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DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

Capitolo XXIV – La misura della scomunica

1 La scomunica e, in genere, la punizione disciplinare dev’essere proporzionata alla gravità della colpa 2 e ciò è di competenza dell’abate. 3 Però il monaco che avrà commesso mancanze meno gravi sia escluso dalla mensa comune. 4 Il trattamento inflitto a chi viene escluso dalla mensa è il seguente: in coro non intoni salmo, né antifona, né reciti lezioni fino a quando non avrà riparato alle sue mancanze; 5 mangi da solo dopo la comunità, 6 sicché se, per esempio, i monaci pranzano all’ora di Sesta, egli mangi a Nona; se pranzano a Nona, egli a Vespro, 7 fino a quando avrà ottenuto il perdono con una conveniente riparazione.

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Approfondimenti

Il titolo non abbraccia il contenuto del capitolo in cui, dopo un principio generale, si parla solo delle colpe meno gravi.

1-2: Criterio per la misura della pena Si enuncia con chiarezza il principio generale: la scomunica (o la pena corporale) deve essere proporzionata alla colpa (v.1); il giudizio di ciò spetta all'abate (v. 2). SB stabilisce due forme di scomunica:

  • scomunica minore: esclusione solo dalla mensa comune (c. 24);
  • scomunica maggiore: esclusione dalla preghiera e dalla mensa comune (c. 25).

Naturalmente, in tutti e due i casi, non si tratta di scomunica ecclesiastica, ma solo “regolare”, cioè nell'ambito della comunità, pena inflitta dal superiore di una comunità monastica.

3-7: Scomunica minore per le colpe meno gravi La scomunica minore consiste principalmente nella privazione della mensa comunitaria. Molto più che dai pagani, il pasto comune era considerato come qualcosa di sacro dai cristiani, che vi scorgevano una relazione e una richiamo con il banchetto eucaristico e con quello escatologico. L'esclusione era sentita perciò vivamente come pena. Il fratello reo di colpe relativamente leggere, dopo – s'intende – la trafila delle ammonizioni, private e pubblica (cf. c. 23), mangerà, sì, come gli altri fratelli, però più tardi, da solo, non con loro, in quanto si è reso indegno della loro comunione.

Tale privazione della mensa comportava anche una limitazione in coro: cioè il reo prendeva parte all'Ufficio divino, ma non poteva fare la parte di solista (recitare a solo o intonare salmi, antifone o lezioni), fino a quando non avesse fatto la dovuta soddisfazione e ottenuto il perdono (queste cose saranno descritte in RB. 44,9-10).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXIII – La scomunica per le colpe

1 Se qualche fratello si dimostrerà ribelle o disobbediente o superbo o mormoratore, o assumerà un atteggiamento di ostilità e di disprezzo nei confronti di qualche punto della santa Regola o degli ordini dei superiori, 2 questi lo rimproverino una prima e una seconda volta in segreto, secondo il precetto del Signore. 3 Se non si migliorerà, venga ripreso pubblicamente di fronte a tutti. 4 Ma nel caso che anche questo provvedimento si dimostri inefficace, sia scomunicato, purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione. 5 Se invece difetta di una sufficiente sensibilità, sia sottoposto al castigo corporale.

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Approfondimenti

Il “codice penitenziale” – capitoli 23-30 e 43-46 Con il nome di “codice penitenziale” o “codice penale” della RB si indicano i cc. 23-30 che trattano della scomunica e delle questioni ad essa collegate. A questi si aggiungono in genere i cc. 43-46 che trattano della soddisfazione (RB 44) delle pene per i ritardatari (RB 43), per gli sbagli nell'oratorio (RB 45) e per danni provocati ad oggetti vari (RB 46). Ma nella Regola sono frequenti, anche al di fuori di questi capitoli, le menzioni di pene per colpe o mancanze lievi o gravi: vedi ad esempio RB 2,26-29; 11,13; 21,5; 34,7; 42,9; 48,19-20; ecc.

La disciplina regularis I capitoli 23-30 e 43-46 probabilmente formavano in origine un fascicolo a parte per uso dei decani e costituivano la “disciplina regularis” (disciplina regolare). Che cosa significa precisamente? Vuol dire: punizione secondo la Regola, secondo le norme stabilite dalla Regola, cioè tutta la procedura ben organizzata nei cc. 23-30 e 43-46, che comprende le varie tappe stabilite in RB 23:

  • ammonizioni private
  • ammonizione pubblica
  • scomunica
  • oppure battiture.

La frase “sia punito secondo la (oppure: sia sottoposto alla) disciplina regolare” torna altre volte nella Regola, al di fuori del codice penale (vedi ad esempio: RB 3,10; 32,5; ecc.). Nonostante l'apparente aridità dell'argomento, l'esame di questa sezione è interessante perché ci rivela la mentalità propria di SB e la sua concezione della vita di comunità con i suoi regolamenti interni e i momenti difficili, di infrazioni, di punizioni, di soddisfazioni, ecc.

Differenze dalla RM Il codice penitenziale è una delle sezioni in cui maggiormente appare il lavoro di rielaborazione compiuto da SB rispetto alla RM. In RM il codice penale è contenuto nei cc. 12-15; 64; 73 e qualche altro elemento sparso qua e là. La diversa posizione delle due Regole è dovuta soprattutto al fatto che nella RB il codice penitenziale sta dopo il codice liturgico (cioè RB 8-20), invece in RM sta prima di esso (che è in RM 33-49). SB organizza e sistema il materiale della RM.

Fonti Per le fonti, dobbiamo ricordare anzitutto la S. Scrittura. La RM usa largamente la Scrittura come le è abituale; RB ha delle citazioni proprie, indipendentemente dalla RM, anche nei testi paralleli, soprattutto S .Paolo (1Cor, 2Cor, Gal); RB è più ricca di citazioni scritturistiche della RM, anche se questa ha due grandi discorsi di estrema ricchezza biblica al c. 14. Altra fonte per ambedue le Regole è Cassiano.

Spirito e caratteristiche della RB nel codice penitenziale Lo spirito del codice penitenziale nelle due Regole è molto diverso. RM è preoccupata dell'ordine e della giustizia: a ciascuno il suo e ciascuno al suo posto; RB, al contrario, si interessa alla salute della persona. Tipica di SB è difatti la distinzione tra colpe gravi e colpe leggere, tra scomunica maggiore (RB 25) e scomunica minore (RB 24); mettendo ordine alla materia disordinata della RM, SB è molto legato alla proporzionalità tra la punizione e la persona a cui è diretta, cioè tiene conto dei diversi tipi di persona (cf. anche le osservazioni che a questo proposito SB fa all'abate: RB 2,23-25). Il fine cui SB mira è esplicitamente il ravvedimento del colpevole; difatti il primo gruppo di capitoli organizza il triplo salvataggio delle anime: scomunicato (RB 27); recidivi (RB 28); apostati (RB 29). Il secondo gruppo di capitoli (RB 43-46) si sviluppa intorno alla soddisfazione degli scomunicati. “Guarire”, “educare” sono dunque le parole-chiavi della nuova legislazione penale; mentre la RM si preoccupa soprattutto di esercitare la giustizia e di ristabilire l'ordine, RB è assillato dalla preoccupazione di correggere e di salvare le anime.

In RB appare chiaramente la cura che l'abate deve prendersi per gli scomunicati (soprattutto RB 27): prima e dopo l'espulsione egli si interessa della salvezza del peccatore. Si vede sempre il senso pedagogico che porta a considerare l'aspetto medicinale della pena. Bisogna però anche dire che il numero accresciuto delle pene (in proporzione alla RM) indica una tendenza a punire e a minacciare. Se SB crea una pastorale inedita per la salvezza dei cuori duri, egli ha anche sviluppato la penalizzazione e ha dato alla sua Regola un volto spesso severo. La cosa appare anche dal c. 46, dove RB indurisce la pratica di RM, di Cassiano e di Agostino. Almeno questo è il giudizio di un esperto, come De Voguè: “l'inchiesta si chiude con questa immagine complessa. RB si stacca dalle sue fonti sia per una tenera e instancabile tenerezza verso i peccatori, sia per un certo rigorismo che tende a moltiplicare le esigenze e le punizioni”.

I capitoli del codice penitenziale possono essere così divisi:

  • RB 23-26: vari casi a proposito della scomunica;
  • RB 27: esortazione all'abate sui doveri verso gli scomunicati;
  • RB 28-29: gli incorreggibili e coloro che escono dal monastero;
  • RB 30: come debbono essere trattati i fanciulli;
  • RB 43: pene per i ritardatari all'Ufficio e alla mensa;
  • RB 44: la soddisfazione che debbono dare gli scomunicati;
  • RB 45: pene per chi sbaglia nell'oratorio;
  • RB 46: pene per altre mancanze.

Il capitolo 23 Il presente capitolo serve da introduzione. Determina le colpe degne della scomunica e stabilisce la procedura di questa. In che cosa consiste la scomunica monastica lo spiegherà dopo. Dobbiamo dire che raramente si comprende appieno il significato della scomunica, di cui non viene sufficientemente valutata l'importanza. Eppure è difficile dire di conoscere bene la comunità, se non si riconosce il suo contrario, cioè la “s-comunica”: la conoscenza umana procede spesso anche per contrasti. Dobbiamo quindi dedurre che nell'antica Chiesa e nell'antico monachesimo si sentiva il valore della scomunica perché si aveva un forte concetto di Chiesa e di comunità monastica.

1-5: Colpe e castigo SB enumera le colpe: si tratta – ciò è chiaro – di mancanze gravi esterne. La procedura è ispirata al Vangelo: Mt 18,15-17 (la correzione fraterna), procedura che nel monastero ha la seguente modalità:

  • due ammonizioni private da parte dei seniori (che sono i decani e in genere i superiori, includendovi certamente l'abate) (v.2);
  • una terza ammonizione, pubblica, per correggere il colpevole con l'umiliazione davanti a tutti (v.3);
  • in caso di pertinacia, si passa alla scomunica, che è pena più morale che fisica; quindi si richiede un animo che comprenda il suo valore (v.4);
  • se invece è un animo così rozzo, una “testa dura” che sarebbe insensibile alla scomunica, si usa la verga o altri castighi corporali.

Per SB le battiture sono per quelli che non comprendono la scomunica, quindi ha un criterio soggettivo, mentre in RM le battiture sono determinate da un criterio oggettivo: colpe enormi commesse. Ciò mette ancora una volta in risalto la cura del soggetto propria di SB. Le pene corporali non erano novità propria di SB: basta confrontare le Regole di Pacomio, Macario, le Vitae Patrum, Cassiano e in occidente la Regola di Cesario e la RM. In questo, come detto sopra, SB è molto severo; ma non pare giustificata l'immagine trasmessa da qualche pittore di un SB con un fascio di verghe in mano, quasi stesse sempre a frustare. Potrebbe interpretarsi di un santo che mortifica se stesso con la “disciplina”: concezione facile specialmente dopo S. Pier Damiani; oppure il fascetto di verghe potrebbe rappresentare uno strumento per la sveglia, un qualcosa di simile alla nostra “traccola”. Del resto, la discrezione di SB anche in questo appare manifesta, se si pensa alle terribili disposizioni penitenziali di S. Colombano.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXII – Il dormitorio dei monaci

1 Ciascun monaco dorma in un letto proprio 2 e ne riceva la fornitura conforme alle consuetudini monastiche e secondo quanto disporrà l’abate. 3 Se è possibile dormano tutti nello stesso locale, ma se il numero rilevante non lo permette, riposino a dieci o venti per ambiente insieme con gli anziani incaricati della sorveglianza. 4 Nel dormitorio rimanga sempre accesa una lampada fino al mattino. 5 Dormano vestiti, con ai fianchi semplici cinture o corde, senza portare coltelli appesi al lato mentre riposano, per non ferirsi nel sonno. 6 Così i monaci siano sempre pronti e, appena dato il segnale, alzandosi senza indugio si affrettino a prevenirsi vicendevolmente per l’Ufficio divino, ma sempre con la massima gravità e modestia. 7 I più giovani non abbiano i letti vicini, ma alternati con quelli dei più anziani. 8 Quando poi si alzano per l’Ufficio divino, si esortino garbatamente a vicenda per prevenire le scuse degli assonnati.

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Approfondimenti

Nella RM si parla del dormitorio nel capitolo sui decani nell'ambito della sorveglianza che essi dovevano esercitare (RM 11,109-120) e se ne parla anche nel c. 29 a proposito dell'orario e del luogo per dormire. SB ne fa un capitolo a parte (RB. 22) subito dopo quello sui decani (RB. 21), come già aveva separato il consiglio dei fratelli dal capitolo sull'abate (RB 2-3) che in RM sono trattati insieme.

SB stabilisce tre cose: un letto per ogni monaco, rifare bene il letto alla levata, dormire vestiti e cinti e quest'ultima cosa per tre ragioni: essere pronti per l'Ufficio divino alla sveglia; evitare i pensieri impuri e la polluzione, non essere in ritardo all'Ufficio divino. SB conserva queste norme modificando qualcosa e abbreviando.

Evoluzione dalla cella al dormitorio, alla stanza singola RM prescrive un dormitorio unico per tutti; RB una o più sale e inoltre luoghi separati per i novizi (RB 58), i malati (RB 36) e gli ospiti (RB 53). In tutte e due le Regole è scomparso comunque l'uso delle celle separate, uso comune nel cenobitismo del secolo precedente (per il significato della cella, cf. Cassiano, Instit 10; Coll 24).

La sostituzione della cella a favore del dormitorio comune avviene alla fine del secolo V in Gallia (per evitare i vizi della proprietaà privata, della gola, dell'incontinenza), e la cosa si nota anche a Costantinopoli. I motivi iniziali dell'abbandono della cella sono il lavoro manuale e l'Ufficio divino in comune. In questo cambiamento dalla cella al dormitorio si deve vedere il fatto più importante della storia del monachesimo antico. La cella dava al monaco un carattere solitario e contemplativo; il suo abbandono significa che si lascia questo alto ideale per assicurare la pratica di certe virtù elementari; salvare la povertà e i buoni costumi sembra più urgente che l'orazione incessante.

La scelta per il dormitorio non è un progresso, ma un palliativo; la vita comune non è vista come un ideale superiore, ma come un rimedio richiesto dalla debolezza dei costumi. Del resto il sonno preso in comune non è che un ulteriore atto di una evoluzione verso una più stretta vita comunitaria (si iniziò con la preghiera e il lavoro). “Tale cambiamento rispetto alla tradizione è segno di vitalità e di robustezza...; dobbiamo ammirare la libertà che ci si prende di fronte alla materialità della tradizione” (De Vogue).

Quando SB scriveva la Regola (secolo VI), il dormitorio comune era una cosa scontata. Con l'evoluzione poi nel corso dei secoli, specialmente per lo sviluppo preso dal lavoro intellettuale e per le mutate condizioni dei tempi, al dormitorio comune si vennero man mano sostituendo le stanze singole, dove ogni monaco non solo dorme, ma prega o lavora fuori dei tempi e dei luoghi stabiliti per gli atti comuni.

1-4: Letti e dormitorio Non ci si meravigli del v.1: la disposizione che oggi sarebbe superflua, è comune nelle regole antiche; la rozzezza e la semplicità dei costumi esigeva l'esplicita proibizione che in un solo letto dormissero più persone. Qualche regola fissava anche la distanza tra un letto e l'altro. L'abate dà l'occorrente per il letto – un pagliericcio, una coperta leggera, una pesante e un cuscino; lo sappiamo da un altro passo della Regola (RB 55,15 – “pro modo conversationis”, v. 2).Che cosa significa precisamente? La traduzione più comune è: “secondo il loro genere di vita, secondo le usanze monastiche”, cioè che l'arredamento del letto non disdica alla semplicità e povertà della professione monastica. Però, considerando sopratutto un testo parallelo della “Vita Pachomii” 22 (in cui si nota la diversità di condotta individuale in seno alla stessa comunità monastica), si potrebbe anche intendere: “secondo il grado di fervore della vita monastica”. La “conversatio” (il modo di condurre la vita monastica) può essere , secondo la Regola, “miserabile” (RB 1,21), può essere all'inizio o alla perfezione (RB 73,1-2), è capace di un progresso (RB Prol. 49). A ciascuno di questi gradi corrisponde una maniera diversa di usare i beni materiali. Riguardo al letto, il tenore stabilito dalla Regola (RB 55,15) è il massimo; ognuno può avere bisogno di meno, secondo il grado di ascesi raggiunto. “Questa diversità di osservanza in seno alla comunità può sembrare estrema al nostro gusto di uniformità, ma non per questo è in disaccordo con lo spirito del cenobitismo antico, dalle origini all'epoca stessa di SB” (DeVogue).

3-4: La lampada accesa di notte RM prevedeva che i letti fossero a cerchio intorno al letto dell'abate (RM 29,2-4) e che la lampada fosse spenta subito dopo che tutti si erano messi a letto (RM 29,6); per non sprecare olio, si dice!) e quindi se c'era bisogno di alzarsi di notte, si doveva parlare. RB divide la comunità nel caso fosse troppo numerosa, in vari dormitori secondo le decanie e vuole che una lampada arda sempre nel dormitorio; e quindi che sia conservato il silenzio.

5-8: Modo di dormire e di levarsi Gli antichi dormivano nudi; però i monaci devono dormire vestiti, Come risulta da RB 55,10 i monaci indossavano di notte una “tunica” corrispondente quasi alla nostra camicia e la “cuculla”, che non aveva la forma attuale, ma somigliava piuttosto a un'ampia tonaca e arrivava al ginocchio o ai piedi. Di questi indumenti se ne prevedono due per “cambiarsi di notte e per lavarle” (RB 55,10). Portavano poi ai fianchi una cintura o corda, richiamandosi anche di notte al precetto del Signore: “Siano cinti i vostri fianchi...” (Lc 12,35). Per capire tutto il v.5, bisogna ricordare che di giorno i monaci portavano una cintura larga di cuoio, detta “bracile” (RB 55,19), a cui si appendevano utensili da lavoro. SB avverte che i fratelli devono, sì, essere cinti anche di notte, ma non di bracile, bensì di cinture semplici, di cordicelle, per evitare il pericolo di portare a letto anche i coltelli e le roncole, che sono abitualmente appesi al bracile. Tale pericolo è descritto nei particolari da RM 11,112.

v.6. Stando a letto vestiti e cinti, i monaci erano già in ordine per poter accorrere all'Ufficio notturno. Un po' di pulizia e il necessario cambiamento degli indumenti per il giorno, si faceva dopo, forse prima di andare al lavoro. “Così i monaci siano sempre pronti...”: c'è in questa frase tutta la spiritualità della veglia e dell'attesa del Signore; il tema della vigilanza (Mt 24,42-51; 25,1-13; Mc 13,33-37; Lc 12,35-48) era così caro al monachesimo antico; tutta la vita monastica deve essere una vigilia orante, una perenne attesa del Signore, che è sempre vicino, ma che viene sempre, finché tornerà definitivamente.

v.7. I letti dei giovani sono alternati a quelli degli anziani (seniori = adulti, o più probabilmente i decani): RB non pensa tanto ai pericoli per la castità, piuttosto alla dissipazione e alla pigrizia.

v.8. Alla levata i monaci si esortino vicendevolmente. SB è condotto da due principi: la carità fraterna (relazioni orizzontali che mancano in RM) e il ritegno nel parlare. I monaci vengono consigliati non solo ad emularsi nell'accorrere all'Ufficio, sia pur sempre con gravita` (v.6), ma anche a dirsi parole di incoraggiamento sia pure con moderazione (v.8), per togliere ogni scusa ai sonnolenti.

Nonostante quindi la gravità del silenzio notturno (cf. RB 42), SB mette le relazioni fraterne al di sopra, mostrando fino a qual punto egli consideri vitale l'educazione reciproca, il rapporto dei fratelli, di cui tratterà esplicitamente negli ultimi capitoli della Regola.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXI – I decani del monastero

1 Se la comunità è abbastanza numerosa, si scelgano in essa alcuni monaci di buon esempio e di santa vita per costituirli decani; 2 essi vigileranno premurosamente, secondo le leggi di Dio e gli ordini dell’abate sui gruppi di dieci fratelli affidati alle loro rispettive cure. 3 Come decani devono essere eletti quei monaci con i quali l’abate possa tranquillamente condividere i suoi pesi 4 e in tale scelta non bisogna tener conto dell’ordine di anzianità, ma regolarsi solo in considerazione della condotta esemplare e della scienza delle cose di Dio. 5 Se poi fra questi decani ce ne fosse qualcuno che, montato un po’ in superbia, dovesse essere ripreso, sia rimproverato una prima, una seconda e una terza volta e, se non vorrà correggersi, 6 venga sostituito con un altro veramente degno. 7 La stessa cosa stabiliamo per il priore.

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Approfondimenti

Decanus (decano) o decurio (decurione) era chiamato nell'esercito romano chi era a capo di una “decuria” o “contubernium”, cioè un gruppo di dieci soldati; così era divisa la “centuria” (=100 soldati), con a capo un “centurione”. Però i monaci antichi, per l'organizzazione in decanie non si rifanno all'esercito romano, ma sopratutto alla Scrittura (Esodo). La fonte a cui attinge SB è la tradizione monastica egiziana ampiamente attestata da S. Girolamo (Epistola 22,35), S. Agostino (Costumi della Chiesa cattolica 1,67) e sopratutto da Cassiano (Inst. 4,7.10.17): i cenobiti egiziani erano ordinati a gruppi di dieci sottoposti ciascuno a un decano; il complesso di dieci decurie stava alle dipendenze di un capo superiore (“centesimus”). Cassiano non usa mai la parola “decano”, ma “praepositus” (come farà la RM) o “senior” (più anziano).

Secondo la RM (c. 11) i prepositi (= i decani della RB) sono dei guardiani perpetui e minuziosi (difatti ne vengono prescritti due per ogni decania, mentre ciò non appare nella RB) il cui primo dovere consiste nello stare sempre con i fratelli e vegliare su ogni loro difetto e riprenderli immediatamente con avvertenze appropriate citando la Scrittura. Certo, al lettore moderno desta meraviglia il vedere applicato ad adulti un sistema di vigilanza che oggi non si concepisce nemmeno per i fanciulli!

Nella RB l'incarico di un decano è di più largo respiro, più pedagogico e più spirituale, come appare dalle qualità richieste (vv.1-4).

1-4: Nomina, qualità e ufficio dei decani La necessità di ricorrere a decani si avvera solo quando la comunità è alquanto numerosa (cioè – considerando che SB parla sempre di decanie al plurale – non al di sotto di una ventina di membri). SB in questo capitolo ha certo presente, come Cassiano (Inst. 4,7), l'episodio di Ietro che consiglia a Mosè di procurarsi degli uomini di buona fama e timorati di Dio che lo aiutassero nel giudicare il popolo (Es 18,21 e parallelo Dt 1,13), ma più ancora l'elezione dei primi diaconi (Atti 6,1-3).

Abbiamo nel testo tre volte la parola “elegantur” e una volta la parola “constituentur”. Da chi erano scelti i decani? Certo non si può pensare ad una elezione da parte della comunità con valore deliberativo anche contro il volere dell'abate; è troppo chiaro da tutta la Regola che, per conservare la pace e l'unione, l'organizzazione dipende dall'abate. Dunque era certamente lui a costituire i decani; ma non può escludersi da testo e dal contesto che nella scelta entrassero anche altri membri della comunità; o i monaci presentavano i candidati, oppure l'abate consultava alcuni fratelli “timorati di Dio” (RB 65,15).

Come si diceva sopra, l'incarico di decano in RB, a differenza di RM, è più pedagogico e spirituale. Si esige anzitutto che siano “stimati”, letteralmente “di buona reputazione” boni testimonii fratres, espressione tratta da Atti 6,3 a proposito dei diaconi; inoltre che siano di “santa vita monastica” sanctae conversationis. Più sotto, al v. 4, abbiamo una coppia di qualità richieste per chi deve essere ordinato abate (RB 64,2): vitae meritum et sapientiae doctrinam (santita` di vita e dottrina spirituale). Il significato è evidente: che l'abate “possa condividere con loro tutti i pesi suoi” (v. 3), (l'espressione richiama Es 18,22), compresa la responsabilità spirituale: insegnare le vie di Dio ai fratelli loro affidati.

5-7: Provvedimenti in caso di decani indegni o di priore indegno Abbiamo anche un'anticipazione del codice penale (che inizia al c. 23), per il caso dei decani indegni che montassero in superbia; per i monaci l'ammonizione era duplice (RB 23,2), per i decani è triplice.

Improvvisamente appare la menzione del “presposito”, quello che oggi si chiama priore. SB, influenzato dalla mentalità pacomiana, preferisce certo l'organizzazione del monastero in decanie (RB 65,12); è probabile che quando scriveva il presente capitolo non pensava ancora all'istituzione del priore; costretto poi dall'esperienza e dall'uso, lo avrà permesso; e allora avrà aggiunto questa postilla (v. 7) al c.21. Più tardi ancora, meglio ammaestrato dall'esperienza, sarà stato indotto a scrivere il c. 65; si osservi infatti che lì prescriverà quattro (e non tre) ammonizioni per il priore (RB 65,18).

Oggi alcune mansioni degli antichi decani sono raccolte nel priore (o vice-priore); altre sono ripartite tra gli officiali del monastero, sopratutto economo, maestro dei novizi, ecc. Il senso della corresponsabilità poi è inculcato dalla mentalità nuova della Chiesa e dall'importanza del capitolo di famiglia. (Talvolta i decani si usano soltanto per i gruppi di novizi o di giovani monaci nel periodo di formazione).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XX – La riverenza nella preghiera

1 Se quando dobbiamo chiedere un favore a qualche personaggio, osiamo farlo solo con soggezione e rispetto, 2 quanto più dobbiamo rivolgere la nostra supplica a Dio, Signore di tutte le cose, con profonda umiltà e sincera devozione. 3 Bisogna inoltre sapere che non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione che strappa le lacrime. 4 Perciò la preghiera dev’essere breve e pura, a meno che non venga prolungata dall’ardore e dall’ispirazione della grazia divina. 5 Ma quella che si fa in comune sia brevissima e quando il superiore dà il segno, si alzino tutti insieme.

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Approfondimenti

1-5: Qualità dell'orazione SB non definisce la preghiera; dà per scontato che i monaci per cui scrive sappiano bene che cosa sia. Il titolo stesso del capitolo risulta estremamente sobrio. “Riverenza” denota un atteggiamento generale della presenza di Dio, di timore nel senso biblico, che include umiltà e amore. SB inizia con un argomento “a fortiori”: “Se con i potenti..., tanto più con Dio...” (vv 1-2). Se la parola “rispetto” (reverentia, come nel titolo) richiama sopratutto l'atteggiamento dell'inferiore nei confronti del superiore, le parole “umiltà” e “purezza di devozione” del v.2 completano la disposizione dell'animo nella preghiera. “Devozione” ha il senso proprio di “dono di sé medesimo”, abbandono, adesione piena e senza condizioni.

3: sobrietà delle parole, purezza del cuore, compunzione Sono altre due qualità che fanno parte della saggezza tradizionale del monachesimo. Alla “riverenza” formata di umiltà e di puro abbandono (= purezza di devozione, dei vv 1-2), si aggiungono ora la “sobrietà delle parole”, la “purezza del cuore” (cioè quella coscienza monda dai vizi e dai peccati cui SB ha accennato sopratutto nel capitolo sull'umiltà, RB 7,12.18.29.70; vedi più sotto il significato della “puritas cordis”) e la “compunzione” (anche negli strumenti delle buone opere (RB 4,57) e riguardo all'oratorio (RB 52,4) SB parla delle lacrime che accompagnano la preghiera). Poi SB conclude dicendo che la preghiera sia “breve” e “pura” (di nuovo!), a meno che non si prolunghi per ispirazione di Dio (v.4) e che comunque in comunità sia breve (v.5).

Due problemi riguardo al c.20

  1. Primo problema. Che il c.20 parli della preghiera personale è evidente; ma SB si riferisce all'orazione privata fuori dell'Ufficio divino o anche – e forse in primo luogo – all'orazione salmica, cioè alla preghiera silenziosa che i fratelli facevano prostrati a terra, dopo ogni salmo? Una risposta precisa non è facile, perché il testo non è abbastanza chiaro. Tuttavia ci sono ragioni più valide per ritenere che SB in questo capitolo si riferisca anzitutto alla preghiera personale nell'ambito dell'Ufficio divino. La posizione stessa del capitolo, come termine finale della sezione dell'Ufficio divino e dopo il capitolo 19 sul modo di salmodiare, induce a credere che SB, mentre redigeva il testo, stesse pensando all'orazione silenziosa dopo i salmi in coro; poi all'improvviso, nel v.4, annotò un'osservazione che gli venne in mente riguardo alla preghiera privata fuori dell'Ufficio (quando la si può protrarre per ispirazione divina); e difatti con la frase successiva posta in contrapposizione “ma in comune” del v. 5, ritorna al tema originale, cioè alla preghiera privata dopo ogni salmo, che doveva durare fino a quando il superiore dava il segnale (v. 5) e tutti si levavano per cominciare la salmodia. Si noti ancora che i passi paralleli della RM si riferiscono alla preghiera silenziosa dopo ogni salmo (RM 48,10-11). Tuttavia – ripetiamo – la questione non è chiara. E forse è meglio superarla pensando all'unità della preghiera (comune e personale) presso i monaci.

  2. Secondo problema. L'altra questione importante è il significato preciso di certi termini con i quali SB descrive le qualità della preghiera. Balza agli occhi in questo c.20 la mancanza di citazioni bibliche, in contrasto con il c. 19 che ne è pieno (Tuttavia c'è nel v.3 chiara l'allusione alle parole di Gesù sulla preghiera in Mt 6,7 e a tutto l'insegnamento della parabola del fariseo e del pubblicano in Lc 18,9-14). In compenso, il capitolo intero è pieno delle idee del monachesimo precedente sulla preghiera, e non solo le idee, ma il linguaggio, lo stile, i termini sono caratteristici della scuola sopratutto di Evagrio Pontico e di Cassiano. Così la parola “purezza” appare in tre versetti consecutivi: “purezza di devozione” (v.2), “purezza del cuore” (v.3), “preghiera breve e pura” (v.4): ebbene, si tratta di espressioni tecniche di Cassiano e della sua spiritualità.

puritas cordis, oratio pura “Puritas” o più spesso “puritas cordis” indica la cima dell'itinerario ascetico-spirituale, cioè la totale liberazione dalle passioni, la carità, la perfetta armonia dell'uomo paradisiaco (Coll. 10,7). Alla “puritas cordis” corrisponde la “oratio pura”. Ci troviamo proprio alle vette della vita spirituale. Di fatto, per Evagrio e per Cassiano “oratio pura” è l'espressione tecnica per indicare l'orazione perfetta, la contemplazione suprema (Coll. 9,8). Che cosa rimane di tutto ciò in RB 20? Cioè, come intende SB questa “puritas cordis”, questa “oratio pura”? Certamente, SB è influenzato da Cassiano; i termini che usa: devozione, compunzione, lacrime, si trovano tali e quali in Cassiano (Inst. 5,17; Coll. 3,71; 19,1 ecc...), come anche per la brevità (Inst. 2,10; Coll. 9,36). Quindi si può dire che SB, con i vocaboli che utilizza, suggerisce l'ideale dell'orazione pura nel suo grado più elevato. Però ... suggerisce soltanto! Uomo pratico secondo Gesù Cristo, non può con poche qualità esposte sulla preghiera, proporre a semplici principianti le vette dell'orazione. La Regola, in effetti, non parla delle cime dell'orazione come le insegnano Evagrio e Cassiano, ma dell'orazione di tutti i giorni. Che SB voglia lanciare anche i suoi discepoli verso le “cime” e che lo desideri, non c'è dubbio. Però le sue istruzioni, i suoi principi fondamentali si riferiscono all'immediato: ora e qui la preghiera deve essere riverente, umile, piena di abbandono, breve e pura (cioè intensa, senza distrazioni) e deve sgorgare da un cuore puro (cioè sincero, senza macchia di peccato) e contrito. Tutto ciò SB lo ha espresso con quattro coppie consecutive di vocaboli:

  • con umiltà e rispetto (v.1),
  • con tutta umiltà e purezza di devozione (v.2),
  • nella purezza del cuore e la compunzione delle lacrime (v.3),
  • breve e pura (v.4)

Questo è il senso del c. 20 della Regola.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XIX – La partecipazione interiore all’ufficio divino

1 Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che «gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi», 2 ma dobbiamo crederlo con assoluta certezza e senza la minima esitazione, quando prendiamo parte all’Ufficio divino. 3** Perciò ricordiamoci sempre di quello che dice il profeta: «Servite il Signore nel timore» 4** e ancora: «Lodatelo degnamente» 5 e ancora: «Ti canterò alla presenza degli angeli». 6 Consideriamo dunque come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli 7 e partecipiamo alla salmodia in modo tale che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce.

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Approfondimenti

La sezione liturgica di SB si chiude con due brevi capitoli di contenuto diverso dai precedenti. RB 8-18 ha un aspetto – possiamo dire – più tecnico: si tratta di organizzare i vari uffici, precisarne le rubriche ecc...; RB 19-20 ha un aspetto più spirituale, precisa sopratutto le disposizioni interiori della preghiera.

I due capitoli: “Modo di celebrare il divino Ufficio” (RB 19) e “Riverenza nella preghiera” (RB 20) sono strettamente collegati, perché salmodia e orazione silenziosa non sono altro che due aspetti di una medesima realtà, due momenti dell'aspirazione dell'anima verso Dio. La distinzione netta e rigorosa tra orazione comunitaria e orazione privata, tra orazione mentale e orazione vocale è una cosa relativamente moderna. Il problema della relazione tra liturgia e contemplazione non si poneva affatto per la mentalità degli antichi cristiani. Per gli antichi monaci, come per tutti i cristiani, non esisteva che una sola orazione, camminando o lavorando, nei campi o in monastero: colloquio personale con il Signore, colloquio fondamentalmente basato e mantenuto nella Scrittura e attraverso la Scrittura. Quindi tutto l'ordinamento scrupoloso sull'Ufficio divino di RB 8-18 non deve trarre in inganno, quasi si vogliano escludere altre forme di orazione, quella che oggi siamo soliti chiamare personale o privata. Non è così:

  1. primo, perché – come abbiamo visto – l'orazione segreta e interna costituiva una parte dell'Ufficio divino da intercalarsi, secondo l'uso monastico, alla recita dei salmi (orazione silenziosa dopo ogni salmo);
  2. secondo, perché secondo la RB si chiama orazione tanto l'Ufficio divino, quanto l'orazione privata dentro o fuori del medesimo Ufficio; ambedue, così, non sono che due aspetti di una medesima realtà;
  3. terzo, perché per SB, come per tutto il monachesimo primitivo, tutta la vita del monaco senza eccezione era, alla fine dei conti, “Opus Dei” (Opera di Dio). Tutta la vita del monaco era concepita come strettamente legata alla sua preghiera.

I capitoli 19-20 della RB dipendono da RM 47-48 che presuppongono una fonte comune che non è facile determinare, con evidenti allusioni a Cassiano (Coll 23,6; Inst 2,10).

1-5: Citazioni scritturistiche Il c.19, in cui si dice al monaco quale atteggiamento interiore deve avere durante la celebrazione dell'Ufficio divino, è pieno del concetto della memoria Dei (ricordo di Dio). La prima citazione, da Prv 15,3, l'abbiamo già incontrata in RB 7,26 nel primo gradino dell'umiltà che qui viene in pratica richiamato: è la coscienza permanente della presenza di Dio, l'atteggiamento radicale di fede in cui Dio è continuamente presente alla sua creatura. Ebbene, questa “memoria Dei” non deve abbandonare un istante il monaco sopratutto quando compie l'Opera di Dio per eccellenza, la preghiera comunitaria. Seguono tre citazioni dai salmi, frasi che tante volte ripetiamo all'Ufficio divino.

La prima, (v. 3 – Sal 2,11) inculca il “timore di Dio”, è il rispetto profondissimo, unico, che costituisce il fondo di tutto l'atteggiamento religioso, che qui SB applica allo speciale servizio d'onore prestato a Dio nella lode pubblica.

La seconda citazione (v. 4 – Sal 46,8) si riferisce alla “sapientia” con cui si deve salmodiare. “Psallite sapienter – cantate inni con arte”: che cosa significa precisamente? Scienza, abilità, arte, perfezione, accuratezza, precisione, attenzione? È difficile precisarlo. Tutte queste cose insieme. Comunque, non c'è dubbio che “sapienter” si riferisce anzitutto alle disposizioni spirituali dei monaci che celebrano l'Ufficio; non si tratta qui di rubriche o di cerimoniale (che pure hanno la loro importanza), qui si parla della disciplina dell'“uomo interiore”.

La terza citazione (v. 5 – Sal 137,1) ci trasferisce in una prospettiva molto ampia. Qui c'è tutta la tradizione monastica sugli angeli e sulla relazione tra vita monastica e vita angelica, in ultima analisi tutta la prospettiva escatologica della vita monastica (e della vita cristiana in quanto tale). La RB vuol dire probabilmente che l'Ufficio divino dei monaci non è solo anticipazione della liturgia celeste, ma anche una partecipazione del culto che gli angeli tributano a Dio. SB, cioè, sente vivamente l'unione del cielo con la terra durante la celebrazione dell'Ufficio divino. Inoltre per lui l'Opus Dei non è soltanto imitare ciò che gli angeli fanno in cielo; ma questi si rendono realmente presenti nella liturgia monastica e i monaci realizzano il servizio divino anche alla loro presenza, come dice espressamente il v.6.

6-9: Conclusione Dopo le citazioni della S. Scrittura, SB tira le conclusioni: “Ergo – dunque...“, e riassume tutta la spiritualità dell'Ufficio divino con una brevissima ma scultorea frase: Mens nostra concordet voci nostrae (il nostro spirito concordi con la nostra voce). SB ha presente l'insegnamento dei Padri; si veda sopratutto S. Agostino: “Quando pregate il Signore con salmi e inni, si volga nel cuore ciò che si esprime con le parole” (Epistola 211,7); o quest'altro bellissimo brano: “Se il salmo prega, pregate; se sospira, sospirate; se gioisce, gioite; se spera, sperate; se teme, temete” (Commento ai salmi, II sul salmo 30, discorso 3). La RM espone con molta prolissità la stessa idea (RM 47,9-20), La brevissima frase di SB è ancora più efficace.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XVIII – L’ordine dei salmi nelle ore del giorno

1 Prima di tutto si dica il versetto: «O Dio, vieni in mio soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi», il Gloria e poi l’inno di ciascuna Ora. 2 A Prima della domenica si dicano quattro strofe del salmo 118; 3 alle altre Ore, cioè a Terza, Sesta e Nona, si dicano tre strofe per volta dello stesso salmo. 4 A Prima del lunedì si recitino tre salmi e cioè il salmo 1, il 2 e il 6; 5 e così nei giorni successivi fino alla domenica si dicano di seguito tre salmi fino al 19, in modo però che il 9 e il 17 si dividano in due. 6 Così le vigilie domenicali cominceranno sempre con il salmo 20. 7 A Terza, Sesta e Nona del lunedì si dicano le ultime nove strofe del salmo 118, tre per ciascuna Ora. 8 Esaurito questo salmo in due giorni, cioè alla domenica e al lunedì, 9 a Terza, Sesta e Nona del martedì si recitino rispettivamente tre salmi dal 119 al 127, cioè in tutto nove salmi. 10 Questi vengano sempre ripetuti allo stesso modo nelle medesime Ore fino alla domenica, lasciando però invariati gli inni, le lezioni e i versetti per tutte le Ore della settimana, 11 in modo che alla domenica si cominci sempre dal salmo 118. 12 Il Vespro poi si celebri ogni giorno con il canto di quattro salmi, 13 dal 109 fino al 147; 14 eccettuando quelli che sono riservati alle altre Ore, cioè i salmi 117-127, 133 e 142, 15 tutti gli altri si dicano a Vespro. 16 E poiché vengono a mancare tre salmi, si dividano i più lunghi del gruppo indicato, ossia il 138, il 143 e il 144. 17 Il 116, invece, che è il più breve, venga unito al 115. 18 Stabilito così l’ordine della salmodia vespertina, tutto il resto, cioè la lezione, il responsorio, l’inno, il versetto e il cantico, si dica come abbiamo disposto sopra. 19 A Compieta, infine, si ripetano tutti i giorni gli stessi salmi e cioè il 4, il 90 e il 133. 20 Una volta fissato l’ordine della salmodia di tutti i salmi rimanenti vengano distribuiti in parti uguali nei sette Uffici notturni, 21 dividendo quelli più lunghi e assegnandone dodici per notte. 22 Ci teniamo però ad avvertire che, se qualcuno non trovasse conveniente tale distribuzione dei salmi, li disponga pure come meglio crede, 23 purché badi bene di fare in modo che in tutta la settimana si reciti l’intero salterio di centocinquanta salmi e con l’Ufficio vigiliare della domenica si ricominci sempre da capo. 24 Infatti i monaci, che in una settimana salmeggiano meno dell’intero salterio con i cantici consueti, danno prova di grande indolenza e fiacchezza nel servizio a cui sono consacrati, 25 dato che dei nostri padri si legge che in un sol giorno adempivano con slancio e fervore quanto è augurabile che noi tiepidi riusciamo a eseguire in una settimana.

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Approfondimenti

1-21: Distribuzione del salterio Delineato lo schema di tutte le Ore, SB ne designa i rispettivi salmi; finora li ha assegnati solo per le Lodi (cc.12-13), mettendo salmi particolarmente appropriati a quell'Ora; e così farà per Compieta (v.19: ogni giorno i salmi 4, 90 e 133).

Per il resto, divide il salterio in vari gruppi, disposti sommariamente così:

  • salmi 1-19 a Prima (vv.2-6)
  • salmi 20-108 all'Ufficio notturno (vv.20-21)
  • salmi 109-117 e 128-147 a Vespro (vv.12-18)
  • salmi 118-127 alle Ore minori (vv.7-11).

A differenza degli orientali, presso i quali il salterio era recitato solo nelle vigilie e nei vespri (i salmi erano raggruppati in sezioni stabili e inseparabili – carismi – che si seguivano senza interruzione), RB e il rito romano includono nella ripartizione settimanale tutte le Ore. Tuttavia anche in SB (e nel rito romano) abbiamo una lectio continua dei salmi (vedi schema sopra). La linea evolutiva della distribuzione del salterio è: Bisanzio-Roma-RB. RB è meno semplice, meno coerente, meno omogenea. Si pensi al caso di Prima che inizia il salterio dal lunedì (v.3), mentre nel rito bizantino e romano il salterio comincia la domenica. Tutto fa ritenere che il salterio benedettino è un'opera secondaria, su rimaneggiamenti del romano. Con questo, SB ha ottenuto due risultati: l'abbreviazione e la varietà. Avendo meno salmi da assegnare alle Opre primitive (Vigilie e Vespri), ha dovuto dividere quelli più lunghi, ridurre da cinque a quattro quelli del Vespro; ugualmente, tre strofe del salmo 118 (invece di sei come nel rito romano) alle Ore minori. SB abbrevia anzitutto a causa del lavoro. L'Ufficio romano era per comunità urbane; adattandolo a monasteri rurali ha dovuto abbreviare specialmente le Ore minori che interrompevano il lavoro giornaliero. Come già si è detto, lo schema della RB corrisponde allo schema “A” del “Thesaurus” della Liturgia delle Ore nel rito monastico.

22-25: L'intero salterio in una settimana Terminata l'esposizione del suo cursus liturgico, SB avverte che non intende imporre categoricamente la sua disposizione. Possiamo qui notare la libertà lasciata dal santo all'iniziativa di altri, o anche la sua umiltà che non pretende di aver creato una struttura perfetta. Lascia quindi libertà, ma a una condizione: che si salvaguardi la recita settimanale dell'intero salterio. E lo fa appellandosi ai Padri della vita monastica, evidenziando il contrasto tra “i nostri santi padri... alacremente... in un sol giorno” e “noi tiepidi... in una settimana”. Pare che si alluda all'episodio delle Viate Patrum (3,6; 5,4.57): un egiziano andò a visitare un altro, che lo volle ossequiare con una buona cena – un piatto di lenticchie! – ma prima lo invitò a pregare dicendo: Facciamo l'Opera di Dio (Opus Dei), e poi mangeremo”. Ambedue erano tanto fervorosi che uno recitò l'intero salterio e l'altro (sempre a memoria, s’intende) due Profeti maggiori! Insomma SB vuole stimolare l'ardore dei monaci (vedi fine cap.73), far vincere la tiepidezza e la negligenza, incitarli alla corsa continua, al fervore nella via della preghiera, per arrivare a quella preghiera senza interruzione (“Pregate incessantemente” 1Ts 5,17; Ef 6,18; cf. Rom 12,12; Fil 4,6; Col 4,2) di cui la preghiera a ore fisse in comune è solo un mezzo e una tappa.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XVII – Salmi delle ore del giorno

1 Abbiamo già stabilito l’ordine della salmodia per l’Ufficio notturno e per le Lodi; adesso provvediamo per le altre Ore. 2 All’ora di Prima si dicano tre salmi separatamente, ciascuno con il proprio Gloria 3 e l’inno della stessa Ora segua il versetto Deus in adiutorium prima di iniziare i salmi. 4 Finiti i tre salmi, si reciti una sola lezione, il versetto, il Kyrie eleison e le preci finali. 5 A Terza, a sesta e a Nona si celebri l’Ufficio secondo lo stesso ordine e cioè il versetto iniziale, gli inni delle rispettive Ore, tre salmi, la lezione, il versetto, il Kyrie eleison e le preci finali. 6 Se la comunità fosse numerosa, si salmeggi con le antifone, altrimenti si recitino i salmi tutti di seguito. 7 L’ufficio del Vespro comprenda quattro salmi con le antifone, 8 dopo i quali si reciti la lezione, quindi il responsorio, l’inno, il versetto, il cantico del Vangelo, il Kyrie e il Pater, a cui segue il congedo. 9 Compieta, infine, consista in tre salmi di seguito, senza antifona, 10 ai quali segua l’inno della medesima ora, una sola lezione, il versetto, il Kyrie eleison e la benedizione con cui si conclude.

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Approfondimenti

Il numero dei salmi delle Ore diurne Il numero di tre salmi per ogni Ora è tradizionale (dall'oriente, all'Ufficio romano, alla RB) e si raggiunge così il sacro numero di 12 (= 3 salmi x 4 Ore, cioè 12 al giorno come 12 alla notte!). RM mette l'antifona a tutti e tre i salmi delle Ore minori, RB solo se la comunità è grande (v.6). A Compieta sempre i salmi senza antifona.

Cantare i salmi con l'antifona comportava più tempo e maggiore solennità, le piccole comunità non sempre potevano farlo. Tuttavia SB vuole che i salmi delle Ore minori siano recitati singillatim et non sub una Gloria (distinti e non sotto un solo Gloria) (v.2) forse perché altrove accadeva che i salmi detti senza antifona perdevano anche il Gloria. SB vuole che le Ore minori possano avere salmi non antifonati, se la comunità è piccola, ma sempre ognuno con il proprio Gloria.

Le parole missae, missas (vv.4.5.8.10) significano semplicemente la fine dell'Ufficio, che a Compieta termina con la benedizione, alle altre Ore con il Pater. Non pare quindi che ci fosse la colletta conclusiva; è certo che al Laterano fino al sec. XII il Pater sostituiva la colletta.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XVI – La celebrazione delle ore del giorno

1 «Sette volte al giorno ti ho lodato», dice il profeta. 2 Questo sacro numero di sette sarà adempiuto da noi, se assolveremo i doveri del nostro servizio alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e Compieta, 3 perché proprio di queste ore diurne il profeta ha detto: «Sette volte al giorno ti ho lodato». 4 Infatti nelle Vigilie notturne lo stesso profeta dice: «Nel mezzo della notte mi alzavo per lodarti». 5 Dunque in queste ore innalziamo lodi al nostro Creatore «per le opere della sua giustizia» e cioè alle lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e a Compieta e di notte alziamoci per celebrare la sua grandezza.

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Approfondimenti

Sette volte al giorno e una volta di notte SB fissa le Ore canoniche per il giorno: sono sette senza contare l'Ufficio notturno e includendo l'Ora di Prima. Il numero sette, già considerato sacro nell'AT, lo è per l'Ufficio divino in forza del citato v. 164 del salmo 118 (certo, il salmista intende dire “sette volte” nel senso di “molte volte”, ma la tradizione monastica vi ha visto indicato un numero preciso). SB non include l'Ufficio notturno, per il quale trova una giustificazione nell'altro versetto citato, il 62, del salmo 118. Quindi: “sette volte al giorno” (Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro, Compieta) e “una volta la notte” (l'Ufficio vigiliare o notturno).

L'Ora di Prima L'Ora di Prima fu istituita, come narra Cassiano (Inst 3,4), nel monastero di Bethlehem, dove i monaci, dopo le Lodi, tornavano a letto; perché alcuni pigri ne abusavano restandovi fino a Terza, fu introdotto un nuovo Ufficio al levar del sole per dare a tutti lo stimolo di alzarsi e recarsi al lavoro. Poi si diffuse pian piano anche in occidente fin dagli inizi del secolo VI. A Roma era in uso e da qui la derivò SB (c'è anche nella RM, manca in Cassiodoro e nell'Italia del Nord). Cassiano parla della resistenza che incontrò la nuova ora, la quale somiglia alle Lodi, ma più tardi prese sempre più il carattere di preparazione al lavoro. Ad essa SB dà una considerazione speciale, le assegna salmi particolari ogni giorno (mentre per Terza, Sesta e Nona ogni giorno fa ripetere gli stessi salmi). Nel corso dei secoli l'Ora di Prima era diventata l'Ora di preparazione al lavoro anche nel senso di organizzazione della giornata: si recitava nella sala del capitolo, si leggeva la Regola, il martirologio del giorno, gli anniversari di morte, l'abate dava gli avvisi o distribuiva incarichi particolari per quel giorno.

Terza, Sesta e Nona Terza, Sesta e Nona risalgono a remotissima antichità nella Chiesa. Ne parlano molti Padri. Furono scelte perché salisse a Dio la lode nelle tre principali divisioni del giorno, ma fu loro assegnato anche un senso mistico: Terza ricorda la discesa dello Spirito Santo (vedi gli inni); Sesta ricorda la crocifissione di Gesù; Nona è l'ora in cui Gesù discese agli inferi, in cui Pietro e Giovanni salivano al tempio a pregare (At 3,1), il centurione Cornelio ebbe la visione (At 10,3).

Vespro Vespro corrisponde al sacrificio serale dell'AT, come le Lodi corrispondono a quello del mattino. Lodi e Vespro erano considerate le Ore più solenni; ad esse SB assegna i cantici evangelici Benedictus e Magnificat e il Pater recitato per intero dall'Abate “propter scandalorum spinas” (per le spine degli scandali) (RB 13,12-14). Il Vespro si celebrava al cominciare della notte. SB ne anticipa un po' l'ora per dar posto alla Compieta. Altri autori coevi e la RM usano anche il termine Lucernaria; SB solo la parola Vespera e non presenta traccia di rito lucernare: vuol dire che si attiene alla più pura tradizione romana, l'altro termine rimanda ad influssi liturgici non romani.

Compieta Sulle origini e lo sviluppo di Compieta i liturgisti non sono d'accordo. È conosciuta già da S. Basilio (il quale attesta anche l'uso in essa del salmo 90) e c'è nell'Ufficio romano classico. Certo, la sua diffusione deve molto all'ordinamento di SB. La parola Completorium significa Ufficio che complet (conclude) l'Opus Dei e la giornata del monaco.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XV – Quando si deve dire l’alleluia

1 L’Alleluia si dica sempre dalla santa Pasqua fino a Pentecoste, tanto nei salmi che nei responsori; 2 da Pentecoste poi sino al principio della Quaresima lo si dica soltanto negli ultimi sei salmi dell’Ufficio notturno. 3 Ma in tutte le domeniche che cadano fuori del tempo quaresimale i cantici, le Lodi, Prima, Terza, Sesta e Nona si dicano con l’Alleluia, mentre il Vespro avrà le antifone proprie. 4 I responsori, invece, non si dicano mai con l’Alleluia, se non da Pasqua a Pentecoste. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Quando si deve dire l’alleluia Tra i capitoli sull'Ufficio notturno e mattutinale e quelli sull'Ufficio diurno, SB intercala un breve capitolo sull'uso dell'alleluia, parola ebraica che significa “lodate YHWH”, che si trova al principio e alla fine di parecchi salmi ed era diventata una formula di giubilo. L'uso dell'alleluia differiva da chiesa a chiesa. Il rito romano classico riservava l'alleluia al tempo pasquale e, nelle domeniche, dal terzo notturno all'Ora di Nona.

Per la RM l'alleluia significa la speciale appartenenza dei “servi di Dio” al loro Signore (in Ap 19,1ss i santi sono presentati come coloro che cantano eternamente l'alleluia). Secondo la RM il monastero come “casa di Dio” rappresenta il cielo; vivere nel monastero equivale a vivere continuamente “con il Signore” in un eterno tempo pasquale, in una anticipazione della vita eterna (RM 13,72; 88,14; 95,23). Perciò la RM usa l'alleluia con singolare abbondanza rispetto al rito romano e alla tradizione lerinese (Lerins-Arles), assegnandolo a tutte le Ore dell'Ufficio feriale.

RB si conforma all'uso romano per le domeniche, cioè l'alleluia dal terzo Notturno fino a Nona; invece, diversamente dall'Ufficio romano, prescrive l'alleluia nei giorni feriali al secondo Notturno. Naturalmente in Quaresima non si dirà mai l'alleluia, mentre da Pasqua a Pentecoste si dirà sempre, cioè a tutte le Ore, anche nei responsori.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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