📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

Capitolo XIV – L’ufficio vigilare nelle feste dei santi

1 Nelle feste dei santi e in tutte le solennità si proceda come abbiamo stabilito per la domenica, 2 ad eccezione dei salmi, delle antifone e delle lezioni, che saranno proprie di quel giorno; si segua però l’ordine già fissato. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Nelle solennità, Ufficio con tre Notturni come la domenica Nel titolo si parla solo delle feste dei santi, ma nel corpo del capitolo si tratta di tutte le altre solennità, ossia le feste dei misteri del Signore: Pasqua, Natale, Epifania, Pentecoste, ecc. Per questo il calendario monastico si era adattato subito alla chiesa romana. Oltre alla B. Vergine Maria, al Battista e ad alcuni Apostoli, a Montecassino si celebravano S. Martino e pochi altri: le feste dei santi erano molto rare. In questi giorni la struttura dell'Ufficio notturno era quella domenicale, cioè con il terzo notturno, con dodici lezioni e dodici responsori, soltanto che salmi, lezioni e responsori saranno stati propri di quel giorno festivo.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XIII – Le lodi nei giorni feriali

Schema delle Lodi feriali 1 Nei giorni feriali le Lodi si celebrino nel modo seguente: 2 si dica il salmo 66 senza antifona, recitandolo lentamente in modo che tutti possano essere presenti per il salmo 50, che deve dirsi con l’antifona. 3 Dopo di questi, si dicano altri due salmi secondo la consuetudine e cioè 4 al lunedì i salmi 5 e 35, 5 al martedì il 42 e il 56, 6 al mercoledì il 63 e il 64, 7 al giovedì l’87 e l’89, 8 al venerdì il 75 e il 91 9 e al sabato il 142 con il cantico del Deuteronomio, diviso in due parti dal Gloria. 10 In tutti gli altri giorni poi si dica il cantico profetico proprio di quel giorno, secondo l’uso della Chiesa romana. 11 Quindi seguano i salmi di lode, una breve lezione dell’Apostolo a memoria, il responsorio, l’inno, il versetto, il cantico del Vangelo, la prece litanica e così si termina.

L'orazione del Signore 12 Ma l’ufficio delle Lodi e del Vespro non si chiuda mai senza che, secondo l’uso stabilito, alla fine, tra l’attenzione di tutti, il superiore reciti il Pater per le offese alla carità fraterna che avvengono di solito nella vita comune, 13 in modo che i presenti possano purificarsi da queste colpe, grazie all’impegno preso con la stessa preghiera nella quale dicono: «Rimetti a noi, come anche noi rimettiamo». 14 Nelle altre Ore, invece, si dica ad alta voce solo l’ultima parte del Pater, a cui tutti rispondano: «Ma liberaci dal male». =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

1-11: Schema delle Lodi feriali Nei giorni feriali rimangono fissi il salmo 66 come introduzione (recitato lentamente perché tutti possano giungere), il salmo 50 e le “laudes”, cioè i salmi 148-149-150. Cambiano ogni giorno i due salmi dopo il 50 e il cantico dell'AT (corrispondente al “Benedicite” della domenica), come usa la chiesa romana (v.10).

12-14: L'orazione del Signore Il Padre Nostro insegnato da Gesù ebbe fin dagli inizi della chiesa il posto d'onore nella preghiera pubblica e privata. In Spagna si recitava solennemente nell'Ufficio divino e così prescrive SB. In tutte le Ore il Padre Nostro si recitava al termine, ma sottovoce, fino al “E non ci indurre...”; ma per le Lodi e i Vespri, cioè all'inizio e al termine del giorno, SB vuole che si reciti in maniera solenne, a voce alta, da parte del superiore, perché i monaci si sentano obbligati dalla pubblica promessa di “rimettere i debiti” e si perdonino a vicenda le scandalorum spinae (le spine degli scandali), cioè le piccole ferite di ogni giorno, piccoli screzi o incomprensioni che anche in un'ottima comunità ci sono sempre. Ricordiamo che nei primi secoli il Pater era considerato il mezzo ordinario per rimettere i peccati veniali: “I peccati – dice S. Agostino – anche se sono quotidiani, almeno non siano mortali; prima di avvicinarvi all'altare, badate a dire: dimitte nobis...” (Discorsi su Giovanni 26,11). Racconta Cassiano (Coll 9,22) di certi cristiani che, arrivati a quel punto del Pater, passavano sotto silenzio il “dimitte nobis”, naturalmente per non credersi obbligati al perdono...!

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XII – Le lodi

1 Alle Lodi della domenica, prima di tutto si dica il salmo 66 tutto di seguito, senza antifona, 2 quindi il salmo 50 con l’Alleluia, 3 poi il 117 e il 62 4 quindi il cantico dei tre fanciulli nella fornace (il Benedicite), i salmi di lode, una lezione dell’Apocalisse a memoria, il responsorio, l’inno, il versetto, il cantico del Vangelo (il Benedictus) e la prece litanica con cui si finisce. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

LODI, Ufficio del Mattino L'Ufficio che SB chiama “matutini” o “matutinorum sollemnitas” (la parola “sollemnitas” sta al posto di “sinassi”, “riunione liturgica”, “Ufficio” come in Cassiano Inst 3,10 ecc.) è poi rimasto con il nome di LAUDI (“Lodi mattutine” oggi) a causa dei salmi 148, 149 e 150 che conteneva e che la stessa Regola chiama Laudes (RB 12,4). Si dovevano celebrare sempre allo spuntar dell'alba (RB 8,4), era l'Ufficio del nuovo giorno che spuntava. L'Ufficio delle Lodi è antichissimo; ai cristiani era particolarmente caro perché ricordava la risurrezione del Signore Gesù, il trionfo della luce della grazia sulle tenebre dell'errore. Lo schema di SB dipende dall'Ufficio romano classico, eccetto il responsorio e l'inno. Nel c. 12 si parla delle Lodi della domenica; nel c. 13 delle Lodi dei giorni feriali.

1-4: Le Lodi domenicali Il salmo 66 fa da introduzione; si eseguiva lentamente, per i ritardatari, come all'Ufficio notturno l'invitatorio. Poi c'era, con le antifone, il salmo 50 (fisso per tutti i giorni secondo una tradizione già antica), affinché con il “Miserere” ci si purificasse prima di passare a cantare le lodi di Dio. Anche S. Basilio dice che nel far del giorno si soleva cantare “psalmum confessionis” (il salmo di confessione). Poi veniva il salmo 117, che è per eccellenza il salmo pasquale, il canto della risurrezione; quindi il salmo 62 che è il più caratteristico come canto del mattino: “O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco...”. Seguono le “Benedictiones”, cioè il “Benedicite”, il canto dei tre fanciulli nella fornace, e le “Laudes”, cioè i salmi 148-149-150 che chiudono il salterio e sono tutta una serie di inviti a lodare il Signore (sono considerati da SB un tutt'uno e sono fissi per tutti i giorni).

L'inno, aggiunto da SB, è quello che più evidenzia il tema di Cristo-Luce. Il cantico del Vangelo (Benedictus) sta magnificamente al termine delle lodi mattutine, specialmente per i versetti: “verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte”, versetti così appropriati nel momento in cui sta per sorgere il sole.

Nella conclusione la prece litanica probabilmente era completa, cioè con le varie intenzioni cui si rispondeva: “Kyrie eleison...” «con cui si finisce»... ma vedremo al c. 33 che bisognerà concludere con il Padre Nostro.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XI – L’ufficio notturno nelle Domeniche

Ora della levata di domenica 1 Per l’Ufficio vigilare della domenica ci si alzi un po’ prima.

I tre “notturni” dell'Ufficio domenicale 2 Anche in questo caso si osservi un determinato ordine, cioè, dopo aver cantato sei salmi come abbiamo stabilito sopra ed essersi seduti tutti ordinatamente ai propri posti, si leggano sul lezionario quattro lezioni con i relativi responsori, secondo quanto abbiamo già detto; 3 solo al quarto responsorio il cantore intoni il Gloria e allora tutti si alzino subito in piedi con riverenza. 4 A queste lezioni seguano per ordine altri sei salmi con le antifone come i precedenti e il versetto. 5 Quindi si leggano di nuovo altre quattro lezioni con i propri responsori, secondo le norme precedenti. 6 Poi si recitino tre cantici, tratti dai libri dei Profeti a scelta dell’abate, che si devono cantare con l’Alleluia. 7 Detto quindi il versetto, con la benedizione dell’abate si leggano altre quattro lezioni del nuovo Testamento nel modo già indicato. 8 Dopo il quarto responsorio l’abate intoni l’inno Te Deum laudamus, 9 finito il quale lo stesso abate legga la lezione dai Vangeli, mentre tutti stanno in piedi con la massima reverenza. 10. Al termine di questa lettura tutti rispondano Amen, poi l’abate prosegua immediatamente con l’inno Te decet laus e, recitata la preghiera di benedizione, si incomincino le lodi.

Prescrizioni in caso di ritardo 11 Quest’ordine dell’Ufficio vigiliare della domenica dev’essere mantenuto in ogni stagione, tanto d’estate che d’inverno, 12 salvo il caso deprecabile in cui i monaci si alzassero più tardi, nella quale circostanza bisognerà abbreviare le lezioni e i responsori. 13 Si stia però bene attenti che ciò non avvenga; ma se dovesse accadere, il responsabile di una simile negligenza ne faccia in coro degna riparazione a Dio. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

1: Ora della levata di domenica L'insieme del monachesimo occidentale nel V e VI secolo ha praticato la vera vigilia (le grandi “vigiliae” con salmi e letture che duravano quasi tutta la notte) ogni settimana. In RB e nell'ufficio romano questa vigilia lunga è scomparsa e al suo posto rimane l'ufficio notturno allungato. Si può vedere in questo fatto una mitigazione della RB, ma anche la soluzione di alcune difficoltà di orario incontrate da altre regole che ritenevano le vigilie complete (in Francia il sabato e la domenica, in Italia solo la domenica); infatti molte regole parlano di espedienti contro i sonnolenti, S. Cesario, ad esempio, obbliga i monaci a rimanere in piedi o a fare qualche lavoro durante le letture per vincere il sonno, ecc. Allora, la riforma radicale di SB (l'abolizione della veglia completa) non è un rilassamento ma un modo pratico per risolvere il problema: è meglio, cioè, dormire e riposare la prima parte della notte e vegliare poi nella preghiera e nella meditazione della Parola di Dio; si perde quindi di durata, ma si guadagna di intensità; e anche la lectio divina del giorno di domenica a cui SB dà molto più tempo (RB 48,22) ne risulterà avvantaggiata. Abbiamo qui un esempio in più del primato spirituale sopra l'ascesi solo materiale. Nonostante sia stata abolita la pratica della vigilia nel senso originale, il nome è restato (25 volte in RB, come nel titolo di questo capitolo), ma ormai solo nel senso di Ufficio notturno, come appunto quello di “notturno”.

2-10: Composizione dei tre “notturni” dell'Ufficio domenicale L'Ufficio notturno domenicale è un ampliamento di quello feriale; rimane invariato il numero dei dodici salmi, ma ci sono dodici lezioni con altrettanti responsori prolissi; il terzo notturno ha una struttura particolare, essendo composto di tre cantici dell'AT con alcuni elementi nuovi: “Te Deum”, “Amen” dopo il Vangelo, “Te decet laus”. Il vangelo proclamato dall'abate alla vigilia domenicale era, molto probabilmente, uno riguardante la risurrezione del Signore. Un Ufficio così ricco e vario occupava evidentemente buona parte della notte e comportava non poca fatica. Per celebrarlo con dignità la comunità doveva alzarsi molto prima degli altri giorni e d'estate il sono era ridotto veramente a poco. Quindi, nonostante l'abolizione della vigilia in quanto tale, abbiamo un ufficio notturno con una ampiezza e una solennità degne della commemorazione settimanale della risurrezione del Signore.

11-13: Prescrizioni in caso di ritardo Alzarsi tardi poteva più facilmente capitare in quei tempi, perché mancavano gli orologi a suoneria. Mentre per il giorno avevano la clessidra, la meridiana, l'orologio idraulico e altri strumenti, la difficoltà era grandissima per la notte. Usavano vari espedienti, come per esempio il consumo di una candela, ma più spesso dovevano affidarsi al corso delle stelle o al canto del gallo; per tutti era necessaria una speciale attitudine a vegliare. Ma la negligenza, la distrazione, la sonnolenza entravano a volte in causa: SB ribadisce che tale disordine deve assolutamente evitarsi; troppa riverenza merita l'Opera di Dio perché si debba abbreviare a causa di un ritardo nella sveglia. Si noti che l'abbreviazione, in caso, riguarderà letture e responsori, mai il “sacro” numero dei dodici salmi!

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo X – L’ufficio notturno dell’estate

1 Da Pasqua fino al principio di novembre si mantenga lo stesso numero di salmi, che è stato prescritto sopra; 2 eccetto che, a causa della brevità delle notti, non si leggano le lezioni dal lezionario, ma, invece di tre, se ne reciti a memoria una sola dell’antico Testamento; 3 tutto il resto si svolga, come è già stato prescritto, cioè nell’Ufficio vigiliare non si dicano mai meno di dodici salmi, senza contare i salmi 3 e 94.

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Approfondimenti

Il capitolo precedente parlava della preghiera notturna d'inverno. Nel semestre estivo – da Pasqua a novembre – le notti sono corte; per poter celebrare le lodi mattutine all'alba, si deve anticipare la sveglia e sopprimere il tempo per lo studio dopo l'Ufficio notturno (RB 8,4).

Il sonno è accorciato di parecchio; per non restringerlo troppo, si abbrevia un po' anche l'Ufficio notturno; ma si deve mantenere il sacrosanto numero di dodici salmi: allora si sopprimono le lezioni, riducendole a una sola, a memoria, quindi breve, e seguita da un responsorio breve.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo IX – I salmi dell’ufficio notturno

Prima parte dell'Ufficio (Primo Notturno) 1 Nel suddetto periodo invernale si dica prima di tutto per tre volte il versetto: «Signore, apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode», 2 a cui si aggiunga il salmo 3 con il Gloria; 3 dopo di questo il salmo 94 cantato con l’antifona oppure lentamente. 4 Quindi segua l’inno e poi sei salmi con le antifone, 5 finiti i quali e detto il versetto, l’abate dia la benedizione e, mentre tutti stanno seduti ai rispettivi posti, i fratelli leggano a turno dal lezionario posto sul leggio tre lezioni, intercalate da responsori cantati. 6 Due responsori si cantino senza il Gloria, ma dopo la terza lezione il cantore lo intoni 7 e allora tutti subito si alzino in piedi per l’onore e la riverenza dovuti alla Santa Trinità. 8 Quanto ai libri da leggere nell’Ufficio vigilare, siano tutti di autorità divina, sia dell’antico che del nuovo Testamento, compresi i relativi commenti, scritti da padri di sicura fama e genuina fede cattolica.

Seconda parte dell'Ufficio (Secondo Notturno) 9 Dopo queste tre lezioni con i rispettivi responsori, seguano gli altri sei salmi da cantare con l’Alleluia 10 e dopo questi una lezione tratta dalle lettere di S. Paolo, da recitarsi a memoria, il versetto, la prece litanica, cioè il Kyrie eleison, 11 e così si metta fine all’Ufficio vigilare.

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Approfondimenti

1-8: Prima parte dell'Ufficio (Primo Notturno) Questo capitolo parla soltanto dell'Ufficio notturno feriale, del tempo ordinario, nel periodo invernale. Si inizia con il versetto “Signore, apri le mie labbra...” (salmo 50,17), che viene ripetuto tre volte in coro, nel silenzio della notte. SB mostra una certa predilezione per queste formule ternarie sia in onore della SS.ma Trinità, sia per far penetrare più profondamente nel cuore dei monaci i concetti espressi dalle labbra. Il salmo 3 (aggiunto da SB, scelto forse a motivo del v.5: “Io mi corico e mi addormento, mi sveglio perché il Signore mi sostiene”. Il Gloria Patri, breve e popolare dossologia, molto comune al tempo della controversia ariana, è usato frequentemente da SB nel suo cursus liturgico; qui l'adopera, come alla fine di ogni salmo, secondo l'uso romano. Il salmo 94, “accompagnato dall'antifona, oppure cantato lentamente” (v.3), è quello chiamato invitatorio, molto adatto al momento sia per l'inizio “Venite, applaudiamo al Signore...”, che per il contenuto; era intercalato normalmente da un'antifona, cioè un versetto con cui il coro si univa al canto del solista o dei solisti.

Per la parola “inno” (v.4), il testo ha ambrosianum, cioè inni composti o attribuiti a S. Ambrogio. SB li introdusse sotto l'influsso della liturgia lerinese o milanese, mentre la chiesa romana li introdusse solo nel sec.XII.

Seguono i primi sei salmi con le antifone e poi un versetto. Quindi il lettore chiedeva la benedizione all'abate per leggere le letture. Si dice nel v. 5 che a questo punto i fratelli si siedono: quindi bisogna dedurre che i salmi erano recitati tutti in piedi; ciò è confermato dal fatto che SB per il Gloria dei salmi non ordina, come per i responsori (v. 7), di alzarsi. E possiamo da qui notare la discrezione di SB che colloca le letture con i responsori dopo i primi sei salmi, mentre nell'Ufficio romano e in Cassiano (Inst 2,4-6) erano alla fine dei dodici salmi: perciò le letture, durante le quali i fratelli stavano seduti, costituivano un vero riposo fisico e spirituale, a metà di un Ufficio lungo e pesante.

I responsori erano una forma di salmodia, responsoriale appunto, una specie di dialogo tra solista e coro. Si tratta qui del responsorio prolisso, abbastanza sviluppato nel testo e nella melodia, come si deduce dalla prescrizione di abbreviarli, insieme alle lezioni, qualora i monaci si fossero alzati tardi (RB 11,12); esistono poi anche i responsori brevi, a lodi e a vespro.

9-11: Seconda parte dell'Ufficio (Secondo Notturno) Si parla ora del secondo notturno, con altri sei salmi; essi hanno per antifona l'alleluia per ricordare che la vita del monaco è una vita pasquale in unione con Cristo risorto. Si intercalava l'alleluia, ma non sappiamo come e quante volte. Seguiva una lettura breve sia all'Ufficio notturno che a quello diurno.

La litania conclusiva è la “supplicatio” di origine greca introdotta a Roma sotto Gelasio I (fine del sec. V): era una serie di invocazioni a cui il popolo rispondeva sempre “Kyrie eleison”: corrispondono oggi alle invocazioni mattutine e intercessioni vespertine introdotte nella Liturgia delle Ore. Alcuni pensano che SB riservi la forma lunga con le intenzioni alle lodi e al vespro (“litania” RB 12,4; 13,11; 17,8), mentre alle Ore Minori e all'Ufficio notturno la riducesse solo all'elemento popolare Kyrie eleison.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo VIII – L’ufficio divino nella notte

Levata durante l'inverno 1 Durante la stagione invernale, cioè dal principio di novembre sino a Pasqua, secondo un calcolo ragionevole, la sveglia sia verso le due del mattino, 2 in modo che il sonno si prolunghi un po’ oltre la mezzanotte e tutti si possano alzare sufficientemente riposati.

Intervallo tra l'Ufficio notturno e quello del mattino 3 Il tempo che rimane dopo l’Ufficio vigilare venga impiegato dai monaci, che ne hanno bisogno, nello studio del salterio o delle lezioni.

Levata d'estate 4 Da Pasqua, invece, sino al suddetto inizio di novembre, l’orario venga disposto in modo tale che, dopo un brevissimo intervallo nel quale i fratelli possono uscire per le necessità della natura, l’Ufficio vigiliare sia seguito immediatamente dalle Lodi, che devono essere recitate al primo albeggiare.

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Approfondimenti

CAPITOLI 8-11 – Introduzione alla sezione sull'Opus Dei Nei testi più antichi, per “OPUS DEI” (Opera di Dio) s'intende tutta la vita spirituale del monaco o, semplicemente, la vita monastica. Poi a poco a poco il significato si restrinse a designare la vita di orazione organizzata intorno alla lettura della Parola di Dio, alla salmodia e alla preghiera silenziosa. Questo è il senso di “Opus Dei” nella RB, con particolare riferimento alla Preghiera liturgica comune, l'Ufficio Divino, o come diciamo oggi, la Liturgia delle Ore. I capitoli della RB che la prendono in considerazione sono:

  • cc.8-18 che riguardano l'ordinamento dell'Ufficio Divino,
  • cc.19-20 che riguardano il modo di pregare,
  • c.47 sulle norme per il segnale dell'ora dell'Ufficio Divino e per la disciplina in coro (appendice 1),
  • c.52 sull'oratorio del monastero (appendice 2).

Importanza dell'Ufficio Divino nella RB Al gruppo dei capitoli relativi alla dottrina ascetica segue un blocco di capitoli relativi alla preghiera. C'è da notare la loro posizione, quasi a dire che l'Opus Dei è l'occupazione principale della vita cenobitica. Nella RM, invece, il direttorio dell'Ufficio si trova nei cc.33-45, dopo l'argomento sul dormitorio e la levata.

È senza dubbio errato considerare i Benedettini come “fondati per il coro”; ma è anche certo che nella mente di SB, interpretata poi da tutta la tradizione benedettina, la liturgia costituisce l'occupazione conventuale essenziale e primaria a cui nulla deve anteporsi: “Nihil Operi Dei praeponatur” (Nulla si anteponga all'Opera di Dio – RB 43,3).

La sezione sull'Ufficio Divino è molto omogenea sia dal punto di vista dell'argomento che del vocabolario e dello stile. Vi abbondano, sotto questo aspetto, anormalità linguistiche, vocaboli e modi di dire del latino volgare, della lingua corrente del sec. VI. È probabile che tutto il blocco dei cc.8-18 formasse un fascicolo a se` che conteneva il “corpus liturgico” dei monaci prima della redazione della RB; fu poi inserito da SB nel corpo della sua Regola con alcune modifiche. Rileviamo l'importanza di questa sezione che risulta dal fatto stesso della quantità, della minuziosità con cui viene stabilita ogni parte dell'Ufficio Divino e dal posto preminente che occupa nella Regola, subito dopo la sezione dottrinale e prima della parte legislativa propriamente detta.

CAPITOLO 8 – L'Ufficio Divino della notte Passare in veglia buona parte della notte era una pratica molto comune nella Chiesa primitiva, secondo la mistica dell'“attesa dello Sposo” (cf. anche Dante, Paradiso X, 140-141: “Nell'ora che la Sposa di Dio surge a mattinar lo Sposo perché l'ami”). La vigilia domenicale, iniziata con la grande veglia pasquale, risale ai tempi apostolici. Le altre vigilie notturne cominciarono a celebrarsi in occasione delle maggiori solennità liturgiche e delle feste dei martiri locali.

Però, se i chierici e il popolo cristiano passavano in orazione alcune notti (o parte di esse), i monaci si alzavano tutte le notti sia per recarsi comunitariamente alla salmodia sia per l'orazione privata. Perciò la giornata del monaco comincia con l'ufficio notturno e da esso logicamente SB inizia le sue prescrizioni. Finora lo si è chiamato, ma impropriamente, “Mattutino”; dopo la riforma liturgica, “Ufficio delle Letture”.

1-2: Levata durante l'inverno L'Ufficio Divino – è chiaro – non poteva abbracciare tutta la notte; il corpo e lo spirito hanno necessità di riposo. È certo che le prime generazioni di monaci dominarono il sonno fino all'inverosimile. Si pensi, in occidente stesso, a S. Colombano il quale voleva che il monaco “venisse stanco al giaciglio, dormisse già mentre camminava e fosse costretto a levarsi prima ancora che cessasse il sonno”. Con il suo buon senso e con la sua discrezione, SB vuole che, “secondo una ragionevole valutazione” (v.1), i monaci si alzino riposati e a digestione compiuta. Per cui si alzavano d'inverno all'ottava ora della notte (nell'orario di SB tutto il tempo diurno e notturno veniva diviso in dodici parti uguali). Da RB 41,9 risulta che vespro e cena dovevano aver luogo con la luce del giorno: al massimo quindi i monaci andavano a letto circa un'ora dopo il tramonto, cioè verso la fine della prima ora notturna; e poiché si alzavano all'ottava ora della notte, il riposo durava sette buone ore notturne; a Natale, quando ogni ora notturna era di circa 75 minuti, il riposo raggiungeva le nostre nove ore, poi man mano si scendeva fino a un minimo di ore 6,15 nostre (quando Pasqua capitava verso il 20 aprile), ma allora forse si regolavano andando a letto un po' prima. Per tutto l'inverno, dunque, la durata del sonno oscillava tra le otto ore e mezzo e le sette ore.

3: Intervallo tra l'Ufficio notturno e quello del mattino Il sonno più che sufficiente già concesso esclude che si ritorni a letto dopo l'Ufficio notturno. SB ritarda di quasi due ore la levata rispetto a RM, ma sopprime il “secondo sonno” concesso da RM dopo l'Ufficio notturno in inverno e dopo le lodi mattutine d'estate. In questo SB dipende da Cassiano (Inst 2,13; 3,5) che criticava l'uso del “secondo sonno” allora assai diffuso. Perciò dopo l'Ufficio notturno, i monaci di SB disponevano di un tempo più o meno lungo. I fratelli che ne avevano bisogno impiegavano tale tempo nello studio del salterio e delle lezioni (sono le “letture brevi” che si recitavano a memoria come viene detto in RB.9,10 e 12,4). Nel testo originale c'è la parola “meditationi” che non si deve intendere nel senso odierno di meditazione, ma nel senso di “esercizio-esercitarsi”, che comporta insieme l'imparare a memoria e l'esercitarsi nella salmodia. E i fratelli che già sapevano il salterio a memoria, e che quindi non avevano bisogno di tale studio, cosa facevano? Certo non tornavano a letto; avranno impiegato tale tempo nella lettura o nella preghiera personale.

4: Levata d'estate Per il periodo estivo non è fissata un'ora precisa per la levata. Essa doveva essere regolata in modo tale che, tra l'Ufficio notturno e quello del mattino, ci fosse solo un piccolo intervallo. Nei mesi aprile-maggio e settembre-ottobre si hanno in media dalle 8 alle 7 ore di sonno continuo; a giugno di meno, fino a un minimo di 5 ore; ma forse si andava un po' più tardi all'Ufficio notturno (il quale d'estate e' più corto non essendoci le letture come si vedrà al c.10); la siesta prevista da SB (RB 48,5) serviva appunto a compensare il difetto del sonno notturno, specialmente nel periodo centrale.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo VII – L’umiltà

Necessità dell'umiltà 1 La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran voce: «Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». 2 Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia, 3 dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: «Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me». 4 E allora? «Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre».

La scala di Giacobbe 5 Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell’umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l’umiliazione della vita presente, 6 bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli. 7 Non c’è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l’umiltà si sale. 8 La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo; 9 noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l’anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.

I dodici gradini dell'umiltà_ 10 Dunque il primo grado dell’umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, 11 si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all’inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti. 12 In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne, 13 l’uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli. 14 È ciò che ci insegna il profeta, quando mostra Dio talmente presente ai nostri pensieri da affermare: «Dio scruta le reni e i cuori» 15 come pure: «Dio conosce i pensieri degli uomini». 16 Poi aggiunge: «Hai intuito di lontano i miei pensieri» 17 e infine: «Il pensiero dell’uomo sarà svelato dinanzi a te». 18 Quindi, per potersi coscienziosamente guardare dai cattivi pensieri, bisogna che il monaco vigile e fedele ripeta sempre tra sé: «Sarò senza macchia dinanzi a lui, solo se mi guarderò da ogni malizia». 19 Ci è poi vietato di fare la volontà propria, dato che la Scrittura ci dice: «Allontanati dalle tue voglie» 20 e per di più nel Pater chiediamo a Dio che in noi si compia la sua volontà. 21 Perciò ci viene giustamente insegnato di non fare la nostra volontà, evitando tutto quello di cui la Scrittura dice: «Ci sono vie che agli uomini sembrano diritte, ma che si sprofondano negli abissi dell’inferno» 22 e anche nel timore di quanto è stato affermato riguardo ai negligenti: «Si sono corrotti e sono divenuti spregevoli nella loro dissolutezza». 23 Quanto poi alle passioni della nostra natura decaduta, bisogna credere ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto del profeta: «Ogni mio desiderio sta davanti a te». 24 Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata sulla soglia del piacere. 25 Per questa ragione la Scrittura prescrive: «Non seguire le tue voglie». 26 Se dunque «gli occhi di Dio scrutano i buoni e i cattivi» 27 e se «il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per vedere se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio», 28 se a ogni momento del giorno e della notte le nostre azioni vengono riferite al Signore dai nostri angeli custodi, 29 bisogna, fratelli miei, che stiamo sempre in guardia per evitare che un giorno Dio ci veda perduti dietro il male e isteriliti, come dice il profeta nel salmo e, 30 pur risparmiandoci per il momento, perché è misericordioso e aspetta la nostra conversione, debba dirci in avvenire: «Hai fatto questo e ho taciuto».

31 Il secondo grado dell’umiltà è quello in cui, non amando la propria volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri, 32 ma si imita il Signore, mettendo in pratica quella sua parola, che dice: «Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato». 33 Cosa che pure un antico testo afferma: «La volontà propria procura la pena, mentre la sottomissione conquista il premio».

34 Terzo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del quale l’Apostolo dice: «Fatto obbediente fino alla morte».

35 Il quarto grado dell’umiltà è quello del monaco che, pur incontrando difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell’esercizio dell’obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza 36 e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il monito della Scrittura: «Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà salvato». 37 E ancora: «Sia forte il tuo cuore e spera nel Signore». 38 E per dimostrare come il servo fedele deve sostenere per il Signore tutte le possibili contrarietà, esclama per bocca di quelli che patiscono: «Ogni giorno per te siamo messi a morte, siamo trattati come pecore da macello». 39 Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina retribuzione, costoro soggiungono lietamente: «E di tutte queste cose trionfiamo in pieno, grazie a colui che ci ha amato», 40 mentre altrove la Scrittura dice: «Ci hai provato, Signore, ci hai saggiato come si saggia l’argento col fuoco; ci hai fatto cadere nella rete, ci hai caricato di tribolazioni». 41 E per indicare che dobbiamo assoggettarci a un superiore, prosegue esclamando: «Hai posto degli uomini sopra il nostro capo». 42 Quei monaci, però, adempiono il precetto del Signore, esercitando la pazienza anche nelle avversità e nelle umiliazioni, e, percossi su una guancia, presentano l’altra, cedono anche il mantello a chi strappa loro di dosso la tunica, quando sono costretti a fare un miglio di cammino ne percorrono due, 43 come l’Apostolo Paolo sopportano i falsi fratelli e ricambiano con parole le offese e le ingiurie.

44 Il quinto grado dell’umiltà consiste nel manifestare con un’umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell’animo o le colpe commesse in segreto, *45 secondo l’esortazione della Scrittura, che dice: «Manifesta al Signore la tua via e spera in lui». 46 E anche: «Aprite l’animo vostro al Signore, perché è buono ed eterna è la sua misericordia», 47 mentre il profeta esclama: «Ti ho reso noto il mio peccato e non ho nascosto la mia colpa. 48 Ho detto: «confesserò le mie iniquità dinanzi al Signore» e tu hai perdonato la malizia del mio cuore».

49 Il sesto grado dell’umiltà è quello in cui il monaco si contenta delle cose più misere e grossolane e si considera un operaio incapace e indegno nei riguardi di tutto quello che gli impone l’obbedienza, 50 ripetendo a se stesso con il profeta: «Sono ridotto a nulla e nulla so; eccomi dinanzi a te come una bestia da soma, ma sono sempre con te».

51 Il settimo grado dell’umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell’esserne convinto dal profondo del cuore, 52 umiliandosi e dicendo con il profeta: «Ora io sono un verme e non un uomo, l’obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe»; 53 «Mi sono esaltato e quindi umiliato e confuso» 54 e ancora: «Buon per me che fui umiliato, perché imparassi la tua legge».

55 L’ottavo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco non fa nulla al di fuori di ciò a cui lo sprona la regola comune del monastero e l’esempio dei superiori e degli anziani.

56 Il nono grado dell’umiltà è proprio del monaco che sa dominare la lingua e, osservando fedelmente il silenzio, tace finché non è interrogato, 57 perché la Scrittura insegna che «nelle molte parole non manca il peccato» 58 e che «l’uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra».

59 Il decimo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: «Lo stolto nel ridere alza la voce».

60 L’undicesimo grado dell’umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole assennate, senza alzare la voce, 61 come sta scritto: «Il saggio si riconosce per la sobrietà nel parlare».

62 Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore, 63 in quanto durante l’Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell’orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi; 64 e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio, 65 ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: «Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo». 66 E ancora con il profeta: «Mi sono sempre curvato e umiliato».

Epilogo 67 Una volta ascesi tutti questi gradi dell’umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore; 68 per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all’abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura; 69 in altre parole non più per timore dell’inferno, ma per timore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù. 70 Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

L'umiltà, nella RB come nella tradizione patristica e monastica anteriore, esprime un concetto completo con molti e diversi elementi, un compendio di cammino ascetico; un'ascesi che non solo sbocca alla contemplazione, ma include già in se stessa una levatura mistica di grande efficacia. Perché umiltà significa anzitutto imitazione di Cristo secondo la prospettiva paolina; cioè non solo l'imitazione esterna dell'esempio di Gesù storico, ma la comunione intima con i suoi sentimenti, la partecipazione alla “kenosis” di Colui che “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”, ma preferì la nostra pochezza e miseria, e nel suo amore arrivò a dare la vita per noi sulla croce.

Lungo tutta la salita dell'umiltà avanza Cristo con il monaco, o meglio il monaco accompagna Cristo fino al profondo del suo annichilimento. I momenti più dolorosi di questo cammino di croce, tanto difficile per la nostra natura umana, rappresentano altrettante modalità dell'imitazione di Cristo. Cosi` nel 2° gradino il monaco ripete: “Non sono venuto a fare la mia volontà, ma la volontà di colui...” (Gv 6,38); nel 3° obbedisce con Cristo “fattosi obbediente sino alla morte...” (Fil 2,8); nel 4° – il gradino del martirio dell'obbedienza – ripete: “Per te siamo messi a morte ogni giorno, siamo considerati come pecore da macello” (Sal 43,22). Altre frasi tremende mette SB sulla bocca del monaco umile nel 6° e 7° gradino, fino a “Io sono verme e non uomo” (Sal 21,7) di Cristo sulla croce. Siamo proprio alla più alta vetta dell'umiltà (RB 7,5). E allora precisamente il monaco arriva a quel grado di “amore di Dio che, divenuto perfetto, scaccia via il timore” (RB 7,67) e si realizza la grande trasformazione interiore per opera dello Spirito Santo; come si verificò in Cristo quando, giunto al fondo della sua “kenosis”, “proprio per questo Dio lo esaltò e gli diede un nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil.2,9).

Ecco dunque la scala dell'umiltà. Siamo partiti con il timor di Dio, siamo condotti lungo il cammino da Cristo e procediamo con Cristo e, al termine di questa pedagogia arriva lo Spirito Santo e si comincia ad operare con quella carità perfetta che scaccia il timore e si va avanti senza sforzo, naturalmente. Così, lungo la scala dell'umiltà, operano nel monaco Padre, Figlio e Spirito Santo.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo VI – L’amore del silenzio

Uso della parola in genere 1 Facciamo come dice il profeta: «Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone». 2 Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riservata al peccato! 3 Dunque l’importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto: 4 «Nelle molte parole non eviterai il peccato» 5 e altrove: «Morte e vita sono in potere della lingua».

Uso della parola nelle relazioni con i superiori 6 Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare. 7 Quindi, se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con grande umiltà e rispettosa sottomissione.

Parole sconvenienti 8 Escludiamo poi sempre e dovunque la trivialità, le frivolezze e le buffonerie e non permettiamo assolutamente che il monaco apra la bocca per discorsi di questo genere.

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Approfondimenti

Non c'è nella Bibbia una vera e propria dottrina sul silenzio, né si può parlare del silenzio come virtù o valore raccomandato; la Scrittura è piena di testi che si riferiscono a entrambe le cose: «C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qo 3,7b). La lingua è un dono di Dio, attraverso cui gli uomini comunicano fra di loro ed esprimono a Dio i sentimenti del loro cuore. A volte è importante tenerla a freno, mentre a volte sarebbe vigliaccheria e mancanza di fedeltà tacere. Nei libri sapienziali troviamo una pedagogia per il buon uso della lingua: il saggio, a differenza dello stolto, sa meditare e pesare le sue parole. Discepoli e coltivatori di tale saggezza, i monaci cristiani fin dalla più remota antichità praticarono e insegnarono la moderazione nell'uso della parola. Tutta la tradizione (Apoftegmi, storie monastiche, regole cenobitiche, trattati spirituali, ecc...) lo testimonia; ma nessuno parla di silenzio assoluto, perché tacere sempre non è umano, però è necessario moderarsi, perché la lingua facilmente passa il limite e arriva a mormorazioni, calunnie, detrazioni, conversazioni peccaminose: parlare molto, cioè, equivale ad esporsi di più al peccato. Si tratta quindi di un silenzio ascetico.

Il silenzio poi ha grande importanza per la vita del monaco, in quanto è in funzione della quiete in Dio la “hesychia”, la tranquillità; l'accento veniva posto sopratutto sulla “ritiratezza”, sul rimanere in cella, “tacendo e sedendo” dice S. Girolamo. Anche per Cassiano, che pure dedica al silenzio tre dei suoi indizi di umiltà, esso è in funzione della preghiera, aiuta il monaco a raggiungere la “preghiera di fuoco” ed è il segno della raggiunta unità della persona in Dio. Così si proibiva ai monaci di parlare fuori delle celle e di ritrovarsi a parlare in refettorio; molti monasteri erano famosi per il silenzio che vi regnava, ma sembra più un titolo di gloria che una parte della dottrina di ascesi.

La “taciturnitas” La nozione di equilibrio fra tacere e parlare, con evidente inclinazione a favore del silenzio, la lingua latina dei monaci la espresse con il termine taciturnitas (che non corrisponde al nostro italiano “taciturnità”, la quale può comportare anche quell'aria di musoneria che diviene così pesante e fastidiosa nei contatti col prossimo). Silere e silentium significano astenersi totalmente dal parlare; taciturnitas significa l'abitudine a far caso al silenzio, il volontario e virtuoso amore al silenzio, frutto di umiltà e di raccoglimento, che concede la facoltà di esprimersi con moderazione, soltanto se necessario, discretamente. Perciò si potrebbe tradurre anche “amore al silenzio” con tutto il significato spiegato sopra (cioè anche modo di parlare).

Il silenzio nella RB SB tratta brevemente della “taciturnità”, in un solo capitolo di soli 8 vv.in cui rimane sui principi, dandoci un capitolo più omogeneo, coerente, anche se molto breve. Nella RB abbiamo 4 volte la parola taciturnitas e 4 volte la parola silentium. “Silentium” indica un aspetto disciplinare, funzionale (silenzio a tavola, RB. 38,5; silenzio notturno, RB. 42,1; silenzio durante la siesta, RB. 48,5; silenzio nell'oratorio, RB. 52,2) e significa silenzio in senso stretto, cioè astensione totale dal parlare. “Taciturnitas” (RB. 6 titolo; 6,2-3; 7,56; 42,9) denota, come detto sopra, moderazione, sobrietà, discrezione nell'uso della parola e, come si usa tradurre, amore al silenzio. Alla “taciturnitas”, non al “silentium” SB dedica un capitolo della sua sezione ascetica.

STRUTTURA del capitolo 6 Comincia all'improvviso con una citazione dal salterio brevemente commentata, rafforzata da altre due citazioni dei Proverbi (vv. 1-5); passa all'uso della parola nei rapporti con i superiori (vv. 6-7), condanna solennemente le parole sconvenienti (v. 8). Vediamo il testo:

1-5: Uso della parola in genere SB parte da una citazione scritturistica che serve di base e di principio al suo insegnamento: mettiamo in pratica ciò che dice il salmista. Nel salmo 38 citato, il salmista oppresso dai dolori si propone di tacere assolutamente per non dare all'empio occasione di bestemmiare (quindi notiamo che il contesto del salmo è diverso da come viene applicato in RB). Il v. 3 del salmo dice così: «Ammutolito, in silenzio, tacevo, ma a nulla serviva, e più acuta si faceva la mia sofferenza»; invece la versione della Volgata era: “silui a bonis” che RB (e RM prima) ha inteso: “mi sono astenuto anche dal dire cose buone”, da cui l'argomentazione derivante. L'atteggiamento del salmista viene indicato come generale disposizione d'animo del monaco. “Anche dai buoni discorsi ci si deve “a volte” interdum astenere per amore al silenzio”, tanto più dalle parole cattive! E nel v. 3 SB insiste: “è tanta l'importanza del silenzio – cioè: tale è la gravità e la serietà di questa dimensione nella vita monastica – che ecc...” Come si deve interpretare la frase: perfectis discipulis “ai discepoli perfetti”? Si deve intendere che a questi soltanto si deve dare raramente licenza di parlare, lasciando più libertà ai meno perfetti? Sì, se si considera il parallelo con la RM la quale distingue tra la categoria dei “perfetti” e quella dei “tiepidi, imperfetti e meno solleciti” (RM 9,48); secondo altri, invece, qui si intende semplicemente i monaci in quanto tali e in quanto devono sforzarsi di essere, dovendo essi per il loro stesso stato mirare alla perfezione. Alla citazione del salmo 38 SB aggiunge altri due testi scritturistici del genere sapienziale, brevi e incisivi: Pr 10,19 e Pr 18,21. In tutti e tre i testi biblici citati, la ragione addotta per frenare la lingua è quella di evitare il peccato, questo è nella generale tradizione ascetica del monachesimo primitivo.

6-7: Uso della parola nelle relazioni con i superiori I monaci, da perfetti discepoli, devono parlare assai poco, giacché parlare è funzione del maestro, mentre al discepolo tocca ascoltare. Si torna al concetto dell'abate come “dottore”; si tace per ascoltare la voce del maestro che è l'abate e, attraverso l'abate, il Maestro per antonomasia: Cristo. è interessante notare l'importanza dei vv. 6-7 per la relazione del silenzio con l'obbedienza (capitolo 5) e con l'umiltà (capitolo 7). Il discepolo ascolta per mettere in pratica ciò che gli si comanda e in tal modo torna a Dio attraverso il cammino dell'obbedienza (Prol. 1-2). Il monaco poi tace per umiltà (v. 1: “mi sono umiliato”) e parla con umiltà (v. 7); tanto il parlare (il modo di parlare) che il tacere sono in rapporto con l'umiltà. Si tratti di rispondere all'abate quando domanda un parere o si tratti di chiedergli qualcosa, i fratelli debbono mantenersi sempre entro i limiti dell'umiltà, docilità e riverenza.

8: Parole sconvenienti Infine, con accento severo ed energico, SB condanna i discorsi non convenienti alla dignità di monaco, non solo le trivialità – il che pare ovvio – ma anche le parole giocose e non necessarie. Questo ultimo versetto contribuisce a dare un aspetto ancora più rigoroso e molto forte al capitolo che senza dubbio è in una linea rigida e severa.

CONCLUSIONE Ma... per fortuna, altri passi della RB che si riferiscono alla “taciturnitas” (=amore al silenzio e uso corretto, monastico, della parola) mitigano e umanizzano l'aspetto serio e un pò duro del capitolo 6. A giudicare dal v.6, il silenzio regna come norma generale nel monastero e per parlare ci vuole un permesso speciale che si accorda solo raramente. Ma da altri testi si deduce che la proibizione di parlare non era così assoluta: i monaci non erano soggetti ad una legge che li obbligava a convivere senza comunicare tra loro. Il silenzio assoluto si osservava in certi luoghi e in certe ore: durante i pasti (RB 38,5); in dormitorio, tanto durante il riposo notturno (RB 42,1) quanto durante la siesta (RB 48,5). In altri luoghi era molto meno rigoroso (o veniva trasgredito spesso); in RB 26,1-2 si proibisce di parlare con lo scomunicato; in RB 67,5-6 si ordina di non parlare di ciò che si è visto fuori del monastero. I monaci quindi parlavano e ridevano pure! Tra le mortificazioni suggerite in quaresima (RB 49,7) si dice di togliere qualcosa alla loquacità e... alle buffonerie (= “scurrilitate”, lo stesso vocabolo che nel capitolo 6 è condannato assolutamente, “aeterna clausura in omnibus locis damnamus”! v. 8).

Nel capitolo 6, dato che si tratta della sezione spirituale, a SB interessa enunciare il principio e presentare il valore del silenzio, facendone vedere l'aspetto austero, essenzialmente ascetico. La dimensione mistica della taciturnità i monaci la scopriranno a poco a poco, avanzando nel cammino dell'unione con Dio, man mano che si familiarizzano con la S. Scrittura e gli altri testi della tradizione patristica e monastica che SB prescrive (RB 73,2-6). Cassiano, per esempio, dice che è impossibile arrivare all'“orazione pura” se lo spirito è disturbato dal ricordo di conversazioni recenti (Coll. 9,13), che l'“orazione di fuoco” consiste in un gemito inenarrabile che trascende la parola (Coll. 9,25), che l'anima giunta alla vetta della contemplazione penetra in una meditazione e concentrazione così assoluta che non si può esprimere (Coll. 9,27). Però SB si mantiene nei limiti della “vita pratica”, che non va oltre l'estirpazione dei vizi e l'acquisto delle virtù; la sua “taciturnitas” è puramente ascetica. Il capitolo 6 è un commento e ampliamento di 4 strumenti delle buone opere:

  • 51°: custodire la propria lingua da parole cattive o disoneste;
  • 52°: non amare il parlare molto;
  • 53°: non dire parole inutili o eccitanti al riso;
  • 54°: non amare di ridere molto o in maniera smodata (RB. 51-54).

Si noti anche la finalità educativa e di carità della RB. A proposito dell'uso della parola abbiamo tre volte questa espressione: rationabiliter cum humilitate “ragionevolmente con umiltà” in:

  • RB.31,7 a proposito del cellario;
  • RB.61,4 a proposito dell'ospite;
  • RB.65,4 a proposito del priore.

E nel capitolo 7,60 sostituisce “dire poche parole e sante” di RM con: “dire parole poche e ragionevoli (sensate)”. A SB interessa di meno che le conversazioni siano edificanti (come nella RM), quanto piuttosto che abbiano senso, che avvengano nella ragionevolezza e nella calma. Così in RB 31,7.13-14: come deve rispondere il cellario a chi gli chiede qualcosa fuori luogo o quando non può concedere qualcosa. Così RB.66,2-4 a proposito del portinaio: che risponda subito, rivolga parole di benvenuto, con tutta la mansuetudine e umiltà, con fervore di carità. La pedagogia di SB tende sopratutto a promuovere il buon uso della parola nelle relazioni concrete; siamo indirizzati dunque sul terreno delle relazioni fraterne, un argomento di cui RM non si occupa mai, ma che per SB è di capitale importanza.

Perciò la tradizione monastica ha assegnato pure un tempo per la ricreazione comune: parteciparvi e portarvi il proprio contributo di pensiero, di amore e di gioia è un atto di obbedienza e di carità.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo V – L’obbedienza

Obbedienza pronta e sue motivazioni 1 Il segno più evidente dell’umiltà è la prontezza nell’obbedienza. 2 Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo 3 e, a motivo del servizio santo a cui si sono consacrati o anche per il timore dell’inferno e in vista della gloria eterna, 4 appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio. 5 È di loro che il Signore dice: «Appena hai udito, mi hai obbedito» 6 mentre rivolgendosi ai superiori dichiara: «Chi ascolta voi, ascolta me». 7 Quindi, questi monaci, che si distaccano subito dalle loro preferenze e rinunciano alla propria volontà, 8 si liberano all’istante dalle loro occupazioni, lasciandole a mezzo, e si precipitano a obbedire, in modo che alla parola del superiore seguano immediatamente i fatti. 9 Quasi allo stesso istante, il comando del maestro e la perfetta esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con quella velocità che è frutto del timor di Dio: 10 così in coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita eterna.

Motivazione biblica dell'obbedienza 11 Essi si slanciano dunque per la via stretta della quale il Signore dice: «Angusta è la via che conduce alla vita»; 12 perciò non vivono secondo il proprio capriccio né seguono le loro passioni e i loro gusti, ma procedono secondo il giudizio e il comando altrui; rimangono nel monastero e desiderano essere sottoposti a un abate. 13 Senza dubbio costoro prendono a esempio quella sentenza del Signore che dice: «Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato».

Qualità, sopratutto interiori, dell'obbedienza 14 Ma questa obbedienza sarà accetta a Dio e gradevole agli uomini, se il comando ricevuto verrà eseguito senza esitazione, lentezza o tiepidezza e tantomeno con mormorazioni o proteste, 15 perché l’obbedienza che si presta agli uomini è resa a Dio, come ha detto lui stesso: «Chi ascolta voi, ascolta me». 16 I monaci dunque devono obbedire con slancio e generosità, perché «Dio ama chi dà lietamente». 17 Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora, non dico con la bocca, ma anche solo con il cuore, 18 pur eseguendo il comando, non compie un atto gradito a Dio, il quale scorge la mormorazione nell’intimo della sua coscienza; 19 quindi, con questo comportamento, egli non si acquista alcun merito, anzi, se non ripara e si corregge, incorre nel castigo comminato ai mormoratori.

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Approfondimenti

In tutte le lingue il concetto di obbedienza deriva da “audire” e significa sempre la “disposizione ad ascoltare l'altro e a fare la sua volontà”: ascoltare e obbedire derivano dalla stessa radice etimologica. In latino abbiamo ob-audire “ascoltare” e ob-oedire “obbedire”: vocaboli vicinissimi che nella letteratura cristiana sono in relazione con la radice ebraica “shemà”, il cui significato è primariamente “ascoltare” e in secondo luogo “obbedire”.

La religione ebraica si riassume essenzialmente in questo concetto di obbedienza: ascoltare Dio e compiere i suoi desideri. Era la religione dell'obbedienza alla rivelazione di Dio; il culto di Dio consisteva essenzialmente nell'obbedienza (cf. ad esempio 1Sam 15-22) e l'essenza del peccato nella disobbedienza alla volontà di Dio manifestata nei comandamenti, nella Legge e nei Profeti. Nel NT appare con grande evidenza il valore essenziale dell'obbedienza. La vita di Gesù, come la presentano i Sinottici e come la interpretano S. Giovanni e S. Paolo, non è altro che la storia di un'obbedienza totale alla volontà del Padre attraverso il cammino della passione, della croce, della morte ignominiosa: Gesù accetta tutto pienamente per pura obbedienza al Padre. L'intera esistenza di Gesù si riduce ad una totale conformità alla volontà del Padre: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34); Gesù non è venuto per fare la sua volontà, ma quella del Padre (Gv 6,38); Egli non parla per iniziativa propria, ma il Padre parla in lui (Gv 3,44); per questo chi vede lui vede il Padre (Gv 14,9-10).

Per il cristiano non basta in effetti accogliere il messaggio di Gesù, bisogna conformarsi alla volontà del Padre, come Gesù la manifesta «non chiunque mi dice: Signore, Signore..., ma chi fa la volontà...» (Mt 7,21): il vero discepolo di Gesù compie la volontà del Padre. Il valore cristiano dell'obbedienza è posto in rilievo sopratutto da S. Paolo: tutta l'opera salvifica di Gesù si riassume, secondo Filippesi 2, nella sua morte come atto di obbedienza al Padre, in contrapposizione alla disobbedienza di Adamo. L'obbedienza di Gesù è, per S. Paolo, il fondamento della salvezza (Rm 1,19); la fede è l'obbedienza alla predicazione del messaggio di salvezza (Rm 10,16; 2Cor 7,15; 2Tess 1,8); il cristiano è l'uomo che obbedisce al Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo (2Tess 1,18).

L'obbedienza occupa quindi, senza dubbio, una posizione-chiave nella storia divina della salvezza. I Padri della Chiesa non cessarono di segnalarlo con grande insistenza. Ma questa idea incontrò un'eco straordinaria soprattutto tra i monaci a cominciare dalle prime generazioni. In effetti i Padri del Deserto, ammaestrati dalla loro esperienza, erano giunti a due conclusioni: primo, che senza il rinnegamento di sé non si giunge a una vera adesione alla volontà di Dio; secondo, che il rinnegamento consiste essenzialmente nella rinuncia alla propria volontà, “muro di bronzo – a dire dell'abate Poimene – che separa l'uomo da Dio” (Apophtegmata, Poimene 54). I testi monastici trattano di continuo questo tema sotto tutti gli aspetti:

  • obbedire a Dio;
  • obbedire alla Scrittura;
  • obbedire ai Padri del monachesimo;
  • obbedire ai fratelli e, in particolare,
  • obbedire al proprio anziano spirituale, se si vive come anacoreta, o
  • obbedire al superiore e alla regola, se si vive come cenobita.

In tal modo si andò elaborando a poco a poco una teoria e in pratica il concetto dell'obbedienza religiosa. Si suole distinguere un'obbedienza ascetica o educativa (più specifica degli eremiti) e un'obbedienza funzionale o sociale al servizio della comunità (propria dei cenobiti). In realtà i due aspetti sono complementari: l'obbedienza ascetica è necessaria per realizzare l'obbedienza funzionale nella maniera più perfetta possibile; l'obbedienza sociale, poi, ha sempre un aspetto ascetico ed educativo. In ogni caso, i legislatori monastici del cenobitismo (Pacomio, Basilio, ecc.) non si mostrano meno esigenti, riguardo all'obbedienza, dei Padri spirituali degli eremiti. S.Basilio richiede un'obbedienza universale e senza condizioni.

Quanto detto sopra è il fondo biblico e monastico in cui situare il concetto di obbedienza nella RB. SB ne parla nell'ambito della dottrina ascetica, la dottrina dell'obbedienza viene cioè riportata alla scala dell'umiltà nel contesto dell'itinerario ascetico proposto ai monaci. Nel capitolo 5 si tratta in senso proprio dell’obbedienza al superiore; ci sono poi altri due capitoli che trattano specificamente dell'obbedienza: RB. 68 (L'obbedienza nelle cose impossibili) e RB. 71 (L'obbedienza reciproca). Ma dell'obbedienza se ne parla con frequenza, dal principio del prologo all'epilogo; ricordiamo che per SB l'obbedienza è il cammino attraverso cui si ritorna a Dio (Prol. 2). Incontestabilmente nella RB l'obbedienza costituisce l'asse dell'itinerario monastico.

Obbedienza pronta e sue motivazioni Il v.1 sembrerebbe in contraddizione con il capitolo 7. Ma qui non si parla di gradino nel senso di una serie come nel capitolo 7, “primo” qui significa “il principale” o più perfetto, “primo nel tempo”, “fondamentale” dal punto di vista della pedagogia monastica. Quindi la frase “primus humilitatis gradus” del v.1 si può tradurre: “Il principio dell'umiltà”, “la manifestazione più evidente dell'umiltà” e simili. Questa nozione del primato (nel senso spiegato) dell'obbedienza nella formazione cenobitica è unanime nella tradizione monastica.

«Obbedienza senza indugio» “sine mora”: è il carattere più evidente della vera obbedienza e SB vi insiste per tutta la prima parte del capitolo. L'amore di Cristo balza evidentemente come il motivo fondamentale e il più nobile per obbedire. L'idea non è nuova: il monaco impugna le gloriose armi dell'obbedienza per militare sotto Gesù Cristo vero Re (Prol. 3). Si ricordino anche gli strumenti 10 e 21 del capitolo 4. Evidente anche il richiamo nella struttura grammaticale al “Niente anteporre all'amore di Cristo” di RB 4,21 e al “Nulla assolutamente antepongano a Cristo” di RB.72,11. Possono però esserci altri motivi meno elevati anche se validi e la RB li enumera: il servizio santo a cui si sono consacrati, il timore dell'inferno, il desiderio della vita eterna; ma in tutti e tre questi motivi è sempre supposto e incluso il primo, quello dell'amore integrale a Cristo, da cui il monaco non può prescindere. SB descrive, accumulando molte espressioni, l'atteggiamento fedele del monaco e la prima caratteristica dell'obbedienza: prontezza come dinanzi a un comando di Dio, rapidità, quasi simultaneità tra l'ordine del superiore e l'esecuzione del discepolo. “Lasciando incompiuto...”. Cassiano avverte che al segnale dell'orazione e del lavoro si interrompeva anche una lettera dell'alfabeto già iniziata (Inst 4,12).

Letteralmente il v.10 recita «quibus ad vitam aeternam gradiendi amor incumbit» tanta perfezione d'obbedienza è un bisogno e una gioia dell'anima perché incombe, incalza (questo è il senso del verbo latino) l'amore per la vita eterna di cui si diceva negli strumenti delle buone opere “desiderarla con tutto l'ardore spirituale” (RB 4,46). Segue una descrizione breve ma abbastanza completa e precisa dell'obbedienza cenobitica.

Motivazione biblica dell'obbedienza La Regola viene paragonata alla “strada stretta” (v. 11) di cui si parla nel discorso della montagna (Mt 7,14); poi si definisce l'obbedienza prima al negativo, poi al positivo. Negativamente è rinunciare alla volontà propria: “non vivono secondo il proprio capriccio personale” e “non obbediscono ai desideri e gusti propri” (v. 12). Le espressioni richiamano due strumenti delle buone opere: RB 4,59 e 60. Positivamente l'obbedienza è:

  • camminare secondo il giudizio e la volontà di un altro;
  • passare la vita in monastero;
  • desiderare di essere sottomessi a un abate;
  • si imita in tal modo il Signore che disse di se stesso: “Non sono venuto a fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato (Gv 6,38).

Il primo elemento corrisponde al 61° strumento delle buone opere e, insieme al secondo (stabilità in monastero, RB 4,78), caratterizza i cenobiti che “vivono in monastero militando sotto una Regola e un abate” (RB 1,2).

Il terzo elemento vuole indicare il carattere libero e volontario dell'obbedienza su cui si insisterà in seguito; la Regola dice altrove che l'obbedienza è un bene (RB 71,1) e pertanto desiderabile (ma qui SB dice che “desiderano essere sottomessi”!). Tutto ciò proviene dal quarto elemento messo sopra, che riassume, concludendola, questa parte del capitolo: l'imitazione di Cristo.

Qualità, sopratutto interiori, dell'obbedienza La Regola insiste sulle qualità che deve avere l'obbedienza cenobitica per essere veramente gradita a Dio e “dolce agli uomini”. Quest'ultima espressione è un tocco sapiente e amorevole di umanità e finezza psicologica del santo Patriarca. Anche per il superiore dare un ordine non è sempre facile: riesce perciò di conforto per lui incontrare un'obbedienza sollecita e sorridente. Dunque si obbedisca senza esitazione o ritardo – si raccomanda ancora la celerità – o svogliatezza oppure con mormorazioni o proteste (v.14), ma volentieri e serenamente, perché “Dio ama chi dona con gioia” (v.16).

Di buon animo: parole importanti che devono penetrare nell'animo del monaco. “Dio guarda nel profondo del cuore” (v. 18); obbedire esteriormente non basta, se l'atto non è accompagnato dalla buona volontà profonda e sincera di chi obbedisce: l'obbedienza si deve interiorizzare.

Tra tutti i difetti che annullano il valore dell'obbedienza, il peggiore è il vizio della mormorazione. SB ne ha un'avversione particolare, sia essa esteriore o solo interiore, e dice che i mormoratori incorreranno nella pena prevista (v.19). Certo, questa nota finale, redatta sullo stile del codice penale, suona un po' strana in questo capitolo di pura spiritualità; perché è chiaro che qui non si parla del giudizio di Dio, ma della disciplina regolare contro la mormorazione. Senza dubbio la clausola stona. Ma SB era un “uomo pratico secondo Gesù Cristo”.

Nel capitolo V possiamo individuare due motivazioni principali per l'obbedienza monastica:

  1. motivazione ascetica (rinunzia a se stesso, alla propria volontà, ai propri gusti);
  2. motivazione sopratutto teologica (obbedire per amore di Cristo).

Dai testi biblici del capitolo V appare la figura di Cristo:

  • come colui al quale si obbedisce (Lc 10,16 citato nel v. 6 e nel v. 15)
  • e come colui che si imita nell'obbedire (Gv 6,38 citato nel v. 13).

In altre parole: Cristo è rappresentato

  • una volta nell'abate che ordina
  • e una volta nel monaco che obbedisce.

Ecco i due aspetti che risultano dai due testi evangelici:

  • obbedire come Cristo e
  • obbedire come a Cristo.

Ambedue gli aspetti dell'obbedienza – comandare e obbedire – hanno il fondamento ultimo in Gesù Cristo.

L'abate non potrebbe esigere un'obbedienza assoluta senza essere autorizzato da Gesù (di cui fa le veci in monastero, RB 2,2); e d'altra parte l'obbedienza è cristologica in quanto ispirata dall'amore a Cristo (RB 5,13)

«Cristo appare sia come Maestro che come discepolo, poiché di fatto egli è nel medesimo tempo, inseparabilmente, il Verbo che legifera e il Servo che si umilia. Così in questa relazione monastica fondamentale, Cristo è rappresentato nella sua esistenza drammatica e nelle sue dimensioni totali: la sua sovranità divina e la sua umiliazione fino all'estremo..., una cosa non esiste senza l'altra. E la gloria e la genuinità sublime del monachesimo e della sua teologia viva sta proprio in questa rappresentazione drammatica, o meglio sacramentale, della Persona e della vita di Cristo.» (H.U. Von Balthasar)

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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