📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

Capitolo XLIV – La riparazione degli scomunicati

1 Il monaco che per colpe gravi è stato escluso dal coro e della mensa comune, al termine dell’Ufficio divino si prostri in silenzio davanti alla porta del coro, 2 rimanendo lì disteso con la faccia a terra dinanzi a tutti quelli che escono 3 e continui a fare in questo modo fino a quando l’abate non giudichi che ha sufficientemente riparato. 4 Quando poi sarà chiamato dall’abate, si getti ai piedi di lui e di tutti i fratelli per chiedere le loro preghiere. 5 Allora, se l’abate vorrà, potrà essere riammesso in coro al suo posto o a quello designato dallo stesso abate, 6 senza permettersi, però, di recitare un salmo, una lezione o altro, a meno che l’abate glielo ordini. 7 Inoltre al termine di tutte le Ore dell’Ufficio divino, si prostri a terra lì dove si trova 8 e faccia così la sua riparazione, finché l’abate non metterà fine a questa penitenza. 9 Quelli, invece, che per colpe più leggere sono stati esclusi solo dalla mensa, facciano penitenza in coro per il tempo stabilito dall’abate 10 e la ripetano fin tanto che questi li benedica e dica: Basta!

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Approfondimenti

Il capitolo parla della soddisfazione e riconciliazione dei monaci scomunicati. Cassiano prevede un rito molto semplice: una semplice prostrazione alla fine dell'Ufficio e l'ordine dell'abate di alzarsi (Inst. 4,16). RM 14 è più complicata: prostrazione alla porta durante l'Ufficio, preghiera della comunità all'abate, rimprovero al penitente e sua promessa di correggersi, preghiera della comunità, versetto “Confitemini...” (Confessatevi...), lunga preghiera, nuovo avvertimento, versetto “Erravi...” (Ho peccato...). RB in parte ritorna alla semplicità di Cassiano, in parte conserva il cerimoniale di RM.

1-8: Soddisfazione degli scomunicati: scomunica maggiore I colpiti da scomunica maggiore (RB 25) devono seguire questa procedura in quattro fasi: anzitutto la prostrazione alla porta dell'oratorio “in silenzio, con la faccia rivolta a terra, ai piedi di tutti i fratelli man mano che escono”; e non una volta sola, ma fino a quando lo giudica l'abate (vv. 1-3). Potremmo qui notare la falsariga della procedura della Chiesa per i penitenti pubblici i quali aspettavano davanti alla porta della basilica). Poi, chiamati dall'abate, si prostrano davanti a lui e a tutti per chiedere preghiere: è un rito silenzioso, non si pronuncia nessuna orazione a voce alta (a differenza della lunga orazione di RM. 14,25-73). Quindi, se l'abate lo concede, tornano al loro posto in coro. Però non potranno recitare salmo o lettura come solista in coro e alla fine di ogni ora canonica si prostrano a terra al loro posto. Questa soddisfazione durerà fin quando l'abate lo giudicherà opportuno. Così la procedura potrà essere più o meno lunga; è da notarsi l'insistenza di S. Benedetto sul giudizio personale e la responsabilità pastorale dell'abate, il quale deve essere spinto solo dal desiderio di provare la sincerità e la perseveranza del monaco penitente e assicurare meglio la sua conversione. SB si ispira alla medesima carità e al realismo dei cc.27-29; è più pedagogico rispetto a RM, perché conosce meglio la psicologia e ha esperienza diretta.

9-10: Soddisfazione degli scomunicati: scomunica minore Gli scomunicati solo dalla mensa (scomunica minore: RB 24) fanno la soddisfazione nell'oratorio fino a quando l'abate con la sua benedizione dice che basta. Consisteva nella prostrazione alla fine dell'Ufficio e probabilmente nel non intonare salmi e antifone, come nella terza e quarta fase del rituale sopra descritto (vv.6-7).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLIII – La puntualità nell’Ufficio divino e in refettorio

1 All’ora dell’Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine, 2 ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla leggerezza. 3 In altre parole non si anteponga nulla all’opera di Dio». 4 Se qualcuno arriva all’Ufficio notturno dopo il Gloria del salmo 94, che proprio per questo motivo vogliamo sia cantato molto lentamente e con pause, non occupi il proprio posto nel coro, 5 ma si metta all’ultimo o in quella parte che l’abate avrà destinato per questi negligenti, perché siano veduti da lui e da tutti, 6 e vi rimanga fino a quando, al termine del l’Ufficio divino, avrà riparato dinanzi a tutta la comunità con una penitenza. 7 Abbiamo ritenuto opportuno far rimanere questi ritardatari all’ultimo posto o in un canto, perché si correggano almeno per la vergogna di essere visti da tutti. 8 Se, infatti, rimanessero fuori del coro, ci potrebbe essere qualcuno che ritorna a dormire o si siede fuori o si mette a chiacchierare, dando così occasione al demonio; 9 è bene invece che entrino, in modo da non perdere tutto l’Ufficio e correggersi per l’avvenire. 10 Nelle Ore del giorno, invece, il monaco che arriva all’Ufficio divino dopo il versetto o il Gloria del primo salmo, che segue lo stesso versetto, si metta all’ultimo posto, secondo la norma precedente, 11 e non si permetta di unirsi al coro dei fratelli che salmeggiano, fino a che non avrà riparato, a meno che l’abate gliene dia il permesso con il suo perdono; 12 ma anche in questo caso il ritardatario dovrà riparare la sua mancanza. 13 Per quanto riguarda il refettorio, chi non arriva prima del versetto in modo che tutti uniti dicano il versetto stesso, preghino e poi siedano insieme a mensa, 14 se la mancanza è dovuta a negligenza o cattiva volontà, sia rimproverato fino a due volte. 15 Ma se ancora non si corregge, sia escluso dalla mensa comune 16 e mangi da solo, separato dalla comunità e senza la sua razione di vino, fino a che non abbia riparato e si sia corretto. 17 Lo stesso castigo sia inflitto al monaco che non si trovi presente al versetto che si recita dopo il pranzo. 18 Nessuno poi si permetta di mangiare o di bere qualcosa prima dell’ora stabilita. 19 Ma il monaco che non avesse accettato ciò che gli era stato offerto dal superiore, quando desidererà quello che ha rifiutato in precedenza o altro, non ottenga assolutamente nulla fino a che non dimostri di essersi debitamente corretto.

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Approfondimenti

Il significato della soddisfazione per le colpe commesse Com'è proprio dell'uomo sbagliare, così è proprio del monaco riconoscere umilmente i suoi errori e le sue deficienze davanti a Dio e davanti ai fratelli. Perciò il significato della soddisfazione è quello di riparare pubblicamente le colpe, gravi o leggere, commesse pubblicamente a detrimento della pace, della concordia, dell'ordine della comunità; chiedere perdono a Dio delle irriverenze commesse contro di lui o contro le cose a lui consacrate. Il c. 43 parla della soddisfazione di chi arriva tardi alla preghiera comune o alla mensa. Ha il parallelo in RM 73.

1-3: Sollecitudine ad intervenire all'Ufficio divino La puntualità costituisce un elemento fondamentale per l'ordine. Essa va usata soprattutto per la preghiera. Qualunque sia l'occupazione del monaco, al segnale dell'Ufficio divino, bisogna lasciarla subito perché la dignità della preghiera comune è superiore a tutte le altre cose. Per inculcare la più scrupolosa puntualità, SB dice di “correre con somma sollecitudine” (v,1), ma sempre con la gravità caratteristica del monaco, ricordata molte volte nella Regola (cf.RB 6,3; 7,60; 22,6; 42,11; 47,4). Nulla perciò si anteponga all'Opera di Dio Ergo nihil Operi Dei praeponatur (v. 3): la celebre massima benedettina si trova in questo capitolo. Per il monaco la preghiera liturgica comunitaria ha un primato indiscutibile e il monaco è, e deve tendere ad essere, essenzialmente un uomo di preghiera. L'espressione “Nihil Operi Dei...”, e soprattutto il concetto stesso, erano tradizionali nel monachesimo. Nella II. Reg. Patrum, 31 si legge: “Niente si deve anteporre all'orazione”; l'orazione qui denota l'Ufficio divino. “Non anteporre nulla all'orazione in tutto il giorno” è una massima dell'abate Porcario di Lerins.

4-9: I ritardatari all'Ufficio notturno Nonostante tutte le avvertenze e la solidità del principio generale, è inevitabile per la natura umana che ci siano delle mancanze. SB si mostra comprensivo e indulgente e vuole anche all'Ufficio notturno il salmo 94 (l'Invitatorio) si reciti molto lentamente per dar modo ai sonnolenti di giungere prima del Gloria. Chi arriva più tardi si metterà all'ultimo posto o in un luogo speciale a ciò destinato dall'abate e dia soddisfazione al termine dell'Ufficio (vv.5-6). SB si mostra qui innovatore: secondo l'uso di molti monasteri attestato da Cassiano (Inst. 3,7), i ritardatari (dopo il secondo salmo) erano costretti a rimanere fuori e a unirsi solo da lontano alla preghiera e a prostrarsi ai piedi di tutti quando uscivano. SB li pone in un posto particolare perché per la vergogna di vedersi così notati siano portati a correggersi (v,7); altrimenti, se rimangono fuori, ci sarà chi se ne torna beatamente a letto, oppure si sdraia lì per terra godendosi, d'estate, il fresco della notte o chiacchierando con qualche altro del suo stampo (v.8). Il S .Patriarca è veramente un pittore arguto in questa scenetta: conosce l'uomo; la sua esperienza, la sua fine penetrazione psicologica gli hanno insegnato molte cose: “Che entrino, invece, perché non perdano tutto” (v.9).

10-12: I ritardatari all'Ufficio diurno Per gli Uffici diurni SB è più severo, perché i monaci sono allora meno scusabili, essendo già tutti in piedi; non solo si riduce il margine per il ritardo (il Gloria del primo salmo), mentre di notte c'era il salmo 3 di attesa e il salmo 94 cantato lentamente), ma si proibisce ai ritardatari di associarsi al coro dei fratelli salmodianti (v.11), a meno che l'abate, per ragioni particolari, non lo concede; rimane comunque l'obbligo della soddisfazione (v.12).

13-17: I ritardatari alla mensa Anche la mensa comune è uno degli atti più importanti per la società cenobitica. Chi arriva tardi, dopo la preghiera, o esce prima della preghiera di ringraziamento, mangerà da solo e senza vino; però tale punizione si applica soltanto dopo due ammonizioni (v.14).

18-19: Disciplina nel prendere il cibo Approfittando dell'occasione, SB aggiunge una nota (per sè non c'entra con il tema del capitolo): che nessuno ardisca mangiare o bere fuori dagli orai regolari. Anche Cassiano parla di monaci che osservavano così rigorosamente tale norma da non toccare neppure i frutti caduti a terra (Inst. 4,18). S. Basilio dice: “Attento a non incorrere nel peccato di mangiare clandestinamente: (Reg. 15). Fa eccezione il caso in cui il superiore offre qualcosa, per esempio per un lavoro straordinario o per altro motivo: sarebbe allora orgoglio e superbia non accettare e si sarebbe passibili di punizione.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLII – Il silenzio dopo compieta

1 I monaci devono custodire sempre il silenzio con amore, ma soprattutto durante la notte. 2 Perciò in ogni periodo dell’anno, sia di digiuno oppure no, si procederà nel modo seguente: 3 se non si digiuna, appena alzati da cena, i monaci si riuniscano tutti insieme e uno di loro legga le Conferenze o le Vite dei Padri o qualche altra opera di edificazione, 4 ma non i primi sette libri della Bibbia e neppure quelli dei Re, perché ai temperamenti impressionabili non fa bene ascoltare a quell’ora i suddetti testi scritturistici, che però si dovranno leggere in altri momenti; 5 se invece fosse giorno di digiuno, dopo la celebrazione dei Vespri e un breve intervallo, vadano direttamente alla lettura di cui abbiamo parlato 6 e leggano quattro o cinque pagine o quanto è consentito dal tempo a disposizione, 7 perché durante questo intervallo della lettura possano radunarsi tutti, compresi quelli che fossero eventualmente stati occupati in qualche incombenza. 8 Quando saranno tutti riuniti, dicano insieme Compieta, all’uscita dalla quale non sia più permesso ad alcuno di pronunciare una parola. 9 Chiunque sia colto a trasgredire questa regola del silenzio venga severamente punito, 10 eccetto il caso in cui sopraggiungano degli ospiti o l’abate abbia dato un ordine a un monaco; 11 ma anche in questa eventualità bisogna procedere con la massima gravità e il debito riserbo.

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Approfondimenti

RB 42 corrisponde a RM 30. Ambedue le Regole stabiliscono un legame tra i pasti e il silenzio notturno (in RB 41 si parla dell'orario dei pasti). Il titolo accenna solo al silenzio, ma il capitolo parla più a lungo della lettura che precede compieta.

1: Osservanza del silenzio Il capitolo inizia con una massima generale cara a SB (come il c. 19 e il c. 49). La Regola ha già parlato dell'amore al silenzio (la “tacitirnitas”) nel c.6; ora ribadisce il principio: il monaco deve aver cura del silenzio in tutti i tempi, ma una posizione di privilegio va riservata al tempo della notte. Si noti che qui c'è la parola “silentium” (non “taciturnitas”), che ha un senso più energico e assoluto.

2-7: Lettura prima di compieta e riunione di tutta la comunità Dopo il v.1 viene lasciato il tema del silenzio per trattare di due cosa legate fra loro: la lettura prima di compieta e la riunione di tutta la comunità. RM 30,1-11 prevede a questo punto la lavanda dei piedi e la comunicazione tra i fratelli di cose necessarie, prima del silenzio rigoroso. RB insiste di più sulla riunione di tutta la comunità che sul silenzio a cui prepara compieta. Questa insistenza sembra giustificata dal fatto che SB introduce l'uso della lettura prima di compieta, uso sconosciuto a RM.

A volte si è interpretata la lettura in comune solo come un modo di approfittare del tempo mentre i fratelli erano occupati in qualche ufficio; ma non sembra troppo esatto vedere la cosa solo così. SB dà un'importanza evidente a questa lettura vespertina fatta in comune. Indica alcune opere: le “Collazioni” di Cassiano e le “Vitae Patrum”, testi tipicamente monastici o “altre opere di edificazione” (v. 3). Lettura pubblica ed edificazione di chi ascolta vanno sempre di pari passo nella Regola (RB 38,12; 47,3; 53,9), tanto che SB si preoccupa di non far leggere in quell'ora più propizia alla tentazione niente meno che alcuni libri della S. Scrittura: l'Eptateuco (i primi sette libri della Bibbia: Pentateuco + Giosuè + Giudici) e i libri dei Re (1-2 Samuele e 1-2 Re); non si considera dannosa la lettura dei libri sacri (difatti bisogna leggerli in altri momenti (v. 4) perché sono parola di Dio), ma si pensa che alcune storie scabrose lì riferite potevano suscitare a quell'ora immagini sconvenienti alla fantasia delle “menti deboli” (v. 4). SB pensa quindi alla parte spiritualmente debole della comunità. Anche Cassiano notava che tali letture dell'AT non erano adatte agli “spiriti deboli e infermi” (Coll. 19,16).

Significato della lettura La lettura vespertina ha un valore proprio, di preparazione non tanto per compieta quanto per la notte. La notte da una parte è segno del male, delle tenebre spirituali e piena di misteriosi pericoli per lo spirito; dall'altra parte è propizia, come nessun altro tempo, alla riflessione e alla preghiera. SB dice di leggere “quattro o cinque fogli” (v. 6) – era molto, sopratutto in quell'epoca – e nel frattempo devono arrivare tutti i fratelli.

Importanza della presenza di tutti i fratelli Che tutti si ritrovino sembra molto importante per SB; tre volte in questo capitolo si trovano espressioni che richiamano questo fatto: “seggano tutti insieme” (v. 3); “si radunino tutti” (v. 7); “tutti insieme” (v. 8). Perché questo far arrivare tutti? per assicurare l'osservanza del silenzio notturno? perché tutti ascoltino (almeno un po') la lettura preparatoria per la notte? per concludere tutti insieme la giornata al canto di compieta? Impossibile determinarlo con certezza. Certo è che SB vuole tutti insieme i membri del monastero nel momento conclusivo della giornata.

8: Compieta e silenzio notturno Quando tutti i monaci sono presenti si dice compieta e poi “a nessuno sia permesso proferire parola” (v. 8). La comunità intera si immerge nel gran silenzio della notte. Disciplina cenobitica antichissima: risale a Pacomio (“Nessuno parli a un altro di notte”, Reg. Pachomii 94) e da lui passa in tutte le altre Regole (Cassiano ha: “Nessuno dei monaci ardisca di attardarsi per un po` a scambiare parola con un altro”, Inst. 2,15); oltre alla salvaguardia del silenzio, si tende a premunire la castità (si suppone la dormizione in celle separate). Comunque RM e RB sembrano indipendenti da Pacomio, almeno nella motivazione. RM porta una motivazione liturgica: difatti il silenzio rigoroso iniziava con il versetto: “Poni, Signore una custodia alla mia bocca...” (Sal 140,3) e terminava con il versetto: “Signore, apri le mie labbra...” (Sal 50,17) (RM 30,12-16). RB (e anche RM) tende a favorire il riposo di tutti. E questo si spiega con il passaggio dalla cella al dormitorio comune: stando insieme i monaci debbono stare attenti a non disturbarsi nel sonno (cf. RB 48,5) e nella preghiera (cf. RB 52,2-3), cose che prima i monaci compivano nella loro cella. Quindi il silenzio notturno ormai ha una caratteristica di sensibilità fraterna più che di protezione contro i pericoli della castità.

9-11: Penalità ed eccezioni Conclude il capitolo una prescrizione severa contro i trasgressori del silenzio notturno (v. 9) e il caso di due eccezioni: l'arrivo di ospiti e un eventuale ordine dell'abate (v. 10), per terminare con un'osservazione circa la gravita` e la delicatezza nell'uso della parola in tali occasioni eccezionali.

Nota per i monaci di oggi Forse i monaci di oggi devono rieducarsi a riscoprire il “grande silenzio” della notte. Certo, SB vede quanto sia necessario il silenzio notturno per salvaguardare il riposo di dieci o venti monaci che dormivano nello stesso luogo. Ma è anche certo che pensa alla “spiritualità” – per così dire – della notte. La notte è, infatti il tempo delle grandi rivelazioni di Dio nell'antica e nella nuova alleanza: nel silenzio della notte il Verbo incarnato è apparso per la prima volta tra noi (cf. la liturgia del Natale); nel silenzio della notte il nostro Redentore è risorto dal sepolcro; nel silenzio della notte, Cristo si intratteneva a colloquio col Padre. Il monaco dovrebbe, in questo grande silenzio, prolungare la sua preghiera personale che nasce dalla liturgia e delle liturgia è luce e alimento. Oggi nei monasteri si dovrebbe tornare a riflettere con maggiore scrupolosità su questo capitolo e su questo aspetto della spiritualità monastica.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLI – L’orario dei pasti

1 Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste i fratelli pranzino all’ora di Sesta, cioè a mezzogiorno, e cenino la sera. 2 Invece da Pentecoste in poi, per tutta l’estate, se non sono impegnati nei lavori agricoli o sfibrati dalla calura estiva, al mercoledì e al venerdì digiunino sino all’ora di Nona, cioè fin dopo le 14:30 e negli altri giorni pranzino all’ora di Sesta. 4 Ma nel caso che abbiano da lavorare nei campi o che il caldo sia eccessivo, potranno pranzare tutti i giorni alle 12:00, secondo quanto stabilirà paternamente l’abate. 5 Così questi regoli e disponga tutto in modo che le anime si salvino e i monaci possano compiere il proprio dovere senza un motivo fondato di mormorazione. 6 Dal 14 settembre fino all’inizio della Quaresima pranzino sempre all’ora di Nona. 7 Durante la Quaresima, poi, fino a Pasqua pranzino all’ora di Vespro: 8 questo ufficio però dev’essere celebrato a un’ora tale da non aver bisogno di accendere il lume durante il pranzo e poter terminare mentre è ancora giorno. 9 Anzi, in ogni stagione, sia l’ora del pranzo che quella della cena devono essere fissate in maniera che tutto si possa fare con la luce del sole.

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Approfondimenti

La sezione dell'alimentazione si chiude con un capitolo sull'orario dei pasti e sui tempi del digiuno. È parallelo a RM 28, ma con notevoli varianti: SB mitiga molto la legge dei digiuni. Per l'orario dei pasti, RB segue un ordine cronologico, distinguendo quattro periodi.

1: Primo periodo: da Pasqua a Pentecoste Il tempo pasquale, per il carattere di particolare letizia, esclude il digiuno; perciò SB prescrive il pasto principale a sesta e la cena alla sera. Per i romani il pasto principale era la sera; ma i monaci subito dopo la refezione serale, avevano la lettura e compieta, e quindi il riposo; perciò l'inversione dei due pasti era anche una buona norma igienica. Riguardo ai monaci primitivi (Egitto), S. Girolamo dice che “da Pasqua a Pentecoste le cene si cambino in pranzi”, cioè l'ora veniva anticipata da nona a sesta (Epist. 22); così anche Cassiano (Coll. 21,23). Anche RM prevede il pranzo a sesta nel tempo pasquale e concede la cena, ma solo giovedì e domenica (RM 28,37-40). SB è più largo: pranzo e cena per tutto il tempo pasquale.

2-5: Secondo Periodo: da Pentecoste al 13 (o 14) settembre (estate) Il periodo estivo ha il pranzo a sesta ed ha, in via ordinaria, il digiuno che anche i semplici fedeli osservavano ogni settimana, cioè il mercoledì e il venerdì, digiuno che consisteva nel fare il pasto a nona e non avere la cena. Mentre i giudei digiunavano il lunedì e il giovedì, i cristiani, fin dai primi tempi, digiunavano il mercoledì e il venerdì, e questa usanza fu tenuta in grande onore presso i monaci; per la chiesa romana e alcune altre anche il sabato (così anche RM). Ma anche questo digiuno mitigato ha per SB delle deroghe: mercoledì e venerdì si digiuni (nel senso detto sopra), purché i lavori campestri e la calura estiva non richiedano una dispensa; l'abate consideri la cosa. Si noti il v. 5 che intende dire: se è vero che i monaci non devono mai mormorare (RB 34,6; 40,8-9), è anche bene che l'abate disponga le cose in modo da evitare ogni motivo fondato di mormorazione.

6: Terso Periodo: dal 13 (o 14) settembre a quaresima (inverno) In inverno RB prevede il digiuno continuo (cioè pranzo a nona e senza la cena), esclusa la domenica (in RM anche il giovedì). Questo periodo si suole chiamare “quaresima monastica”. Nel testo, le “idi di settembre” possono intendersi il “13 settembre”, come è più ovvio, ma anche considerare le “idi chiuse”, cioè terminate, e quindi supporre l'inizio di tale periodo di digiuno il “14 settembre”, pratica comunissima nei monasteri, anche perché legata alla festa della S. Croce.

7-9: Quarto periodo: Quaresima In quaresima l'unico pasto si prendeva dopo vespro. Era l'ora comune per tutti i cristiani: si tratta della “quaresima ecclesiastica”, in cui si celebrava il sacrificio eucaristico nel tardo pomeriggio, e quindi si faceva a vespro l'unica refezione del giorno. SB aggiunge che la cena si faccia con la luce del sole e che il vespro, perciò, venga anticipato (v. 8); anzi mette come norma generale che tutto si faccia con la luce del giorno luce fiant omnia. È una disposizione che eccita la nostra curiosità. Perché? Anche se non si escludono ragioni di ordine economico (risparmiare olio) o anche il motivo di abbreviare un po' il tempo del digiuno che doveva essere pesante per gente che faceva lavori manuali, pare che il motivo principale sia di tipo morale: la convinzione che la notte non è un tempo adatto per mangiare, come per parlare (RB 42,8-11); SB ha in mente probabilmente molte frasi di S. Paolo (cf. Rom 13,12-13; Ef 5,8-14; 1Tess 5,5-8) sulla notte come simbolo di tutti i peccati: in particolare di quelli della bocca.

Riassumendo: i monaci avevano:

  1. giorni senza digiuno con pranzo e cena: in tutte le domeniche e le feste; nel periodo pasquale; in tutta l'estate (cioè da Pentecoste al 13 o 14 settembre, eccetto il mercoledì e il venerdì.

  2. giorni di digiuno moderato con un'unica refezione a nona: nei mercoledì e venerdì da Pentecoste al 13 o 14 settembre (purché non ci fosse lavoro eccezionale nei campi o molta calura); in tutti i giorni feriali dal 13 o 14 settembre fino a quaresima.

  3. giorni di digiuno stretto con unica refezione a vespro, in tutte le ferie di quaresima.

Nell'insieme dobbiamo dire che il sistema dei digiuni in RB è molto attenuato rispetto a RM, mentre è più severo per cibi e bevande. Nei tre capitoli sui pasti, troviamo tre volte l'accenno a dispense: RB 39,6-9 (aggiunta di cibo); 40,5-7 (aggiunta di vino); 41,4-5 (dispensa dal digiuno in estate). Il motivo della dispensa è il lavoro, perché RB prevede il lavoro di agricoltura (mentre RM limita il lavoro dei monaci all'artigianato o al giardinaggio). RB 41,4-5 raccomanda all'abate molta discrezione (cf. anche RB 64,17-19), perché i monaci evitino la mormorazione e perché i deboli non si scoraggino.

Certo, ciò che SB concede al cibo e alla bevanda avrebbe scandalizzato i Padri del deserto. L'ideale del S. Patriarca, però, non è una santità riservata a pochi, ma accessibile anche agli infermi di corpo e ai deboli di animo. Nel suo programma di perfezione ascetica non entrano di proposito rigorose macerazioni del corpo ed eroici digiuni. I suoi monaci devono poter attendere alla preghiera corale, alla lettura e al lavoro senza eccessivo peso. Certo, il prolungamento del digiuno fino a nona per parecchi mesi dell'anno e la qualità stessa dei cibi differenziavano abbastanza i monaci dai laici; ma per la quantità del vitto come del sonno, SB in definitiva non richiede molto di più di quanto si esigeva allora dai buoni cristiani.

Il regime di SB potrà forse apparire severo oggi; ma si pensi che l'astensione perpetua dalle carni, come l'unico pasto a nona (e in quaresima a vespro) non erano allora ritenuti così duri come adesso. La tendenza di SB a concedere attenuazioni ed eccezioni indica il sapiente adattamento alle condizioni fisiche e morali dell'occidente. La discrezione consigliata già da Basilio (Reg. 19) e dall'abate Mosè in Cassiano (Coll. 2,16) fà in SB un ulteriore passo in avanti. Nello stesso spirito i monaci di oggi tengono conto, anche per il vitto, del regime alimentare medio del luogo in cui si vivono, delle mutate condizioni di tempra fisica, delle necessità dei fratelli più deboli, ecc., in modo da non avere una visione angelicata o manicheista della vita monastica. Ma forse non e` nemmeno inopportuno il richiamo ad una certa austerità, evitando di indulgere a una continua e ordinaria sovrabbondanza, o peggio ad uno spreco di evidente matrice consumistica moderna, per serbare sempre fede alla temperanza e alla frugalità dello stato monastico, pensando anche a quanti nel mondo soffrono oggi la fame. La riflessione su questi capitoli della Regola può essere una sfida per la vita quotidiana in monastero.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XL – La misura del vino

1 «Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» 2 ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui con una certa perplessità. 3 Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più gracili, crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa. 4 Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa. 5 Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla, badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l’ubriachezza. 6 Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d’accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente, 7 perché «il vino fa apostatare i saggi». 8 I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino: 9 è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino dalla mormorazione.

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Approfondimenti

1-7: Il vino per i monaci Il capitolo è legato al precedente. Inizia con la citazione di 1Cor 7,7 a dimostrare la titubanza di SB a legiferare su questi argomenti. S. Paolo, nel brano, si riferisce direttamente alla sessualità. SB l'applica al vitto: come la verginità, così anche l'astinenza dal vino è un dono che proviene dall'alto; perciò non si può imporre come obbligo, ma solo proporre come sacrificio meritorio davanti a Dio (v. 4). Per la comunità, considerando le varie esigenze, SB fissa (ma si noti l'espressione di ritegno come al c. 39 “sufficere credimus” pensiamo che basti) una “emina” di vino al giorno, misura incerta che i commentatori calcolano intorno a ¼ di litro. Secondo l'uso, vi si mesceva l'acqua, generalmente calda.

Nei vv.5-7 SB prevede un supplemento in caso di lavoro e di calore eccessivi, ma sempre con l'invito a fuggire l'eccesso e l'ubriachezza. Qualcosa di simile in RM 27,43-46, dove tuttavia il supplemento è dato per motivi gioiosi e l'ebbrezza è posta in relazione con l'impossibilita` di stare attenti alla preghiera e con la libidine. (Notiamo qui che RM è molto particolareggiata nell'uso del vino: stabilisce quanti bicchieri si danno a ciascuno e il modo di darli, quanti pezzi di pane vi si possono intingere prima dell'arrivo delle vivande, il numero delle bevute dopo nona per il lavoro, e tanti altre particolarità). Al v. 6 SB fa un'osservazione riguardo all'uso del vino per i monaci, manifestando i suoi scrupoli e facendo il confronto tra monachesimo antico e monachesimo del suo tempo (così anche in RB 18,24-25 a proposito della perfezione).

Il vino nella tradizione monastica Sull'uso del vino nella tradizione monastica, si va dalla totale proibizione (Vita di Antonio, Pacomio, Basilio – solo per i malati –, Giovanni Crisostomo...), alla progressiva (Agostino, Ilario di Arles...) e pacifica ammissione (Cesario, Aurichiano, Isidoro, Fruttuoso...). Nelle “Vitae Patrum” (V, IV,31) si legge la sentenza dell'abate Pastore che “vinum monachorum omnino non est” (il vino non conviene affatto ai monaci), e SB la ricorda con un certo disagio; tuttavia accetta le cose come sono e vi si adatta, pur ricordando e lodando l'austerità antica. E aggiunge la norma di Basilio (Reg. 9) di non bere almeno fino alla sazietà, citando la frase del Siracide 19,2 che, presa integralmente, suona così: “vino e donne fanno traviare anche i saggi”. A SB, in questo punto, il secondo termine (le donne) non è pertinente!

8-9: Casi di scarsezza o di mancanza di vino SB aggiunge un piccolo paragrafo per il caso di scarsezza di vino a causa della situazione del luogo o anche della povertà del monastero. Qui interviene la fede: benedicano Dio che presta loro l'occasione di un po' di penitenza (v. 8); doversi affliggere per così poco! Tanto meno mormorare! (v. 9).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXXIX – La misura del cibo

1 Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato – a seconda delle stagioni – dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte, 2 in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell’altra. 3 Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza. 4 Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c’è un solo pasto, che quando c’è pranzo e cena. 5 In quest’ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena. 6 Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l’abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento, 7 purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi dall’ingordigia. 8 Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola, 9 come dice lo stesso nostro Signore: «State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo». 10 Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà. 11 Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli.

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Approfondimenti

1-5: Razione quotidiana del cibo SB prova disagio e ritegno nel determinare la misura del vitto (lo dirà espressamente all'inizio del capitolo seguente, RB 40,1-2). Perciò inizia con un modesto sufficere credimus (pensiamo che bastino). Identico inizio in RM 26,1, con la differenza che RB è un po' più restrittiva mettendo come occasionale il terzo piatto che in RM è sempre previsto. Caso strano: poi: RB è più lunga di RM. Al v.1 la frase omnibus mensis è, per l'interpretazione, tra le più tormentate della Regola. Può significare (più letteralmente prendendo “mensis” come ablativo regolare da “mensa, mensae”): a tutte le mense, cioè a quella della comunità, a quella dei servitori e del lettore che mangiavano dopo (RB 38,11), e a quella dell'abate e degli ospiti (RB 56,1); come anche, e più probabilmente, a tutte le tavole, dove erano seduti i fratelli per gruppi (soprattutto considerando il parallelo con la RM secondo la quale i monaci stavano a tavola in tavoli diversi secondo le decanie). Altri invece intendono “mensis” come ablativo volgare al posto del regolare “mensibus” (da “mensis, mensis”) e interpretano: in tutti i mesi, cioè sia d'estate che d'inverno. (Per l'orario dei pasti che poteva essere a sesta, a nona e anche dopo, cf. RB 41).

SB vuole due pietanze cotte, per assicurare il necessario ai fratelli malati (v. 2), ma chi aveva stomaco forte poteva senza dubbio fare onore ad ambedue. L'eventuale terzo piatto era di legumi teneri che in Italia del Sud il popolo soleva mangiare anche crudi: fave, ceci, lupini, ed anche carote, cipolle, ravanelli, ecc. Per il pane si parla di una “libbra”, peso tradizionale presso tutti i monaci (cf. Cassiano, Coll. 2,19; RM 26,2). La libbra romana equivaleva a un terzo di chilogrammo, ma variava secondo i tempi e i luoghi. Pare che la misura di SB sia molto più grande: il pane costituiva il cibo principale per i monaci di allora, dediti quasi tutti a lavori manuali. A Montecassino si conserva ancora un peso di bronzo, di cui un'antica e seria tradizione attestata già da Paolo Diacono (sec. VIII) dice adoperato fin dai tempi di SB, portato a Roma nella prima distruzione dell'abbazia (577) e restituito da Papa Zaccaria. Tale peso corrisponde a kg.1,055: esso valeva per il pane crudo; per il cotto, l'equivalente si può calcolare intorno agli 800 grammi. SB ricorda al cellerario di conservare la terza parte della razione di pane a testa per i giorni in cui c'era anche la cena (ma non si dice in che cosa questa consistesse).

6-10: Eventuale aggiunta e quantità per i fanciulli Questo era il regime normale. Ma ci potevano essere dei supplementi per qualche motivo: SB cita solo il caso di un lavoro eccessivo, RM 26,11-13 anche un motivo gioioso (domenica, giorni di festa, ospiti particolari; e parla anche del “dolce” (!) ricordando un episodio di “Vitae Patrum”); purché, osserva SB, non si esageri fino all'eccesso o all'indigestione (vv.7-9). I fanciulli seguono un regime particolare (v. 10): si sa che essi hanno bisogno più di cibo frequente, che di cibo abbondante. SB ha già provveduto in loro favore (RB 37).

11: Astinenza dalle carni Come già detto in RB 36,9, l'astinenza dalle carni era normale per i monaci; si intende “carni di quadrupedi” (v. 11). Il divieto delle carni si è andato nel corso dei secoli più o meno attenuando, a causa della crescente debolezza generale dell'organismo, e oggi di fatto è quasi annullato nella legge ecclesiastica. Le Costituzioni delle singole Congregazioni fissano le norme per l'astinenza nei monasteri.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXXVIII – La lettura in refettorio

1 Alla mensa dei monaci non deve mai mancare la lettura, né è permesso di leggere a chiunque abbia preso a caso un libro qualsiasi, ma bisogna che ci sia un monaco incaricato della lettura, che inizi il suo compito alla domenica. 2 Dopo la Messa e la comunione, il lettore che entra in funzione si raccomandi nel coro alle preghiere dei fratelli, perché Dio lo tenga lontano da ogni tentazione di vanità; 3 e tutti ripetano per tre volte il versetto: «Signore apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode», che è stato intonato dal lettore stesso, 4 il quale, dopo aver ricevuta così la benedizione, potrà iniziare il proprio turno. 5 Nel refettorio regni un profondo silenzio, in modo che non si senta alcun bisbiglio o voce, all’infuori di quella del lettore. 6 I fratelli si porgano a vicenda il necessario per mangiare e per bere, senza che ci sia bisogno di chiedere nulla. 7 Se poi proprio occorresse qualche cosa, invece che con la voce, si chieda con un leggero rumore che serva da richiamo. 8 E nessuno si permetta di fare delle domande sulla lettura o su qualsiasi altro argomento, per non offrire occasione di parlare, 9 a meno che il superiore non ritenga opportuno di dire poche parole di edificazione. 10 Prima di iniziare la lettura, il monaco di turno prenda un po’ di vino aromatico, sia per rispetto alla santa Comunione, sia per evitare che il digiuno gli pesi troppo, 11 e poi mangi con i fratelli che prestano servizio in cucina e in refettorio. 12. Però i monaci non devono leggere e cantare tutti secondo l’ordine di anzianità, ma questo incarico va affidato solo a coloro che sono in grado di edificare i propri ascoltatori.

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Approfondimenti

Ufficio del lettore e silenzio a tavola Un altro ufficio connesso con la refezione dei fratelli è quello del lettore di mensa. Anche questo ufficio è settimanale, come quello dei servitori. La lettura a tavola era sconosciuta in Egitto (Pacomio). Secondo Cassiano, l'uso di leggere a tavola lo avrebbero introdotto i monaci di Cappadocia per evitare le discussioni frivole e le dispute (Inst 4,17). S. Basilio (Reg. Brev. 180) si appella al motivo spirituale, seguito poi da tutta la tradizione monastica: cioè di rifocillare anche lo spirito insieme al corpo (vedi la scritta nel refettorio del monastero di S. Silvestro a Bassano Romano: “Dum corpus reficitur, mens ieiuna non maneat” – mentre si rifocilla il corpo, lo spirito non rimanga digiuno); così S. Agostino, S. Cesario, ecc.

SB inizia il capitolo con una norma generale presa da RM 24, la quale aggiunge il famoso principio della doppia mensa (come detto sopra), citando Mt 4,4 (Lc 4,4): “Non di solo pane...”. Il lettore di mensa prende servizio la domenica con un rito liturgico sobrio che si svolge in chiesa dopo la Messa (in RM si svolge in refettorio), in cui si chiede di vincere lo spirito di superbia e di vanagloria. Perché, essere scelto per la lettura pubblica era – soprattutto a quei tempi – di pochi, in quanto non potevano farlo tutti, ma solo chi era in grado di farlo in maniera degna: SB lo dirà espressamente alla fine del capitolo (v. 12) e lo dice anche altrove (RB 47,3).

RM 24 dice espressamente che si doveva leggere sempre la Regola molto lentamente, in modo che i fratelli su ogni brano potevano domandare spiegazioni all'abate; l'abate inoltre poteva interrogare sulla lettura. Quando invece vi erano ospiti che non avrebbero potuto capire i “secreta Dei” e quindi deridere forse il monastero, si leggeva altro. SB sopprime tutte queste prescrizioni, non dice cosa si deve leggere (della lettura della Regola parlerà in RB 66,8) e introduce la prescrizione del silenzio assoluto, rifacendosi a Pacomio e a Cassiano; solo l'abate può – se vuole – intervenire con qualche esortazione (sulla lettura anzitutto, s'intende, o su altro), ma molto brevemente (v. 9). Bisogna dire che tutta la tradizione monastica è concorde nel prescrivere il silenzio al refettorio comune; e la tradizione benedettina è stata fedele alla disposizione del S. Patriarca. Solo negli ultimi tempi in alcuni monasteri si usa dispensare dal silenzio; pero` anche in questi casi non manca la lettura all'inizio e alla fine.

10-11: Benevola concessione al lettore Abbiamo qui ancora un tratto di umanità di SB, che concede al lettore – come già ai servitori – un piccolo favore: un bicchiere di “mixtum” (acqua e vino) “sia per la santa comunione sia per poter sopportare il digiuno” (v. 10). RM 24,14 dice espressamente “propter sputum sacramenti” (per lo sputo del sacramento), per paura, cioè, che durante la lettura a voce alta, fra le stille di saliva che potevano emettere, uscissero anche particelle della sacra specie rimaste eventualmente in bocca. SB corregge l'espressione brutale di RM e porta una motivazione più completa aggiungendo il motivo del digiuno e della fatica.

12: Criterio per la scelta del lettore Il v.12 è una postilla sul criterio per la scelta del lettore di mensa (e, per estensione, di tutti i lettori e i cantori in chiesa e in refettorio), parallelo a RM 47,3: legga e canti come solista solo chi può farlo con utilità ed edificazione degli uditori.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXXVII – I vecchi e i ragazzi

1 Benché la stessa natura umana sia portata alla compassione per queste due età, dei vecchi, cioè, e dei ragazzi, bisogna che se ne interessi anche l’autorità della Regola. 2 Si tenga sempre conto della loro fragilità e, per quanto riguarda i cibi, non siano affatto obbligati all’austerità della Regola, 3 Ma, con amorevole indulgenza, si conceda loro un anticipo sulle ore fissate per i pasti.

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Approfondimenti

È evidente la connessione col capitolo precedente: i vecchi e i fanciulli, per la debolezza insita nella loro stessa età, sono da avvicinarsi molto ai malati. SB ricorda un principio generale, cioè la naturale tendenza dell'uomo a compatire i vecchi e i fanciulli. Però vuole che intervenga anche l'autorità della Regola perché – l'esperienza glielo avrà insegnato – in una comunità monastica ci può essere sempre chi vede di malanimo le eccezioni e certi temperamenti rigidi vogliono che la Regola si applichi fedelmente e scrupolosamente in tutto e a tutti. SB con la sua grande discrezione e la considerazione della soggettività, vuole che si tenga conto sempre dei più deboli e si usi un'affettuosa condiscendenza (v. 3).

SB fà poi una sola applicazione pratica riguardo al vitto: anticipino le ore stabilite per il pasto comune. Per i vecchi e i fanciulli sarebbe stato troppo grave sostenere il digiuno fino al tardo pomeriggio o rifocillarsi con un forte pasto verso sera o anche solo aspettare fino a mezzogiorno (ricordiamo che non esisteva la colazione). SB si ispira a S. Girolamo (Epist. 22,35) ed è molto largo nell'eccezione concessa, senza scendere in particolari (RM 28.19-26 fissa l'età e limita le eccezioni); rimane volutamente poco esplicito, confidando nella discrezione di coloro che guidano la comunità monastica, in cui ci sono sempre anime “forti” e anime “deboli”, come infermi, vecchi e fanciulli.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXXVI – I fratelli infermi

1 L’assistenza agli infermi deve avere la precedenza e la superiorità su tutto, in modo che essi siano serviti veramente come Cristo in persona, 2 il quale ha detto di sé: «Sono stato malato e mi avete visitato», 3 e: «Quello che avete fatto a uno di questi piccoli, lo avete fatto a me». 4 I malati però riflettano, a loro volta, che sono serviti per amore di Dio e non opprimano con eccessive pretese i fratelli che li assistono, 5 ma comunque bisogna sopportarli con grande pazienza, poiché per mezzo loro si acquista un merito più grande. 6 Quindi l’abate vigili con la massima attenzione perché non siano trascurati sotto alcun riguardo. 7 Per i monaci ammalati ci sia un locale apposito e un infermiere timorato di Dio, diligente e premuroso. 8 Si conceda loro l’uso dei bagni, tutte le volte che ciò si renderà necessario a scopo terapeutico; ai sani, invece, e specialmente ai più giovani venga consentito più raramente. 9 I malati più deboli avranno anche il permesso di mangiare carne per potersi rimettere in forze; però, appena ristabiliti, si astengano tutti dalla carne come al solito. 10 Ma la più grande preoccupazione dell’abate deve essere che gli infermi non siano trascurati dal cellerario e dai fratelli che li assistono, perché tutte le negligenze commesse dai suoi discepoli ricadono su di lui.

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Approfondimenti

I capitoli RB 36 e 37 sarebbero dovuti venire dopo il 41, perché prevedono deroghe alla legge dei digiuni; e inoltre separano due capitoli (il 35 e il 38) che dovrebbero essere uniti. RB ha anticipato perché in essi ci sono temi affini a quelli del c. 35: il servizio, la ricompensa, la fuga della tristezza; c'è la solita preoccupazione per la cura soggettiva e per il servizio vicendevole tra i fratelli.

1-6: Principi generali per la cura degli infermi Il capitolo si apre con due solenni principi fondati su due frasi del Signore: bisogna aver cura dei malati prima di tutto e soprattutto – espressione assoluta ed energica – e servire a loro come a Cristo in persona (v. 1); seguono le due citazioni di Mt 25,36 e 40. I monaci opereranno di conseguenza, ma SB aggiunge una frase, grave, ma pacata, anche per gli infermi a non essere petulanti e troppo pretenziosi o addirittura capricciosi. Comunque, anche ammesso che i fratelli malati diventino così strani – come può succedere a causa del male – gli altri devono sopportarli in ogni caso. La prima parte del capitolo si chiude con una ammonizione categorica all'abate affinché si prenda “somma cura” degli infermi (v. 6).

7-10: Disposizioni pratiche per i malati SB scende ad alcuni particolari concreti e stabilisce:

  1. che nel monastero ci sia una infermeria affidata a un infermiere “timorato di Dio, diligente e premuroso” (v. 7);
  2. l'uso dei bagni ai malati ogni volta che è necessario (v. 8);
  3. che si permetta di mangiare carne, anche se soltanto a quelli molto deboli (v. 9).

Tanto l'uso dei bagni che il mangiare carne sono una concessione: costituivano infatti un'eccezione allo stato di monaci.

L'uso dei bagni Fin dalle origini del monachesimo, notiamo una esplicita avversione per l'uso dei bagni. Non dobbiamo dimenticare che per gli antichi, i bagni, più che una pratica igienica, erano un passatempo, un lusso e un piacere (ricordiamo le terme dei romani). Per mortificarsi e per non cadere nella sensualità, i monaci esclusero per principio i bagni dal loro genere di vita, riservandoli solo ai malati. La tradizione cenobitica è unanime (Vita di Antonio, Pacomio, Agostino, Reg. Masch., Cesario, Fulgenzio, Leandro, Isidoro); un'unica eccezione, la Regola femminile di Agostino (Epist. 211,13) che concede alle monache il bagno una volta al mese. SB si trova su questa linea e autorizza il bagno a tutti, anche se “più di rado, soprattutto ai giovani” (v. 8). Non possiamo stabilire la frequenza di questi bagni per i sani, ma certo, considerando il tempo e l'ambiente, SB è eccezionalmente liberale, quasi rivoluzionario.

L'uso delle carni Per lo stesso motivo che dai bagni, i monaci si astenevano dalle carni (perché i bagni e le carni riscaldano il corpo e solleticano la sensualità: “il bagno scalda la carne, il digiuno la raffredda”, scrive S. Girolamo). Anche su questo punto SB si mostra molto liberale verso gli infermi. Il brano, considerando soprattutto il parallelo con RB. 39,11, si deve interpretare nel senso della proibizione assoluta solo per le “carni dei quadrupedi”, cioè non riguarda il pollame e i pesci. La distinzione tra carne di quadrupedi e carne di uccelli era già antica nella dietetica monastica: la seconda si considerava più leggera, e quindi meno pericolosa per la virtù; si equiparava praticamente ai pesci, ricordando la Scrittura secondo cui pesci e uccelli furono creati insieme (Gen 1,20-21). Il capitolo termina inculcando di nuovo all'abate la “massima cura” che si deve avere per gli infermi, vigilando anche perché gli incaricati adempiano bene il loro dovere, secondo il principio generale che sul maestro ricade la responsabilità ultima di tutto (v. 10).

Conclusione Il c. 36 sui malati è uno dei meglio riusciti della RB, sotto l'aspetto letterario e contenutistico. Molti esempi ci sono nella legislazione monastica della sollecitudine per i malati, però nessuna Regola riunisce in così mirabile sintesi il trattato sugli infermi come RB, che elimina anche ogni nota negativa rispetto ai fratelli malati (RM prevede soprattutto il caso delle... finzioni e non parla né di infermeria, né di infermieri). Questo trattato mostra in modo chiaro che RB nella sua brevità possiede delle istituzioni più evolute di quelle di RM. E siamo portati a pensare che questo sviluppo istituzionale e spirituale sia il riflesso di una conoscenza più ampia della letteratura cenobitica anteriore e contemporanea.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXXV – Il servizio della cucina

1 I fratelli si servano a vicenda e nessuno sia dispensato dal servizio della cucina, se non per malattia o per un impegno di maggiore importanza, 2 perché così si acquista un merito più grande e si accresce la carità. 3 Ma i più deboli siano provveduti di un aiuto, in modo da non dover compiere questo servizio di malumore; 4 anzi, è bene che, in generale, tutti abbiano degli aiuti in corrispondenza alla grandezza della comunità e alle condizioni locali. 5 In una comunità numerosa il cellerario sia dispensato dal servizio della cucina, come anche i fratelli che, secondo quanto abbiamo già detto, sono occupati in compiti di maggiore utilità, 6 ma tutti gli altri si servano a vicenda con carità. 7 Al sabato il monaco che termina il suo turno settimanale, faccia le pulizie. 8 Si lavino gli asciugatoi usati dai fratelli per le mani e i piedi. 9 Tanto il monaco che finisce il servizio, quanto quello che lo comincia, lavino i piedi a tutti. 10 Il primo consegni puliti e intatti al cellerario tutti gli utensili di cui si è servito nel proprio turno. 11 A sua volta il cellerario li affidi al fratello che entra in servizio, in modo da sapere quello che dà e quello che riceve. 12 Un’ora prima del pranzo, ciascuno dei monaci di turno in cucina riceva, oltre la quantità di cibo stabilita per tutti, un po’ di pane e di vino, 13 per poter poi all’ora del pranzo servire i propri fratelli senza lamentele né grave disagio; 14 ma nei giorni festivi aspettino fino al termine della celebrazione eucaristica. 15 Alla domenica, subito dopo le Lodi, quelli che iniziano e quelli che terminano il servizio della cucina si inginocchino in coro davanti a tutti, chiedendo che preghino per loro. 16 Chi ha finito il proprio turno reciti il versetto: «Sii benedetto, Signore Dio, che mi hai aiutato e mi hai consolato». 17 E quando lo avrà ripetuto tre volte e avrà ricevuto la benedizione, continui il fratello che gli succede nel servizio, dicendo: «O Dio, vieni in mio soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi»; 18 anche questo versetto sarà ripetuto tre volte da tutti, dopo di che il fratello riceverà la benedizione e inizierà il suo turno.

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Approfondimenti

L'alimentazione dei monaci Sette capitoli consecutivi, dal 35 al 41, hanno come denominatore comune la trattazione del tema dell'alimentazione dei monaci. I padri del monachesimo antico danno all'alimentazione grande importanza: sia nel senso che tale necessità corporale serviva loro come palestra per esercitarsi nella mortificazione e nella penitenza; sia nel senso che compresero il ruolo che una giusta alimentazione ha per le attività spirituali del monaco. Cassiano, con la sua esperienza dei diversi ambienti monastici, riassume nelle sue Institutiones alcune norme; in un capitolo pone espressamente la questione: come debba essere il pasto del monaco. E risponde che si deve scegliere una alimentazione:

  • che mortifichi gli ardori della concupiscenza;
  • che possa prepararsi facilmente;
  • che sia la più economica... (Inst 5,23).

Riassumendo il suo insegnamento, possiamo dire che il regime alimentare dei monaci deve avere tre obiettivi:

  • dominare direttamente la passione della gola e, indirettamente, quella della lussuria, così collegata con la gola;
  • essere in coerenza con la povertà che si è professata;
  • favorire l'orazione e in generale tutta l'attività spirituale del monaco.

SB dipende da Cassiano e dalla RM, la quale in questa sezione è molto particolareggiata e lunga (RM cc.18-28 e 69-70). La RB contiene comunque abbastanza elementi per capire l'importanza che anche il S. Patriarca dava a una alimentazione adatta per i monaci e, in generale, alla cura del corpo. Lo schema:

  • il c. 35 parla dei “settimanari” di cucina, cui logicamente segue
  • il c. 38 sul lettore di mensa; SB ha inserito
  • il c. 36 sugli infermi e
  • il c. 37 sui vecchi e i fanciulli, cioè coloro per cui bisogna fare eccezioni al regime alimentare comune;
  • il c. 39 parla dell'alimentazione propriamente detta: la misura del cibo, cui segue
  • il c. 40 sulla misura del bere, e conclude
  • il c. 41 sull'orario dei pasti conventuali.

Il sistema settimanale per il servizio della cucina e della mensa era comune tra i monaci d'oriente e d'occidente. Al capitolo 35 corrispondono in RM almeno sette capitoli, in cui con ogni minuziosità è descritto il modo di entrare a tavola, il cesto dei pani che scende dall'alto con una fune, la distribuzione del pane e delle bevande, quando sedersi, ecc., con tutti i significati simbolici e spirituali: la mensa comune è vista proprio in spirito di fede, come una grande liturgia. SB dipende chiaramente da RM (e da Cassiano), ma è molto più breve, con dei punti in comune e altri punti diversi.

1-6: Servizio di cucina SB afferma il principio generale: è importante che i fratelli si servano a vicenda (v. 1) e si servano in spirito di carità (v. 6). Chiaramente non si poneva neppure l'ipotesi che il lavoro di cucina potesse essere affidato ad estranei. Per lungo tempo la tradizione benedettina è stata costante su questa linea, anche se le contingenze dei luoghi e la scarsezza numerica hanno ammesso l'aiuto di domestici laici. In tempi più recenti, si è affidata tale opera ai laici, uomini e anche donne: inoltre tale servizio, che richiede speciale competenza – anche nei monasteri dove si continua a svolgere dai monaci – in genere non è più settimanale, pur rimanendo settimanale il servizio a tavola o il lavaggio dei piatti. Notiamo subito, come in tanti altri passi della Regola, la sollecitudine verso i più deboli. Ci sono coloro che possono essere dispensati: i malati (v. 1) – oltre al cellerario (v. 5) – e ai più deboli si diano comunque aiuti perché non siano oppressi dalla tristezza o siano tentati di mormorazione. Evitare la tristezza, l'eccessiva fatica, la mormorazione: SB mette sempre un motivo valido e ragionevole e soprannaturale a fondamento delle varie mitigazioni che introduce nell'osservanza monastica. (Si noti che il v.2 si può interpretare o riferito al principio generale del servizio di tutti i fratelli o anche alla eccezione che si ammette).

7-11: Norme per chi termina il turno Chi termina il turno settimanale, il sabato fa le pulizie generali e la lavanda dei piedi (insieme a chi entra). Il singolare che c'è nel testo fa supporre come condizione ordinaria quella di un solo settimanario titolare; gli altri sono considerati aiutanti. Nella RM il turno settimanale è organizzato per decanie: tutta la decania è coinvolta, anche se due soli vi si dedicano abitualmente e in caso di necessità il decano mandava qualche aiuto sempre della stessa decania.

12-14: Provvedimenti di indulgenza a favore dei settimanari Questi versetti sul supplemento ai settimanari sono qui fuori luogo e andrebbero meglio o prima dei vv. 7-11 o dopo i vv. 15-18; sono stati aggiunti dopo (come fa spia anche il plurale, mentre nei vv. 7-11 si parla del settimanario al singolare). La motivazione del supplemento si ispira a S. Agostino (Reg 13,160-162). Il lavoro di cucina è già pesante di per sé; inoltre i settimanari devono lavorare in cucina e servire a tavola mentre i fratelli mangiano; il pasto era al più presto a mezzogiorno, spesso assai più tardi, o anche verso sera (la colazione mattutina non si conosceva): ciò spiega perché SB conceda uno spuntino: un po' più di pane e un bicchiere di vino, oltre la misura fissata per tutti. Così anche in Cesario (Reg. Virg. 14). RM non accorda il supplemento, perché i settimanari mangiano assieme ai fratelli.

14: “missas”, diverse interpretazioni Il v.14 è di interpretazione discussa. Il problema è la parola “missas”, che spesso anche nella RB significa: la fine, le orazioni finali, l'azione di grazie; e qui sarebbero le preghiere di ringraziamento dopo il pranzo. In tal caso il v. 14 si traduce: “nei giorni festivi, invece, aspettino fino alla fine del pranzo”. Ma non si vede allora che senso abbia la concessione; altri traducono: “fino alla Messa”, “fino alla comunione della Messa”, interpretando “missas” come le orazioni che precedono la comunione. Da questo passo, in tal caso, ma anche da altri indizi, si rileverebbe che al tempo di SB non c'era nel monastero la Messa conventuale quotidiana (né tanto meno si parlava allora di Messe private); nei giorni festivi ce n'era una sola, solenne, per tutti, in cui ci si accostava alla Comunione (la RM descrive in maniera particolareggiata come fare per la comunione dei servitori).

15-18: Rito liturgico per i settimanari Il servizio di cucina e di mensa, pur così modesto, deve essere visto con spirito di fede, e quindi riceve l'impronta di sacro e viene benedetto da Dio. Al rito SB (come Cassiano, RM e tutta la tradizione monastica) dà un carattere ufficiale e liturgico. Nella RB tale rito si svolge dopo le lodi domenicali. RM lo divide: sabato sera, l'uscita; domenica, dopo Prima, l'entrata. Anche i versetti scritturistici usati sono diversi. Concludendo: il trattato sui servitori di RB è molto povero di dettagli rispetto a RM. Per SB non si tratta di regolare l'uso del tempo dei settimanari, come fa il Maestro, ma di stabilire il principio di mutuo servizio nella carità. Questa visione principalmente spirituale obbliga a tener conto delle intime disposizioni dei servitori, dunque delle condizioni concrete del loro lavoro. Da ciò la concessione di dispense, l'aiuto e i supplementi, al fine di evitare la tristezza e la mormorazione. Il trattato benedettino prende così un volto più spirituale e più umano del minuzioso e pittoresco regolamento del Maestro.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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