📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

Capitolo LIV – La distribuzione delle lettere e dei regali destinati ai singoli monaci

1 Senza il consenso dell’abate nessun monaco può ricevere dai suoi parenti o da qualunque altra persona lettere, oggetti di devozione o altri piccoli regali e neanche farne a sua volta o scambiarli con i confratelli. 2 E anche se i parenti gli mandassero qualche dono, non si permetta di accettarlo, senza averne prima informato l’abate. 3 Ma questi, anche nel caso che dia il suo consenso per ricevere il dono, può sempre assegnarlo a chi vuole 4 e il monaco a cui era destinato non deve farsi di questo un motivo di afflizione, per non dare occasione al diavolo. 5 Se poi qualcuno si provasse a comportarsi diversamente, sia sottoposto ai castighi dalla Regola.

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Approfondimenti

Non ricevere nulla senza permesso Questo breve capitolo non è che l'applicazione di quanto prescritto in RB 33,2: “Nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell'abate”. Si è già detto quanto SB sia severo in materia di povertà, per lo spogliamento e il distacco del monaco. La fonte è soprattutto S. Agostino (ma anche Pacomio, Cassiano, Cesario); tuttavia, mentre Agostino parla della castità (ricevere alcunché da qualcuna, cioè da una donna) e della clausura, RB si riferisce alla povertà (e all'obbedienza: non disporre di nulla senza il permesso dell'abate).

Per il monaco destinatario si aggiunge la raccomandazione di non lamentarsi (cf RB 34,3) nel caso che l'abate dia il permesso di accettare il regalo e poi lo dia a un altro fratello che forse ne ha più bisogno, secondo lo spirito del c. 34: è un caso concreto di distribuzione delle cose in comune. Pertanto quel monaco a cui era inviato il regalo non deve rattristarsi, “per non dare occasione al diavolo” (cf Ef 4,27; 1Tim 5,14), cioè per non cedere alla tentazione del malcontento, dell'agitazione, della mormorazione.

Il termine “eulogia” (letteralmente: “buona parola”, “benedizione”) ha tanti significati: designava anzitutto l'Eucarestia e il pane benedetto durante la messa che si inviavano vicendevolmente vescovi e presbiteri, in segno di comunione e di amicizia. S. Paolino da Nola ne mandava ai suoi amici, come S. Agostino. Anche quel briccone di Fiorenzo, quando inviò a SB il pane avvelenato, simulò di mandare un'eulogia (II Dial. 8). Designava ancora il pane offerto dai fedeli che non veniva consacrato per l'Eucarestia e veniva distribuito al termine della liturgia. Il vocabolo servì poi ad indicare ogni pio dono, come reliquie, medaglie, immagini e anche frutta e piccoli doni tra i più vari. In questo testo, dunque, significa piccoli regali, magari con incluso il carattere quasi sacro di regalo tra ecclesiastici e persone consacrate a Dio (SB pensa probabilmente ai regaletti fatti ai monaci dalle monache o pie donne, cf II Dial. 19).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LIII – L’accoglienza degli ospiti

1 Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: «Sono stato ospite e mi avete accolto» 2 e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai pellegrini. 3 Quindi, appena viene annunciato l’arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore; 4 per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace. 5 Questo bacio di pace non dev’essere offerto prima della preghiera per evitare le illusioni diaboliche. 6 Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in partenza, 7 adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità. 8 Dopo questo primo ricevimento, gli ospiti siano condotti a pregare e poi il superiore o un monaco da lui designato si siedano insieme con loro. 9 Si legga all’ospite un passo della sacra Scrittura, per sua edificazione, e poi gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità. 10 Se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il superiore rompa pure il suo digiuno per far compagnia all’ospite, 11 mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito. 12 L’abate versi personalmente l’acqua sulle mani degli ospiti per la consueta lavanda; 13 lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti 14 e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: «Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo Tempio». 15 Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare e, d’altra parte, l’imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé. 16 La cucina dell’abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i monaci siano disturbati dall’arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai in monastero. 17 Il servizio di questa cucina sia affidato annualmente a due fratelli, che sappiano svolgerlo come si deve. 18 A costoro si diano anche degli aiuti, se ce n’è bisogno, perché servano senza mormorare, ma, a loro volta, quando hanno meno da fare, vadano a lavorare dove li manda l’obbedienza. 19 E non solo in questo caso, ma nei confronti di tutti i fratelli impegnati in qualche particolare servizio del monastero, si segua un tale principio 20 e cioè che, se occorre, si concedano loro degli aiuti, mentre, una volta terminato il proprio lavoro, essi devono tenersi disponibili per qualsiasi ordine. 21. Così pure la foresteria, ossia il locale destinato agli ospiti, sia affidata a un monaco pieno di timor di Dio: 22 in essa ci siano dei letti forniti di tutto il necessario e la casa di Dio sia governata con saggezza da persone sagge. 23 Nessuno, poi, a meno che ne abbia ricevuto l’incarico, prenda contatto o si intrattenga con gli ospiti, 24 ma se qualcuno li incontra o li vede, dopo averli salutati umilmente come abbiamo detto e aver chiesta la benedizione, passi oltre, dichiarando di non avere il permesso di parlare con gli ospiti.

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Approfondimenti

Il c. 53 sull'ospitalità è in linea con tutta la tradizione monastica. La S. Scrittura parla dell'accoglienza degli ospiti come di un esercizio fondamentale della carità fraterna (cf. Rm 12,13; 13,8; ecc.) e Gesù dice che nelle persone di ospiti e pellegrini si riceve lui stesso (Mt 25,35-43). Fin dalle origini del monachesimo, ricevere poveri, pellegrini e ospiti fu ritenuta una pratica sacrosanta della vita quotidiana: così presso i Padri del Deserto (abbiamo tanti esempi e aneddoti nei “Detti”), presso anacoreti, presso i cenobiti pacomiani. SB si mostra degno erede di questa tradizione. Per il c. 53 della RB abbiamo nella RM vari capitoli (RM 65; 71-72; 78-79), in cui da una parte notiamo grande comprensione e carità (addirittura il Maestro fa anticipare il pasto dei fratelli a sesta, se l'ospite si trattiene); d'altra parte notiamo differenza nei confronti di ospiti che si fermano più giorni: in essi potrebbero nascondersi parassiti e ladri. SB ha soppresso tanta casistica e parla dell'ospitalità in un solo capitolo unitario e ben compatto, tutto pieno di un profondo spirito di fede, di calore umano e di carità fraterna.

Struttura del capitolo RB 53 si divide in due parti:

  1. la prima (vv. 1-15) descrive l'accoglienza con una piccola teologia dell'ospitalità (è ispirata soprattutto alla “Historia Monachorum in Aegypto” tradotta da Rufino);
  2. la seconda (vv.16-24) parla dell'organizzazione dell'ospitalità nel monastero, con le ripercussioni per la vita interna del cenobio e la pace dei fratelli.

Appare, anche dalla struttura e dal vocabolario, che questa seconda parte dovette essere composta in un secondo tempo da SB; in seguito alla pratica continua dell'ospitalità, alle varie esperienze, agli inconvenienti notati, il santo Patriarca dovette aggiungere alcune precisazioni. Le campagne italiane non erano certo il deserto dell'Egitto, gli ospiti a Montecassino affluivano incessantemente e a volte in buon numero; tale afflusso avrà pregiudicato il clima di preghiera e il silenzio in cui vivevano i monaci. Da qui alcune restrizioni aggiunte alla prima stesura, per armonizzare le irrinunciabili tradizioni dell'ospitalità monastica con le esigenze della vocazione cenobitica.

1-15: Accoglienza degli ospiti: teologia dell'ospitalità Esaminiamo ora il testo “Ero pellegrino e mi avete ospitato” (Mt 25,35). La frase di Matteo domina tutta la prima parte del capitolo e costituisce la base per il principio generale che tutti gli ospiti che giungono al monastero siano accolti come Cristo in persona (v. 1). Mettiamo l'accento su quel “tutti” con cui si apre il capitolo. SB intende bandire ogni distinzione di grado sociale. Ognuno poi sia ricevuto con l'onore dovuto, “soprattutto i nostri fratelli nella fede e i pellegrini” (v. 2). Domestici fidei (fratelli nella fede) sembra si debba interpretare nel senso di monaci o anche chierici e in genere quelli che fanno professione di speciale servizio a Dio (ciò sarebbe confermato anche da passi di Pacomio, Cassiano, Girolamo). Pellegrini: quelli che vengono da lontano a scopo di pietà e di devozione. I pellegrinaggi ai luoghi santi della Palestina e di Roma erano allora frequenti e i monasteri erano il naturale rifugio nelle soste dei pii viaggiatori. Dunque i “domestici fidei”, per la loro professione sacra, e i “peregrini”, per il loro sacro scopo di viaggio, meritano particolare cura ed onore. A questi SB aggiunge i “poveri” (v. 15), specificando che specialmente nei poveri e nei pellegrini si riceve Cristo.

Posto il principio, SB passa a descrivere il rito dell'accoglienza, i cui vari atti erano nella tradizione della Chiesa primitiva e del monachesimo: accorrere a ricevere l'ospite, umiltà nel riceverlo, preghiera, bacio di pace, lettura della S. Scrittura, lavanda dei piedi... (vv. 3-14). A proposito della lavanda dei piedi (vv.12-14), ricordiamo che essa era anticamente assai comune ed era necessaria a causa del viaggiare a piedi. Praticamente dobbiamo ritenere che non ad ogni “benvenuto” tutta la comunità andasse a compiere questo atto, ma che per tutti insieme i nuovi venuti si eseguisse la lavanda in un solo tempo della giornata, e che i fratelli la facevano a turno, in modo che “tutta la comunità” adempisse questo atto di servizio e di umiltà. A tal riguardo gli usi nei monasteri furono i più vari. Bello lo spirito di fede che aleggia nel v. 14: i monaci vedono nell'ospite arrivato una manifestazione della grazia e della benevolenza di Dio: “Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia (=grazia)...” (Sal 47,10).

16-24: Organizzazione dell'ospitalità Dato che nel monastero bisogna accogliere tutti coloro che chiedono ospitalità – (ricordiamo l'8° strumento delle buone opere: “onorare tutti gli uomini” (RB. 4,8) che si riferisce senz'altro all'ospitalità) – potrebbero derivare inconvenienti per la vita comune, poiché gli ospiti, “che non mancano mai in monastero” (v. 16), arrivano alle ore più impensate. Ecco allora la necessità di una certa organizzazione, per compiere bene l'esercizio dell'ospitalità. Abbiamo quindi la cucina a parte con un personale specializzato, la foresteria e il foresteriario, con eventuali aiutanti: ambedue le cose sono creazioni di S. Benedetto rispetto alla RM. Il santo patriarca vuole che la casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente (v. 22). Sappiamo che nel mandare alcuni monaci a fondare il monastero di Terracina, SB parlò di posto per “l'oratorio, il refettorio per gli ospiti, la foresteria...” (II Dial. 22); e ancor oggi non si concepisce monastero benedettino senza una parte riservata a foresteria.

Il capitolo si chiude con la proibizione ai monaci di parlare con l'ospite, e sembra una nota un po' negativa in un testo iniziato con tanto slancio spirituale. SB è guidato dall'intenzione di salvaguardare l'osservanza regolare; non si tratta solo del silenzio, ma anche di evitare il contatto col mondo esterno, come si vedrà anche in RB 66,7 e 67,4-5. Però l'osservanza della Regola non significa mancanza di educazione: incontrando l'ospite, il monaco non ometterà di salutare gentilmente e di domandare umilmente la benedizione, secondo l'uso del tempo.

Conclusione e applicazione oggi Il bel capitolo sull'ospitalità ha generato la gloriosa tradizione dell'ospitalità benedettina, una delle manifestazioni caratteristiche dello spirito e dello stile benedettino, che ha svolto anche un'opera di altissimo valore sociale nella storia d'Europa. Oggi, certo, la situazione è cambiata: rapidissimi mezzi di comunicazione, organizzazioni turistiche e alberghiere... Eppure, anche oggi si viene al monastero. Che cosa vengono a cercare gli uomini del XX secolo nelle nostre foresterie? Quella dimensione spirituale che non può trovarsi in un albergo. Il problema dell'accoglienza va ripensato, e seriamente, nelle nostre comunità. E notiamo che gli ultimi versetti del c. 53 non sono in contraddizione con il concetto di “comunità aperta”. Aprirsi significa soprattutto donare quanto di meglio si possiede, in uno scambio fraterno di carità. Questo tuttavia è possibile solo se l'accoglienza degli ospiti si svolge in modo da salvaguardare la pace e il raccoglimento della comunità, altrimenti non si offre altro che il vuoto della propria dissipazione. La foresteria poggia sulla interiorità dei monaci; una foresteria monastica non può essere tale se dietro di essa non c'è la presenza silenziosa e irradiante di una comunità riunita nel nome di Cristo; una comunità che sappia, in uno spirito di fede, essere disponibile, sappia accogliere tutti come Cristo in persona (cf v. 1), e mettere a parte coloro che vengono al monastero, in semplicità e umiltà, della propria vita di preghiera, di meditazione, di lavoro.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LII – La chiesa del monastero

1 La chiesa sia quello che dice il suo nome, quindi in essa non si faccia né si riponga altro. 2 Alla fine dell’Ufficio divino escano tutti in perfetto silenzio e con grande rispetto per Dio, 3 in modo che, se un monaco volesse rimanere a pregare, privatamente, non sia impedito dall’indiscrezione altrui. 4 Se, però, anche in un altro momento qualcuno desidera pregare per proprio conto, entri senz’altro e preghi, non a voce alta, ma con lacrime e intimo ardore. 5 Perciò, come abbiamo detto, chi non intende dedicarsi all’orazione si guardi bene dal trattenersi in chiesa dopo la celebrazione del divino Ufficio, per evitare che altri siano disturbati dalla sua presenza.

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Approfondimenti

Questo capitoletto apporta un prezioso completamento alla sezione liturgica, perché lascia intravedere dei prolungamenti alla preghiera comune nel corso della giornata. RB 52 corrisponde a RM 68, che pero` tratta soltanto del silenzio da osservarsi uscendo dall'oratorio: i monaci non debbono seguitare a canticchiare i salmi.

1: L'oratorio del monastero Per comprendere la prima frase di SB (v. 1), bisogna tener presente che era abbastanza normale per gli antichi fare qualche piccolo lavoro manuale mentre ascoltavano la salmodia del solista o le letture. Così per i monaci egiziani, probabilmente anche nelle comunità pacomiane. S. Cesario di Arles proibisce alle monache di lavorare durante l'Ufficio (Regula virginum, 10), però vuole qualche lavoretto durante l'Ufficio notturno per vincere il sonno (Ibid. 15). In questo contesto si comprende la concisa ed energica frase di SB: “L'oratorio deve essere ciò che il suo nome significa” (v. 1): la casa della preghiera non sarà mai per SB un laboratorio, né servirà talvolta a consumare i cibi, né fungerà mai da parlatorio, né diventerà un luogo, anche provvisorio, per deporre strumenti di lavoro o altri oggetti non destinati al culto.

2-3: Silenzio terminato l'Ufficio divino Che nell'oratorio si celebra l'Opus Dei, si sa. SB ricorda qui (vv. 2-3) che, terminato l'Ufficio divino, “tutti escano in silenzio”; e passa poi al tema che gli interessa particolarmente: l'orazione privata di ciascun monaco. Si deve mantenere nell'oratorio il massimo silenzio, perché chi vuole possa continuare a pregare; nell'oratorio in particolare Dio dà udienza ininterrottamente, la porta è sempre aperta. SB vuole invitare velatamente a pregare con frequenza, come si deduce anche dal seguente v.4.

4-5: Preghiera privata anche in altri momenti Non solo dopo l'Opus Dei, ma anche in altri momenti un fratello può sentirsi spinto alla preghiera. Così veniamo a conoscere che durante la giornata ogni monaco può trovare l'opportunità di qualche momento libero da dedicare alla sua preghiera privata, probabilmente durante il periodo della lettura. SB poi aggiunge delle condizioni sulla maniera di pregare: entri semplicemente e preghi, espressione nuda e semplice che non include alcun particolare metodo o schema di orazione; preghi e basta, cioè massima libertà e semplicità nel procedimento secondo l'ispirazione di Dio. Non a voce alta, cioè senza alzare la voce, senza emettere gemiti e sospiri sonori, come si usava a volte presso gli antichi, ma con lacrime e fervore di cuore; richiama la “purezza di cuore” e la “compunzione delle lacrime” di RB 20,3 (Per preghiera e lacrime, cf. anche RB 4,57, uno strumento delle buone opere). Lacrime e cuore sono come indizi dell'autenticità della preghiera del monaco. Chi non vuole pregare in questo modo, non è autorizzato a rimanere nell'oratorio (v. 5), perché l'oratorio deve essere solo luogo di preghiera e di incontro con Dio.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LI – I monaci che si recano nelle vicinanze

1 Il monaco, che viene mandato fuori per qualche commissione e conta di tornare in monastero nella stessa giornata, non si permetta di mangiare fuori, anche se viene pregato con insistenza da qualsiasi persona, 2 a meno che l’abate non gliene abbia dato il permesso. 3 Se contravverrà a questa prescrizione, sarà scomunicato.

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Approfondimenti

Viaggi brevi Questo capitoletto parla di viaggi meno importanti e, senza dubbio, più frequenti, per piccole commissioni. In pratica si limita a proibire di fermarsi a mangiare fuori, qualora si pensi di rientrare in giornata, senza espressa licenza dell'abate. Nel testo c'è: il suo abate, ad escludere l'invito proveniente anche da un altro abate, nel caso il monaco sia andato a fare una commissione in un altro monastero. Ricordiamo l'episodio dei fratelli che accolsero l'invito di una pia donna e furono rimproverati (ma poi subito perdonati!) da SB. E S. Gregorio inizia quel capitolo proprio ricordando che “era consuetudine del monastero che ogni volta che i fratelli uscivano per qualche commissione, non prendere né cibo né bevanda fuori del monastero” (II Dial. 12).

Notiamo che questo capitolo si trova dopo il c. 50, con cui appare la connessione, perché lì si diceva come si devono comportare riguardo all'Ufficio divino i fratelli che lavorano non molto lontano o sono in viaggio.

Notiamo ancora che nel testo del presente capitolo si parla di monaco, al singolare, mentre al c. 67 sempre al plurale: probabilmente nei viaggi più lunghi e importanti i monaci non andavano mai da soli, ma almeno in due.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo L – I monaci che lavorano lontano o sono in viaggio

1 I fratelli, che lavorano molto lontano e non possono essere presenti in coro nell’ora fissata per l’Ufficio divino, 2 se l’impossibilità in cui si trovano è stata effettivamente accettata dall’abate, 3 recitino pure l’Ufficio divino sul posto di lavoro, mettendosi in ginocchio per la reverenza dovuta a Dio. 4 Così pure quelli, che sono mandati in viaggio, non lascino passare le ore stabilite per l’Ufficio, ma lo recitino come meglio possono e non trascurino l’adempimento del dovere inerente al loro sacro servizio.

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Approfondimenti

La veritas horarum delle celebrazioni liturgiche L'Ufficio divino si celebrava normalmente nell'oratorio e alle ore stabilite, aderendo al senso storico e mistico che ogni ora possiede (quello che dopo la riforma liturgica si chiama la “verità delle ore liturgiche”). Ora, poteva succedere a volte – o forse con frequenza – che alcuni monaci non potevano per lontananza trovarsi in coro tutte le volte che la comunità si radunava.

1-3: I fratelli che lavorano lontano Il primo caso che la RB contempla è quello del lavoro. È vero che SB vuole che abitualmente i lavori dei monaci si svolgano dentro la cinta del monastero (RB 66,6-7), ma a volte per vari motivi – sopratutto si pensi al lavoro dei campi – si poteva essere abbastanza distanti per accorrere alle varie Ore canoniche. Secondo la RM bastavano 50 passi di distanza per essere dispensati dall'andare in coro (RM 55,2), il che pare un po' ridicolo. SB lascia all'abate di giudicare se i monaci possono o no venire in coro. In caso negativo, questi “celebrino l'Opera di Dio dove lavorano, inginocchiandosi con santo timore” (v. 3). Che cosa significa quest'ultima frase? Vuole forse dire che il fatto di celebrare l'Ufficio fuori dell'oratorio non dispensa dal prostrarsi per l'orazione silenziosa che c'era dopo il canto di ogni salmo? Il luogo parallelo della RM 55,4 potrebbe far propendere per tale interpretazione. Oppure significa semplicemente di seguire le stesse rubriche che si seguono in coro; o ancora un avvertimento ai monaci di non prendersela alla leggera e alla sbrigativa, ma fare tutto con precisione e riverenza? Notiamo che SB dà per scontato che ogni monaco – non esisteva la distinzione tra chierico e non-chierico, tra professo semplice e professo solenne – ha l'obbligo dell'Ufficio divino.

4: I monaci in viaggio Il secondo caso di assenza riguarda i fratelli in viaggio. Per questi SB dimostra un'assennata mitigazione e riserva: quando si viaggia, non sempre le circostanze permettono di seguire il completo cerimoniale o il perfetto orario; perciò i fratelli facciano come meglio possono. Nell'ultima frase c'è l'espressione servitutis pensum (debito del loro servizio, v 4.) per indicare la preghiera liturgica; in RB 49,5 la stessa espressione indica le varie osservanze del monaco. È la stessa idea di tutta la vita del monaco come “servizio”, “milizia di servizio” (RB 2,20) e di questo servizio l'espressione più alta è appunto la lode di Dio. Né deve meravigliare l'idea di “debito”: a volte la preghiera comune può essere pesante e costituire un vero sacrificio! Notiamo che oggi, nelle odierne condizioni del lavoro monastico può essere più frequente l'assenza di qualcuno. E in più si permette (nello spirito anche di mitigazione che SB mette in questo capitolo: “come meglio possono”, v. 4) la congiunzione di alcune Ore canoniche. Dobbiamo però tendere con ogni sforzo alla “verità delle Ore” e al ritmo della lode di Dio nei vari momenti della giornata.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLIX – La quaresima dei monaci

1 Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale, 2 visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita, 3 profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell’anno. 4 E questo si realizza degnamente, astenendosi da ogni peccato e dedicandosi con impegno alla preghiera accompagnata da lacrime di pentimento, allo studio della parola di Dio, alla compunzione del cuore e al digiuno. 5 Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per es., preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, 6 in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio «con la gioia dello Spirito Santo» qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione monastica; 7 si privi cioè di un po’ di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua con l’animo fremente di gioioso desiderio. 8 Ma anche ciò che ciascuno vuole offrire personalmente a Dio dev’essere prima sottoposto umilmente all’abate e poi compiuto con la sua benedizione e approvazione, 9 perché tutto quello che si fa senza il permesso dell’abate sarà considerato come presunzione e vanità, anziché come merito. 10 Perciò si deve far tutto con l’autorizzazione dell’abate.

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Approfondimenti

Nel determinare l'orario, SB ha tenuto conto del particolare carattere della quaresima (RB 48,14-16; 41,6-7). L'importanza data a tale periodo lo induce a scrivere un capitolo a parte sulla quaresima, quale tempo forte dell'anno liturgico per il quale senza dubbio egli aveva particolare devozione e che considerava come molto adatto per il rinnovamento spirituale dei monaci. Cassiano, da idealista impenitente, applicando la sua esegesi allegorica, dice che la quaresima è come la “decima”, il tributo che i cristiani nel mondo debbono pagare annualmente al Signore; immischiati come sono nelle cose della terra, negli affari e nei piaceri, si fa loro obbligo di consacrare al servizio di Dio almeno questi giorni. I monaci sono esenti dal pagare tale decima, perché hanno fatto a Dio donazione della loro vita intera con tutto quanto possiedono, e vivono tutto l'anno con il regime che i laici conducono in quaresima, obbligati dalla legge. La quaresima fu istituita solo per gli imperfetti: difatti non esisteva fin quando si mantenne la perfezione della Chiesa primitiva degli Atti. Così Cassiano, in Coll. 21,24-30. Uomo pratico secondo Gesù Cristo, SB pensa che anche per i monaci – uomini che aspirano alla santità, ma sempre uomini dalla testa ai piedi! – capita molto a proposito questo periodo di rinnovamento e di intensificazione della vita cristiana che ogni anno prepara i catecumeni al battesimo e tutti i fedeli a una degna celebrazione della Pasqua. È stato notato che, ad eccezione dei vv. 8-10 che sono come una appendice e di carattere chiaramente cenobitico, il capitolo dipende, tanto nelle idee quanto nelle espressioni, dai “Discorsi sulla quaresima” di S. Leone Magno, soprattutto i primi quattro (sono dodici). Così il contrasto iniziale tra la vita da tenersi in quaresima e quella più leggera da tenersi nel resto dell'anno; così il “tale virtù è di pochi” (v. 2) a proposito di una vita sempre a un livello spirituale molto alto; soprattutto l'idea della “purezza di vita”, di purificazione, di espiazione in quaresima delle colpe di tutto l'anno sono il 'leit-motiv' della predicazione di S. Leone. Appare chiaro che SB ha assimilato la dottrina quaresimale del vescovo di Roma, è impregnato del suo vocabolario e ripete spontaneamente le sue espressioni senza che si preoccupi di citarle letteralmente. Quello che S. Leone predicava a tutti i cristiani, SB lo scrive per i monaci; è una ulteriore prova che la vita monastica è un modo di realizzare la vita cristiana e che la dottrina della perfezione evangelica predicata dai Padri della Chiesa è ugualmente valida per il cristiano che vive nel mondo e per quello che, seguendo la sua vocazione, vive in monastero. SB quindi in questo capitolo è più preoccupato di sottolineare l'importanza della quaresima e lo spirito che deve animare la vita in tale periodo, che di fare precise pratiche penitenziali alla comunità o determinare in che cosa deve consistere l'intensificarsi della vita di preghiera, come invece fa la RM (cf. RM. 51 e 53). Dobbiamo perciò classificare il capitolo 49 della RB più tra la parte ascetica e spirituale che tra la parte propriamente legislativa e disciplinare.

1-3: Lo spirito che deve animare la quaresima “La vita del monaco dovrebbe essere una continua quaresima”, quasi a dire: tale sarebbe l'ideale, magari fosse così! Qual'e` il significato esatto di queste parole? Non dobbiamo credere che SB pensi a un carattere eccessivamente severo e melanconico della vita monastica; per lui la quaresima – come appare in seguito – non ha un volto triste, ma significa anzitutto un tempo in cui si vive con purezza (v. 2) e integrità la vita cristiana, o per lo meno si cerca. Uomo pratico e realista, SB sa che sono pochi quelli dotati di tanta virtù e fortezza di spirito da mantenersi completamente fedeli al Vangelo durante tutto l'anno. Allora durante la quaresima sforziamoci non solo di vivere come monaci autentici, ma anche di fare qualcosa in più, quasi a compensare e cancellare le negligenze degli altri periodi. Questo è insomma l'ideale quaresimale per i monaci: vivere perfettamente come tali e riparare con pratiche supererogatorie alle infedeltà della “quaresima” precedente. (Per i paralleli con S. Leone Magno, cf. “Discorsi sulla quaresima”, I,2; IV,1; V,2.6).

2: Custodire la propria vita con somma purezza “Puritas” qui è nel senso più ampio: la mondezza di mente e di cuore, per cui si è spogli da ogni attacco che distragga da Dio. La bellissima sentenza richiama il 48° strumento delle buone opere: Actus vitae suae omni hora custodire (vigilare continuamente sulle azioni della propria vita), RB 4,48; è la vigilanza assidua di chi ama seriamente Dio e vuole che nessuno dei suoi atti possa ostacolare l'unione con Lui; è praticamente il primo gradino dell'umiltà, con la famosa “memoria Dei” (cf. RB 7,10-30).

4-7: Pratiche quaresimali SB scende al particolare. Anzitutto astenersi da ogni peccato: è la prima e più necessaria astinenza (cf. S. Leone M., Discorso IV,6); la lotta contro i vizi – estirpandoli dalle radici, se è possibile – è uno dei fini dell'ascetismo cristiano. Poi dedicarsi con speciale impegno a certe pratiche. SB ne segnala quattro: tre di carattere spirituale, una di carattere corporale.

  1. Preghiere con lacrime, si tratta dell'orazione privata, in unione alle lacrime e alla compunzione del cuore, suggerita spesso da SB (cf. RB 4,56-57; 20,3; 52,4);
  2. Lectio divina, appunto perciò ha prescritto la consegna di un libro a ciascun monaco all'inizio della quaresima (RB 48,15-16) e ha unificato le ore di “lectio”, circa tre ore di seguito: “dal mattino fino a tutta l'ora terza” (RB 48,14).
  3. Compunzione del cuore, è lo spirito di compunzione, cioè il chiedere perdono a Dio dei propri peccati con lacrime e gemiti, come ha già detto nel 57° strumento delle buone opere (RB 4,57), evidentemente con maggiore frequenza e intensità che negli altri periodi.
  4. Astinenza, è l'astinenza corporale, come specificherà meglio nei versetti seguenti.

5: Aggiungiamo qualcosa... “Aggiungiamo qualcosa al consueto debito del nostro servizio” (v. 5). C'è un debito, una “tassa” stabilita, delle prestazioni normali – diciamo così – nel servizio di Cristo, che è la vita monastica; durante la quaresima, aggiungiamo qualcosa alla tariffa ordinaria. E abbiamo qui altri due elenchi (oltre a quello del v. 4) nel v. 5 e nel v. 7. L'idea di aggiungere qualcosa è continua pure in S. Leone Magno (cf. Discorsi, II,1). Tutte le cose elencate si ritrovano negli strumenti delle buone opere (RB. 4).

7: Sottraiamo qualcosa... Nel terzo elenco (v. 7) si parla di sottrarre qualcosa alla loquacità e alla scurrilità o leggerezza. Ma non aveva SB completamente condannato queste cose nel c. 6 sull'amore al silenzio? (RB 6,8). Come mai ora si suggerisce di reprimerle “un poco” aliquid durante la quaresima? Una cosa è la teoria, un'altra è la pratica. Qui pare affacciarsi sorridente il volto paterno di SB. La vita dovette insegnare al santo – sempre grave e solenne, ma anche molto umano – che ci sono dei tipi per natura leggeri e portati allo scherzo e alla buffoneria, e privarli del tutto di queste cose equivarrebbe a reprimerli. Basta che si moderino un po', almeno in quaresima!

Due caratteristiche dell'impegno quaresimale * Il senso della gioia nell'impegno quaresimale e nell'attesa della Pasqua. “Col gaudio dello Spirito Santo” (v. 6): citazione da 1Ts 1,6. Anche a proposito dell'obbedienza SB ha ricordato (RB 5,16) che “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7). Questa nota di letizia, frutto della sincera generosità ispirata dallo Spirito Santo, rende più profumato l'atto di offerta. Si ricordi, poi, a proposito del digiuno, l'insegnamento di Gesù: “Tu invece, quando digiuni, profumati...” (Mt 6,17). Al v. 7 la frase “con gioia di soprannaturale desiderio aspetti la santa Pasqua” ricorda alcune espressioni liturgiche. L'attesa della Risurrezione di Cristo dona a tutta l'osservanza quaresimale l'abito della gioia; preparato dall'impegno e dalle osservanze della quaresima, il monaco giungerà maturo a godere pienamente la S. Pasqua. * Il carattere individuale e volontario è l'altra caratteristica di questi versetti. Le pratiche quaresimali non sono imposte obbligatoriamente a tutti i monaci dall'autorità della Regola o dall'abate. A differenza dalla RM, in cui si prescrivono orazioni e astinenze comunitarie, la RB non ha un programma preciso e obbligatorio per la comunità intera (a parte quanto detto nell'orario, RB 48,14-16). Si tratta di opere supererogatorie che ciascuno unusquisque offre a Dio volontariamente propria voluntate e col gaudio dello Spirito Santo cum gaudio Sancti Spiritus; non sono un peso supplementare imposto dalla legge, ma un segno della generosità con cui ciascun monaco, con cuore largo e gioioso, intende darsi a Cristo Signore a compensazione delle deficienze nel servizio santo che ha professato.

8-10: Appendice sul ruolo dell'abate “Cum spiritalis desiderii gaudio sanctum Pascha expectet.” Aspetti la santa Pasqua nella gioia del desiderio spirituale (v. 7). Con queste magnifiche parole si chiudeva probabilmente il capitolo nella sua prima redazione. SB in seguito vi aggiunse un'appendice. Chissà, forse alcuni monaci, approfittando della libertà di scelta, si davano a delle pratiche ascetiche o a penitenze eccessive. (Ricordiamo quello che vide Macario tra i monaci di Tabennisi durante la quaresima, cf. Palladio, Storia Lausiaca, c. 18,14-15). La Regola, pur lasciando quella libertà individuale di cui sopra, guida il monaco per i sentieri dell'obbedienza: le piccole mortificazioni individuali siano sottoposte al permesso e alla benedizione dell'abate (si evita così il pericolo di illusione e di esagerazione) e siano accompagnate dalla sua preghiera. È questa un'idea propria del monachesimo antico: il discepolo attribuiva alla preghiera del “padre spirituale”, richiesta al medesimo prima di iniziare qualche opera, la riuscita dell'opera stessa. SB si mantiene nella linea della tradizione autentica. E termina con un principio di carattere generale: tutto deve compiersi con il consenso dell'abate (v. 10; cf. anche RB 67,7).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLVIII – Il lavoro quotidiano

1 L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio. 2 Quindi pensiamo di regolare gli orari di queste due attività fondamentali nel modo seguente: 3 da Pasqua fino al 14 settembre, al mattino verso le 5 quando escono da Prima, lavorino secondo le varie necessità fino alle 9; 4 dalle 9 fino all’ora di Sesta si dedichino allo studio della parola di Dio. 5 Dopo l’ufficio di Sesta e il pranzo, quando si alzano da tavola, riposino nei rispettivi letti in assoluto silenzio e, se eventualmente qualcuno volesse leggere per proprio conto, lo faccia in modo da non disturbare gli altri. 6 Si celebri Nona con un po’ di anticipo, verso le 14, e poi tutti riprendano il lavoro assegnato dall’obbedienza fino all’ora di Vespro. 7 Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, 8 perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli. 9 Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli. 10 Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si applichino allo studio fino alle 9, 11 quando celebreranno l’ora di Terza, dopo la quale tutti saranno impegnati nei rispettivi lavori fino a Nona, e cioè alle 14. 12 Al primo segnale di Nona, ciascuno interrompa il proprio lavoro per essere pronto al suono del secondo segnale. 13 Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi. 14 Durante la Quaresima leggano dall’alba fino alle 9 inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le 4 pomeridiane. 15 In quei giorni di Quaresima ciascuno riceva un libro dalla biblioteca e lo legga ordinatamente da cima a fondo. 16 I suddetti libri devono essere distribuiti all’inizio della Quaresima. 17 E per prima cosa bisognerà incaricare uno o due monaci anziani di fare il giro del monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati nello studio, 18 per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente, che, invece di dedicarsi allo studio, perda, tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre a essere improduttivo per sé, distragga anche gli altri. 19 Se si trovasse – non sia mai! – un fratello che si comporta in questo modo, sia rimproverato una prima e una seconda volta, 20 ma se non si corregge, gli si infligga una punizione prevista dalla Regola, in modo da incutere anche negli altri un salutare timore. 21 Non è neppure permesso che un monaco si trovi con un altro fuori del tempo stabilito. 22 Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari servizi. 23 Ma se ci fosse qualcuno tanto negligente e fannullone da non volere o poter studiare o leggere, gli si dia qualche lavoro da fare, perché non rimanga in ozio. 24 Infine ai monaci infermi o cagionevoli si assegni un lavoro o un’attività che non li lasci nell’inazione e nello stesso tempo non li sfinisca per l’eccessiva fatica, spingendoli ad andarsene, 25 poiché l’abate ha il dovere di tener conto della loro debolezza.

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Approfondimenti

L'Opus Dei è l'occupazione principale del monaco, però non è l'unica. Il rimanente tempo va distribuito tra lavoro manuale e lectio divina. Quindi il titolo non abbraccia tutto il contenuto del capitolo. In realtà in queste pagine abbiamo tutto l'orario della giornata, con la saggia distribuzione del tempo tra OPUS DEI, LECTIO DIVINA, LAVORO MANUALE, i tre grandi cardini della vita monastica.

RB 48 corrisponde a RM 50. In quest'ultima l'orario è visto soprattutto alla luce dell'Ufficio divino: si tratta di occupare il tempo tra un ufficio e l'altro; nella RB ha uno scopo eminentemente pratico: interessandogli l'ordinamento delle occupazioni dei monaci tra lavoro e lectio, SB non teme neanche di spostare alcune ore dell'Ufficio divino (terza, sesta e nona), cosa che altrove era soltanto eccezionale. RB considera piuttosto il ritmo della vita umana con le sue alternanze di sforzo e di riposo, di lavoro spirituale e di lavoro materiale.

La struttura del capitolo è logica:

  • un principio generale (v.1);
  • orario da Pasqua a ottobre (vv.2-6) e norme in caso di lavori eccezionali (vv.7-9);
  • orario da ottobre a quaresima (vv.10-13);
  • orario di quaresima (vv.14-16);
  • la lectio quaresimale, che riveste particolare importanza, fa aggiungere a SB delle norme per la scrupolosa osservanza del tempo ad essa dedicato (vv.17-21);
  • chiudono il capitolo alcune direttive sul lavoro e la lettura in casi speciali: uno temporale (la domenica, vv.22-23), l'altro personale (infermi vv.24-25).

1: Principio generale: necessità del lavoro Apre il capitolo un assioma fondamentale: la necessità e l'obbligo del lavoro. La sentenza “l'ozio è nemico dell'anima” si trova nella Regola di S. Basilio stampata nella versione latina di Rufino (Reg.192) e viene citata come un detto di Salomone, ma non si trova nella Scrittura e non si legge nell'opera originale in greco di S. Basilio (Reg. 37). La Bibbia ha frasi simili: “l'ozio insegna molte cattiverie” (Sir 32,21; cf. Prv 26,13-14; Sir 22,1-2). Si noti che nel testo della RB, per “ozio” c'è la parola latina otiositas e non otium, perché è l'“otium” latino non corrisponde al nostro “ozio”, ma significa “essere libero per dedicarsi ad attività di carattere spirituale” (quali lo studio, la contemplazione, ecc.; da qui l'espressione “otia monastica” “ozi monastici” come tempo per la lectio divina, la riflessione, ecc.). Attenzione quindi a non equivocare. “Perciò i fratelli in determinate ore...”: la frase richiama un passo di Agostino (De opere monachorum, 37). SB vuole distribuire bene il tempo: tutte le ore non impiegate nell'Ufficio divino devono avere un ben determinato uso: o lavoro manuale o lectio divina.

2-6: Orario estivo : da Pasqua a Ottobre Scendendo al concreto, SB stabilisce l'orario per i vari tempi dell'anno. Nei mesi di primavera estate, dopo Pasqua (verso le 5) i monaci andavano al lavoro. Non si fa menzione dell'Ufficio di Terza, che probabilmente veniva celebrato sul luogo stesso del lavoro (cf. RB 50), oppure si celebrava al termine del lavoro verso le 10. (Sarà bene ricordare, a proposito di ore e di orario, che si tratta di computo romano, con l'ora variabile secondo le stagioni in funzione della luce solare. Dall'ora quarta (verso le 10) fino a sesta (verso mezzogiorno) i monaci si dedicavano alla lectio. Si noti la discrezione di SB che d'estate fa lavorare i monaci nelle prime ore del giorno quando non è troppo caldo. Dopo sesta, i monaci mangiavano e poi avevano la siesta, per compensare qualcosa alle meno ore di sonno durante le brevi notti dell'estate. SB non tiene conto qui del mercoledì e venerdì, in cui non si mangiava fino a nona (RB 41,2-4) per ragione del digiuno; sembra però che la siesta nel periodo estivo ci fosse tutti i giorni, digiuno o non digiuno, come appare dal parallelo RM 50,56-60. Quelli a cui non piaceva dormire o che amavano astenersene per ascetismo, erano autorizzati a leggere presso il proprio letto, ma non a voce alta: la raccomandazione non è superflua, perché gli antichi erano soliti leggere, anche privatamente, pronunziando le parole. Da questo testo deduciamo che tutti i monaci, dormissero o leggessero, dovevano rimanere nel dormitorio comune (come appare anche da RM 44,12-19). La siesta durava fino a nona, ma detta ora canonica si anticipava un pò e poi i monaci tornavano al lavoro fino a vespro.

7-9: Norme in caso di lavori eccezionali SB aggiunge una parentesi di singolare importanza: contempla il caso di lavoro eccezionale, come la raccolta delle messi e dei frutti. I monaci di quel tempo non si occupavano direttamente dei lavori dei campi, che invece affidavano ad operai prezzolati (i monaci si limitavano al lavoro dell'orto, del giardino...). Ora, le circostanze in cui si trovava l'Italia – la guerra tra Goti e Bizantini, la povertà, la mancanza di mano d'opera o l'impossibilità di pagarla – potevano costringere i monaci a fare da se stessi la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia, ecc. Quindi, malgrado le riserve dell'ambiente monastico italiano, SB si vede costretto a introdurre il lavoro agricolo e riscopre nel suo tempo la grande legge del monachesimo primitivo di sostenersi con il proprio lavoro: allora sono veri monaci, quando... (v. 8). La necessità del lavoro inculcata prima come una massima negativa – evitare l'ozio, nemico dell'anima (v. 1) – si basa ora su un principio positivo: attendere alla propria sussistenza, conforme all'esempio dei “nostri Padri e degli Apostoli” (v. 8). Quindi il lavoro manuale dei monaci non consisterà solo nelle diverse occupazioni domestiche (in cucina, nel forno, nel mulino); o nei diversi incarichi in monastero (ospiti, ammalati); o nella semplice coltivazione dell'orto sufficiente per le verdure per la mensa comune; o ancora nell'esercizio di un'arte: tutti lavori, questi, che non davano un'entrata al monastero (anche gli stessi artigiani, cf. RB 57,4-7); si tratta anche di coprire le necessità del monastero con il prodotto del proprio lavoro, di provvedere al proprio sostentamento con fatica, secondo la grande legge del lavoro. In tal caso, dice SB, i monaci si dedichino a tali lavori pesanti non soltanto senza mormorare, ma col santo orgoglio di sentirsi veri monaci (vv. 7-8); però non si ecceda, e si pensi ai meno dotati di vigore fisico o morale (v. 9).

10-13: Orario invernale: da ottobre a quaresima In autunno-inverno si ha un altro ordinamento. I monaci dedicavano le prime ore della mattinata alla lettura, dalle lodi fino alla fine dell'ora seconda, che, calcolando il solstizio invernale con la levata del sole molto più tardi, dovrebbe corrispondere alle nostre ore 8:30-9. Poi si celebrava terza e quindi c'era un lungo orario di lavoro fino a nona, verso le 14:30-15. Si parla solo qui di due segnali per l'Ufficio divino, però si può supporre che erano sempre due i segnali per chiamare alla preghiera i monaci quando stavano lavorando. Come già si è visto, (RB 41,6), in questo periodo i monaci mangiavano solo dopo nona, e non c'era la siesta; perciò dopo il pasto si riprendeva la lettura o lo studio dei salmi: vacent psalmis significa “mandare a memoria il salterio” a forza di recitarlo (SB a questo scopo ha già stabilito il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi in inverno, cf. RB 8,3). La lettura durava certamente fino a vespro; dopo vespro, breve intervallo, quindi riunione dei monaci con la lettura delle Collazioni e compieta (cf. RB 42,5).

14-16: Orario durante la quaresima Come si vede, l'orario invernale era più austero che quello estivo. In quaresima questo carattere severo si accentua: la quaresima è un tempo penitenziale. La refezione era dopo il vespro, che però veniva un pò anticipato (cf. RB 41,7-8). L'orario così è meno spezzettato: lettura tutta di seguito fin verso le 9; poi lavoro continuo fino alle 16 (interrotto solo dagli Uffici di sesta e nona recitati probabilmente sul posto di lavoro); seguiva il vespro, la refezione, quindi la lettura comune e compieta. Ciascuno dei giorni di penitenza preparatori alla Pasqua (eccettuata la domenica) costituiva una dura giornata di lettura e di lavoro sopportata a digiuno fino a vespro.

Bibliotheca: interpretazione controversa I vv.15-16 hanno un'interpretazione controversa. “All'inizio della quaresima – dice la RB – ciascuno riceva un libro della biblioteca da leggere di seguito e per intero”. Il testo è perfettamente chiaro. La disputa è intorno alla parola biblioteca. Si è interpretato fino a qualche anno fa sul senso originario e comune di biblioteca del monastero. Alcuni studi fanno pendere per un'altra interpretazione. Si dice che se la parola “bibliotheca” nella letteratura classica indica la biblioteca nel senso nostro, cioè deposito di libri, nella letteratura cristiana significa l'insieme dei libri sacri, cioè la Bibbia. Nei testi cristiani dal VI al IX secolo, cioè durante il periodo patristico e il primo medio evo, questo significato è più frequente che non l'altro. In tutta la Regola non si parla mai di biblioteca del monastero, quasi sicuramente perché non esisteva (al tempo do SB i monasteri più grandi avevano in genere un centinaio di codici. Si pensi però a Cassiodoro e alla sua fondazione). Inoltre i cataloghi medioevale di libri non chiamano quasi mai “bibliotheca” l'insieme dei codici che elencano, mentre usano la parola nel senso di Bibbia e citano difatti Bibliotheca integra (=l'intera Bibbia), Bibliotheca II (=il secondo volume), ecc. Si dice ancora che interpretare in questa frase della RB la parola “bibliotheca” come deposito di libri non ha senso, in quanto risulta evidente da tutta la tradizione cenobitica (Pacomio, Agostino, Ordo Monasterii, Isidoro...), che i libri venivano distribuiti tutti i giorni, perché i monaci leggevano sempre; che significato ha una sola distribuzione all'inizio di quaresima? E negli altri periodo dove leggevano? Invece con la nuova interpretazione di Bibliotheca = Bibbia, tutto apparirebbe più logico. Prima e dopo SB, la Scrittura soleva dividersi in nove codici (SB ne cita alcuni: “Eptaticum” = i 7 primi libri; “Regum” = 1Re; cf. RB 42,4, oltre al “Psalterium”). Orbene se ne dava uno a ciascun monaco all'inizio di quaresima, perché la Scrittura costituiva il suo alimento spirituale più che negli altri tempi dell'anno; e così in capo a nove anni si era letta la Bibbia completa, un “codice” per quaresima, seguendo un certo ordine, come è indicato dalle parole per ordine e per intero del v.16. Anche S. Cesario invitava a leggere la Scrittura specialmente durante la quaresima. Tuttavia l'interpretazione della parola rimane discutibile.

17-21: Vigilanza durante la lettura Dedicarsi per tre ore al giorno (e in quaresima per tre ore di seguito) alla lectio divina implicava un certo sforzo per molti monaci, specialmente in quei tempi in cui la cultura e la lettura non erano alla portata di tutti. SB delega uno o più anziani a vigilare perché i monaci facciano la lectio (forse... bisognerebbe rimettere questa norma nei nostri monasteri!!!). La disposizione – che vale evidentemente per tutto l'anno e non solo per la quaresima – prova che non si leggeva in un luogo comune, ma ciascuno prendeva il suo libro e si ritirava dove voleva. Nei secoli posteriori, poi, si usò studiare e leggere insieme nel chiostro o in una sala apposita. Al tempo di SB sarebbe stato impossibile, anche perché si usava in genere pronunciare a voce alta le parole che si leggevano: ecco perché era più facile che uno approfittasse dell'occasione e si metteva bellamente a chiacchierare.

Il fratello accidioso SB qualifica un tale fratello come accidioso, cioè vittima dell'accidia. È l'unica volta che tale parola appare nella Regola; ed è strano, dato l'enorme uso della parola e del concetto negli ambienti monastici. La parola “accidia” (akedia in greco, acedia in latino) letteralmente significa “mancanza di cura”, “incuria”, e divenne un termine tecnico presso i monaci. Si trova nella famosa classificazione di Evagrio Pontico, trasmessa da Cassiano sotto il titolo “Gli otto vizi principali o capitali”, ed ha un posto di molto rilievo: si tratta di una passione o infermità dello spirito composta di inquietudine, tedio, vuoto interiore, instabilità, torpore, ecc.; si potrebbe pensare alla moderna “noia” (quando uno non ha voglia di fare nulla, è arido e vuoto spiritualmente). Evagrio e Cassiano la analizzano con precisione clinica. Per gli antichi era la tentazione per eccellenza degli anacoreti, il cosiddetto “demonio meridiano”. Ai cenobiti poteva (e può) venire soprattutto durante la lectio, quando essi sono più soli con se stessi, più simili agli anacoreti. Cassiano ugualmente nota che la “acedia” non permette di dedicarsi alla lettura (Inst. 10,2). SB vuole che un tale fratello, “inutile a se stesso e dannoso agli altri” (un “frate-mosca” lo chiamava S. Francesco), sia punito in modo esemplare, sì “da far timore anche agli altri” (v.20); l'espressione ricorda 1Tm 5,20.

21: parlare in ore non competenti Al v. 21 segue un principio generale: che i monaci non comunichino tra di loro in ore non competenti, tanto meno durante il tempo della lettura, che deve essere dedicato a parlare con Dio, ad ascoltare e approfondire la sua parola.

22-25: Lavoro e lettura in casi particolari Due casi particolari, al termine del capitolo. La domenica è dedicata interamente al Signore. S. Girolamo scriveva ai monaci d'Egitto: “Nei giorni di domenica attendono solo all'orazione e alla lettura” (Epist. 22,35). SB segue questa pratica; naturalmente alcuni dei fratelli dovevano attendere ad uffici necessari: cellerario, infermiere, cuoco, ecc. Però, nel caso di qualche fratello molto svogliato o anche poco incline a leggere per disposizione naturale (pensiamo che forse alcuni sapevano appena appena leggere), SB prescrive un lavoretto qualsiasi, anche di domenica, tanta era la paura della “otiositas”. Ricordiamo che “meditare” (v. 23) non significa tanto meditare nel senso nostro, ma piuttosto “esercitarsi nello studio dei salmi”, “ripetere per imparare a memoria”. Tale è il senso del v. 23 e probabilmente di RB 58,5 a proposito dei novizi. Quanto agli infermi e ai fratelli di salute fragile, bisogna provvedere un lavoro che mentre fa evitare l'ozio (di nuovo la paura della “otiositas”!), non li opprima o schiacci (v.24). Il capitolo termina con una nota di umanità: l'abate deve considerare la loro debolezza (v.25).

Conclusione Se si paragona ad altre Regole monastiche, l'orario di SB appare molto più complicato; ma questo non è un difetto, rivela una grande discrezione nell'autore, che fissa tanti particolari, anche minuziosi, tenendo conto dei tempi e delle circostanze. Per SB vale il principio “Nulla si anteponga all'Opera di Dio” (RB 43,3); però non teme di spostare alcune ore dell'Ufficio (terza, sesta, nona e anche vespro) per meglio inquadrare le altre due occupazioni principali del monaco, secondo tutta la tradizione monastica: lectio e lavoro.

RB si preoccupa molto della lectio divina. Ad essa assegna il tempo migliore in durata e qualità; d'inverno le sono dedicate le prime ore della giornata (senza contare il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi, cf. RB 8,3) e un'altra ora circa tra nona e vespro; d'estate le ultime ore della mattinata e, chi vuole, il tempo della siesta. Complessivamente sono tre ore al giorno (in quaresima di più e la domenica tutto il tempo libero). SB vuole evitare una durata eccessiva in continuità e quindi fa in modo che la lectio sia spezzettata. Sarebbe inutile cercare nella RB una dottrina sulla lectio divina: era una cosa naturale conosciuta da tutti i monaci (e dai cristiani), era la maniera della Chiesa di accostarsi al testo sacro in vista non tanto dell'intelletto, quanto piuttosto della preghiera.

RB, poi, si preoccupa che i monaci lavorino: il lavoro dura circa sette ore in inverno e in quaresima, sei ore e mezzo in estate ed è più intervallato a causa del clima estivo. Non si specifica quale era il lavoro manuale che i monaci facevano. SB non ne assegna uno esclusivo: oltre a quello necessario per i servizi del monastero (forno, cucina, ecc.), poteva essere quello dei vari artefici (cf. RB. 57) e certamente – in certe occasioni o per circostanze storiche – quello dei campi.; è considerato comunque eccezionale quello estivo della raccolta. Nel corso dei secoli i monaci hanno intrapreso i più vari generi di lavoro manuale e intellettuale.

Nell'orario fissato con tanti particolari da SB non figura la messa quotidiana nei giorni feriali, nemmeno in quaresima. Nel monastero al tempo di SB la messa conventuale e solenne si celebrava solo la domenica e le feste. Questo non deve sorprendere. Solo posteriormente a SB si andò estendendo l'uso della messa quotidiana (cominciando dall'Africa e dalla Spagna). Naturalmente, oggi la messa conventuale è il centro della giornata monastica.

Nell'orario di SB manca pure ogni accenno ad un tempo per la cosiddetta ricreazione per allentare un pò l'arco teso di preghiera-lectio-lavoro e per aumentare i rapporti fraterni. Certamente non esisteva di orario. Però sarà bene ricordare che SB non interdice affatto l'uso della parola, ma ammonisce solo per l'uso saggio, discreto e assennato della parola (cf. RB 6; 4,51-54; 7,56-61 e relativo commento). Inoltre le “ore non competenti” di RB 48,21 fanno spia che dovevano esserci anche delle “ore competenti” in cui i monaci potevano avvicinarsi, parlare, trattare insieme. Con l'andare del tempo, la tradizione monastica ha fissato un particolare “tempo competente” scritto anche nei nostri orari come “tempo libero” o “sollievo”, per scaricare un pò la tensione della preghiera e del lavoro e per trascorrere qualche momento in fraterna conversazione.

Per la ricostruzione di una giornata monastica nel monastero benedettino del medioevo, si può vedere il libro (molto breve e di facile lettura) di: L.MOULIN, La vita quotidiana secondo S,Benedetto, Jaca Book, Milano 1980.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLVII – Il segnale per l’ufficio divino

1 Bisogna che l’abate si assuma personalmente il compito di dare il segnale per l’Ufficio divino, oppure lo affidi a un monaco diligente in modo che tutto avvenga regolarmente nelle ore fissate. 2 L’intonazione dei salmi e delle antifone, secondo l’ordine prestabilito, spetta, dopo l’abate, ai monaci appositamente designati. 3 E nessuno si permetta di cantare o di leggere all’infuori di chi è capace di farlo in maniera da edificare i suoi ascoltatori; 4 inoltre questo compito dev’essere svolto con umiltà, gravità e reverenza e solo dietro incarico dell’abate.

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Approfondimenti

1: Il segnale per l'Ufficio divino Il titolo si riferisce solo alla prima parte del testo (v. 1). SB aggiunge poi altre precisazioni che riguardano la disciplina in coro durante la celebrazione. Si dice anzitutto che la responsabilità della puntuale celebrazione liturgica, di notte e di giorno, ricade sopratutto sull'abate, il quale o prende l'incarico lui stesso o lo affida a qualche fratello “molto attento”. In un'epoca in cui le ore variavano da un giorno all'altro e in cui i procedimenti per calcolare il tempo erano piuttosto rudimentali, tale incarico era più difficile di quanto sembri a prima vista. Il modo di dare il segnale era vario presso gli antichi monaci. Nei monasteri pacomiani si chiamava con la voce o si batteva uno strumento qualsiasi; le vergini di Santa Paola erano chiamate al canto dell'alleluia (S. Girolamo, Epistola 108,19); Cassiano riferisce che si bussava alle porte (Inst. 4,12). Può darsi che SB pensi alla percussione di lamine di metallo o di tavolette. Il fascetto di verghe posto da qualche pittore in mano al santo, più che uno strumento penale, indica forse uno strumento destinato alla sveglia; nel caso, sarebbe stato il patriarca stesso – come dice qui il testo – a svegliare i monaci.

2-4: Disciplina del coro Spetta ugualmente all'abate designare chi deve cantare o leggere. Il buon ordine della celebrazione e l'edificazione dell'assemblea esigono che facciano i solisti solo coloro che sono in grado di farlo, e ciò si riferisce tanto alla precisione materiale quanto alle disposizioni spirituali: umiltà, gravità e grande riverenza (v.4). Notiamo che il verbo imponere (v.2), più che “intonare” un salmo, significa qui recitarlo integralmente. Tuttavia ciò risulta più facile che “leggere” (v. 3) per il fatto che i salmi si recitavano a memoria, mentre leggere nei manoscritti dell'epoca era un'impresa più complicata e certamente non erano molti i monaci che potevano farlo con competenza e soddisfazione di tutti.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLVI – La riparazione per le altre mancanze

1 Se, mentre è impegnato in un qualsiasi lavoro in cucina, in dispensa, nel proprio servizio, nel forno, nell’orto, in qualche attività o si trova in un altro luogo qualunque, un monaco commette uno sbaglio, 2 rompe o perde un oggetto o incorre comunque in una mancanza 3 e non si presenta subito all’abate e alla comunità per riparare spontaneamente e confessare la propria colpa, 4 sarà sottoposto a una punizione più severa, quando il fatto verrà reso noto da altri. 5 Ma se il movente segreto del peccato fosse nascosto nell’intimo della coscienza, lo manifesti solo all’abate o a qualche monaco anziano, 6 che sappia curare le miserie proprie e altrui senza svelarle e renderle di pubblico dominio.

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Approfondimenti

1-4: Colpe esterne in qualunque luogo del monastero Quest'ultimo capitolo della sezione disciplinare considera tutte le altre colpe e negligenze che possano commettersi in qualunque parte del monastero. Il castigo per i falli esterni qui previsti – rompere qualche oggetto o perderlo – non costituisce nessuna novità per la legislazione monastica: Pacomio (Reg. 13-17,131) e Cassiano Inst. 4,16) lo menzionano. Ciò che è nuovo è l'esigenza di spontaneità e l'immediatezza della soddisfazione (non previste in Cassiano e in RM). SB prevede due gradi: il primo è la soddisfazione immediata; il secondo, nel caso della non soddisfazione, è la scomunica. SB si ispira a S. Agostino (Epistola 211,11) che prevede, per il monaco che riceve regali di nascosto, tutti e due i casi: se lo confessa spontaneamente, verrà perdonato; se si viene a sapere da altri (per esempio da un decano o da qualche altro fratello, sarà punito più severamente. Tuttavia, mentre Agostino parla di una colpa abbastanza grave (doni ricevuti di nascosto da una donna), SB applica la norma a casi più banali ed estende il suo campo di applicazione. Ricordiamo che nella vita del S. Patriarca, abbiamo un esempio di ambedue i casi: la confessione spontanea del buon goto, che venne subito confortato da SN (II Dial. 6) e il monaco che aveva ricevuto dei fazzoletti e non disse nulla e ne ebbe una solenne lavata di capo (II Dial. 19).

5-6: Colpe interne o peccati occulti Il monaco deve dunque confessare spontaneamente le proprie mancanze, anche le più materiali, e soddisfare per esse. Se invece si tratta di “peccati occulti” commessi nel segreto della propria coscienza, non devono essere pubblicati. Bisogna, sì, confessarli, ma solo all'abate o ai “padri spirituali”. Non è facile stabilire precisamente ciò che si intende per “peccati occulti”. Si può fare riferimento a RM. 15 (pensieri cattivi) e a Cassiano (Coll. 2,11.13: furto, pensieri impuri). In RM la confessione si fa all'abate, ed è preparata dai preposti (decani); in RB si fa all'abate e ai “seniori spirituali”: questi possono essere i decani, ma non solo loro. “Anziani spirituali” nella tradizione monastica (trasmessa soprattutto da Cassiano), sono quei monaci molto avanti nella vita spirituale, alla fine del cammino della scala dell'umiltà, quindi oggetto di una particolare ispirazione dello Spirito Santo. Non si tratta dei sacerdoti del monastero (RB. 62), né si parla qui della confessione sacramentale, ma di vera direzione spirituale che, secondo la Regola, non è solo monopolio dell'abate. La manifestazione dei pensieri cattivi e dei peccati occulti è ricordata altre volte nella RB: in uno strumento delle buone opere (RB 4,50) e nel 5° gradino dell'umiltà (RB 7,44-45).

Tutta questa finale del c. 46 si ispira in qualche modo a RM. 15 (e a S. Agostino, soprattutto per la spontaneità dell'accusa), ma è originale nella distinzione netta tra la confessione pubblica per le mancanze esterne e la confessione privata per i peccati interni. Quando SB dice: “sappia curare le piaghe proprie e altrui”, include in tale scienza la nozione della Scrittura (come RM), ma soprattutto la capacità di tacere sulla confessione ricevuta, e in più ricorda all'abate e al “seniore spirituale” la propria fragilità: anche loro sono peccatori come gli altri.

CONCLUSIONE SUL CODICE PENITENZIALE (RB23-30 e 43-46) Concludendo, richiamiamo alcuni valori fondamentali del codice penitenziale benedettino:

  • Importanza della persona. Più volte nel codice penale – come anche nel capitolo sull'abate (cf. RB 2,23-25.27.28-31) – SB ritorna sul fatto che la punizione deve essere adeguata all'indole di ciascuno, proprio perché non si tratta di vendetta, ma di un modo per aiutare e curare il fratello che sbaglia. Perciò SB, a malincuore e dopo numerosi tentativi, si decide ad espellere il monaco colpevole e solo per timore che altri si perdano a causa sua (RB 28,6-8); e in seguito, se quegli si pente, è disposto a riprenderlo in comunità anche più volte. (RB 29,1-3).

  • Dimensione comunitaria. Un fatto emerge dal codice penitenziale, al di là delle forme e delle consuetudini dovute alla società del tempo: ogni trasgressione alla Regola, ogni mancanza grande o piccola commessa in monastero, è un attentato alla vita della comunità e come tale deve essere corretta e riparata; è sulle condizioni e sui modi di appartenenza alla comunità che scatta la scomunica, la cui pena è proprio l'esclusione dalla vita di comunione nei suoi gesti principali: preghiera e mensa.

Che cosa rimane oggi? Che cosa possiamo e dobbiamo ritenere oggi di tutto il codice penitenziale della RB? Certo, la presenza stessa di un codice penale nella Regola può risultare sgradevole alla nostra mentalità odierna; e di fatto l'accentuazione dell'aspetto giuridico e casuistico ha portato ad immagini di monastero troppo distanti dallo spirito del Vangelo e del monachesimo: monasteri quasi caserme o scuole nel senso peggiore (la storia ce ne fornisce degli esempi) e non comunità di volontari, aggregazione libera per seguire Cristo.

Tuttavia ci sono alcuni valori nel codice penitenziale che non dovrebbero andare perduti. Poniamo delle riflessioni in forma di questioni:

  1. La pratica della scomunica implicava delle regole molto strette e precise di appartenenza alla comunità. Il fatto di aver abolito ogni penalità non potrebbe indicare che questi criteri di appartenenza sono divenuti molto labili? che, cioè, si tende a vivere in modo individualistico?

  2. Con le punizioni e le penitenze, la Regola intende dare soprattutto un aiuto al monaco perché egli possa prendere coscienza dei propri difetti e correggersi (aspetto medicinale della pena). Abbiamo trovato, oggi, altri modi concreti di aiuto? O ciascuno è lasciato “libero” (cioè solo) con i propri limiti e il desiderio di superarli?

  3. Nella RB pena e penitenza hanno un carattere pubblico, come detto sopra. Abolite, per la mentalità dei tempi, tutte le pratiche della Regola, non c'è pericolo che vi sia una mancanza di sensibilità riguardo al confronto e alla correzione fraterna? O, peggio, dato che ci si conosce molto bene, non ci riduciamo forse soltanto a fare mormorazione e critica “privata”? Dobbiamo – credo – educarci di più al senso della responsabilità reciproca: la comunità intera come organismo deve salvare i suoi membri deboli e infermi, non con un malinteso senso di pietà o peggio con una colpevole solidarietà con i vizi, ma con una carità genuina che comprende la correzione fraterna – la “verità nella carità”, cf. Ef 4,15) – con una preghiera insistente e con un supplemento di santità. Dio ci ha riuniti insieme perché lo cerchiamo nella preghiera, nel lavoro, nella vita comune. Ognuno deve sentirsi ormai inseparabile dai suoi confratelli e solidale con essi per sempre. Bisogna dunque che egli lavori, preghi, si sacrifichi non solo per raggiungere la propria santificazione personale, ma anche per aiutare quella degli altri.

Possiamo ritenere almeno queste riflessioni dall'esame dei dodici capitoli del codice penitenziale della RB.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLV – La riparazione per gli errori commessi in coro

1 Se un monaco commette un errore mentre recita un salmo, un responsorio, un’antifona o una lezione e non si umilia davanti a tutti con una penitenza, sia sottoposto a una punizione più severa, 2 perché non ha voluto correggersi umilmente dell’errore commesso per negligenza. 3 Nel caso dei ragazzi, invece, per una colpa di questo genere si ricorra al castigo corporale.

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Approfondimenti

1-3: Sbagli durante la preghiera comune Non si tratta più di mancanze provocate da cattiva disposizione, ma da disattenzione o negligenza. Secondo Cassiano (Inst. 4,16), costituivano una colpa lieve da ripararsi subito mediante pubblica penitenza. Anche SB esige una riparazione pubblica per quegli “sbagli commessi per negligenza” (v. 2), ma non dice in che cosa essa consista; probabilmente in una prostrazione a terra. Ancor oggi nei monasteri si conserva l'uso di questo atto di umiltà per gli errori durante l'Ufficio: si porta la mano al petto o si genuflette al proprio posto... Sono, oltre che espressioni di umiltà, atti di riverenza verso la santità di Dio (cf. RB 19 e 20). Chi non voleva sottoporsi a questa umiliazione e riparazione veniva punito più severamente, a giudizio dell'abate (forse come la soddisfazione degli scomunicati).

3: I fanciulli, per mancanze di questo genere, siano battuti Bisogna intendere per gli sbagli in coro, oppure per non essersi umiliati dopo gli sbagli? Sembrerebbe più probabile la seconda ipotesi: anche i ragazzi hanno il loro amor proprio. Ma bisogna anche ammettere che SB possa aver inteso infliggere le battiture ai ragazzi per gli sbagli durante la recitazione. Si pensi che l'uso della verga era normale per gli alunni, è rimasta celebre la verga con cui S. Gregorio correggeva gli irrequieti fanciulli che formava al canto sacro (cf. anche la famosa esperienza di S. Romualdo). E, del resto, fino a non molti anni fa', sulla cattedra del maestro elementare faceva bella mostra la bacchetta e qualcuno degli ancora viventi potrà ricordare di aver imparato le declinazioni latine a forza di bacchettate!

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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