📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

SECONDO DISCORSO DI BILDAD 1Bildad di Suach prese a dire:

2“Quando porrai fine alle tue chiacchiere? Rifletti bene e poi parleremo. 3Perché ci consideri come bestie, ci fai passare per idioti ai tuoi occhi? 4Tu che ti rodi l'anima nel tuo furore, forse per causa tua sarà abbandonata la terra e le rupi si staccheranno dal loro posto?

5Certamente la luce del malvagio si spegnerà e più non brillerà la fiamma del suo focolare. 6La luce si offuscherà nella sua tenda e la lucerna si estinguerà sopra di lui. 7Il suo energico passo si accorcerà e i suoi progetti lo faranno precipitare, 8perché con i suoi piedi incapperà in una rete e tra le maglie camminerà. 9Un laccio l'afferrerà per il calcagno, un nodo scorsoio lo stringerà. 10Gli è nascosta per terra una fune e gli è tesa una trappola sul sentiero. 11Terrori lo spaventano da tutte le parti e gli stanno alle calcagna. 12Diventerà carestia la sua opulenza e la rovina è ritta al suo fianco. 13Un malanno divorerà la sua pelle, il primogenito della morte roderà le sue membra. 14Sarà tolto dalla tenda in cui fidava, per essere trascinato davanti al re dei terrori!

15Potresti abitare nella tenda che non è più sua; sulla sua dimora si spargerà zolfo. 16Al di sotto, le sue radici si seccheranno, sopra, appassiranno i suoi rami. 17Il suo ricordo sparirà dalla terra e il suo nome più non si udrà per la contrada. 18Lo getteranno dalla luce nel buio e dal mondo lo stermineranno. 19Non famiglia, non discendenza avrà nel suo popolo, non superstiti nei luoghi della sua residenza.

20Della sua fine stupirà l'occidente e l'oriente ne avrà orrore. 21Ecco qual è la sorte dell'iniquo: questa è la dimora di chi non riconosce Dio”. _________________ Note

18,13 il primogenito della morte: probabilmente è da intendere la peste, mentre il re dei terrori (v. 14) è la morte.

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Approfondimenti

SECONDO DISCORSO DI BILDAD (18,1-21) Il tono del secondo discorso di Bildad si attesta in continuità con quello di Elifaz. Il tentativo di persuadere Giobbe a riconoscere la sua colpa avviene, in questa fase della Disputa, prospettandogli la fine più drammatica e infamante. Essi per intimidirlo gli espongono le conseguenze ineluttabili a cui va incontro chi persiste nell'ostinazione, inutile, perché non può incidere in alcun modo sull'ordine divino degli eventi. Le sezioni maggiori in cui si articola il discorso di Bildad contengono: l'espressione del fastidio per la presunzione di Giobbe (vv. 2-4); la rovina inesorabile dell'empio e la distruzione di ciò in cui confidava (vv. 5-14); la scomparsa del ricordo dell'empio dalla memoria collettiva e la privazione di qualsiasi posterità (vv. 15-19). Le sentenze conclusive (vv. 20-21) riferiscono che questa è la sorte del malvagio e desta uno stupore generale.

vv. 2-4. Anche Bildad (come prima Elifaz, 15,2-3) si mostra infastidito dalle argomentazioni di Giobbe, perciò chiede che si parli in modo più avvertito; inoltre, sempre con una domanda retorica (v. 4), egli sottolinea l'inammissibilità e l'esclusione che a motivo della lacerazione interiore di Giobbe, la terra venga privata di ciò che è stabilito, che l'ordinamento vigente delle cose e degli eventi venga rimosso. Con questo, Bildad in parte ripropone l'argomento della stabilità delle disposizioni divine (cfr. 8,3), in parte accusa Giobbe che amplifica la sua afflizione al punto da presumere una ripercussione sul cosmo e su Dio. Non è da escludere infatti che nel v. 4c il sostantivo sûr, «roccia (le rupi)», venga usato anche come uno dei titoli con cui si designava Dio (cfr. Dt 32,4.15.18; 1Sam 2,2; 2Sam 22,32).

vv. 5-14. Bildad utilizza diverse immagini per descrivere la progressiva irruzione della rovina sul malvagio: l'estinzione della luce (vv. 5-6), le trappole (vv. 7-10), la malattia (vv. 11-14). Con la metafora della luce si fa riferimento al finire della vita e al venir meno della prosperità del malvagio (cfr. Prv 13,9; 20,20; 24,20). La cessazione di ogni movimento, segno della forza con cui l'uomo domina sulle cose, è descritta invece in relazione alla caduta nelle trappole alle quali il malvagio va incontro proprio con il suo consiglio (contro 10,3. Cfr. Sal 1,1; 9,16; 35,7-8; 57,7; Prv 5,22). Infine, sull'empio si avventerà il terrore (cfr. 27,20; 30,5; Sal 73,19; Is 17,14), la carestia, la malattia letale, strumenti efficaci della morte, che qui appare quasi personificata. Strappato dalla vita di prosperità che conduceva, il malvagio verrà infatti condotto alla morte, «al re dei terrori» (v. 14).

vv. 20-21. Le sentenze conclusive del discorso di Bildad delineano, con un merismo, lo sgomento e l'orrore di tutti. Niente infatti sopravviverà del malvagio, questa è la sua sorte. Bildad ha descritto la sorte dell'empio come una fatalità inesorabile, ineluttabile, senza alcun riferimento esplicito a un'azione divina. La rovina dell'empio è generata infatti dal proprio consiglio. Sul piano del contenuto, Bildad, che non si è avvalso di alcuna autorità o fatto straordinario per rafforzare la sua argomentazione, ribatte alle affermazioni di Giobbe sul benessere e sull'immunità di cui godono i malvagi (cfr. 10,3; 12,6), evidenziando invece il carattere apparente e temporaneo di una tale circostanza, destinata alla completa distruzione. Tuttavia, sul piano della relazione (come per Elifaz, cfr. c. 15), il discorso di Bildad sembra lanciare a Giobbe un monito, o persino, a tratti, rappresentare la sua stessa situazione, colpito, come l'empio, dalla rovina, raggiunto dai terrori e dalla malattia letale. Pertanto, la designazione finale dell'iniquo come colui che «misconosce Dio» (18,21; cfr. anche Is 1,3), può essere intesa come un indiretto riferimento (simile a quello in 8,13: «chi dimentica Dio») a Giobbe (cfr. 12,9; 13,2). Ed è evidente come tale insinuazione sia connessa alla questione della conoscenza, dato che all'interno della Disputa fra Giobbe e gli amici, l'oggetto e il modo del conoscere risultano, in una crescente tensione, sempre più contesi.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Il mio respiro è affannoso, i miei giorni si spengono; non c'è che la tomba per me! 2Non sono con me i beffardi? Fra i loro insulti veglia il mio occhio. 3Poni, ti prego, la mia cauzione presso di te; chi altri, se no, mi stringerebbe la mano? 4Poiché hai tolto il senno alla loro mente, per questo non li farai trionfare. 5Come chi invita a pranzo gli amici, mentre gli occhi dei suoi figli languiscono. 6Mi ha fatto diventare la favola dei popoli, sono oggetto di scherno davanti a loro. 7Si offusca per il dolore il mio occhio e le mie membra non sono che ombra.

8Gli onesti ne rimangono stupiti e l'innocente si sdegna contro l'empio. 9Ma il giusto si conferma nella sua condotta e chi ha le mani pure raddoppia gli sforzi. 10Su, venite tutti di nuovo: io non troverò un saggio fra voi. 11I miei giorni sono passati, svaniti i miei progetti, i desideri del mio cuore. 12Essi cambiano la notte in giorno: “La luce – dicono – è più vicina delle tenebre”. 13Se posso sperare qualche cosa, il regno dei morti è la mia casa, nelle tenebre distendo il mio giaciglio. 14Al sepolcro io grido: “Padre mio sei tu!” e ai vermi: “Madre mia, sorella mia voi siete!”. 15Dov'è, dunque, la mia speranza? Il mio bene chi lo vedrà? 16Caleranno le porte del regno dei morti, e insieme nella polvere sprofonderemo?“.

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Approfondimenti

17,1-7. Giobbe, ancora, supplica, chiede a Dio di volgersi a lui, di impegnarsi in suo favore (v. 3), poiché, nonostante la sua prossimità con la morte (vv. 1.7), è circondato da gente che lo deride e lo tormenta (v. 2). Particolare è inoltre la constatazione di Giobbe di essere diventato un proverbio (v. 6), di presentare dei tratti così caratteristici di cui tutti parlano, e con disprezzo (cfr. Dt 28,37; 1Re 9,7). Rimane aperta la questione su chi lo ha reso così (v. 6a). Il soggetto infatti volutamente non è esplicito. Pertanto può trattarsi di Dio (cfr. Sal 44,14-15), oppure si riferisce all'empio, ai beffardi dei vv. 2.5a.6b. (cfr. Sal 69,11-12). Infine può alludere all'afflizione, che Giobbe ha rappresentato come testimone d'accusa menzognera, in 16,8. Riteniamo che vada rispettata la significativa apertura del testo con la pluralità di possibilità riguardo al soggetto. La tragedia di Giobbe è resa più profonda, infatti, dal continuo concorrere di una pluralità di eventi contrari.

vv. 8-16. In precedenza Giobbe aveva considerato lo sconcerto (cfr. 16,7) da lui destato all'interno della sua comunità, ma ora (v. 8) afferma che i retti, pur nello sgomento per la sciagura, si ergono contro le accuse degli empi. Contro l'insinuazione di Elifaz (cfr. 15,4) Giobbe asserisce che colui che è giusto, anche nella sventura (propria o che colpisce un altro), persiste nell'integrità e accresce la sua forza nell'attesa di Dio (v. 9; cfr. Is 40,31; Sal 64,11). Invece, fra tutti coloro che, come gli amici di Giobbe, si reputano rappresentanti e detentori della conoscenza (v. 10; cfr. 15,9-10; Is 5,21) non si troverà un saggio. Le considerazioni di Giobbe sollevano delle questioni, sottese alla dinamica che la Disputa va evidenziando, di grande rillievo dal punto di vista gnoseologico e pertinenti all'evoluzione del dibattito sapienziale in Israele, a cui il libro di Giobbe offre un contributo essenziale. In particolare esse prospettano un confronto fra la conoscenza dell'uomo, anche riguardo a Dio, intesa come processo aperto ad apprendere dall'esperienza e dalle provocazioni dell'esistenza e della storia (come per Giobbe), o come un corpo ormai stabilito e regolato di informazioni e di cognizioni (come per gli amici di Giobbe). Le parole di Giobbe riaffermano che per lui la vita è il limite invalicabile entro il quale l'uomo raggiunge il suo significato e può godere della relazione con Dio (cfr. Sal 88,11-13), e per questo la morte, con il suo carattere definitivo, desta in lui un profondo sconforto.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ 1Giobbe prese a dire:

2“Ne ho udite già molte di cose simili! Siete tutti consolatori molesti. 3Non avranno termine le parole campate in aria? O che cosa ti spinge a rispondere? 4Anch'io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto: comporrei con eleganza parole contro di voi e scuoterei il mio capo su di voi. 5Vi potrei incoraggiare con la bocca e il movimento delle mie labbra potrebbe darvi sollievo. 6Ma se parlo, non si placa il mio dolore; se taccio, che cosa lo allontana da me?

7Ora però egli mi toglie le forze, ha distrutto tutti i miei congiunti 8e mi opprime. Si è costituito testimone ed è insorto contro di me: il mio calunniatore mi accusa in faccia. 9La sua collera mi dilania e mi perseguita; digrigna i denti contro di me, il mio nemico su di me aguzza gli occhi. 10Spalancano la bocca contro di me, mi schiaffeggiano con insulti, insieme si alleano contro di me. 11Dio mi consegna come preda all'empio, e mi getta nelle mani dei malvagi. 12Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha scosso, mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio. 13I suoi arcieri mi circondano; mi trafigge le reni senza pietà, versa a terra il mio fiele, 14mi apre ferita su ferita, mi si avventa contro come un guerriero.

15Ho cucito un sacco sulla mia pelle e ho prostrato la fronte nella polvere. 16La mia faccia è rossa per il pianto e un'ombra mortale mi vela le palpebre, 17benché non ci sia violenza nelle mie mani e sia pura la mia preghiera. 18O terra, non coprire il mio sangue né un luogo segreto trattenga il mio grido! 19Ecco, fin d'ora il mio testimone è nei cieli, il mio difensore è lassù. 20I miei amici mi scherniscono, rivolto a Dio, versa lacrime il mio occhio, 21perché egli stesso sia arbitro fra l'uomo e Dio, come tra un figlio dell'uomo e il suo prossimo; 22poiché passano i miei anni che sono contati e me ne vado per una via senza ritorno. _________________ Note

16,9 digrigna i denti... aguzza gli occhi: allusioni alla violenza di chi infierisce sulla vittima.

16,15 sacco e polvere: segni di profonda umiliazione.

16,18-22 terra, non coprire il mio sangue: il sangue sparso e non coperto reclamava l’intervento di Dio (vedi Gen 4,10; 37,26; Is 26,21; Ez 24,7).

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ (16,1-17,16) Il nuovo discorso di Giobbe presenta, rispetto ai precedenti, una serie di caratteristiche formali (come il brusco passaggio di persone verbali, il frequente ricorso a costruzioni ellittiche sul piano sintattico e semantico), che determinano qui, ancora più che altrove, differenti possibilità di comprensione del testo, di traduzione, di interpretazione dello stesso, non disgiunte da molteplici opinioni riguardo alla struttura del discorso. Anche in questo caso, la nostra scelta rende conto, per ovvi motivi, solo di alcuni aspetti del testo, che come sempre rimane aperto a ulteriori possibilità di interpretazione. Pertanto è forse possibile intendere il travaglio formale del testo, espressamente voluto dall'autore, anche come un segnale narrativo, atto a rafforzare il movimento drammatico, a manifestare il flusso del pensiero di Giobbe, fortemente segnato dall'amarezza.

Giobbe dapprima (16,2-6), rivolgendosi agli amici, esprime fastidio e irritazione per i loro discorsi. Egli poi si sofferma e descrive la violenza di cui si sente oggetto da parte di Dio (16,7-14). Nondimeno si appella a Dio che sa testimone della sua innocenza (16,15-22). Ma poi, preso dalla morsa dell'angoscia, della derisione, dell'abbandono, prevale in Giobbe lo sconforto (17,1-7) e la consapevolezza della morte imminente, della discesa nello ṣɇ'ôl (17,8-16).

vv. 16,2-6. Alla disapprovazione e alla squalifica espressa da Elifaz (cfr. 15,2-6), Giobbe ribatte manifestando irritazione e sdegno per le parole degli amici che definisce «consolatori» fastidiosi, «molesti» (v. 2b). Per un momento Giobbe ipotizza l'inversione delle parti, in cui egli potrebbe rivolgersi a loro con parole e gesti di commiserazione, senza alcun turbamento. Questo voler cambiare le posizioni esprime l'amarezza di Giobbe per l'incomprensione degli amici, ma richiama anche il rispetto per chi è nel dolore, la cui sofferenza non può essere compresa se non dal di dentro, tentando di mettersi nei panni di chi la vive, per rintracciare insieme un insegnamento anche da tale evento, per ricomporre e identificare ulteriori ragioni di vita.

vv. 7-14. Giobbe, il quale ritiene Dio responsabile della sua situazione, con una forte tensione drammatica descrive con maggiori dettagli l'ostilità di Dio che si è avventato su di lui come un bersaglio (v. 12; cfr. 7,20). Egli riferisce l'azione devastante di Dio che lo ha condotto alla prostrazione e lo ha esposto al rifiuto e all'abbandono di chi lo conosce. Non solo; l'afflizione entro cui Dio lo ha costretto è diventata testimone di accusa contro di lui (v. 8). Infatti è dalla sua sventura che gli altri, a cominciare dagli amici, desumono la sua colpevolezza. Egli si sente preda della collera irriducibile di Dio (v. 9; cfr. 9,13). E Dio lo ha anche consegnato alla derisione e all'oltraggio degli empi (v. 10-11), che dunque si configurano come uno strumento di Dio nella prova dell'uomo. Peraltro questa concezione non è sconosciuta alla Scrittura. In precedenza il profeta Geremia aveva parlato di Nabucodonosor come «servo» di Dio (cfr. 27,4-8), come strumento del giudizio di Dio su Israele. Giobbe pertanto dice di Dio ciò che nella dinamica del racconto ha compiuto il Satan, accanito avversario dell'uomo. Per esprimere l'azione violenta di Dio nei suoi confronti, Giobbe si avvale di immagini come il leone (v. 9), l'arciere (vv. 12-13), il guerriero (v. 14): il discorso procede dunque per accumulazione di immagini, di azioni, di effetti, per esprimere, in tal modo, la gravità dell'intervento ostile di Dio.

vv. 15-22. Giobbe tuttavia non cessa di dichiarare la sua innocenza. Il riferimento all'assenza di violenza e alla purezza, all'autenticità della preghiera (v. 17) vuole ribadire la conformità della condotta di Giobbe rispetto alla comunità di appartenenza e la sua fedeltà a Dio (contro l'accusa di Elifaz, cfr. 15,4). E in questo contesto che affiora l'appello di Giobbe alla terra perché non copra il suo sangue e non assorba il suo grido, bensì giungano al cielo, a Dio (v. 18). Si può pensare che con esso Giobbe non si riferisca solo a una situazione dopo la morte (cfr. Gn 4,10; Is 26,21), ma al grido che egli incessantemente, ora, innalza. La piaga e l'afflizione che hanno colpito Giobbe rappresentano già un'irruzione della morte nella sua esistenza, una prefigurazione della morte (cfr. 17,1.14-16; Sal 18,5-6; 88,4-6). Così, mentre la sua vita appare irrimediabilmente adombrata e votata alla morte innocente, Giobbe grida, supplica Dio a fare vendetta (cfr. Sal 9,13; 79,10-11; Ger 15,15). Ciò che è paradossale, è che Giobbe chiede un intervento di Dio a suo favore, contro Dio. Avvalendosi di parole e sintagmi con una precisa denotazione giuridica, egli insiste, certo di avere in cielo il testimone a suo favore, Dio (v. 19). In precedenza Giobbe aveva escluso che ci potesse essere un arbitro fra lui e Dio (cfr. 9,33); pertanto, in una tale contesa, Dio appare, di volta in volta, come testimone (v. 19), accusato, accusatore e giudice (v. 21; cfr. 10,2). Ciò che è implicito in questa attesa di giustizia di Giobbe, è che il giudizio di Dio non consiste solo nel ripristinare la verità dal punto di vista formale, ma soprattutto nel ristabilire la relazione di comunione. Per questo Giobbe sollecita che ciò avvenga mentre egli è ancora in vita, visto che la morte è la dimensione ultima, irreparabile.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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SECONDO DISCORSO DI ELIFAZ 1 Elifaz di Teman prese a dire:

2“Potrebbe il saggio rispondere con ragioni campate in aria e riempirsi il ventre del vento d'oriente? 3Si difende egli con parole inutili e con discorsi inconcludenti? 4Ma tu distruggi la religione e abolisci la preghiera innanzi a Dio. 5Infatti la tua malizia istruisce la tua bocca e scegli il linguaggio degli astuti. 6Non io, ma la tua bocca ti condanna e le tue labbra attestano contro di te.

7Sei forse tu il primo uomo che è nato, o prima dei monti sei stato generato? 8Hai tu avuto accesso ai segreti consigli di Dio e ti sei appropriato tu solo della sapienza? 9Che cosa sai tu, che noi non sappiamo? Che cosa capisci, che non sia chiaro anche a noi? 10Sia il vecchio che il canuto sono fra di noi, carichi di anni più di tuo padre. 11Poca cosa sono per te le consolazioni di Dio e una parola moderata rivolta a te? 12Perché il tuo cuore ti stravolge, perché ammiccano i tuoi occhi, 13quando volgi contro Dio il tuo animo e fai uscire tali parole dalla tua bocca?

14Che cos'è l'uomo perché si ritenga puro, perché si dica giusto un nato da donna? 15Ecco, neppure nei suoi santi egli ha fiducia e i cieli non sono puri ai suoi occhi, 16tanto meno un essere abominevole e corrotto, l'uomo che beve l'iniquità come acqua.

17Voglio spiegartelo, ascoltami, ti racconterò quel che ho visto, 18quello che i saggi hanno riferito, che non hanno celato ad essi i loro padri; 19solo a loro fu concessa questa terra, né straniero alcuno era passato in mezzo a loro. 20Per tutti i giorni della vita il malvagio si tormenta; sono contati gli anni riservati al violento. 21Voci di spavento gli risuonano agli orecchi e in piena pace si vede assalito dal predone. 22Non crede di potersi sottrarre alle tenebre, egli si sente destinato alla spada. 23Abbandonato in pasto ai falchi, sa che gli è preparata la rovina. Un giorno tenebroso 24lo spaventa, la miseria e l'angoscia l'assalgono come un re pronto all'attacco, 25perché ha steso contro Dio la sua mano, ha osato farsi forte contro l'Onnipotente; 26correva contro di lui a testa alta, al riparo del curvo spessore del suo scudo, 27poiché aveva la faccia coperta di grasso e pinguedine intorno ai suoi fianchi. 28Avrà dimora in città diroccate, in case dove non si abita più, destinate a diventare macerie. 29Non si arricchirà, non durerà la sua fortuna, le sue proprietà non si estenderanno sulla terra. 30Alle tenebre non sfuggirà, il fuoco seccherà i suoi germogli e il vento porterà via i suoi fiori. 31Non si affidi alla vanità che è fallace, perché vanità sarà la sua ricompensa. 32Prima del tempo saranno disseccati, i suoi rami non rinverdiranno più. 33Sarà spogliato come vigna della sua uva ancora acerba e getterà via come ulivo i suoi fiori, 34poiché la stirpe dell'empio è sterile e il fuoco divora le tende dell'uomo venale. 35Concepisce malizia e genera sventura e nel suo seno alleva l'inganno”.

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Approfondimenti

SECONDO DISCORSO DI ELIFAZ (15,1-35) Il secondo discorso di Elifaz si presenta duro e minaccioso rispetto ai tratti esortativi contenuti nel primo intervento (cc. 4-5). È come se Elifaz non tollerasse la resistenza di Giobbe. Elifaz ribadisce la colpevolezza di Giobbe (vv. 2-6), lo interpella sull'infondatezza della sua conoscenza (vv. 7-13), ripropone la sfiducia di Dio anche sull'uomo, che non può essere puro dinanzi a lui (vv. 14-16), e, ricorrendo alla sapienza degli antichi, descrive le tribolazioni dell'empio la cui prosperità non ha consistenza, non può sussistere, poiché egli non può sottrarsi alla giustizia divina che inesorabilmente lo raggiunge nel corso della vita (vv. 17-35).

vv. 2-6. Elifaz qualifica l'argomentazione di Giobbe come priva di efficacia, inutile. Non solo; egli ritiene che Giobbe con le sue questioni e le sue affermazioni stia attentando alla relazione dell'uomo con Dio, distruggendo ciò che ne è al fondamento: il timore di Dio, la venerazione e la continua presenza al suo insegnamento. Il timore a cui allude e lascia intendere Elifaz è più preoccupato dell'uomo che di Dio, è mosso dalla paura, è teso a custodire la giusta distanza fra l'uomo e Dio, è interessato a una convivenza con Dio senza rischi, confida nella prevedibilità dell'agire di Dio in relazione al comportamento dell'uomo, si affida e soppesa le giuste misure fra Dio e l'uomo. Ben diverso è il timore che Giobbe ha di Dio (cfr. commento a 13,1-19), ma Elifaz non se ne accorge! Pertanto Elifaz non ha dubbi: è proprio il parlare di Giobbe, spregiudicato e irriverente verso Dio, che manifesta la sua colpevolezza.

vv. 7-13. Elifaz esprime anche la sua irritazione per la conoscenza che Giobbe pretende di avere. Elifaz, pur indagando, non trova differenze e rivendica per sé e per gli amici lo stesso grado di conoscenza di Giobbe (v. 9; cfr. 12,3; 13,2). Con questa forte rivendicazione di uguaglianza nella conoscenza, si delinea, come ormai in atto, fra Giobbe e gli amici, un'incalzante competizione simmetrica che porterà inesorabilmente a una conflittualità fra le parti, sempre più aperta, antitetica e inconciliabile. Così, Elifaz continua a valutare il comportamento di Giobbe incapace di apprezzare le consolazioni, i benefici che Dio gli ha concesso in passato e la parola che ora gli amici gli rivolgono.

vv. 14-16. Elifaz riprende il tema della radicale impurità dell'essere umano (cfr. 4,17; 14,4). L'argomentazione procede a maiore ad minus, come nell'intervento precedente (cfr. 4,17-19), e descrive l'assoluta sfiducia di Dio verso i suoi collaboratori (la corte celeste e il firmamento), e a maggior ragione nei confronti dell'uomo. Per Elifaz, l'essere umano, che dopo Adamo ed Eva è evidentemente un «nato di donna» (v. 14b; 14,1), non è più fondamentalmente «buono» secondo la volontà di Dio (cfr. Gn 1,31), ma segnato originariamente dall'inclinazione al male, per cui è anche irrimediabilmente colpevole. In questa visione di Elifaz, così pessimistica riguardo all'uomo e negativa dell'opera di Dio, non ci sono attenuanti per l'essere umano a motivo della sua caducità (cfr. 14,1-6). Inoltre, Elifaz chiaramente ribatte e respinge qualsiasi possibilità per l'uomo di contendere con Dio (cfr. 13,1-19).

vv.17-35. Nella seconda parte del discorso, Elifaz si occupa della sorte del rāšā‘, l'uomo empio, malvagio, colpevole (cfr. 9,24), per confutare, ma anche ammonire Giobbe. Elifaz presenta (vv. 17-19) la nuova argomentazione non solo come esito della sua osservazione, ma anche come insegnamento ricevuto dagli antichi e stavolta offre a Giobbe la sua esperienza che concorda (a differenza di Bildad, cfr. 8,9), con la dottrina dei saggi. Elifaz in tal modo sembra richiamare il valore e l'importanza di quanto sta per dire. Egli sostiene (vv. 20-24) che anche quando sembra che l'empio viva nella prosperità, in realtà è oggetto dell'angoscia e dell'angustia, è un uomo braccato dalle tenebre e dalla morte (v. 30; cfr. 20,26). La causa di questa situazione risiede, per Elifaz, nel fatto che l'empio si è contrapposto a Dio dal quale però non può sfuggire, benché riesca a sottrarsi agli uomini (cfr. vv. 25-28). Elifaz intravede come sicura la fine prematura dell'empio, che lo priverà della posterità e dei possessi (cfr. Sal 49,18). L'eredità dell'empio, infatti, è l'inconsistenza e la futilità che ha tramato. Il proverbio finale (v. 35; cfr. Is 59,4; Sal 7,15), con cui Elifaz conclude il suo discorso, ripropone dunque la relazione univoca fra il comportamento dell'uomo e la sua sorte (cfr. 5,6-7).

Al livello del contenuto, Elifaz si impegna con questo discorso a confutare l'opinione di Giobbe secondo la quale gli empi prosperano quasi godendo del favore di Dio (cfr. 9,24; 10,3; 12,6), ma, a livello della relazione, Elifaz esprime invece a Giobbe un avvertimento e una minaccia. In particolare ciò si realizza con il riferimento all'angoscia e all'opposizione a Dio, che esplicitamente vengono riferite all'empio, ma che di fatto caratterizzano Giobbe. Per Elifaz è intollerabile che Giobbe resista a Dio; egli lo considera un pericoloso istigatore contro le istituzioni religiose, contro Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1L'uomo, nato da donna, ha vita breve e piena d'inquietudine; 2come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l'ombra e mai si ferma. 3Tu, sopra di lui tieni aperti i tuoi occhi, e lo chiami a giudizio dinanzi a te? 4Chi può trarre il puro dall'immondo? Nessuno. 5Se i suoi giorni sono contati, il numero dei suoi mesi dipende da te, hai fissato un termine che non può oltrepassare. 6Distogli lo sguardo da lui perché trovi pace e compia, come un salariato, la sua giornata! 7È vero, per l'albero c'è speranza: se viene tagliato, ancora si rinnova, e i suoi germogli non cessano di crescere; 8se sotto terra invecchia la sua radice e al suolo muore il suo tronco, 9al sentire l'acqua rifiorisce e mette rami come giovane pianta. 10Invece l'uomo, se muore, giace inerte; quando il mortale spira, dov'è mai? 11Potranno sparire le acque dal mare e i fiumi prosciugarsi e disseccarsi, 12ma l'uomo che giace non si alzerà più, finché durano i cieli non si sveglierà né più si desterà dal suo sonno. 13Oh, se tu volessi nascondermi nel regno dei morti, occultarmi, finché sia passata la tua ira, fissarmi un termine e poi ricordarti di me! 14L'uomo che muore può forse rivivere? Aspetterei tutti i giorni del mio duro servizio, finché arrivi per me l'ora del cambio! 15Mi chiameresti e io risponderei, l'opera delle tue mani tu brameresti. 16Mentre ora tu conti i miei passi, non spieresti più il mio peccato: 17in un sacchetto, chiuso, sarebbe il mio delitto e tu ricopriresti la mia colpa. 18E invece, come un monte che cade si sfalda e come una rupe si stacca dal suo posto, 19e le acque consumano le pietre, le alluvioni portano via il terreno: così tu annienti la speranza dell'uomo. 20Tu lo abbatti per sempre ed egli se ne va, tu sfiguri il suo volto e lo scacci. 21Siano pure onorati i suoi figli, non lo sa; siano disprezzati, lo ignora! 22Solo la sua carne su di lui è dolorante, e la sua anima su di lui fa lamento”. _________________ Note

14,7 per l’albero c’è speranza: l’ipotesi di un ritorno alla vita, e di una eventuale risurrezione, viene del tutto esclusa per l’uomo.

14,14 l’ora del cambio: l’immagine è presa dall’ambiente militare che, nel libro di Giobbe, è spesso allusione alle fatiche dell’uomo.

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Approfondimenti

La riflessione di Giobbe si estende poi (14,1-6) alla vita umana caratterizzata dalla brevità (14,1; cfr. 7,7; 10,20; Is 40,6-8; Sal 90,6; 103,15-16) e dall'inquietudine, segnata dalla generale tendenza al peccato (14,4; cfr. 4,17). Per tali motivi Giobbe chiede a Dio un distacco, una sospensione del giudizio sull'uomo. Il rilievo è posto soprattutto sulla brevità della vita umana, a cui Dio ha imposto un limite invalicabile. Pertanto l'uomo non merita così tanta attenzione (cfr. 7,16-18), fino all'assedio da parte di Dio; l'uomo è già gravato dalla finitezza e dalla pena della vita. Giobbe approfondisce anche le conseguenze connesse a tale situazione e paragona la speranza dell'uomo con quella dell'albero. L'albero, infatti, quando è potato o anche se muore, ha speranza di rinnovarsi e di rinascere; non così è per l'uomo per il quale la morte costituisce il limite definitivo (14,7-12). Se l'uomo potesse rivivere avrebbe la speranza, anche nel tempo della sventura, della vita; attenderebbe, nella disgrazia, il passaggio, il ritorno della vita. Così Dio potrebbe proteggere Giobbe nello ṣɇ'ôl, nel regno dei morti, finché sia passata la sua ira, e poi essere ricordato, richiamato alla vita (14,13-14). Con queste ipotesi Giobbe tenta anche di sublimare l'amarezza e l'impotenza per il ritrarsi inesorabile della vita. Egli è profondamente legato alla vita e lotta per essa, come esclusivo luogo della realizzazione umana e della relazione con Dio. Fa dunque appello al Dio della vita, per non essere distrutto dall'ira divina e perché la permanenza nello ṣɇ'ôl sia solo temporanea, in vista del ritorno alla vita! La realtà è ben diversa, Giobbe intatti deve prendere atto dell'irrigidimento dell'azione inquisitoria di Dio, unito al congelamento della sua trasgressione (14,15-17), oltre la quale Dio sembra non vedere. Pertanto egli conclude con la prevaricazione di Dio sull'uomo, con la supremazia di Dio che annienta la speranza dell'uomo e lo costringe alla fine irrimediabile, irreversibile, a cui le sofferenze sono un preludio (14,18-22).

Questo discorso di Giobbe conclude il primo ciclo di discorsi e, contemporaneamente, apre il secondo. Le differenze fra i tre amici sono molto tenui: essi di fatto difendono, pur con diverse sfumature, lo stesso punto di vista, la stessa concezione teologica; sono i rappresentanti di una forte, compatta corrente di pensiero. Giobbe è deluso e irritato dai loro interventi e prontamente ribatte alle loro accuse. Egli appare profondamente turbato dal silenzio e dal nascondimento di Dio e pertanto, proprio in quest'ultimo discorso, chiede con insistenza a Dio di essergli vicino e di comunicare con lui.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1 Ecco, tutto questo ha visto il mio occhio, l'ha udito il mio orecchio e l'ha compreso. 2Quel che sapete voi, lo so anch'io; non sono da meno di voi. 3Ma io all'Onnipotente voglio parlare, con Dio desidero contendere. 4Voi imbrattate di menzogne, siete tutti medici da nulla. 5Magari taceste del tutto: sarebbe per voi un atto di sapienza! 6Ascoltate dunque la mia replica e alle argomentazioni delle mie labbra fate attenzione. 7Vorreste forse dire il falso in difesa di Dio e in suo favore parlare con inganno? 8Vorreste prendere le parti di Dio e farvi suoi avvocati? 9Sarebbe bene per voi se egli vi scrutasse? Credete di ingannarlo, come s'inganna un uomo? 10Severamente vi redarguirà, se in segreto sarete parziali. 11La sua maestà non vi incute spavento e il terrore di lui non vi assale? 12Sentenze di cenere sono i vostri moniti, baluardi di argilla sono i vostri baluardi. 13Tacete, state lontani da me: parlerò io, qualunque cosa possa accadermi. 14Prenderò la mia carne con i denti e la mia vita porrò sulle mie palme. 15Mi uccida pure, io non aspetterò, ma la mia condotta davanti a lui difenderò! 16Già questo sarebbe la mia salvezza, perché davanti a lui l'empio non può presentarsi. 17Ascoltate bene le mie parole e il mio discorso entri nei vostri orecchi. 18Ecco, espongo la mia causa, sono convinto che sarò dichiarato innocente. 19Chi vuole contendere con me? Perché allora tacerei e morirei.

20Fammi solo due cose e allora non mi sottrarrò alla tua presenza: 21allontana da me la tua mano e il tuo terrore più non mi spaventi. 22Interrogami pure e io risponderò, oppure parlerò io e tu ribatterai. 23Quante sono le mie colpe e i miei peccati? Fammi conoscere il mio delitto e il mio peccato. 24Perché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico? 25Vuoi spaventare una foglia dispersa dal vento e dare la caccia a una paglia secca? 26Tu scrivi infatti contro di me sentenze amare e su di me fai ricadere i miei errori giovanili; 27tu poni in ceppi i miei piedi, vai spiando tutti i miei passi e rilevi le orme dei miei piedi. 28Intanto l'uomo si consuma come legno tarlato o come un vestito corroso da tignola.

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Approfondimenti

13,1-19 Anche Giobbe trae la sua conoscenza dalla percezione, dall'osservazione, dall'esperienza e pertanto egli ne ribadisce la parità con quella degli amici (vv. 1-2; cfr. 12, 3). Ciò che alimenta la tensione fra Giobbe e gli amici è la differente interpretazione degli stessi avvenimenti, con la diversa distribuzione di responsabilità fra Dio e l'uomo. Giobbe, pertanto, chiede agli amici di tacere (vv. 5.13) e di ascoltare (v. 6.17). Egli contesta loro l'ergersi a difensori di Dio al punto da presentarlo con parzialità (per es. ostentando di conoscere la sapienza di Dio) o di dichiarare il falso (per es. sulla sicura colpevolezza di Giobbe). Egli li avverte, ignaro di anticipare la conclusione (42,7-10), sul fatto che essi non potranno sottrarsi all'azione di Dio (espressa con una terminologia forense), che investigherà e contenderà anche con loro. Solo da Dio, e non dagli amici che respingono la radicalità dei suoi interrogativi, Giobbe attende una parola di verità. Perciò Giobbe si spinge con audacia ancora oltre, e dichiara di voler disputare con Dio, di voler contestarlo, di voler contendere con lui (tale è la polisemia connessa al verbo ykḥ nella forma hifil, cfr. vv. 3b.15. Peraltro Giobbe ha usato questo verbo per riferire l'azione di Dio sugli amici, cfr. v. 10). Giobbe intende disputare apertamente con Dio a costo della vita (v. 14), certo della sua innocenza (v. 18), ma soprattutto perché anche nella catastrofe continua a confidare in Dio (v. 15). Nel discorso precedente, Giobbe pareva escludere la possibilità di contendere con Dio, perché Dio non risponde o perché comunque la sua sentenza di colpevolezza è già fissata (cfr. 9,3.20.28), e non c'è un arbitro tra Giobbe e Dio al quale poter ricorrere (cfr. 9,33). Ora, invece, Giobbe è deciso a parlare, e non più per dare uno sfogo alla sua amarezza incontenibile (cfr. 6,3; 7,11; 10,1), ma perché deliberatamente vuole contendere con Dio (cfr. vv. 3.15; qui il verbo ykḥ viene evidentemente usato come sinonimo di rîb, come intervento di accusa). Dove Giobbe attinge tanta audacia? Per comprenderlo bisogna prestare attenzione alle sue parole, nei vv. 15-16, che peraltro si offrono a interpretazioni diverse e talvolta contrastanti. In relazione alla lettura del testo ebraico (13,15-16; cfr. Sal 71,14; 118,14; Is 12,2), Giobbe manifesta fiducia e speranza non in qualcosa proveniente da Dio, ma in Dio stesso. Tanta insistenza e audacia non si comprende se non all'interno della relazione fondamentale di vita, di Giobbe con Dio, cui queste parole solo alludono. Nelle circostanze più difficili e avverse la speranza scaturisce dal precedente evento della comunione con Dio, dalla conoscenza e dal ricordo della benevolenza, della salvezza e della benedizione di Dio (cfr. 10,12; 29). La speranza di Giobbe è dunque riposta in Dio, ed è tesa, anche attraverso l'aperto contendere, a ritessere quella relazione e comunione di vita con lui. Si può così comprendere anche la qualità del timore che Giobbe ha di Dio, come atto di penetrazione in Dio, che lo rende capace, a rischio della vita, di spingersi oltre il definito, il consueto, e di sperare e osare con Dio ciò che non è impossibile per chi ama.

vv. 13,20-14,22. Così, nel resto del discorso, Giobbe si rivolge di nuovo a Dio muovendogli delle accuse. Egli critica e chiede conto a Dio del suo agire. Alla querela è però premessa l'esortazione di Giobbe a Dio di allontanare la sua ira e di non spaventarlo con il suo terrore (13,20-21; cfr. 9,34). Egli prosegue e avanza la richiesta a Dio perché gli manifesti il suo peccato (13,23; cfr. 10,2; Sal 50,21), di cui non ha consapevolezza e da cui con tale domanda anche si discolpa. Giobbe chiede inoltre a Dio perché gli nasconde il suo volto e lo considera come un suo nemico (13,24). Il fatto che Dio nasconde il suo volto «Perché mi nascondi la tua faccia?» non è solo espressione della sua ira (cfr. Dt 31,17-18), o segno della disattenzione di Dio (cfr. Sal 13,2; 44,25), ma può significare anche la mancanza di benevolenza e della presenza salvifica di Dio (cfr. 33,26; Sal 30,8; 69,18; 102,3). II nascondimento di Dio è il motivo profondo del turbamento di Giobbe (cfr. 30,8). Non si può fare a meno di notare il gioco sonoro delle parole ‘ôyēb, «nemico», e ’îyôb, «Giobbe», che talvolta si è ritenuto potesse rimandare al significato simbolico del nome del protagonista.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A SOFAR 1Giobbe prese a dire: 2“Certo, voi rappresentate un popolo; con voi morirà la sapienza! 3Anch'io però ho senno come voi, e non sono da meno di voi; chi non sa cose simili? 4Sono diventato il sarcasmo dei miei amici, io che grido a Dio perché mi risponda; sarcasmo, io che sono il giusto, l'integro! 5“Allo sventurato spetta il disprezzo”, pensa la gente nella prosperità, “spinte a colui che ha il piede tremante”. 6Le tende dei ladri sono tranquille, c'è sicurezza per chi provoca Dio, per chi riduce Dio in suo potere. 7Interroga pure le bestie e ti insegneranno, gli uccelli del cielo e ti informeranno; 8i rettili della terra e ti istruiranno, i pesci del mare e ti racconteranno. 9Chi non sa, fra tutti costoro, che la mano del Signore ha fatto questo? 10Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio di ogni essere umano. 11L'orecchio non distingue forse le parole e il palato non assapora i cibi? 12Nei canuti sta la saggezza e in chi ha vita lunga la prudenza. 13In lui risiedono sapienza e forza, a lui appartengono consiglio e prudenza! 14Ecco, se egli demolisce, non si può ricostruire, se imprigiona qualcuno, non c'è chi possa liberarlo. 15Se trattiene le acque, vi è siccità, se le lascia andare, devastano la terra. 16In lui risiedono potenza e sagacia, da lui dipendono l'ingannato e l'ingannatore. 17Fa andare scalzi i consiglieri della terra, rende stolti i giudici; 18slaccia la cintura dei re e cinge i loro fianchi d'una corda. 19Fa andare scalzi i sacerdoti e rovescia i potenti. 20Toglie la parola a chi si crede sicuro e priva del senno i vegliardi. 21Sui potenti getta il disprezzo e allenta la cintura dei forti. 22Strappa dalle tenebre i segreti e porta alla luce le ombre della morte. 23Rende grandi i popoli e li fa perire, fa largo ad altri popoli e li guida. 24Toglie la ragione ai capi di un paese e li fa vagare nel vuoto, senza strade, 25vanno a tastoni in un buio senza luce, e barcollano come ubriachi. _________________ Note

12,7-8 interroga pure le bestie: nella letteratura sapienziale spesso affiora il riferimento agli animali, ritenuti capaci di insegnare all’uomo.

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A SOFAR (12,1-14,22) In questo lungo discorso di Giobbe sono presenti tutti gli interlocutori: gli amici (12,1-13,19), con un riferimento particolare a Sofar (12,7-8), e soprattutto Dio anticipato dall'inno (12,13-24). A Dio, poi, Giobbe si rivolge direttamente (13,20-14,22), come suo interlocutore privilegiato, dal quale attende una risposta.

vv. 12,2-6. Giobbe, a sua volta, deride la conoscenza degli amici, e sostiene che la sapienza che essi ostentano finirà con loro. Peraltro Giobbe rivendica per sé la stessa attitudine alla conoscenza (v. 2; cfr. 13,2). Essa non gli impedisce di prendere atto di essere diventato oggetto di disprezzo (v. 4; cfr. 30,1; Ger 20,7; Lam 3,14) per gli amici. Inoltre, mentre egli grida a Dio perché si volga a lui, prospera la dimora degli empi, benché provochino Dio con l'idolatria e il disimpegno etico (cfr. Dt 31,29; 2Re 17,11...). Dalle parole di Giobbe emerge la denuncia che Dio non interviene, non gli risponde, lo tiene prigioniero dei terrori, ma, pure, che Dio non si occupa degli empi e, pertanto, in tal modo, li favorisce (cfr. 9,24; 10,3; 24). L'accusa di Giobbe a Dio, così, non solo continua, ma cresce.

vv. 7-12. Ora Giobbe si rivolge a Sofar (vv. 7-8), e controbatte alla pretesa di una sapienza elitaria da parte degli amici con l'evidenza di una conoscenza a cui partecipano tutte le creature. Il contenuto di tale conoscenza consiste nel fatto che il soffio di vita, in ogni essere vivente, è un dono di Dio, del Signore (ricorre qui infatti JHWH, cfr. 12,9). Tutte le creature conoscono il loro creatore (cfr. Sal 148). E la conservazione stessa della vita, del soffio vitale, dipende pure dal rinnovato dono di Dio (cfr. Sal 104,29-30). Pertanto, poiché la vita deriva da Dio, l'argomentazione di Giobbe tende a mettere in rilievo che Dio, in tal modo, tiene in pugno tutte le creature (v. 10). Se questo è tanto evidente, perché gli amici, ai quali ora Giobbe si indirizza indirettamente, che si reputano saggi, appaiono così restii a intendere? (vv. 11-12).

vv. 13-25. Con questo inno alla potenza e sapienza di Dio (cfr. 9,4), ancora una volta Giobbe sottolinea che solo Dio è sovrano nell'agire, solo a Dio appartiene l'iniziativa e l'intervento sulla natura, sull'uomo, sui potenti e sulle nazioni. Infatti l'azione che tutti manifestano è solo una conseguenza dell'iniziale intervento di Dio, al quale non ci si può opporre, e che non si può mutare (cfr. 9,12; 23,13). Sempre da Dio deriva il positivo é il negativo nella natura, nella società, nella storia, e l'uomo ne coglie soltanto il risultato senza poter accedere alle ragioni di Dio. L'uomo non comprende la sapienza di Dio. Giobbe sembra mettere in rilievo l'azione di Dio come espressione della sua onnipotenza che opera con assoluta discrezionalità, al punto che l'uomo può esserne irrimediabilmente danneggiato, come nel suo caso. Non si deve dimenticare che le riflessioni e gli interrogativi di Giobbe scaturiscono dall'interno della tragedia che egli vive, e non rappresentano una rilettura dell'azione salvifica di Dio in una situazione in cui la precarietà è ormai superata (cfr. Sal 107). Inoltre, questo inno su Dio (si parla di Dio in terza persona), nel contesto dell'ampia sezione (12,1-13,19) in cui Giobbe si rivolge agli amici, funziona come monito per essi, che vanno tanto fieri della loro sapienza. Giobbe li avverte che Dio può indurli in errore.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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PRIMO DISCORSO DI SOFAR 1Sofar di Naamà prese a dire: 2“A tante parole non si dovrà forse dare risposta? O il loquace dovrà avere ragione? 3I tuoi sproloqui faranno tacere la gente? Ti farai beffe, senza che alcuno ti svergogni? 4Tu dici: “Pura è la mia condotta, io sono irreprensibile agli occhi tuoi”. 5Tuttavia, volesse Dio parlare e aprire le labbra contro di te, 6per manifestarti i segreti della sapienza, che sono così difficili all'intelletto, allora sapresti che Dio ti condona parte della tua colpa. 7Credi tu di poter scrutare l'intimo di Dio o penetrare la perfezione dell'Onnipotente? 8È più alta del cielo: che cosa puoi fare? È più profonda del regno dei morti: che cosa ne sai? 9Più lunga della terra ne è la dimensione, più vasta del mare. 10Se egli assale e imprigiona e chiama in giudizio, chi glielo può impedire? 11Egli conosce gli uomini fallaci; quando scorge l'iniquità, non dovrebbe tenerne conto? 12L'uomo stolto diventerà giudizioso? E un puledro di asino selvatico sarà generato uomo? 13Ora, se tu a Dio dirigerai il cuore e tenderai a lui le tue palme, 14se allontanerai l'iniquità che è nella tua mano e non farai abitare l'ingiustizia nelle tue tende, 15allora potrai alzare il capo senza macchia, sarai saldo e non avrai timori, 16perché dimenticherai l'affanno e te ne ricorderai come di acqua passata. 17Più del sole meridiano splenderà la tua vita, l'oscurità sarà per te come l'aurora. 18Avrai fiducia perché c'è speranza e, guardandoti attorno, riposerai tranquillo. 19Ti coricherai e nessuno ti metterà paura; anzi, molti cercheranno i tuoi favori. 20Ma gli occhi dei malvagi languiranno, ogni scampo è loro precluso, unica loro speranza è l'ultimo respiro!“. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

PRIMO DISCORSO DI SOFAR (11,1-20) Zofar è il terzo degli amici a prendere la parola. Il suo è anche il discorso più breve. Egli deride il parlare di Giobbe e il suo dichiararsi innocente (vv. 2-4). Solo se Dio parlasse, con la sua sapienza lo metterebbe a tacere, Infatti la grandezza di Dio non può essere investigata; inoltre, pur vedendo la colpa dell'uomo, Dio non ne tiene conto, non la considera (vv. 5-12). A Giobbe non rimane che supplicare Dio ed espiare la sua colpa così che venga reintegrato nella vita, mentre gli empi vedranno la distruzione (vv. 13-20). La supplica a Dio e il pentimento appaiono la garanzia per una rinnovata speranza. Benché l'argomento di Zofar sia la sapienza imperscrutabile di Dio, la soluzione che egli prospetta a Giobbe fa leva sullo sforzo dell'uomo e trae sicurezza dal proprio pentimento. Egli dunque si avvicina alla posizione di Elifaz e Bildad.

11,2-4. Zofar deride il discorrere e l'argomentare di Giobbe con una serie di domande retoriche (vv. 2-3). L'abilità nel parlare è insolenza che non può trovare risposta o che fa tacere gli altri. Zofar contesta a Giobbe la sua rivendicazione di rettitudine riguardo alla sua dottrina, alla sua conoscenza, alla irreprensibilità della sua persona (cfr. 8, 6; 16, 17; 33, 9) e mette in questione la dottrina di Giobbe, cioè la sua concezione, la sua conoscenza che continua ad esprimere nei discorsi. Il conflitto e la disputa si evidenziano, quindi, proprio in relazione al sistema concettuale che gli intervenuti propongono. Una significativa differenza è data dal fatto che, mentre per Giobbe gli interrogativi che scaturiscono dalla sua situazione esigono delle risposte nuove di una nuova conoscenza aperta su Dio e sull'uomo, non così è per gli amici i quali ripropongono l'insegnamento tradizionale, peraltro irrigidito.

vv. 5-12. Zofar introduce il suo argomento: la conoscenza della sapienza di Dio, non fondata su visioni (Elifaz), né sulla tradizione (Bildad), ma sulla rivelazione diretta di Dio, nel parlare di Dio a Giobbe, così come lui chiede. In tal modo Dio gli annuncerebbe i segreti della sapienza, la quale ha un duplice aspetto. Questo carattere duplice della sapienza divina (v. 6) riteniamo che possa essere inteso con una pluralità di accezioni. Intanto se si riferisce a Dio, può alludere alla polarità (cfr. Sal 113,6; 33,13-15) come espressione della conoscenza completa, totale, da parte di Dio. Se invece si riferisce alla conoscenza che l'uomo ha dell'intervento di Dio, allora può indicare la comprensione molteplice che gli uomini hanno di Dio, ciascuno secondo la propria capacità e in diversi modi nel corso della vita (cfr. Sal 62,12). Ma il carattere duplice può riferirsi anche alla torah donata da Dio, che contiene comandi positivi (“fai!”: cfr. per es. Es 20,8.12) e negativi (“non fare!”: cfr. per es. Es 20,13-17). Zofar ritiene che Giobbe, da una tale rivelazione, saprebbe che Dio già ha perdonato una parte della sua colpa (la stessa idea si trova anche in Am 8,7; Is 43,25; 64,8; Sal 25,7). Così, per Zofar, le sofferenze di Giobbe sono inferiori alla gravità della sua colpa. Il discorso prosegue (vv. 7-12) sull'insondabilità delle profondità di Dio e la conseguente, incolmabile, distanza di Giobbe, dell'uomo, da Dio. Dinanzi a tutto questo, che cos'è dunque la conoscenza e la presunta ragione di Giobbe? La sezione è conclusa da un proverbio che manifesta il pessimismo nei confronti dell'uomo, il quale è vuoto ed è come un asino selvatico. Solo considerando la grandezza insondabile di Dio l'uomo acquisterà un lēb, la capacità di comprendere, rinascendo veramente uomo.

vv. 13-20. Nell'ultima parte del discorso, Zofar, come i primi due amici, espone a Giobbe le condizioni per uscire dalla sua attuale angoscia e le conseguenze positive che ne seguiranno. Le condizioni sono: la disposizione interiore e la supplica (v. 13; cfr. Es 9,33; 1Re 8,22.38; Is 1,15), unite all'impegno etico, espresso dal rifiuto della malvagità e della menzogna (v. 14). A tali condizioni corrisponde la promessa del ritorno della prosperità e dell'onore per Giobbe che ritroverà la speranza (v. 18). Zofar non si allontana dalle posizioni di Elifaz e Bildad. Le sofferenze di Giobbe sono in relazione alla sua colpa, che peraltro Dio in parte ha perdonato. Così anche la prosperità del malvagio costituisce per Zofar un'espressione della compassione di Dio, che non distrugge completamente le sue creature a motivo del loro peccato.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giobbe si sente colpito da Dio senza motivo 1 Io sono stanco della mia vita! Darò libero sfogo al mio lamento, parlerò nell'amarezza del mio cuore. 2Dirò a Dio: “Non condannarmi! Fammi sapere di che cosa mi accusi. 3È forse bene per te opprimermi, disprezzare l'opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi? 4Hai tu forse occhi di carne o anche tu vedi come vede l'uomo? 5Sono forse i tuoi giorni come quelli di un uomo, i tuoi anni come quelli di un mortale, 6perché tu debba scrutare la mia colpa ed esaminare il mio peccato, 7pur sapendo che io non sono colpevole e che nessuno mi può liberare dalla tua mano?

8Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte: e ora vorresti distruggermi? 9Ricòrdati che come argilla mi hai plasmato; alla polvere vorresti farmi tornare? 10Non mi hai colato come latte e fatto cagliare come formaggio? 11Di pelle e di carne mi hai rivestito, di ossa e di nervi mi hai intessuto. 12Vita e benevolenza tu mi hai concesso e la tua premura ha custodito il mio spirito. 13Eppure, questo nascondevi nel cuore, so che questo era nei tuoi disegni! 14Se pecco, tu mi sorvegli e non mi lasci impunito per la mia colpa. 15Se sono colpevole, guai a me! Ma anche se sono giusto, non oso sollevare il capo, sazio d'ignominia, come sono, ed ebbro di miseria. 16Se lo sollevo, tu come un leone mi dai la caccia e torni a compiere le tue prodezze contro di me, 17rinnovi contro di me i tuoi testimoni, contro di me aumenti la tua ira e truppe sempre nuove mi stanno addosso. 18Perché tu mi hai tratto dal seno materno? Sarei morto e nessun occhio mi avrebbe mai visto! 19Sarei come uno che non è mai esistito; dal ventre sarei stato portato alla tomba! 20Non sono poca cosa i miei giorni? Lasciami, che io possa respirare un poco 21prima che me ne vada, senza ritorno, verso la terra delle tenebre e dell'ombra di morte, 22terra di oscurità e di disordine, dove la luce è come le tenebre”. _________________ Note

10,8-11 Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto: questa descrizione del concepimento dell’uomo e del suo sviluppo nel seno materno si ispira alle immagini del vasaio che plasma l’argilla e al pastore che prepara i formaggi. Anche in altri testi biblici Dio è visto come colui che forma il corpo dell’uomo nel grembo della madre (vedi, ad es., Sal 139,15-16).

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Approfondimenti

Giobbe si sente colpito da Dio senza motivo 10,1-22 Giobbe si rivolge direttamente a Dio con una serie di domande retoriche che fanno leva sul Dio creatore. Giobbe chiede di non essere dichiarato colpevole, ma che Dio gli faccia conoscere il motivo del contendere con lui (v. 2). Giobbe è colpito per una colpa che non conosce e reclama a Dio perché gliela manifesti (cfr. Sal 50). Giobbe avverte un'intensità, un concentramento sproporzionato di Dio su di lui, dato che egli non può sottrarsi in alcun modo alla presa di Dio. Ma Giobbe con tali interrogativi sollecita pure Dio ad agire secondo la differenza di Dio sull'uomo (cfr. Os 11,9; Is 55,9).

vv. 8-12. Giobbe rievoca la relazione originaria fra Dio e l'uomo e ricorda a Dio la fragilità umana, come motivi per spingerlo a intervenire in suo favore. Dio, come uno scultore, ha formato l'uomo (v. 8; cfr. Gn 2), e poi ha stabilito che questa misteriosa formazione avvenisse all'interno del grembo materno (v. 11; cfr. Sal 139,13.15). Ma l'uomo è fortemente segnato dalla caducità, dimensione che di nuovo Giobbe ricorda a Dio (v. 9; cfr. 7,7; Gn 3,19, Sal 103,14). Giobbe ha conosciuto da parte di Dio il dono della vita e inoltre ha sperimentato la bontà (ḥesed) di Dio, quel legame che manifesta la sollecitudine e l'amore di Dio per l'uomo, e, conoscendo Giobbe, si può supporre l'esistenza di una risposta corrispondente.

vv. 13-17. Ma nonostante la benevolenza, Giobbe constata che Dio serbava dell'altro. Così se Giobbe ha peccato, Dio non lo lascia impunito. E anche se è giusto, egli non può alzare la testa, come espressione della propria libertà e dignità. Infatti se osa alzare la testa, Dio sta in agguato come un leone sulla preda (cfr. Os 5,14; 13,7-8) e accresce, con la sua ira, le sofferenze di Giobbe. Egli chiedeva all'inizio (cfr. v. 2) che Dio gli manifestasse il motivo del contendere. Adesso è Giobbe che, ricostruendo l'agire di Dio, manifesta le proprie proteste. Tuttavia l'intento di Giobbe è quello di ricordare a Dio che egli è Dio, e che l'uomo è solo una sua creatura. Appare particolarmente significativo, all'interno di questo discorso di Giobbe, pervaso dal motivo del rîb, soprattutto nella forma dell'accusa, anche l'uso del verbo yd', «conoscere, sapere». Giobbe conosce, riconosce, confessa in senso forense, la difficoltà dell'uomo di avere una giusta causa con Dio (cfr. 9,2), non sa valutare la propria integrità (cfr. 9,21), riconosce che Dio certamente non lo dichiarerà innocente (cfr. 9,28); comprende che Dio teneva in serbo per lui queste sventure. Le creature di Dio sono invece ignare di come Dio agisca con loro (cfr. 9,5). Infine c'è l'implorazione di Giobbe a Dio perché gli faccia conoscere il motivo della sua contesa con lui (cfr. 10,2), e ancora, Giobbe sostiene che Dio sa che lui non è colpevole (cfr. 10,7). Rispetto alle certezze di colpevolezza degli amici, Giobbe manifesta una conoscenza attraversata dagli interrogativi e che si rimette all'alterità di Dio, che non può operare secondo criteri umani. Giobbe con le sue domande e le sue proteste sollecita l'intervento di Dio: egli non può distruggere l'uomo, opera delle sue mani. Giobbe, pur nell'amarezza e nell'accusa, continua a mantenere l'apertura a Dio, in una relazione viva, resa più intensa e non respinta o negata, nella prova.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD

1 Giobbe prese a dire:

2“In verità io so che è così: e come può un uomo aver ragione dinanzi a Dio? 3Se uno volesse disputare con lui, non sarebbe in grado di rispondere una volta su mille. 4Egli è saggio di mente, potente di forza: chi si è opposto a lui ed è rimasto salvo?

5Egli sposta le montagne ed esse non lo sanno, nella sua ira egli le sconvolge. 6Scuote la terra dal suo posto e le sue colonne tremano. 7Comanda al sole ed esso non sorge e mette sotto sigillo le stelle. 8Lui solo dispiega i cieli e cammina sulle onde del mare. 9Crea l'Orsa e l'Orione, le Plèiadi e le costellazioni del cielo australe. 10Fa cose tanto grandi che non si possono indagare, meraviglie che non si possono contare.

11Se mi passa vicino e non lo vedo, se ne va e di lui non mi accorgo. 12Se rapisce qualcosa, chi lo può impedire? Chi gli può dire: “Cosa fai?”. 13Dio non ritira la sua collera: sotto di lui sono fiaccati i sostenitori di Raab. 14Tanto meno potrei rispondergli io, scegliendo le parole da dirgli; 15io, anche se avessi ragione, non potrei rispondergli, al mio giudice dovrei domandare pietà. 16Se lo chiamassi e mi rispondesse, non credo che darebbe ascolto alla mia voce. 17Egli con una tempesta mi schiaccia, moltiplica le mie piaghe senza ragione, 18non mi lascia riprendere il fiato, anzi mi sazia di amarezze. 19Se si tratta di forza, è lui il potente; se di giustizia, chi potrà citarlo in giudizio? 20Se avessi ragione, la mia bocca mi condannerebbe; se fossi innocente, egli mi dichiarerebbe colpevole. 21Benché innocente, non mi curo di me stesso, detesto la mia vita! 22Per questo io dico che è la stessa cosa: egli fa perire l'innocente e il reo! 23Se un flagello uccide all'improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride. 24La terra è lasciata in balìa del malfattore: egli vela il volto dei giudici; chi, se non lui, può fare questo?

25I miei giorni passano più veloci d'un corriere, fuggono senza godere alcun bene, 26volano come barche di papiro, come aquila che piomba sulla preda. 27Se dico: “Voglio dimenticare il mio gemito, cambiare il mio volto e rasserenarmi”, 28mi spavento per tutti i miei dolori; so bene che non mi dichiarerai innocente. 29Se sono colpevole, perché affaticarmi invano? 30Anche se mi lavassi con la neve e pulissi con la soda le mie mani, 31allora tu mi tufferesti in un pantano e in orrore mi avrebbero le mie vesti. 32Poiché non è uomo come me, al quale io possa replicare: “Presentiamoci alla pari in giudizio”. 33Non c'è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi. 34Allontani da me la sua verga, che non mi spaventi il suo terrore: 35allora parlerei senza aver paura di lui; poiché così non è, mi ritrovo con me solo. _________________ Note

9,5 sposta le montagne: i terremoti e le catastrofi naturali erano considerati manifestazioni dell’onnipotenza divina.

9,9 Orsa, Orione, Plèiadi: l’identificazione delle costellazioni è difficile. I termini ebraici con cui vengono designate sono interpretati diversamente nelle antiche versioni greca e latina.

9,13 Raab: mostro dell’antica mitologia, personificazione del caos primitivo e delle ampie distese dei mari.

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A BILDAD (9,1-10,22) Questo discorso di Giobbe contiene un'introduzione tematica (9,2-4) sulla questione della giustizia dell'uomo dinanzi a Dio, seguita da un inno alla potenza di Dio sulla natura (9,5-10): Il tema iniziale viene poi ripreso e ampliato (9,11-24) e culmina nell'affermazione che Dio distrugge l'uomo integro e quello malvagio (9,22). Seguono poi le considerazioni di Giobbe sulla sua situazione contingente, privato anche della possibilità di condurre Dio in giudizio (9,25-35). Infine, come nel discorso precedente, Giobbe conclude con un appello a Dio perché gli riveli su che cosa contende con lui e gli conceda una pausa dai terrori, prima dello ṣɇ'ôl (10,1-22). È assente, nel discorso, qualsiasi riferimento diretto agli amici. Giobbe persiste nel porre il problema in Dio, e con l'affermazione dell'assoluta discrezionalità di Dio nei confronti dell'uomo, viene messa in crisi, in modo irreversibile, la concezione degli amici fondata sull'esclusiva logica lineare causa-effetto. Il discorso presenta ripetutamente lessemi, sintagmi e alcuni tratti del rîb, la contesa giudiziaria fra due soggetti, Giobbe e Dio. Inoltre ad esso si affianca un uso particolare e significativo del verbo «conoscere» (yd).

9,2-4. Giobbe rilancia la questione al livello di Dio. Come può un uomo essere giusto con Dio? O anche, come può un uomo avere una giusta causa con Dio? Giobbe, in tal modo, riprende le parole di Elifaz (cfr. 4,17) benché in un contesto opposto alle certezze dell'amico. Il riferimento è a una controversia giuridica, al rîb, a un'azione giuridica di Giobbe contro Dio (cfr. 13,19; 23,6; 40,2). Essa implica che il soggetto che accusa presenti un discorso con tutte le ragioni e contestazioni che motivano il suo attacco, con le conseguenze che ne derivano, e faccia appello alla risposta di colui che è messo in questione. In questo caso, Giobbe però prevede (v. 3b) che Dio non si curi di rispondere ad alcuna delle molteplici contestazioni. Oppure, il senso del v. 3b può essere anche inteso in relazione all'uomo, che non potrebbe ribattere e rispondere alle interpellanze di Dio. L'autore sembra volutamente lasciare aperta la duplice possibilità di interpretazione. Il risultato che ne deriva da entrambe le prospettive è la superiorità di Dio, irraggiungibile per l'uomo (v. 4; cfr. 12,13).

vv. 5-10. Con un breve inno, Giobbe celebra la sapienza e soprattutto la potenza di Dio: egli esercita la sua incontrastata sovranità sulla natura (cfr. Am 8,9; Is 13,10.13; Sal 19,5-7; 104,2). Tuttavia mentre Elifaz (cfr. 5,9-16) aveva celebrato la potenza di Dio che interviene sulla natura a favore dell'uomo, e nelle relazioni umane per liberare l'oppresso dai prepotenti, qui Giobbe celebra le opere grandi e meravigliose di Dio, che non si possono né investigare né enumerare: Dio infatti esercita la sua potenza sulla natura in modo illimitato e indiscriminato.

vv. 11-24. La superiorità incontrastata di Dio si manifesta non solo sul creato, che non ha consapevolezza di quel che accade, ma anche rispetto all'uomo che pure non si accorge del passaggio di Dio. Chi può chiedere conto a Dio di quel che fa? Nessuno può protestare con lui. Nella ripresa del tema iniziale (cfr. v. 3), Giobbe afferma (vv. 14-15) che in una controversia con Dio, egli, anche se giusto, non risponderebbe alle accuse di Dio, ma al suo giudice (che non può essere se non Dio) implorerebbe misericordia, non tanto per scampare alla valenza minacciosa dell'atto del giudizio, quanto per la preponderanza irresistibile, incontenibile dell'avversario: Dio! Oltre il crescendo che descrive i tormenti esterni, le ferite interiori, le amarezze, l'angustia (cfr. 7,11), al lettore non sfugge che qui Giobbe, a sua insaputa, viene anche a contatto con un nodo del racconto, mentre riferisce che l'agire di Dio contro di lui è senza ragione (ḥinnām: v. 17; cfr. 2,3). Tutto è cominciato con la scommessa del Satan, che ha messo in dubbio il fatto che Giobbe tema Dio senza ragione (ḥinnām, cfr. 1, 9). Perciò, se si tratta di una prova di forza, Giobbe sa di non poter resistere dinanzi a Dio. Inoltre, pur esaminando e intensificando la metafora giudiziaria (vv. 19-24), Giobbe conclude che con Dio non ci sono possibilità di far valere la propria innocenza (v. 20), perché comunque egli distrugge senza distinzione l'uomo integro e il malvagio, l'empio (v. 22; cfr. Gn 18,23). L'affermazione di Giobbe (v. 22), pertanto, si oppone alle certezze di Bildad (cfr. 8,20) che prevedevano un comportamento differenziato di Dio a favore dell'uomo integro e contro il malvagio. Ma non basta; infatti Giobbe asserisce e accusa Dio di aver consegnato la terra in potere dell'empio (v. 24). Ancora una volta c'è una progressione drammatica nel discorso di Giobbe che dalla sua situazione estrema osa dire di Dio l'impensabile.

vv. 25-35. Giobbe constata (vv. 25-31) che tutti i suoi tentativi di dimenticare il suo lamento e le sue pene (e non Dio, come aveva alluso Bildad in 8,13), e anche ogni eventuale iniziativa di purificazione (v. 30; cfr. Is 1,18; Ger 2,22), sarebbero fatiche inutili, non inciderebbero sull'attribuzione di colpevolezza da parte di Dio. Infatti Dio non è un uomo così che Giobbe lo conduca in giudizio, non c'è un arbitro tra loro (cfr. v. 19) che possa dirimere la loro vertenza (vv. 32-33; cfr. Nm 23,19). Se l'ipotesi iniziale di Giobbe era quella del rîb con Dio (cfr. 9,3), lungo il discorso si è arricchita di altri riferimenti (cfr. 9,14-16.19-20), alludendo alla possibilità di essere chiamato in giudizio o di chiamare in giudizio Dio per veder riconosciuta da un giudice la propria innocenza. Tuttavia Giobbe è consapevole dell'impossibilità di ricorrere a un terzo, un giudice, fra lui e Dio, e più avanti Giobbe chiederà esplicitamente a Dio il motivo della contesa (rib, cfr. 10,2).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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