio, questo l'amico mio, o figlie di Gerusalemme.

_________________ Note

5,14 Tarsis: località spesso nominata nella Bibbia, per indicare grande distanza e florida ricchezza.

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Approfondimenti

vv. 2-8. L'andamento della lirica è ancora (cfr. 3,1-5 e commento) quello di un sogno d'amore (questa volta mancato), che l'amata rievoca. La visita dell'innamorato nel sogno e la sua serenata (vv. 1-2) trovano l'innamorata alle prese con una schermaglia d'amore ben descritta nel v. 3. Quando finalmente si decide ad alzarsi per aprire all'amato (vv. 5-6), egli è ormai già lontano. La ricerca affannosa per la città, il brusco incontro con le guardie che la percuotono e la spogliano scambiandola per una prostituta (cfr. Pr 7,9-12), approdano soltanto nel grido angosciato con cui la donna protesta alle compagne «la sua malattia d'amore», perché l'aiutino nella ricerca dell'amato e gli comunichino l'unico messaggio che le interessa: «Sono malata d'amore!».

v. 4. «Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio...», cioè nell'apertura della porta che consentiva di aprire anche da fuori, azionando «il chiavistello» (v. 5b) con cui si chiudeva la porta dall'interno. Non sembra coerente con il contesto (l'appuntamento d'amore risulta mancato!) una lettura semplicemente erotica della «mano» e dell'«apertura» come eufemismi ebraici (cfr. Is 57,8-10) per indicare il sesso di lui e di lei. In questo canto, pur con il desiderio ardente di lei, l'incontro d'amore non accade. «La donna non è affatto pronta al dono assoluto di sé. Essa conserva zone d'ombra e di rifiuto che le impediscono di adempiere, in verità e in pienezza, a tutte le esigenze dell'amore» (A. Chouraqui).

vv. 5,9-6,3. Il coro delle fanciulle in apertura (v. 9) collega l'idillio con il canto precedente (5,8). Perché tanta appassionata ricerca dell'amato, e quali sono i suoi connotati somatici che permettono l'identificazione di lui, alla cui ricerca sono chiamate anche le compagne? L'amata risponde descrivendo il corpo del diletto e tessendone l'elogio senza falsi pudori, in un'atmosfera di gioiosa sensualità che fa contrasto con la drammatica scena notturna dell'idillio precedente. In 6,1 interviene ancora il coro delle fanciulle, le quali spostano la domanda dai connotati fisici dell'amato al luogo del suo appuntamento. Ciò consente al poeta, con fine abilità letteraria, di far raccontare l'incontro d'amore alla stessa donna, che nella rievocazione sembra rivivere intensamente l'amplesso (6,2-3).

vv. 10-16. Come la bellezza del corpo dell'amata (cfr. 4,1-7), anche la bellezza del corpo dell'amato viene rappresentata al vivo nella sua interezza, dall'alto verso il basso. Il diletto «viene caratterizzato come qualcosa di preziosamente luminoso, un chiaro splendore ravvivato da macchie di colore. Tre volte incontriamo l'oro (vv. 11.14.15), delimitato dall'avorio e dal marmo; e insieme il rosso, il nero, il bianco (il “latte”), l'azzurro, il rosa, il verde cupo dei cedri. Elemento predominante, quello che rende “il diletto riconoscibile tra mille» è la luce che lo fa splendente; ma lui non è solo questo, è anche uno che attrae a sé irresistibilmente, che non si può non desiderare» (G. Garbini). «Questo è il mio diletto, questo è il mio amico» (v. 16b), canta la sposa: come fosse la statua vivente di un giovane dio!

(cf. VALERIO MANNUCCI, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La bellezza della sposa 1Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo. Le tue chiome sono come un gregge di capre, che scendono dal monte Gàlaad. 2I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, che risalgono dal bagno; tutte hanno gemelli, nessuna di loro è senza figli. 3Come nastro di porpora le tue labbra, la tua bocca è piena di fascino; come spicchio di melagrana è la tua tempia dietro il tuo velo. 4Il tuo collo è come la torre di Davide, costruita a strati. Mille scudi vi sono appesi, tutte armature di eroi. 5I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella, che pascolano tra i gigli. 6Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, me ne andrò sul monte della mirra e sul colle dell'incenso. 7Tutta bella sei tu, amata mia, e in te non vi è difetto.

Invito alla sposa 8Vieni dal Libano, o sposa, vieni dal Libano, vieni! Scendi dalla vetta dell'Amana, dalla cima del Senir e dell'Ermon, dalle spelonche dei leoni, dai monti dei leopardi. 9Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! 10Quanto è soave il tuo amore, sorella mia, mia sposa, quanto più inebriante del vino è il tuo amore, e il profumo dei tuoi unguenti, più di ogni balsamo. 11Le tue labbra stillano nettare, o sposa, c'è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come quello del Libano. 12Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata. 13I tuoi germogli sono un paradiso di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro e nardo, 14nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo, con ogni specie di alberi d'incenso, mirra e àloe, con tutti gli aromi migliori. 15Fontana che irrora i giardini, pozzo d'acque vive che sgorgano dal Libano. 16Àlzati, vento del settentrione, vieni, vieni vento del meridione, soffia nel mio giardino, si effondano i suoi aromi. Venga l'amato mio nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti.

_________________ Note

4,1-7 Come in 1,9-2,7, anche qui è il mondo della campagna, dei monti e delle città della terra di Canaan a fornire immagini e allusioni per descrivere la bellezza della sposa. Gàlaad: la regione montagnosa situata al di là del fiume Giordano.

4,7 Questo testo è stato applicato dalla liturgia alla Vergine Maria, nel suo privilegio di Immacolata.

4,8 Il monte Ermon, chiamato anche Senir dagli antichi Amorrei (Dt 3,9), si trova nella parte settentrionale della terra di Canaan. Qui è situato anche il monte Amana.

4,14 nardo, zafferano, cannella: le principali piante aromatiche dei giardini orientali.

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Approfondimenti

vv. 4,1-5,1. Lo sposo loda e descrive la bellezza del corpo dell'amata, perfetto come quello di una Grazia scolpita da mano greca (4,1-7). Il desiderio intenso di unirsi a lei rasenta la follia (4,8-15; cfr. anche 6,12); l'amata gli risponde invocando il soffio della passione (4,16), che conduce all'appagamento dell'amore (5,1).

vv. 1-7. È il primo canto del corpo di lei (cfr. 7,2-6), una unità formale ben delineata dalla visione parziale del v. 1 e da quella totale del v. 7. All'inizio la donna è «bella», alla fine è «tutta bella, ...in te nessuna macchia». L'ebraico kullāk = «la totalità di te» è più forte ed espressivo; come dire: tutto il tuo essere, tutta la tua persona è bella. Il velo (v. 1b) trasparente delle donne orientali si compone ancora oggi di due parti: una nasconde la parte inferiore del viso e scende sul petto, l'altra copre la fronte e si ripiega dietro al capo, in modo che gli occhi e la parte superiore delle gote restino visibili, mentre le altre parti traspaiano sotto il velo. I particolari del corpo dell'amata, superbamente bello, sono liricamente cantati con immagini ardite e inconsuete per noi occidentali: gli occhi affascinanti, i lunghi e neri capelli che fanno contrasto con il candore dei denti; le labbra come filo di porpora; le guance rosate, come le due metà del melograno; il collo fermo e slanciato; i seni liberi sotto il velo, che richiamano al poeta il dolce saltellare dei cerbiatti. L'ammirazione del corpo fa nascere in lui il desiderio dell'amore. Prima che la notte si dilegui («Prima che spiri la brezza del giorno...»: v. 6a; cfr 2,17 e commento), l'amato vuole consumare l'amore; il sesso della donna da lui desiderata, è come un monte avvolto dai profumi della mirra e dell'incenso (v. 6b).

vv. 8-15. Il canto d'amore si dispiega ancora sulla bocca di lui, ma su un nuovo scenario, quello delle montagne del Libano e delle vette dell'Antilibano (v. 8). Quattro verbi insistenti di movimento e tutti all'imperativo («vieni... vieni... volgiti... discendi..») esprimono l'impazienza dell'amore, come se la sposa venisse dal lontano estremo nord del paese, nonché il desiderio dell'amplesso che finalmente liberi l'amata dalla follia dell'amore.

v. 9. Due volte il diletto, impazzito d'amore, grida: «Tu mi hai rapito il cuore...». Infatti il cuore era per gli Ebrei la sede dell'intelligenza e del pensiero, non dell'affetto; e se è vero che «il vino e il mosto tolgono il senno» (Os 4,11: ebr. il cuore), è altrettanto vero che l'amore di una donna, con la complicità magica del suo sguardo e dei suoi gioielli, fa uscire di senno l'amato, lo fa impazzire (cfr. anche 6,12). La sposa porta anche il titolo di «sorella», come del resto altrove nella Bibbia (cfr. Tb 7,12; 8,4ss.; Est D9 [5,1f]) e nella poesia d'amore egiziana. Forse, il titolo vuole esprimere l'intensità e la totalità della relazione interpersonale tra i due sposi, come e più ancora di quella che corre tra fratelli.

vv. 10-15. È ancora lo scenario del Libano, con le piante aromatiche dei suoi boschi (v. 11b) e i ruscelli che discendono rapidi e limpidi dalle sue vette (v. 15a), a imprestare al poeta le immagini del piacere di un amplesso. Ma tutto converge nel simbolo del giardino, il corpo di lei che si dona all'amore (4,12-5,1): cinque volte ricorre il termine gan = «giardino» e una volta (v. 13) il termine pardēs = «frutteto» (paradiso), semplice trascrizione ebraica dell'omonimo persiano. Giardino e sorgenti sono «chiusi, sigillati» (v. 12), con allusione discreta alla verginità della donna, alla sua fedeltà, all'esclusività del possesso reciproco dei due innamorati; e in questo giardino, il mitico paradiso dell'amore consumato, il diletto appare come stordito da un effluvio di profumi e di essenze aromatiche: «cipro e nardo, nardo e zafferano, cannella e cinnamomo, incenso, mirra e aloe» (vv. 13-14).

vv. 4,16-5,1. Il canto si chiude con un pressante invito di lei all'innamorato (4,16), da lui accolto con entusiastica gioia (5,1). Che lui, come vento freddo e devastante del nord (l'aquilone, ebr. ṣāpôn del v. 16a), e insieme vento caldo e soffocante del sud (l'austro, ebr. têmàn sempre del v. 16a), irrompa e soffi nel fantastico giardino di lei, sì da far esalare in tutta la loro intensità gli aromi in esso celati! Fuori di metafora, possegga il diletto il corpo di lei e si cibi dei frutti squisiti dell'amore (v. 16c)! L'uomo risponde accogliendo con entusiasmo l'invito dell'amata, si lascia sedurre dai suoi profumi (5,1a), mangia e beve alla mensa dell'amore (5,1b). Le ultime parole (5,1c), più che un invito di lui agli amici del corteo nuziale a partecipare alla sua gioia, sembrano una voce fuori campo che invita gli sposi a godere in pienezza il loro amore. Forse, è lo stesso poeta che parla, attratto dalla meraviglia di siffatto amore.

(cf. VALERIO MANNUCCI, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La sposa cerca l’amato del suo cuore 1Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l'amore dell'anima mia; l'ho cercato, ma non l'ho trovato. 2Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l'amore dell'anima mia. L'ho cercato, ma non l'ho trovato. 3Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: “Avete visto l'amore dell'anima mia?”. 4Da poco le avevo oltrepassate, quando trovai l'amore dell'anima mia. Lo strinsi forte e non lo lascerò, finché non l'abbia condotto nella casa di mia madre, nella stanza di colei che mi ha concepito. 5Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l'amore, finché non lo desideri.

TERZO POEMA (3,6-5,1)

Il corteo nuziale 6Chi sta salendo dal deserto come una colonna di fumo, esalando profumo di mirra e d'incenso e d'ogni polvere di mercanti? 7Ecco, la lettiga di Salomone: sessanta uomini prodi le stanno intorno, tra i più valorosi d'Israele. 8Tutti sanno maneggiare la spada, esperti nella guerra; ognuno porta la spada al fianco contro il terrore della notte. 9Un baldacchino si è fatto il re Salomone con legno del Libano. 10Le sue colonne le ha fatte d'argento, d'oro la sua spalliera; il suo seggio è di porpora, il suo interno è un ricamo d'amore delle figlie di Gerusalemme. 11Uscite, figlie di Sion, guardate il re Salomone con la corona di cui lo cinse sua madre nel giorno delle sue nozze, giorno di letizia del suo cuore.

_________________ Note

3,6 L’apertura del poema è affidata al coro: è come una voce fuori campo, alla quale l’autore riserva il ruolo di commentatore o di transizione verso un nuovo quadro.

3,9 Libano: rinomato per il legname dei suoi boschi.

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Approfondimenti

vv. 1-5. Se la notte del canto precedente era stata notte d'amore consumato, la notte del canto di 3,1-5 evoca il genere letterario del “Sogno d'amore”, nel quale la ragazza si immagina di aver perduto il suo diletto e di doverlo ricercare in un'impossibile notte. Il Ct conosce anche un secondo notturno d'amore (cfr. 5,2-7), ma senza il lieto fine che sigilla questo canto (3,5). Si tratta di un sogno raccontato (i verbi sono tutti al passato) che ricorda una scena che si svolge nel cuore della notte, entro una città immersa nel silenzio, dove tuttavia il silenzio notturno è rotto dalle parole della protagonista che, ripetute come un ritornello, scandiscono temi e tempi dell'amore di lei per colui che essa chiama con una dolcissima definizione «l'amato del mio cuore». L'amore è fatto di assenza e di presenza, percorre i sentieri del “cercare”, del “non trovare”, del “trovare” (vedi l'affastellarsi di questi verbi in tutti i primi quattro versetti): si tratta della ricerca mai scontata dell'amore, cercato e inseguito superando tutti gli ostacoli. Due volte l'inseguimento nel sogno ha un esito amaro: «L'ho cercato, ma non l'ho trovato» (vv. 1-2). Finalmente, l'immensa sorpresa: «trovai l'amato del mio cuore» (v. 4a), con l'incontro d'amore sognato «in casa della madre», nella camera di colei che «l'aveva concepita» (v. 4b). Il sogno si chiude con una voce fuori campo (v. 5; cfr. 2,7), che scongiura di non disturbare l'amore assopito dei due amanti.

vv. 6-11. In mezzo a tanti dialoghi e monologhi di cui è intessuto il poema del Ct, qui ci troviamo di fronte a una descrizione apparentemente impersonale. Il redattore impiega un antico epitalamio regale sul tipo di quello che leggiamo nel Sal 45. Sembrano nozze regali, addirittura di re Salomone (cfr. 1Re 9,16); ma nella finzione poetica del Ct, dove ogni sposo è chiamato «re» (cfr. 1,4), si nasconde la realtà del matrimonio di una qualsiasi coppia di giovani. La fastosa processione nuziale viene poeticamente evocata e ambientata nel deserto di Giuda non lontano da Gerusalemme: un gran polverone, che il poeta rilegge come «colonna di fumo, profumi di mirra e di incenso» (v. 6); una lettiga ornata con oro, argento e legno del Libano, il cui seggio è tessuto di porpora (v. 7.9.10); la scorta di sessanta amici dello sposo (vv. 7-8), paragonati ai sessanta soldati di scorta che si era scelto il re Salomone (cfr. 1Re 1,38.44). Si tratta di proteggere l'amata «contro i pericoli della notte» (v. 8b), i quali – dato il contesto nuziale – sembrano alludere agli spiriti maligni notturni che, secondo certe tradizioni popolari dell'Antico Oriente (cfr. Tb 3,7-8), imperversavano nella prima notte di nozze attentando alla fertilità e alla felicità della coppia. Il v. 11 è un invito alle «figlie di Sion» (cfr. «le fanciulle di Gerusalemme» del v. 10) a uscire di casa per applaudire il corteo nuziale che avanza in città, per ammirare lo sposo incoronato, abbigliato per le nozze dalla sua stessa madre. Tutto nel Ct è contemplato con occhi tipicamente femminili.

(cf. VALERIO MANNUCCI, Cantico dei Cantici – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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