📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

PRIMO DISCORSO DI BILDAD 1 Bildad di Suach prese a dire:

_ Dio non può sovvertire la giustizia_ 2“Fino a quando dirai queste cose e vento impetuoso saranno le parole della tua bocca? 3Può forse Dio sovvertire il diritto o l'Onnipotente sovvertire la giustizia? 4Se i tuoi figli hanno peccato contro di lui, li ha abbandonati in balìa delle loro colpe. 5Se tu cercherai Dio e implorerai l'Onnipotente, 6se puro e integro tu sarai, allora egli veglierà su di te e renderà prospera la dimora della tua giustizia; 7anzi, piccola cosa sarà la tua condizione di prima e quella futura sarà molto più grande. 8Chiedilo infatti alle generazioni passate, considera l'esperienza dei loro padri, 9perché noi siamo di ieri e nulla sappiamo, un'ombra sono i nostri giorni sulla terra. 10Non ti istruiranno e non ti parleranno traendo dal cuore le loro parole? 11Cresce forse il papiro fuori della palude e si sviluppa forse il giunco senz'acqua? 12Ancora verde, non buono per tagliarlo, inaridirebbe prima di ogni altra erba. 13Tale è la sorte di chi dimentica Dio, così svanisce la speranza dell'empio; 14la sua fiducia è come un filo e una tela di ragno è la sua sicurezza: 15se si appoggia alla sua casa, essa non resiste, se vi si aggrappa, essa non regge. 16Rigoglioso si mostra in faccia al sole e sopra il giardino si spandono i suoi rami, 17sul terreno sassoso s'intrecciano le sue radici e tra le pietre si abbarbica. 18Ma se lo si strappa dal suo luogo, questo lo rinnega: “Non ti ho mai visto!”. 19Ecco la gioia del suo destino e dalla terra altri rispuntano. 20Dunque, Dio non rigetta l'uomo integro e non sostiene la mano dei malfattori. 21Colmerà di nuovo la tua bocca di sorriso e le tue labbra di gioia. 22I tuoi nemici saranno coperti di vergogna, la tenda degli empi più non sarà”. _________________ Note

8,11 Il papiro e il giunco richiamano l’ambiente egiziano, ma anche la valle del fiume Giordano, alle cui acque essi devono la crescita e lo sviluppo.

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Approfondimenti

PRIMO DISCORSO DI BILDAD (8,1-22) Dopo Elifaz è Bildad a prendere la parola (v. 1). Egli subito ribatte che Dio non sovverte il diritto e la giustizia (v. 3), e ne fa una breve applicazione a Giobbe (vv. 4-7). I figli sono periti a causa del loro peccato e quel che accade a Giobbe è in relazione con le sue colpe. Bildad riporta così la riflessione sul comportamento umano, eludendo la questione posta da Giobbe sul comportamento di Dio. L'argomento di Bildad è fondato sull'investigazione dei «padri» (vv. 8-10) in modo da dare maggiore autorevolezza alle sue affermazioni. Le similitudini ruotano su ciò che appare e ciò che è in realtà (vv. 11-19), e tendono a mettere in rilievo l'inconsistenza della speranza dell'empio. Le conclusioni di Bildad (vv. 20-22) prevedono, secondo la rigida divisione retti/malvagi, la gioia per i primi e la distruzione per i secondi.

vv. 3-7. L'affermazione fondamentale da cui scaturisce il resto dell'argomentazione è che Dio non sovverte, non sconvolge il diritto. La forza di tale affermazione, peraltro presentata nella forma di una domanda retorica, emerge anche dal perfetto parallelismo sinonimico e sintattico dei due membri, fino all'uso dello stesso verbo («pervertire, sovvertire», cfr. v. 3. Cfr. anche 34,12). Altrove si dice che Dio sconvolge le vie degli empi (cfr. Sal 146,9), ma qui si adopera tale verbo con riferimento alle ultime considerazioni di Giobbe, su un'ingiustizia da parte di Dio. Bildad respinge le insinuazioni dell'amico, asserendo che è inconcepibile qualsiasi alterazione della giustizia divina; sostiene infatti la fedeltà di Dio riguardo alla giustizia e al diritto. I due lessemi si riferiscono in questo contesto all'ordine che Dio ha stabilito nel mondo. Così per Bildad, se Giobbe ora implora misericordia, Dio ristabilirà la sua grandezza. Le parole di Bildad sottendono una concezione meccanica del rapporto fra Dio e l'uomo, dove il comportamento di entrambi ha una serie prevedibile di possibilità, e garantisce all'uomo delle certezze. Pertanto, l'attenzione di Bildad è centrata sul comportamento dell'uomo a cui corrisponde l'agire di Dio. Così, mentre Giobbe, per il quale il problema è in Dio, diceva, rivolgendosi a Dio, «mi cercherai» (7,21), Bildad invece dice a Giobbe: «Se tu cercherai Dio» (v. 5); e mentre nel Prologo la rettitudine di Giobbe veniva ripetutamente riconosciuta, anche da Dio (1,1.8; 2,3), ora essa viene solo ipotizzata da Bildad (v. 6a; cfr. Prv 16,2; 20,11; 21,8).

vv. 8-10. A sostegno della sua argomentazione Bildad porta l'insegnamento dei «padri», maturato dall'osservazione e dall'esperienza delle generazioni precedenti, e che ha ricevuto autorevolezza anche dal vaglio del tempo. Alla richiesta di Giobbe (cfr. 6,24-25), Bildad risponde presentando il suo insegnamento come quello della tradizione (cfr. 15,18; Dt 32,7). Esso si caratterizza come un insegnamento sapienziale anche per la forma adoperata, la similitudine.

vv. 11-19. Bildad propone tre similitudini tratte dal mondo vegetale per esprimere l'illusione e l'inconsistenza della speranza dell'empio.

  1. La prima similitudine (v. 11-13) mostra come l'uomo che dimentica Dio perisce. La correlazione fra il dimenticare Dio e il perire ricorda l'avvertimento di Dt 8,19.
  2. La seconda similitudine (vv. 14-15) paragona l'inconsistenza della tela del ragno (cfr. Is 59,5-6) alla fiducia dell'uomo che confida nella propria casa, cioè la famiglia e le proprietà.
  3. Infine la terza similitudine (vv. 16-19) indica che le apparenti estensioni e diramazioni di un albero si rivelano illusorie come per l'uomo che, sradicato dal suo luogo, non è più riconosciuto (cfr. 7,10). Pertanto il successo dell'empio è solo apparente, perché al passaggio di Dio svanisce e un altro subentra ai suoi beni (cfr. Qo 2,26).

vv.20-22. La conclusione di Bildad conferma la fedeltà della giustizia divina che non respinge l'uomo integro (cfr. 1,1; ecc.) e non favorisce i malvagi. Pertanto egli cerca di confortare Giobbe su un lieto futuro cui allude facendo riferimento ai sentimenti: la gioia e il giubilo (Elifaz ne aveva descritto la prosperità, cfr. 5,24-26). E mentre Giobbe aveva concluso il suo discorso parlando della propria fine (7,21d), Bildad termina con la fine dei malvagi (v. 22b).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Considerazione sulla vita 1 L'uomo non compie forse un duro servizio sulla terra e i suoi giorni non sono come quelli d'un mercenario? 2Come lo schiavo sospira l'ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, 3così a me sono toccati mesi d'illusione e notti di affanno mi sono state assegnate. 4Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”. La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all'alba. 5Ricoperta di vermi e di croste polverose è la mia carne, raggrinzita è la mia pelle e si dissolve. 6I miei giorni scorrono più veloci d'una spola, svaniscono senza un filo di speranza.

Appello a Dio 7Ricòrdati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene. 8Non mi scorgerà più l'occhio di chi mi vede: i tuoi occhi mi cercheranno, ma io più non sarò. 9Una nube svanisce e se ne va, così chi scende al regno dei morti più non risale; 10non tornerà più nella sua casa, né più lo riconoscerà la sua dimora. 11Ma io non terrò chiusa la mia bocca, parlerò nell'angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell'amarezza del mio cuore! 12Sono io forse il mare oppure un mostro marino, perché tu metta sopra di me una guardia? 13Quando io dico: “Il mio giaciglio mi darà sollievo, il mio letto allevierà il mio lamento”, 14tu allora mi spaventi con sogni e con fantasmi tu mi atterrisci. 15Preferirei morire soffocato, la morte piuttosto che vivere in queste mie ossa. 16Mi sto consumando, non vivrò più a lungo. Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni. 17Che cosa è l'uomo perché tu lo consideri grande e a lui rivolga la tua attenzione 18e lo scruti ogni mattina e ad ogni istante lo metta alla prova? 19Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva? 20Se ho peccato, che cosa ho fatto a te, o custode dell'uomo? Perché mi hai preso a bersaglio e sono diventato un peso per me? 21Perché non cancelli il mio peccato e non dimentichi la mia colpa? Ben presto giacerò nella polvere e, se mi cercherai, io non ci sarò!“. _________________ Note

7,1 Le parole di Giobbe si ispirano qui al genere della lamentazione, frequente nei testi biblici per esprimere la debolezza e la fragilità della condizione umana. Nell’antichità la condizione del mercenario (l’operaio pagato a giornata) e dello schiavo era tra le meno considerate e le più faticose.

7,12 mare e mostro marino: allusioni alle antiche mitologie mesopotamiche, nelle quali mare e mostri marini rappresentavano il caos e la ribellione alla divinità; per questo andavano tenuti sotto stretta vigilanza.

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Approfondimenti

Considerazione sulla vita 7,1-6 Giobbe riprende ora le sue considerazioni sulla sorte dell'uomo e sulla sua sorte personale. La vita dell'uomo è descritta attraverso alcune similitudini che sottolineano la condizione di servitù, di duro servizio obbligatorio (cfr. Is 40,2), di dipendenza dell'uomo, che, come un salariato o un servo, aspira al riposo e al compenso (vv. 1-2). Ma ciò che Giobbe ha avuto in sorte è solo affanno senza sosta, cosicché il disfarsi del suo corpo annuncia il termine della sua vita, ormai inesorabile, senza speranza (vv. 3-6; cfr. 31,2-3). Nel v. 6 il lessema speranza (tiqwāh) è usato all'interno di un gioco polisemantico: essa infatti indica non solo una ragione di vita, ma anche il filo della vita in relazione alla spola (cfr. Is 38,12), di cui si parla nella prima parte del versetto.

Appello a Dio 7,7-21 Giobbe conclude rivolgendo un appello appassionato a Dio. La prima invocazione a Dio è a ricordare la caducità della vita dell'uomo (v. 7; cfr. 10,9; Sal 78,39; 89,48) come motivo per intervenire e operare la salvezza. Seguono delle splendide espressioni (vv. 7-10) le quali, mediante il riferimento alla percezione visiva, alludono agli effetti definitivi della morte: Giobbe non tornerà a vedere il bene (ciò evoca la bontà del creato di Gn 1; ma anche il godere il frutto della fatica e del proprio lavoro, cfr. Qo 3,13), scomparirà dalla comunità degli uomini, e anche se gli occhi di Dio si poseranno su di lui, nel caso in cui Dio volesse salvarlo, egli già non è più. Infatti come una nube svanisce così chi scende nello ṣɇ'ôl non risale (v. 9; cfr. Sap 2,1.4). Tale asserzione esprime una concezione della morte come realtà definitiva che estingue ogni legame. Lo ṣɇ'ôl è il mondo sotterraneo dei morti, opposto alla terra dei viventi. La discesa nello ṣɇ'ôl preclude ogni relazione, anche con Dio (cfr. Is 38,11; Sal 6,6; 30,10; 88,11-13; 115,17), Tali riflessioni di Giobbe escludono evidentemente l'idea della risurrezione.

Nei vv. 12-15, Giobbe chiede ragione a Dio della sua persistente vigilanza su di lui, quasi fosse il mare per il quale Dio ha stabilito un limite, o uno di quei mostri mitologici sui quali Dio esercita il suo dominio (cfr. 3,8; 26,12; 38,8-11; 39,25-32). Giobbe pensava di avere una pausa da questo tormento almeno la notte, ma non è così (come in 7,3-4; cfr. Dt 28,67), il suo dolore è continuo. Infatti di notte Dio lo spaventa con i sogni e le visioni. Le notti di Giobbe sono abitate dagli incubi e non come per Elifaz (4,12-17) da conoscenze ispirate. Ascoltando Giobbe il lettore conosce così che la sua piaga si manifesta non solo all'esterno, sul corpo, ma anche nell'intimo, tanto che il tormento si estende al suo inconscio. Per questo la morte gli sembra preferibile alla vita (cfr. 6, 8-10). Tuttavia Giobbe, assediato da Dio, osservando il disfarsi del suo essere, chiede a Dio una sosta, una tregua (v. 16). Non solo, Giobbe rivolge a Dio una serie di domande che riprendono in senso contrario, negativo, i motivi presenti in Sal 8,5; 144,3. Giobbe chiede a Dio le ragioni del prestare così tanta attenzione all'uomo, un essere mortale, del fatto di metterlo alla prova continuamente, del trattare Giobbe come suo bersaglio (cfr. Sal 88). E se anche Giobbe ha peccato, inavvertitamente, o qui, come concessione all'argomentazione, egli ritiene di essere stato punito abbastanza; perché allora Dio non dimentica? Giobbe pone evidentemente in discussione l'ordinata disposizione divina, prospettata da Elifaz, sulla correzione dell'uomo (cfr. 5,17-26), che nel caso di Giobbe sembra essere adombrata dall'arbitrarietà dell'agire divino. Giobbe definisce la sua situazione come una prova da parte di Dio (v. 18; 23,10; cfr. Sal 139), ma con un carico di sofferenza sproporzionato rispetto alla brevità della vita umana, alla grandezza di Dio che solo può allontanare la trasgressione dell'uomo. In fondo, Giobbe chiede a Dio perché non lo perdona (v. 21; cfr. Es 34,7; Sal 32,1.5; 2Sam 24,10; Mic 7, 8; ecc.) e sollecita l'azione di Dio, di Dio che va in cerca dell'uomo, di Dio che ama, che è grande nell'amore (cfr. Sal 103). Giobbe si aspetta che Dio sia Dio. In tutto questo emerge anche il rilievo dato alla vita, come dono che proviene da Dio, come esclusivo tempo di relazione anche con Dio.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ 1 Giobbe prese a dire:

L’angoscia di Giobbe 2“Se ben si pesasse la mia angoscia e sulla stessa bilancia si ponesse la mia sventura, 3certo sarebbe più pesante della sabbia del mare! Per questo le mie parole sono così avventate, 4perché le saette dell'Onnipotente mi stanno infitte, sicché il mio spirito ne beve il veleno e i terrori di Dio mi si schierano contro! 5Raglia forse l'asino selvatico con l'erba davanti o muggisce il bue sopra il suo foraggio? 6Si mangia forse un cibo insipido, senza sale? O che gusto c'è nel succo di malva? 7Ciò che io ricusavo di toccare ora è il mio cibo nauseante! 8Oh, mi accadesse quello che invoco e Dio mi concedesse quello che spero! 9Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! 10Questo sarebbe il mio conforto, e io gioirei, pur nell'angoscia senza pietà, perché non ho rinnegato i decreti del Santo.

La solitudine di Giobbe e delusione per l'abbandono da parte degli amici 11Qual è la mia forza, perché io possa aspettare, o qual è la mia fine, perché io debba pazientare? 12La mia forza è forse quella dei macigni? E la mia carne è forse di bronzo? 13Nulla c'è in me che mi sia di aiuto? Ogni successo mi è precluso? 14A chi è sfinito dal dolore è dovuto l'affetto degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio. 15I miei fratelli sono incostanti come un torrente, come l'alveo dei torrenti che scompaiono: 16sono torbidi per il disgelo, si gonfiano allo sciogliersi della neve, 17ma al tempo della siccità svaniscono e all'arsura scompaiono dai loro letti. 18Le carovane deviano dalle loro piste, avanzano nel deserto e vi si perdono; 19le carovane di Tema li cercano con lo sguardo, i viandanti di Saba sperano in essi: 20ma rimangono delusi d'aver sperato, giunti fin là, ne restano confusi.

Giobbe si rivolge agli amici 21Così ora voi non valete niente: vedete una cosa che fa paura e vi spaventate. 22Vi ho detto forse: “Datemi qualcosa”, o “Con i vostri beni pagate il mio riscatto”, 23o “Liberatemi dalle mani di un nemico”, o “Salvatemi dalle mani dei violenti”? 24Istruitemi e allora io tacerò, fatemi capire in che cosa ho sbagliato. 25Che hanno di offensivo le mie sincere parole e che cosa dimostrano le vostre accuse? 26Voi pretendete di confutare le mie ragioni, e buttate al vento i detti di un disperato. 27Persino su un orfano gettereste la sorte e fareste affari a spese di un vostro amico. 28Ma ora degnatevi di volgervi verso di me: davanti a voi non mentirò. 29Su, ricredetevi: non siate ingiusti! Ricredetevi: io sono nel giusto! 30C'è forse iniquità sulla mia lingua o il mio palato non sa distinguere il male? _________________ Note

6,19 Tema e Saba: erano località dell’Arabia e famosi centri commerciali.

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Approfondimenti

RISPOSTA DI GIOBBE A ELIFAZ (6,1-7,21) L'intervento di Elifaz era volto a ristabilire un quadro teorico di certezze entro cui comprendere la vicenda di Giobbe. La risposta di Giobbe, invece, esprime l'intensità e il flusso delle emozioni. Dopo l'introduzione del narratore (6,1), Giobbe comincia il discorso riferendo la responsabilità di Dio sulla sua sventura e l'attesa della morte come ultima consolazione (6,2-10); infatti non ha più forza e non c'è benevolenza per lui (6,11-20), neppure dagli amici che gli sono ostili (6,21-30). Giobbe riprende poi a descrivere la sua disperata situazione e la sua fine ormai imminente (7,1-11) e conclude con un appello a Dio (7,12-21) perché cessi di scrutarlo e si mostri quale Dio della vita. Giobbe coerentemente continua, pure nell'amarezza, a riferirsi a Dio come interlocutore fondamentale.

L’angoscia di Giobbe 6,2-10 Con un'iperbole (vv. 2-3) Giobbe esprime che l'afflizione, lo sdegno e la sventura sono per lui senza misura. Egli in tal modo riprende quanto aveva detto Elifaz (cfr. 5,2), dando una ragione del suo parlare impetuoso, quasi rivendicandone il diritto. Appare originale l'uso della similitudine «più della sabbia del mare» (di solito connessa alla promessa dei patriarchi: Gn 22,17) con una diversa direzione, per indicare la sovrabbondanza della sofferenza. Giobbe pare riprendere poi l'argomentazione di Elifaz (cfr. 5,11-18) mentre attribuisce a Dio la provenienza della sua disgrazia (v. 4). In realtà questa concezione era già stata manifestata dal protagonista nel Prologo (cfr. 1,20; 2,10), benché con un accento differente. Adesso infatti Giobbe parla dei «terrori di elôah» e delle «saette di Shaddai». L'immagine delle saette di Dio ricorre anche altrove (cfr. 16,12-13; Sal 38,3; Dt 32,23-24; Ez 5,16), ed esprime la credenza che le malattie vengono da Dio. Elifaz (in 5,17) aveva denominato Dio, come 'elôah e Shaddai, come Dio che corregge l'uomo, mentre ora Giobbe ne parla come di colui che incute e provoca nell'uomo tormenti come un avversario (cfr. Sal 88,17-18). Peraltro questo motivo è completato alla fine del discorso, in cui Giobbe asserisce che Dio lo ha posto come un bersaglio (cfr. 7,20). La serie di quattro domande retoriche (vv. 5-6) trovano una spiegazione nella comparazione finale (v. 7) in cui Giobbe asserisce che suo cibo sono diventate le sue sofferenze. Così Giobbe esprime la costrizione a cui è sottoposto, ma anche la legittimità del suo gridare. Da qui proviene (vv. 8-10) il desiderio della morte come esaudimento da parte di Dio della speranza ultima di Giobbe. Il conforto che proviene da questa morte non è solo per il cessare delle sofferenze (come nel c. 3), ma per la fedeltà, fino alla fine, verso Dio. Giobbe, infatti, invoca la morte che provenga da Dio (come Mosè in Nm 11,14-15; Elia in 1Re 19,4; Giona in Gio 4,3), come atto conclusivo che confermi la sua adesione all'Onnipotente.

La solitudine di Giobbe e delusione per l'abbandono da parte degli amici 11-20 Giobbe continua la riflessione sulla sua situazione segnata dalla solitudine e dall'abbandono (vv. 11-14) della forza vitale interna, di qualsiasi aiuto esterno, persino della benevolenza degli amici, quella sollecitudine per l'altro, per la vita dell'altro (ḥesed), che è dovuta anche se l'altro ha abbandonato il timore di Dio, che è ciò che sta a cuore anche a Giobbe. Così egli introduce la delusione (v. 15-20) per l'atteggiamento degli amici paragonati a torrenti aridi.

Giobbe si rivolge agli amici 6,21-30 Giobbe si rivolge direttamente agli amici con una progressione drammatica. Dapprima esplicita i sentimenti di repulsione degli amici verso di lui: lo vedono spaventoso e temono (v. 21), e poi ne rimprovera il pregiudizio. Egli infatti non ha richiesto loro né l'impegno dei loro beni, né l'esercizio di azioni con connotazione forense in suo favore (vv. 22-23). Giobbe invece chiede, incita gli amici a portare delle argomentazioni capaci di far fronte alle sue parole rette e di mettere in evidenza la sua devianza. Giobbe non solo sollecita il confronto con gli amici, che tramite il discorso di Elifaz avevano emesso una sentenza che pareva inappellabile, ma, anche, rilancia loro la sfida sulle parole, un giudizio sulle parole (vv. 24-25). A questi amici che mostrano un volto crudele nell'amministrare la giustizia, infatti non hanno limiti nell'eseguire la loro pretesa giustizia contro i poveri e coloro che vanno in disgrazia (vv. 26-27), Giobbe infine rivolge l'invito (v. 28-30) a considerare la sua situazione, li esorta a ricredersi poiché egli non ha commesso ingiustizia, da intendere qui come atto concreto in riferimento al parlare (contro 5,16. Cfr. pure 13,7; 27,4; Sal 107,42; Is 59,3). Giobbe asserisce, pertanto, che la sua giustizia (ṣɇdāqā) è intatta. La parte del discorso rivolto agli amici (vv. 22-30) è caratterizzata da lessemi e sintagmi che appartengono al campo semantico forense, con i quali Giobbe dichiara la propria innocenza riguardo al parlare e sollecita anche, con l'ultima espressione di discolpa (v. 29), nella forma dell'interrogazione, il confronto aperto con gli amici.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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L’origine del male 1 Grida pure! Ti risponderà forse qualcuno? E a chi fra i santi ti rivolgerai? 2Poiché la collera uccide lo stolto e l'invidia fa morire lo sciocco. 3Ho visto lo stolto mettere radici e subito ho dichiarato maledetta la sua dimora. 4I suoi figli non sono mai al sicuro, e in tribunale sono oppressi, senza difensore; 5l'affamato ne divora la messe, anche se ridotta a spine, la porterà via e gente assetata agognerà le sue sostanze. 6Non esce certo dal suolo la sventura né germoglia dalla terra il dolore, 7ma è l'uomo che genera pene, come le scintille volano in alto.

Invocazione a Dio 8Io, invece, mi rivolgerei a Dio e a Dio esporrei la mia causa: 9a lui, che fa cose tanto grandi da non potersi indagare, meraviglie da non potersi contare, 10che dà la pioggia alla terra e manda l'acqua sulle campagne. 11Egli esalta gli umili e solleva a prosperità gli afflitti; 12è lui che rende vani i pensieri degli scaltri, perché le loro mani non abbiano successo. 13Egli sorprende i saccenti nella loro astuzia e fa crollare il progetto degli scaltri. 14Di giorno incappano nel buio, in pieno sole brancolano come di notte. 15Egli invece salva il povero dalla spada della loro bocca e dalla mano del violento. 16C'è speranza per il misero, ma chi fa l'ingiustizia deve chiudere la bocca. 17Perciò, beato l'uomo che è corretto da Dio: non sdegnare la correzione dell'Onnipotente, 18perché egli ferisce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana. 19Da sei tribolazioni ti libererà e alla settima il male non ti toccherà; 20nella carestia ti libererà dalla morte e in guerra dal colpo della spada, 21sarai al riparo dal flagello della lingua, né temerai quando giunge la rovina. 22Della rovina e della fame riderai né temerai le bestie selvatiche; 23con le pietre del campo avrai un patto e le bestie selvatiche saranno in pace con te. 24Vedrai che sarà prospera la tua tenda, visiterai la tua proprietà e non sarai deluso. 25Vedrai che sarà numerosa la tua prole, i tuoi rampolli come l'erba dei prati. 26Te ne andrai alla tomba in piena maturità, come un covone raccolto a suo tempo. 27Ecco, questo l'abbiamo studiato a fondo, ed è vero. Ascoltalo e imparalo per il tuo bene”. _________________ Note

5,1 i santi: gli angeli, considerati nella loro funzione di intercessori (vedi anche 15,15).

5,19 Proverbio numerico che indica la totalità dei mali da cui Dio libera e preserva l’uomo.

5,23 Il patto con le pietre del campo vuole esprimere la fecondità del terreno e l’abbondanza dei raccolti.

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Approfondimenti

L’origine del male 5,1-7 L'imperativo con cui Elifaz si rivolge di nuovo direttamente a Giobbe introduce una nuova fase dell'argomentazione che riguarda la condizione attuale di Giobbe. Non senza sarcasmo, Elifaz insiste sull'inutilità dell'atteggiamento di Giobbe al cui grido nessuno risponde. Il vocabolario rende il contesto giudiziario: all'appello e alla querela non c'è per Giobbe chi gli renda giustizia (v. 1a; cfr. Sal 3,5; 4,2). Poiché evidentemente è Dio che non risponde (cfr. 3,20.23), è inutile rivolgersi agli altri esseri divini (v. 1b), che sono i servi di Dio (cfr. 4,18a) o gli dei tutelari. Opporsi con sdegno e ribellione alle circostanze avverse e incomprensibili è vano e si ritorce contro, uccidendo l'uomo che con tale atteggiamento si mostra stolto (v. 2). Elifaz ricava queste considerazioni ancora dall'osservazione degli eventi umani. Pertanto, la conclusione a cui egli giunge è che l'uomo è responsabile delle circostanze della sua vita, insomma anche il male scaturisce dall'uomo, e non senza ragione. La sentenza di 5,6 completa quella di 4,8 applicando metaforicamente le fasi dell'intero ciclo produttivo agricolo all'agire umano.

Invocazione a Dio 5,8-26 Elifaz si avvia a offrire alcune indicazioni concrete a Giobbe: gli propone di rimettere la propria causa a Dio (v. 8), come a colui che può dirimere la questione, e non la parte avversa con cui contendere. L'ambizione di Elifaz è evidente, quella di persuadere Giobbe a cambiare atteggiamento. Così Elifaz, con un inno, celebra Dio che opera prodigi nella creazione e nella storia (vv. 9-16; cfr. Sal 136,4). La potente opera di Dio si manifesta nel capovolgere gli eventi: il dono della pioggia rende la terra fertile (cfr. Is 48,18-20; Ger 14,22; Sal 147,8); la protezione sugli umili fa precipitare i perversi con i loro intrighi. Appartiene alla tradizione sapienziale l'affermazione che Dio innalza i miseri e gli afflitti e abbassa e confonde gli astuti (cfr. 1Sam 2,7-8; Sal 18,28; 75,8; 113,7; 147,6). Non si tratta tanto in quest'ambito di un'azione riequilibratrice, ma del ristabilire quell'ordine voluto da Dio fin dalla creazione del mondo. Il riproporre (vv. 11-16) il contrasto fra le conseguenze dell'intervento di Dio per gli afflitti e per i malvagi, produce l'effetto di un'ammonizione a un atteggiamento umile verso Dio e alla speranza per chi è nell'angustia. All'inno al Dio creatore e che presiede all'ordine naturale e sociale segue la beatitudine e la sicurezza dell'uomo che non respinge la correzione di Dio (vv. 17-26). Elifaz invita Giobbe che in passato aveva istruito, ammaestrato gli altri (cfr. 4,3), ad accettare ora la correzione di Dio (v. 17). Essa si manifesta nella sofferenza e nel dolore personale come strumento educativo di Dio (cfr. cc. 32-37; Prv 3,11-12). L'alleanza con le pietre e le bestie selvagge (v. 23) evoca l'armonia fra l'uomo e la natura, promessa per l'era messianica (cfr. Is 11,6-8; Os 2,20). A tutto ciò è connessa la prosperità familiare che si estenderà alla moltitudine della discendenza, mentre la morte giungerà come frutto maturo di una vita colma di giorni (v. 24-26).

v. 27. Nelle parole conclusive Elifaz presenta ciò di cui egli ha parlato come oggetto ed esito dell'investigazione compiuta con altri e sollecita Giobbe ad accettarne l'insegnamento per avere conoscenza. Peraltro egli con altri, gli amici e sapienti, ha investigato sull'agire di Dio che compie cose grandi e insondabili, inesplorabili! In questo discorso di Elifaz ricorrono degli argomenti fondamentali per tutta la Disputa: l'uomo riceve da Dio secondo la sua condotta; la radicale debolezza dell'uomo che non può essere giusto davanti a Dio; la sofferenza di Giobbe come strumento di correzione da parte di Dio. Inoltre mentre per i malvagi che tramano e realizzano il male l'azione punitiva di Dio è certa e definitiva (cfr. 4,8-9. 5,12-14), come se il malvagio paralizzato dalla sua attitudine al male fosse incapace di cambiare, non così è per la sventura che si abbatte sull'uomo retto, la quale, accolta come correzione per il peccato, renderà ancora più grande la sua prosperità (cfr. 5,11.15-26).

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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PRIMO DISCORSO DI ELIFAZ

Dio punisce i cattivi e corregge i buoni 1Elifaz di Teman prese a dire: 2“Se uno tenta di parlare, ti sarà gravoso? Ma chi può trattenere le parole? 3Ecco, sei stato maestro di molti e a mani stanche hai ridato vigore; 4le tue parole hanno sorretto chi vacillava e le ginocchia che si piegavano hai rafforzato. 5Ma ora che questo accade a te, ti è gravoso; capita a te e ne sei sconvolto. 6La tua pietà non era forse la tua fiducia, e la tua condotta integra la tua speranza? 7Ricordalo: quale innocente è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti? 8Per quanto io ho visto, chi ara iniquità e semina affanni, li raccoglie. 9A un soffio di Dio periscono e dallo sfogo della sua ira sono annientati. 10Ruggisce il leone, urla la belva, e i denti dei leoncelli si frantumano; 11il leone perisce per mancanza di preda, e i figli della leonessa si disperdono.

L’uomo non può essere giusto davanti a Dio 12A me fu recata, furtiva, una parola e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro. 13Negli incubi delle visioni notturne, quando il torpore grava sugli uomini, 14terrore mi prese e spavento, che tutte le ossa mi fece tremare; 15un vento mi passò sulla faccia, sulla pelle mi si drizzarono i peli. 16Stava là uno, ma non ne riconobbi l'aspetto, una figura era davanti ai miei occhi. Poi udii una voce sommessa: 17“Può l'uomo essere più retto di Dio, o il mortale più puro del suo creatore? 18Ecco, dei suoi servi egli non si fida e nei suoi angeli trova difetti, 19quanto più in coloro che abitano case di fango, che nella polvere hanno il loro fondamento! Come tarlo sono schiacciati, 20sono annientati fra il mattino e la sera, senza che nessuno ci badi, periscono per sempre. 21Non viene forse strappata la corda della loro tenda, sicché essi muoiono, ma senza sapienza?“. _________________ Note

4,13 Negli incubi delle visioni notturne: probabilmente si tratta di un’ispirazione divina, ricevuta in una visione notturna, come avveniva per i patriarchi biblici (ad es. Gen 15,12).

4,19 nella polvere: allusione al corpo dell’uomo e alla sua origine dalla terra (Gen 2,7).

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Approfondimenti

PRIMO DISCORSO DI ELIFAZ (4,1-5,27) Con il primo intervento di Elifaz (cc. 4-5) si entra nel vivo della Disputa. Dopo l'introduzione del narratore (4, 1), il discorso si apre con un esordio di Eli-faz che, rivolgendosi a Giobbe, evidenzia il contrasto fra i suoi atteggiamenti passati e presenti (4, 2-6). Gli offre poi le sue riflessioni scaturite dall'osservazione (4, 7-11), dalla visione (4, 12-21), e di nuovo dall'osservazione (5, 1-7), per concludere con un inno alla grandezza e potenza di Dio che innalza gli afflitti e fa perire gli astuti con l'annuncio della beatitudine dell'uomo che accetta la correzione di Dio (5, 8-26), seguito da un'incitazione a Giobbe ad accogliere il frutto di tale investigazione (5, 27). Lo scopo di Elifaz è di ristabilire un quadro di certezze entro il quale comprendere anche la vicenda dell'amico. Infatti l'iniziale monologo di Giobbe ha fatto esplodere le precedenti prospettive, fino a mettere in dubbio il bene stesso della vita. Elifaz cerca di persuadere Giobbe rispetto ad alcune tradizionali concezioni sulle conseguenze delle azioni umane e il manifestarsi della giustizia di Dio.

Dio punisce i cattivi e corregge i buoni (4,2-6) Nell'esordio, Elifaz si preoccupa dapprima (v. 2) di giustificare la propria impellente esigenza di prendere la parola, di esprimere la propria opinione, sollecitato così fortemente dalle circostanze. Riguardo ai fatti, egli rileva una dissonanza nel comportamento di Giobbe che, nella disgrazia, si mostra incapace di aiutare se stesso, là dove, in passato, era riuscito con gli altri (vv. 3-4; cfr. Is 35,3). Ma ancor più Giobbe manifesta la sua debolezza (cfr. Prv 24,10) nello sgomento per quel che gli accade. Le parole di Elifaz (v. 5) riferiscono una sottile, tragica consapevolezza dell'avvicinarsi ineluttabile della sventura, che perciò non deve suscitare sorpresa, non quella che mostra Giobbe. Soprattutto, per Elifaz il turbamento di Giobbe sembra in contrasto con il suo atteggiamento religioso (v. 6). Viene introdotta qui una questione fondamentale: il rapporto fra la fede e la vita, fra ciò che l'uomo pensa e come si comporta, fra le ragioni e le attese connesse all'agire dell'uomo. Elifaz insinua che il contegno di Giobbe non è altro che riporre fiducia nei propri sforzi.

vv. 7-11. La prima argomentazione di Elifaz si fonda sulla connessione fra le azioni dell'uomo e le relative conseguenze. La concezione portata da Elifaz esclude che la rovina possa abbattersi sull'uomo esente da colpa e integrato nella comunità (cfr. Sal 1,3; 37,25; Sir 2,10), bensì, basandosi sull'osservazione (4,8) degli eventi, Elifaz sostiene che le afflizioni sono il frutto di chi le ha seminate (cfr. Os 8,7; 10,12-13; Prv 22,8; Sir 7,3). Il giudizio di Dio si compie durante la vita dell'uomo. E la rovina manifesta la collera di Dio per la condotta malvagia dell'uomo. La metafora del leone (vv. 10-11), di solito intesa come il venir meno della forza aggressiva e della prepotenza del malvagio (cfr. Sal 7,3; 17,12; 22,14; 35,16-17; 58,7), può anche riferirsi al venir meno di Giobbe che non ha perso qualcosa, ma che lui stesso è perduto (cfr. Sal 119,176; 31,13).

L’uomo non può essere giusto davanti a Dio Elifaz riferisce poi una visione notturna (vv. 12-17; cfr. Zc 1,8) che ricorda quelle dei patriarchi e dei profeti. Nel descrivere tale visione Elifaz si sofferma sulle circostanze dell'evento, nel sonno profondo (v. 13, cfr. Gn 2,21; 15,12); sullo stato d'animo che suscita in lui: il panico (v. 14). L'oggetto della visione non è costituito da immagini (come nella tradizione della rivelazione biblica), che appaiono offuscate, ma da una voce che Elifaz ascolta. Il messaggio ha un contenuto inquietante (v. 17). Il verbo ṣdq, «essere giusto», e il termine ṣaddîq, «giusto», indicano un atteggiamento corretto da parte dell'uomo, conforme alle regole della comunità cui apparteneva, tuttavia in epoca postesilica; se ne accentuò il riferimento alle esigenze della torah di JHWH (cfr. Sal 1; 119). La conoscenza che Elifaz ha ricevuto in una rivelazione e che propone come un interrogativo di cui è scontata la risposta, insinua e apre un varco incolmabile fra Dio e l'uomo. Pone il dito in quella ferita profonda, ontologica, da cui l'uomo è attraversato: ogni uomo ha una congenita tendenza verso il male. Questo insegnamento si trova anche altrove nella Scrittura (cfr. Gn 8,21; 1Re 8,46; Prv 20,9; Qo 7,20; Sal 51,7; Gb 14,4; 15,14; 25,4) e richiama il racconto delle origini sottolineandone l'esito finale (Gn 3): la separazione, la distanza immensa fra l'uomo e Dio. A sostegno di tutto ciò, Elifaz porta come argomento (vv. 18-21) la sfiducia di Dio verso i suoi servi (anche in 15,15-16). Elifaz è ignaro, ironia dell'autore, di attribuire a Dio lo stesso atteggiamento che il Satan manifesta nel Prologo. Per Elifaz se Dio non si fida dei suoi servi, la corte celeste ancor meno si fida dell'uomo fatto di argilla. Tre immagini sono usate per parlare della fragilità dell'uomo. L'uomo è come polvere (cfr. Gn 2,7; 3,19; Gb 10,9; 33,6), come l'erba (cfr. Sal 90,5-6), come la tenda (cfr. Is 38,12; Qo 12,6). La sua fine è la morte che avviene senza che egli sia pervenuto alla sapienza. Per la prima volta ricorre il termine ḥokmâ, «sapienza», che indica la comprensione dell'ordine delle cose e del mondo e consente l'atteggiamento congruente dell'uomo agli eventi (cfr. Prv 1,2-6). La sapienza appare come un ideale della vita (cfr. 3,23) per Giobbe, mentre per Elifaz l'uomo muore privo di sapienza.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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DISPUTA

Primo discorso di Giobbe 1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. 2Prese a dire: 3“Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: “È stato concepito un maschio!”. 4Quel giorno divenga tenebra, non se ne curi Dio dall'alto, né brilli mai su di esso la luce. 5Lo rivendichino la tenebra e l'ombra della morte, gli si stenda sopra una nube e lo renda spaventoso l'oscurarsi del giorno! 6Quella notte se la prenda il buio, non si aggiunga ai giorni dell'anno, non entri nel conto dei mesi. 7Ecco, quella notte sia sterile, e non entri giubilo in essa. 8La maledicano quelli che imprecano il giorno, che sono pronti a evocare Leviatàn. 9Si oscurino le stelle della sua alba, aspetti la luce e non venga né veda le palpebre dell'aurora, 10poiché non mi chiuse il varco del grembo materno, e non nascose l'affanno agli occhi miei! 11Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? 12Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono? 13Così, ora giacerei e avrei pace, dormirei e troverei riposo 14con i re e i governanti della terra, che ricostruiscono per sé le rovine, 15e con i prìncipi, che posseggono oro e riempiono le case d'argento. 16Oppure, come aborto nascosto, più non sarei, o come i bambini che non hanno visto la luce. 17Là i malvagi cessano di agitarsi, e chi è sfinito trova riposo. 18Anche i prigionieri hanno pace, non odono più la voce dell'aguzzino. 19Il piccolo e il grande là sono uguali, e lo schiavo è libero dai suoi padroni. 20Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha amarezza nel cuore, 21a quelli che aspettano la morte e non viene, che la cercano più di un tesoro, 22che godono fino a esultare e gioiscono quando trovano una tomba, 23a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio ha sbarrato da ogni parte? 24Perché al posto del pane viene la mia sofferenza e si riversa come acqua il mio grido, 25perché ciò che temevo mi è sopraggiunto, quello che mi spaventava è venuto su di me. 26Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo ed è venuto il tormento!“. _________________ Note

3,8 Il Leviatàn (“tortuoso”) è un mostro dell’antica mitologia orientale, rappresentato come un coccodrillo (vedi 26,13; 40,25).

3,17 Là i malvagi cessano di agitarsi: nel pensiero di Giobbe, come in quasi tutto l’AT, l’esistenza che attende l’uomo dopo la morte non è vita; è un’esistenza di ombre, dove buoni e cattivi stanno assieme, senza affetti né speranze (vedi 1Sam 28,19), Dio non è invocato e non interviene (vedi Sal 88,11-13). L’ambito in cui Dio manifesta la sua giustizia è ristretto, dunque, alla vita presente.

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Approfondimenti

DISPUTA 3,1 – 31,40. Il dialogo di Giobbe con gli amici e la sfida a Dịo (cc. 3-31) apre la grande sezione (3,1-42,6) che costituisce il corpo del libro, che sta tra il Prologo (1,1-2,13) e l'Epilogo (42,7-17). Per l'omogeneità delle tematiche affrontate e della prospettiva teologica sviluppata, esso si colloca all'interno del dibattito sapienziale della comunità giudaica postesilica. La svolta narrativa operata in questa sezione è radicale rispetto al Prologo e all'Epilogo. Innanzitutto la forma espressiva usata è quella poetica; inoltre un aspetto di grande rilievo narrativo è dato dal passaggio dal racconto del narratore onnisciente nel Prologo all'uso del discorso riferito o diretto, quale forma predominante adottata nell'intera sezione. Il narratore, presente, cede la parola ai personaggi, adotta differenti prospettive, consente la dialogicità dei punti di vista. Nondimeno, nell'emergere del personaggio nel dialogo, è presente una correlazione dialogica, intrinseca, tra l'intenzione diretta di colui che parla e quella rifratta dell'autore. Nell'attuale struttura narrativa del libro di Giobbe, la Disputa è composta da tre cicli di discorsi di Giobbe con i tre amici, è aperta e chiusa da due monologhi di Giobbe e costituisce sul piano narrativo la “complicazione”. In essa si trovano diversi tentativi di spiegare e risolvere il problema di Giobbe.

Primo discorso di Giobbe 3,1-26. Il monologo iniziale di Giobbe (c. 3) contiene una maledizione che si estende a tutta l'esistenza come enigma e fonte di inquietudine (cfr. 3,20.23). Motivi lessicali e tematici inducono alla suddivisione del monologo in una breve introduzione (vv. 1-2), seguita dalla maledizione della notte del concepimento e del giorno della nascita (vv. 3-10), da domande sul significato dell'esistenza (vv. 11-12), da considerazioni sulla morte come «riposo» tra eguali (vv. 13-19), da domande sull'enigma dell'esistenza e l'agire di Dio (vv. 20-26).

vv. 1-2. Il narratore introduce il monologo di Giobbe e ne offre la chiave di lettura: Giobbe maledice il giorno della sua nascita.

vv. 3-10. L'esordio di Giobbe contiene la maledizione non di Dio ma della sua esistenza. Giobbe non solo maledice il giorno in cui è nato (vv. 3a.4-5), come il profeta Geremia (20,14-16), ma anche la notte del suo concepimento (vv. 3b.6-9) come inizio della vita e ingresso nella storia (cfr. Sal 139,16). L'invettiva di Giobbe vorrebbe trasformare quel giorno in tenebra (in opposizione a Gn 1,3) così che non sia annoverato nel computo del tempo, e rendere quella notte sterile e a cui sia preclusa la luce. Giobbe respinge anche la gioia connessa all'evento della vita (vv. 3b.6b.7b). Scosso dall'amarezza, giunge a contestare quella concezione per cui il figlio significava, per i genitori, una benedizione (cfr. Sal 127,3) e il vertice dell'esistenza (cfr. Gn 30,1; Ger 20,15).

vv. 11-12. Giobbe comincia ora a porre delle domande. La sofferenza costituisce sempre, per l'uomo, una situazione privilegiata da cui scaturiscono le domande profonde dell'esistenza. Il dolore dilata la coscienza e la rende più profonda. Così Giobbe (v. 11), come Geremia (20,17-18), colpito tanto duramente nella sua persona, manifesta, attraverso gli interrogativi, come al nascere e al vivere avrebbe preferito il morire.

vv.13-19. Queste parole di Giobbe costituiscono un tentativo di illustrare la morte. Essa rappresenta la negazione dell'esistenza personale, la cessazione di ogni sofferenza, l'estinguersi di tutte le differenze e contrasti sociali (cfr. Sal 49,11-12; Qo 9,2-6). Ma più di tutto, la morte significa per Giobbe riposare (3,13.17.26). Essa si oppone alla vita, fonte inesauribile di inquietudine (cfr. 3,17.26).

20-23. Gradualmente diventa evidente, per il lettore, che le domande di Giobbe sono indirizzate a Dio. Giobbe non vive la propria fede in modo generico, ma in profondo rapporto con Dio. Anche nella tragedia permane il fondamentale riferimento a Dio. Nondimeno Giobbe considera che la vita, come itinerario da percorrere, si sottrae alla conoscenza umana. La stessa protezione di Dio (cfr. 1,10) diventa per l'uomo un limite e un impedimento (3,23; cfr. 19,8). Ciò rende Giobbe infelice e pieno di amarezza (v. 20) per la vita che gli è stata data, al punto da preferire la morte (v. 21-22; cfr. Sir 41,2).

24-26. Giobbe descrive ora il presente, quel che gli accade e percepisce. Lo fa in modo dinamico (espresso dalla triplice ripetizione del verbo «venire, entrare»), con un crescendo drammatico sulla sciagura che dall'esterno piomba su di lui e lo tormenta nell'intimo. Infatti entra in lui il gemito, il sospiro al posto del cibo; quel che teme gli avviene; non ha riposo e giunge a lui l'inquietudine.

Il monologo presenta alcuni importanti elementi di contrasto e di continuità con il Prologo, Infatti, alla presentazione idealizzata della personalità di Giobbe, subentra ora una rappresentazione in cui egli appare attraversato da profondi interrogativi esistenziali. Pertanto, dopo aver messo in rilievo la perseveranza di Giobbe, ora se ne introduce un altro carattere, la protesta.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La corte celeste 1 Accadde, un giorno, che i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, e anche Satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. 2Il Signore chiese a Satana: “Da dove vieni?”. Satana rispose al Signore: “Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo”. 3Il Signore disse a Satana: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. Egli è ancora saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui per rovinarlo, senza ragione”. 4Satana rispose al Signore: “Pelle per pelle; tutto quello che possiede, l'uomo è pronto a darlo per la sua vita. 5Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!“. 6Il Signore disse a Satana: “Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita”.

Malattia di Giobbe 7Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. 8Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. 9Allora sua moglie disse: “Rimani ancora saldo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!”. 10Ma egli le rispose: “Tu parli come parlerebbe una stolta! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?”. In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.

L’arrivo dei tre amici di Giobbe 11Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. 12Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. 13Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore. _________________ Note

2,4 Pelle per pelle: è un detto popolare; qui indica che Giobbe deve essere provato non solo con la privazione dei beni materiali, ma nella sua stessa persona.

2,8 seduto in mezzo alla cenere: immagine di estrema abiezione e di esclusione dalla società.

2,11 Teman, Sùach e Naamà: Teman è nella terra di Edom, ma il nome può anche indicare genericamente il sud; Sùach e Naamà sono sconosciuti. Probabilmente si vogliono indicare tre località famose per la sapienza (per Teman vedi Bar 3,22-23; Abd 8-9).

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Approfondimenti

2,1-6. La narrazione prosegue con una nuova convocazione della corte celeste. Nel dialogo, JHWH constata che Giobbe ha superato la prova dando conferma della sua integrità (v. 3). Il Satan, dal canto suo, smentito dai fatti, tace sull'accaduto e incalza nella sfida. Asserisce che la rivolta di Giobbe contro Dio si verificherà quando Giobbe sarà raggiunto, «toccato», nella sua stessa persona. È evidente come tutto l'impegno e la funzione del Satan si attua nel creare contrasti e scontri, alterando rapporti e concezioni. Inoltre, un'attenzione particolare è posta dal Satan sulle parole che si aspetta Giobbe pronunci, «ti maledirà apertamente» (2,5 come 1,11), che costituiva il peccato supremo (cfr. Es 22,27; Lv 24,15-16, così ancora in Gb 2,9). Tale enfasi sulle parole di Giobbe come criterio della sua fedeltà, più che altri suoi atti, è un elemento che prepara alla disputa successiva, lasciando, peraltro, a Giobbe un ampio spazio entro il quale formulare le sue accuse a Dio senza per questo venir meno alla sua caratterizzazione iniziale di uomo fedele. Anche tale componente va nel senso che la redazione del Prologo sia avvenuta in relazione con il corpo poetico. Dio acconsente di nuovo al progetto del Satan (v. 6), ma pone ancora dei limiti: la protezione della vita di Giobbe. E un tratto peculiare di JHWH, il Dio dei viventi, il fatto che egli operi per custodire la vita dell'uomo nella sua intenzionalità (cfr. per es. Sal 25,20; 86,2; 97,10; 121,7). Ciò che rimane in questione, nella scommessa del Satan, è sempre la fedeltà di Giobbe a Dio. Ma Giobbe continua a rimanere all'oscuro, ignaro del perdurare della prova.

v. 7. L'azione del Satan stavolta è descritta con un'estrema brevità e realizza una progressione nella dinamica della prova. La piaga (cfr. Es 9,9-10; Dt 28,27; 2Re 20,7) da cui è colpito Giobbe comportava, abitualmente, l'isolamento sociale (cfr. Lv 13,45-46), era incurabile e faceva parte delle maledizioni con cui JHWH poteva colpire Israele infedele alla brît (cfr. Dt 28,35).

vv. 8-10. Di nuovo, la reazione di Giobbe è fatta di gesti e di parole. Compare per la prima e unica volta la moglie di Giobbe (v. 9), le cui parole esprimono ormai la resa e la disperazione di chi gli sta vicino: ella si oppone a Giobbe che insiste e persevera proprio in quella integrità che Dio, invece, aveva apprezzato (2,3). Giobbe in risposta (v. 10), le rimprovera di aver parlato con la stoltezza di chi non comprende l'agire di Dio (cfr. Dt 32,5; Sal 74,18.22). Proseguendo in una confessione di fede, Giobbe dichiara che tutto proviene da Dio e pertanto l'uomo deve accettare tanto il bene che il male (cfr. Is 45,6-7; Qo 7,14). È un'affermazione razionale in cui si rivela anche il significato del comportamento di Giobbe che accoglie fino in fondo quanto gli accade. Non c'è disorientamento in Giobbe poiché per lui tutti gli avvenimenti scaturiscono da Dio. Nella tragedia egli è capace di quella suprema fedeltà a Dio che gradualmente ha costruito nel tempo. Che cosa potrà ancora accadere a Giobbe e come si concluderà la sua vicenda? Il dramma prospettato esige una soluzione che nell'antico racconto orale si presume seguisse immediatamente (ora in 42,11-17), ma non così nell'attuale libro canonico. Il narratore, a questo punto (v. 10c), conferma la valutazione su Giobbe che in tutto ciò che gli accadde non peccò. L'enfasi posta sul fatto che «non peccò con le sue labbra», si può anche comprendere come un riferimento prolettico (così come 1,11; 2,5), un'anticipazione e, insieme, una valutazione degli eventi successivi nei quali Giobbe è protagonista. Prende avvio ora, infatti, una fase nuova del la narrazione, con uno sviluppo formale inatteso e un significativo ampliamento dei contenuti e dell'intreccio.

vv. 11-13. La descrizione dell'arrivo degli amici con cui si conclude il Prologo, è di fatto destinata a introdurre il corpo poetico. La forma narrativa, qui adoperata, è quella del “sommario”, modello diffuso per la transizione fra due scene, e delinea, in sintesi, lo sfondo in cui avviene la disputa. Se i vicini si sono allontanati da Giobbe inorriditi per la maledizione che su di lui si è abbattuta, gli amici da lontano accorrono a lui per consolarlo. La descrizione si sviluppa intorno alla dimensione spaziale: gli amici lontani si fanno vicini, essi che, paradossalmente, diventeranno, nel corso del dialogo, antagonisti e avversari, e che, nell'epilogo, saranno riprovati da Dio (42,7-8). La diversa provenienza è l'unico elemento che differenzia i tre amici, come se, quali rappresentanti dei popoli dell'Oriente, noti per la sapienza, fossero convocati intorno a Giobbe. Tuttavia, giunti accanto a lui, tacciono, sconcertati e in attesa.

(cf. MARIA PINA SCANU, Giobbe – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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PROLOGO (1,1-2,13)

Felicità e rettitudine di Giobbe 1 Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. 2Gli erano nati sette figli e tre figlie; 3possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù molto numerosa. Quest'uomo era il più grande fra tutti i figli d'oriente. 4I suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. 5Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti per ognuno di loro. Giobbe infatti pensava: “Forse i miei figli hanno peccato e hanno maledetto Dio nel loro cuore”. Così era solito fare Giobbe ogni volta.

Giobbe viene messo alla prova 6Ora, un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro. 7Il Signore chiese a Satana: “Da dove vieni?”. Satana rispose al Signore: “Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo”. 8Il Signore disse a Satana: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male”. 9Satana rispose al Signore: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla? 10Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quello che è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. 11Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!“. 12Il Signore disse a Satana: “Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stendere la mano su di lui”. Satana si ritirò dalla presenza del Signore. 13Un giorno accadde che, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del fratello maggiore, 14un messaggero venne da Giobbe e gli disse: “I buoi stavano arando e le asine pascolando vicino ad essi. 15I Sabei hanno fatto irruzione, li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 16Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: “Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 17Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: “I Caldei hanno formato tre bande: sono piombati sopra i cammelli e li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 18Mentre egli ancora parlava, entrò un altro e disse: “I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, 19quand'ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti. Sono scampato soltanto io per raccontartelo”. 20Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò 21e disse: “Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!“.

22In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto. _________________ Note

1,1 La terra di Us probabilmente è da collocare a est della terra di Canaan, nell’Idumea, fuori dal territorio di Israele. Giobbe non è ebreo, ma adora il Dio di Abramo.

1,6 I figli di Dio sono i membri della corte divina, gli angeli (vedi anche 38,7). Satana (“avversario”, “accusatore”) è l’accusatore di Giobbe, il suo nemico.

1,15 Sabei e Caldei: sono nomi di popolazioni nomadi, e sono utilizzati qui come sinonimi di predatori.

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Approfondimenti

Nel prologo al libro di Giobbe, S. Gerolamo constata che rendere dall’ebraico un testo simile «è come tentare di tenere fra le mani un’anguilla: più forte si preme, e più sfugge di mano». Questa frase famosa rende bene l’idea della complessità di questo scritto sapienziale, redatto quando la comunità di Israele sta vivendo il difficile rientro dall’esperienza traumatica dell’esilio (letteratura di crisi). Il rapporto con Dio si è incrinato e stenta a ripartire; e tale incrinatura è da attribuire anche alla crisi – all’apparenza senza soluzione – della dottrina tradizionale della retribuzione.

Il prologo in prosa, articolato in sei brevi scene distribuite tra cielo e terra, ha come tema la sofferenza considerata come prova della fede, e quindi in modo positivo, nella linea della più pura tradizione biblica.

Il motivo della sofferenza e il suo mistero rappresentano un tema piuttosto comune nella riflessione Antico Vicino Oriente. Diverse sfaccettature della sua trattazione:

  • sofferenza come conseguenza di una colpa (dottrina della retribuzione);
  • sofferenza come parte integrante della natura umana, come conseguenza della sua creaturalità;
  • sofferenza come forma di educazione e di disciplina divina nei confronti dell’uomo;
  • sofferenza come dato inspiegabile – l’impossibilità di tenere insieme la teologia di un Dio creatore buono con la constatazione della sofferenza del giusto.

La caratterizzazione di Giobbe come saggio non-israelita (originario della terra di Uz), e i riferimenti molteplici presenti nel libro a elementi culturali non israeliti: tutto ciò conferma l’impressione di uno scritto “al confine”, posto cioè in dialogo stringente con l’ambiente circostante... e su un tema delicatissimo come quello della sofferenza (presunta) innocente.

«Giobbe è un uomo misterioso, contemporaneo mio e tuo, perché si è fatto le stesse domande che ci facciamo noi... domande attuali, a cui non riusciamo a dare rispondere, come noi ci è riuscito lui. Chi è Giobbe? Insomma non si sa» (Wiesel).

«La sofferenza del giusto e la retribuzione sono tematiche rilevanti nel libro di Giobbe, ma il problema di fondo è questo: Può l’uomo essere più retto di Dio, o il mortale più puro del suo creatore (Gb 4,17)? Come può l’uomo porre condizioni al suo creatore o chiamarlo a rendergli ragione del proprio operato? Dio è totalmente al di fuori dell’orizzonte e della portata dell’uomo, eppure egli parla sia attraverso la sofferenza, sia attraverso le opere della creazione» (Lorenzin).

Tratto da: MASSIMILIANO SCANDROGLIO, PROFETI E SCRITTI: INTRODUZIONE E LETTURE – SCHEDE INFORMATIVE (SECONDA PARTE), Dispense ad uso degli studenti, Milano, 2021-2022


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=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●= CAPITOLO XII

VISITATORE, CAPPELLANO, CARDINALE PROTETTORE

1 Il nostro Visitatore sia sempre dell’ordine dei frati minori secondo la volontà ed il comando del nostro cardinale. 2 E sia tale della cui onestà e costumi si abbia piena conoscenza. 3 L’ufficio suo sarà di correggere, tanto nel capo come nelle membra, i difetti contro la forma della nostra professione. 4 Resti in un luogo pubblico, per poter esser visto da tutti e gli sia lecito parlare a gruppi o alle singole di ciò che riguarda la visita, come gli sembrerà più conveniente. 5 Anche il cappellano con un suo compagno chierico di buona fama, di prudente discrezione, e due fratelli laici di santa conversazione e amanti dell’onestà, 6 in aiuto alla nostra povertà, come sempre abbiamo avuto dal medesimo ordine dei frati minori, 7 in vista della pietà di Dio e del beato Francesco, noi chiediamo come grazia dall’ordine stesso. 8 Al cappellano non sia lecito entrare in monastero senza il compagno. 9 Quando entrano, restino in un luogo aperto, da potersi vedere tra loro e dagli altri. 10 Per la confessione delle malate che non potessero andare al parlatorio, per distribuire ad esse la comunione, per la estrema unzione e per la raccomandazione dell’anima delle stesse, sia permesso loro di entrare. 11 Per le esequie e per le messe solenni delle defunte, per scavare e aprire le sepolture, o per sistemarle, possano entrare individui capaci ed idonei, a discrezione dell’abbadessa. 12 Inoltre le suore siano fermamente tenute ad avere sempre per nostro governatore, protettore e correttore quel cardinale della santa Chiesa romana, che dal signor papa sarà stato stabilito per i frati minori: 13 perché sempre suddite e soggette ai piedi della stessa santa Chiesa, «stabili nella fede cattolica» (cf. Col 1,23), osserviamo la povertà e l’umiltà del Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima madre ed il santo Vangelo, come fermamente abbiamo promesso. Amen.

Epilogo

14 *Dato a Perugia, il 16 settembre, nell’anno decimo [1252] del pontificato del signor papa Innocenzo IV. 15 A nessuno assolutamente sia lecito menomare o contraddire temerariamente questa nostra bolla di conferma. 16 Se qualcuno poi presumerà di tentarlo, sappia d’incorrere nell’indignazione di Dio onnipotente e dei beati suoi apostoli Pietro e Paolo.

17 **Dato ad Assisi, il 9 agosto, anno decimoprimo [1253] del nostro pontificato. ___________________ Note all'Epilogo *La concessione della Regola da parte del card. protettore Rainaldo (Perugia, 16 settembre 1252), avviene poco dopo la sua visita a Chiara gravemente malata (LCla 26,12-17: FC 529).

**La bolla di approvazione da parte di Innocenzo IV (Assisi, 9 agosto 1253), avviene dopo la sua seconda visita a Chiara morente (PCan 3,107-109: FC 235).

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Approfondimenti

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Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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CAPITOLO XI

CUSTODIA DELLA CLAUSURA

1 La portinaia sia matura nei costumi e discreta, di età conveniente, e di giorno resti nella stanza aperta, senza porta. 2 Le sia assegnata un’altra socia idonea, che all’occasione la sostituisca in tutto. 3 La porta sia munita di due diverse serrature di ferro, con due battenti e spranghe; 4 perché soprattutto di notte sia serrata con due chiavi, di cui una sia tenuta dalla portinaia e l’altra dall’abbadessa. 5 Di giorno non sia mai lasciata senza custodia, serrata sempre con una chiave. 6 Guardino bene con diligenza e procurino che la porta non resti mai aperta, eccetto il minimo che vorrà la convenienza. 7 Né assolutamente si apra a chi vuol entrare, se non gli fosse stato concesso dal sommo Pontefice, ovvero dal nostro signor cardinale. 8 Né permettano ad alcuno di entrare in monastero prima di giorno, né dopo il tramonto di rimanervi, eccetto in caso di necessità manifesta, ragionevole ed inevitabile. 9 Se in occasione della benedizione dell’abbadessa o per la consacrazione di qualche suora, o per motivo simile, sarà concesso a qualche vescovo di celebrar messa all’interno, egli si contenti di soci e ministri in minor numero possibile e i più onesti. 10 Se poi fosse necessario ad alcuni di entrare in monastero per lavori, l’abbadessa stabilisca con sollecitudine la persona conveniente alla porta, 11 che apra soltanto a quelli addetti al mestiere e non ad altri. 12 Le suore poi si guardino bene dal farsi vedere da quelli che entrano.

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Approfondimenti

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Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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