📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Contro i ricchi, oppressori e omicidi 1E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! 2Le vostre ricchezze sono marce, 3i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! 4Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente. 5Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. 6Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.

Sopportare le prove con pazienza: il Signore è vicino 7Siate dunque costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. 8Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. 9Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. 10Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore. 11Ecco, noi chiamiamo beati quelli che sono stati pazienti. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione.

Invito alla sincerità e alla veracità 12Soprattutto, fratelli miei, non giurate né per il cielo, né per la terra e non fate alcun altro giuramento. Ma il vostro «sì» sia sì, e il vostro «no» no, per non incorrere nella condanna.

Preghiera, confessione dei peccati e correzione fraterna 13Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, canti inni di lode. 14Chi è malato, chiami presso di sé i presbìteri della Chiesa ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore. 15E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo solleverà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. 16Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto potente è la preghiera fervorosa del giusto. 17Elia era un uomo come noi: pregò intensamente che non piovesse, e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. 18Poi pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto. 19Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, 20costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati.

Approfondimenti

(cf LETTERA DI GIACOMO – nuova versione, introduzione e commento di GIOVANNI CLAUDIO BOTTINI © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2014)

Contro i ricchi, oppressori e omicidi Giacomo chiama non al pentimento, ma al pianto e al lamento come at­teggiamento o come risposta alle disgrazie che stanno per sopraggiungere. È evidente che qui il termine «ricchi» è diventato sinonimo di empi, malvagi. Essi sono chiamati a piangere perché l'era escatologica è suonata. Essa è talmente sicura nella mente di chi parla, da essere presentata come imminente e di rimando anche l'atteggiamento da assumere è inculcato con urgenza. La prima ragione addotta da Giacomo è la caducità della ricchezza: davanti al giudizio di Dio che viene, tutte le ricchezze, anche le più sicure, perdono ogni valore, perché sono state usate ingiustamente. L'affermazione che i lamenti degli sfruttati sono giunti alle orecchie di Dio equivale a dire che il suo intervento, il suo giudizio, naturalmente di condanna, sugli oppressori è imminente. All'accusa di sfruttamento Giacomo ne aggiunge un'altra al v. 5: non si sono accontentati di ammassare tesori con ingiusta ricchezza, frutto di sfruttamento, ma l'hanno scialacquata per il proprio piacere sulla terra. Ora, ammonisce Giacomo, questo stile di vita, che appare ancora più insostenibi­le confrontandolo con la povertà degli altri, è assurdo, perché coincide con il «gior­no della strage». I ricchi vivono lussu­riosamente, incuranti dei poveri, anzi sfruttandoli, ma è giunto il «gior­no della strage» e poiché essi sono ben ingrassati, saranno macellati. Il giorno ultimo (escatolo­gico) è già iniziato con Gesù ed è talmente sicura la sua conclusione che Giacomo – seguendo un ragionamento tipico dei profeti – dice: è già qui. Eppure essi conti­nuano a vivere come se così non fosse! Questa unità (Gc 5,1-6), forse il brano più duro, è culminante rispetto alle precedenti unità (1,9-11; 2,2-12.15-16; 4,13-17), nelle quali Giacomo ha parlato in termini critici dei ricchi e dei loro comportamenti. Alcune interpretazioni han­no fatto del testo il portavoce del movimento della teologia della liberazione, ma va precisato che non si tratta dei ricchi in quanto tali. Qui l'autore condanna con tono profetico-apocalittico l'arroganza di chi si arricchisce con ingiustizia fino a uccidere il giusto. È la denunzia del fallimento totale di un modo di vivere con la descrizione della miseria morale dei ricchi oppressori e sfruttatori: l'accumulo egoistico e antisociale delle ricchezze è una follia, perché tutto è soggetto al de­perimento e alla dissoluzione (5,1-3); un crimine ancora più grave è quello della disonestà con cui privano l'operaio della sua paga (5,4); i ricchi hanno fatto del piacere lo scopo della vita (5,6); un crescendo di male che li ha condotti fino al­l'omicidio (5,6).

Sopportare le prove con pazienza: il Signore è vicino L'autore esorta i credenti a essere pazienti perché il Signore è vicino e li invita a non lamentarsi gli uni degli altri per non essere giudicati. Giacomo ha già esortato alla pazienza nelle prime battute della lettera parlando delle varie prove che i cristiani possono incontrare. Partendo dalla vita umana, Giacomo esorta i credenti a comportarsi come l'agricoltore, il quale, dopo aver fatto ciò che doveva fare per quanto sta in lui, at­tende che avvenga ciò che da lui non dipende: la pioggia, per l'uomo biblico sem­pre dono di Dio, e il frutto conseguente. Al peccato che ha vigorosamente denunziato nella pericope precedente Gia­como oppone qui la certezza di fede del cristiano: la venuta futura del Signore, la sua «parusia». Questa certezza gli permette di andare incontro al futuro nella pa­ce e nella serenità; gli consente di «aspettare», «pazientare», «perseverare», si­curo del giudizio divino. L'esercizio della pazienza esige forza e coraggio che se­condo la Bibbia hanno la loro sede nel cuore della creatura umana. Si tratta di stare saldi nella fede e non venir meno nell'attesa. La vicinanza di cui parla non va intesa necessariamente in senso temporale ma piuttosto «reale», vale a dire della certez­za che il Signore interverrà a cambiare la sorte di quelli che soffrono con pazienza e perseverano nella fede.

La condanna del lamento e della mormorazione contro i mem­bri della comunità risiede nel fatto che esso implica un giudizio: chi si lamenta, chi sospira contro l'altro, lo giudica. Ciò per la morale di Giacomo è inammissi­bile perché giudice è solo Dio (4,11). La proibizione del giudizio è uno dei punti della morale sul quale maggiormente insistono gli autori del NT e appa­re significativo che Giacomo lo faccia nella prospettiva escatologica: il giudice che verrà è il Cristo e la sua parusia è talmente sicura che egli in certo senso è «visto» “alle porte”.

Due esempi – i profeti e Giobbe – vengono portati da Giacomo per spiegare il senso del­ la virtù della pazienza. Essi vogliono far comprendere che la pazienza che egli rac­comanda non consiste in un atteggiamento di rinunzia. I profeti restarono fedeli alla loro vocazione e missione anche di fronte all'ostilità e alla persecuzione. I profeti hanno gridato, rimproverato, minacciato impegnandosi interamente nelle vicende della loro storia, incuranti delle conseguenze per la loro sorte. Non raramente sono stati rifiutati, messi in carcere e condannati. La tradizione giudaica antica prece­dente e contemporanea dello scritto di Giacomo vedeva spesso nel profeta un mar­tire. Perciò essere pazienti come i profeti significa essere pronti a sopportare qual­siasi prova in vista della beatitudine promessa. Infine, Giacomo introduce l'esempio di Giobbe, di cui ricor­da la pazienza e l'esito felice della vicenda. È noto che nei circoli giudaici e cri­stiani questo personaggio era conosciuto e spesso additato come esempio.

La certez­za della venuta del Signore o del ritorno di Cristo, secondo Giacomo, deve allontanare l'atteggiamento distruttivo del lamentarsi gli uni degli atri, alimentare in tutti i fratelli della comunità la pazienza o magnanimità intese come perseveranza attiva e consapevole e la sopportazione dei mali nella fiducia verso Dio che è tenero e compassionevole.

Invito alla sincerità e alla veracità Basandosi sulla indubbia somiglianza stilistica, questo testo è sempre stato messo in relazione con Mt 5,34-37. Un confronto analitico tra i due testi rivela però che la somiglianza letteraria copre una diversa visione teologica. Diversamente dall'insegnamento di Gesù nel Vangelo di Matteo, il quale mostra che è inutile giurare perché tutto di­pende da Dio, Giacomo qui sembra riproporre la norma legale data da Dio, che a lui sta molto a cuore (cfr. Gc 2,8-12), come è espressa in Lv 19,20. Il testo di Giacomo non intende rispondere al dilemma tra uso personale del giu­ramento proibito e uso sociale o legale del giuramento consentito; Giacomo si esprime riguardo al giuramento con il linguaggio radicale semitico, che per affer­mare la preminenza di una cosa (assoluta sincerità nel parlare) ne contrappone e nega un'altra (non giurare affatto per non esporsi all'eventualità di dire il falso). «Ma il vostro sì sia sì e il vostro no, no». Per Giacomo, è in gioco l'osservan­za della legge di Dio, che proibisce di giurare il falso e invita alla veracità. L'esortazione di Giacomo è in continuità di forma e contenu­to con l'insegnamento di Gesù testimoniato dai vangeli per esortare a un parlare univoco e non doppio, che non ha bisogno di garantire con un giuramento le paro­le, il contrario di ciò che si pensa nel cuore (Mt 5,34-37). Nel parlare i fratelli non devono cedere alla tentazione di chiamare Dio a garante del proprio dire, ma de­vono risplendere per semplicità e verità, coerentemente al principio che vi dev'es­sere assoluta coerenza tra il dire e il fare.

Preghiera, confessione dei peccati e correzione fraterna Giacomo fa una esortazione generale a pregare in ogni occasione, sia in stato di tristezza sia in situazione di gioia. Dalla raccomandazione generale l'autore (v. 13) passa a illustrare il caso particolare del malato. In opposizione al «chiedere male» (Gc 4,3) il caso di preghiera qui evocato viene presentato come esempio di preghiera di fede. Da ri­levare poi la chiamata di «presbiteri» o «anziani» della Chiesa. Il NT ci fa cono­scere questa categoria come una delle strutture ecclesiastiche fondamentali delle origini (At 14,23; cfr. At 11,30; 15,2; 20,17). Pare che nella Chiesa giudeo-cristiana questa fosse la struttura abitua­le sul modello della sinagoga. Nelle comunità pagano-cristiane si ritiene che si sia sviluppata la struttura episcopale (uno o più «episcopi» coadiuvati da «diaco­ni»). La cosa più importante però è rilevare che in questo brano Giacomo pensa alla preghiera della fede come alla preghiera ecclesiale. Nel v. 13 invece si tratta­va di preghiera personale. Poi indica che i presbiteri devono pregare «sul mala­to», vale a dire che la preghiera è a suo favore, per lui. Non si dà il contenuto del­ la preghiera, mentre viene precisato il gesto che la deve accompagnare: l'unzione con l'olio. Con il frumento (il pane) e l'uva (il vino), l'ulivo (l'olio) è alimento fonda­ mentale nella vita del credente ebreo. L'unzione fatta dai presbiteri sul malato ha principalmente lo scopo di procla­mare di fronte alla morte e alle potenze della morte, cui appartiene la malattia, che quella persona è stata battezzata. Questo significa che il malato non appartiene più alla carne ma al Signore, che è morto per i suoi peccati ed è stato risuscitato dal Padre per la sua giustificazione. È una contestazione radicale dell'opera che la morte compie sul malato. Si dice con un gesto: Quest'uomo è cristiano (= unto), una cosa sola con il Cristo, per cui la morte non può avere alcun potere su di lui. Il risultato della preghiera è che il malato sarà salvato, il Signore lo ri­alzerà e il suo peccato sarà rimesso.

La menzione della remissione dei peccati porta a sviluppare un' istruzione ge­nerale valida per tutti. L'infermo è salvato, sollevato, perdonato mediante la pre­ ghiera e l'unzione. Quindi tutti devono confessare e pregare per ottenere la gua­rigione mediante la confessione e la preghiera. E così Giacomo passa al nuovo paragrafo costituito dal v. 16a, dove non viene enunciato un nuovo caso, ma i ver­bi che esprimono l'istruzione sono alla seconda persona plurale e il riferimento non è più a persone particolari, ma generalizzato. Inoltre nell'istruzione compare un elemento formale e contenutistico del tutto nuovo: confessate. Ma non mancano punti di collegamento con ciò che precede: peccati e pregate. Siamo in presenza di una confes­sione fatta negli incontri comunitari. Si pensi a quella testimoniata dalla Didachè da farsi prima della celebrazione eucaristica e prima della preghiera. Purtroppo non viene precisato in che cosa consistesse questa confessione.

Dopo il principio sulla potenza dell'intercessione del giusto, è intro­dotto l'esempio che lo illustra. È questa una maniera di procedere che si è tro­vata più volte nella lettera (2,20-24: Abramo; 2,25-26: Raab; 5,10-11: profeti e Giobbe). «Elia era un uomo». Elia, il personaggio noto a ogni lettore di Giacomo dalla tradizione biblica, è presentato come una semplice persona umana senza al­cun carattere straordinario, nonostante che la storia biblica lo ricordi come un personaggio sovrumano rapito in cielo e la tradizione giudaica lo avvolga di tratti leggendari e misteriosi. Giacomo ha forse scelto l'esempio di Elia perché nella tradizione giudaica antica, anche se non esplicitamente nell'AT, veniva celebrato per la preghiera. Elia veniva indicato spesso anche come soccorritore di oppres­si e tribolati. Qualificando il grande personaggio biblico come semplice perso­na umana, Giacomo ne mette in evidenza la natura di creatura fragile e soggetta a debolezza fisica e morale. Una idea che viene ulteriormente specificata dal predi­cato nominale: «un uomo come noi», cioè sotto­posto alle stesse leggi e condizioni di debolezza e fragilità legate alla natura uma­na. Ciò contribui­sce a chiarire che per Giacomo, il giusto, potente nella supplica, non è una persona straordinaria. Per l'intero paragrafo si ha l'impressione che l'autore abbia voluto mettere in risalto da un lato l'umanità fragile di Elia e dall'altro la forza sovrumana della sua preghiera, descrivendone per esteso le conseguenze sul cielo e sulla terra. Questa dimensione acquista maggiore rilievo se si riflette che Giacomo qualche linea pri­ma (5,13-16) parla della tristezza, della malattia e del peccato cui vanno incontro gli uomini. A tutto può porre rimedio la preghiera personale, la preghiera della fe­de, la preghiera intensa o fatta con insistenza, la preghiera del giusto, la preghiera di un uomo passibile come noi.

L'esorta­zione che chiude la lettera è una delle più confortanti di tutto lo scritto, perché sfocia in una promessa di salvezza e di perdono dei peccati. La sua densità è pa­ri alla concisione. In soli due versetti sono evocati temi come l'errare dalla veri­tà e dalla via, la conversione del peccatore, la salvezza dalla morte, il perdono dei peccati. Il discorso di Giacomo man­ca di una chiusura epistolare, ma con l'ultima esortazione alla correzione fraterna Giacomo invita tutti a praticare ciò che egli ha inteso fare in tutto il suo discorso: correggere fratelli e so­relle in vista della salvezza eterna.


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Le liti nascono dalle passioni 1Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? 2Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; 3chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.

L’amore per il mondo è nemico di Dio 4Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. 5O forse pensate che invano la Scrittura dichiari: «Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi»? 6Anzi, ci concede la grazia più grande; per questo dice: Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia.

Sottomettersi a Dio 7Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà lontano da voi. 8Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. Peccatori, purificate le vostre mani; uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori. 9Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza. 10Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà.

Non sparlare gli uni degli altri 11Non dite male gli uni degli altri, fratelli. Chi dice male del fratello, o giudica il suo fratello, parla contro la Legge e giudica la Legge. E se tu giudichi la Legge, non sei uno che osserva la Legge, ma uno che la giudica. 12Uno solo è legislatore e giudice, Colui che può salvare e mandare in rovina; ma chi sei tu, che giudichi il tuo prossimo?

Rimprovero ai mercanti 13E ora a voi, che dite: «Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni», 14mentre non sapete quale sarà domani la vostra vita! Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare. 15Dovreste dire invece: «Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello».

Chi sa fare il bene e non lo fa, commette peccato 16Ora invece vi vantate nella vostra arroganza; ogni vanto di questo genere è iniquo. 17Chi dunque sa fare il bene e non lo fa, commette peccato.

Approfondimenti

(cf LETTERA DI GIACOMO – nuova versione, introduzione e commento di GIOVANNI CLAUDIO BOTTINI © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2014)

Le liti nascono dalle passioni Dopo aver illustrato il tema della dissociazione tra fede e ope­re Giacomo è risalito a quello che sta alla radice delle opere: la «lingua», pratica­mente il pensiero, espresso o no, e il tipo di sapienza da cui è ispirato. Ora ricerca quello che sta prima del pensiero nell'uomo, quello che Gesù aveva chiamato il «cuore» in Mt 15,18. Ci saranno perfetta gioia e vera sapienza solo se si riesce a convertire questo punto profondo. Si tratta di «santificare il cuore» (Gc 4,8). In 3,14.16 aveva già alluso a gelosie, contese, azioni malvagie, irrequietezza. È da qui che ora l'autore riparte. Le «guerre» e le «liti» di cui parla al v.1 sono “metaforiche”. Bisogna dunque intendere “guerre e liti” all'interno della comunità. Giacomo individua la fonte delle rivalità all'interno della comunità nell'istinto cattivo che combatte nella persona del credente. Questa inclinazione cattiva guasta non solo i rapporti sociali in quanto fonte di desideri smodati, di oppressioni e gelosie, di lot­te e guerre che vengono frustrate perché non raggiungono lo scopo, ma influisce in maniera nefasta anche sul rapporto con Dio strumentalizzando la preghiera.

L’amore per il mondo è nemico di Dio Il mondo di cui parla Giacomo non è l'ordine creato o la terra, ma l'intero si­stema dell'umanità (le sue istituzioni, le strutture, i valori e i costumi) organizza­to a prescindere da Dio, come se lui non esistesse. Questo concetto non è molto diverso da quello paolino di mondo (cfr. 1Cor 1-3; Ef2,2; Col 2,8.20). I destinatari di Giacomo sanno che l'amore del mondo è inimicizia di Dio e pensano rettamente che la Scrittura non parla invano. L'autore della lettera vuole ricordare, richiamare alla mente, non insegnare qualcosa di nuovo, né dare istruzioni per ora. Queste verranno dal v. 7 in poi. Dio do­na una grazia più grande, vale a dire più efficace dello spirito o dell'inclinazione cattiva che dentro di noi tende all'invidia ed è causa di tutti i mali sopra denunziati dall'autore.

Sottomettersi a Dio Coerente con il suo modo di procedere, anche in Gc 4,1-1O Giacomo non par­la dei mali morali in sé ma li considera nelle sue cause e nei suoi effetti. Le passio­ni – che si esprimono con pensieri malvagi, desideri disordinati, parole e fatti vio­lenti – distruggono le relazioni comunitarie (4,1-3). La causa profonda dei mali risiede nella divisione interiore e nella pretesa di mettere insieme l'amore per il mondo e l'amore di Dio, una presunzione che rende «adulteri» (4,4-6). Il rimedio, espresso con una serie di verbi all'imperativo, sta nella conversione, che è il rico­noscimento della propria miseria e nella sottomissione a Dio per avere da lui la gra­zia promessa agli umili, unica garanzia di esaltazione (4,7-l0). Ancora una volta l'autore della Lettera di Giacomo si rivela fine teologo e non un semplice predica­tore moralista: le esortazioni all'umiltà (vv. 6b e 10) riecheggiano le ammonizioni profetiche al ritorno a Dio e alla fedeltà dell'alleanza (cfr. Os 1.2-8; 9,1; Is 54,1-6; Ger 2,20; per il NT: Mt 12,39; Mc 8,38; 2Cor 11,2), ma risentono anche della tra­ dizione sapienziale dove il riso caratterizza lo stolto (Gc 5,9b; cfr. Sir 21,20; 27,13; Qo 7,3-6) e manifesta l'opposizione umana a Dio e il pianto è un segno della con­sapevolezza della propria miseria.

Non sparlare gli uni degli altri L'autore esorta a non sparlare gli uni degli altri, perché ciò equivale a giudi­care la legge, data da Dio che è il solo legislatore e il solo giudice. Si può dire che la brevità dell'ammonizione è pari alla sua densità. Vi si possono rintracciare non pochi temi che Giacomo ha già toccato nella lettera: l'attuazione della legge o del­la parola (1,19-21.22-25;2,8-11), il controllo della lingua (1,26; 3,1-12),la discri­minazione fra i fratelli (2,1-14), il giudizio (2,12-13), i conflitti nella comunità (4,1-3). Se le due proibizioni (non sparlare, non giudicare) sono comuni, la motivazione data da Giacomo è originale. Il ragionamento è semplice: chi sparla/ca­lunnia o giudica/condanna il proprio fratello, lo voglia o no, si fa sparlatore e giudi­ce della legge. Quest'ultimo termine all'ascoltatore o al lettore di Giacomo richia­ma spontaneamente le espressioni adoperate in precedenza dall'autore dello scritto: «legge (perfetta) della libertà» e «legge regale» (1,25; 2,8.12). Come si è visto, questa esprime la volontà di Dio concentrata sull'amore del prossimo. Perciò spar­lare o condannare il fratello equivale a violare la legge della carità, la sintesi e il ver­tice dell'etica cristiana.

Rimprovero ai mercanti Giacomo si rivolge ai mercanti con un linguaggio molto tagliente, anche se dopo, contro i ricchi, si mostrerà ancora più energico. Si tratta di persone che fanno i loro piani determinando con sicumera partenza, sosta, profitto econo­mico. È proprio questa sicurezza che pretende di prescindere da Dio che l'autore prende di mira e condanna, anzi volge al ridicolo nell'affermazione successiva. Come a dire: Voi che fate piani tanto superbi... non potete disporre del domani e nep­pure sapete che cosa è la vostra vita. Questa maniera di ragionare riecheggia la tra­ dizione biblica sapienziale. Giacomo contrappone la maniera retta di programmare la vita a quella stolta e peccaminosa. Egli lo fa riprendendo una formula che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è comune al mondo pagano religioso e all'ambiente cristiano: «Se il Signore vuole».

Chi sa fare il bene e non lo fa, commette peccato Con questa frase (v. 17), che ha tut­to il tono di una sentenza, Giacomo chiude la parenesi. Il cambio della persona e il tenore fa pensare che si tratti di un detto proverbiale usato analogamente a quanto avviene altrove (Gc 3,18; 2,13). Bisogna dire inoltre che il messaggio della frase si inquadra bene nella men­talità dell'autore come si rivela nello scritto. Giacomo raccomanda continuamente coerenza e integrità: ciò che importa non è conoscere il bene, ma attuarlo.

Il centro della breve e decisa ammonizione che Giacomo rivolge ai mercanti non è nella descrizione vivace che egli fa di tale categoria (4,13) e neppure nell'in­sistenza sulla fragilità e brevità della vita umana (4,14). Queste ultime vigono per tutti, mercanti e operatori economici inclusi! Giacomo va alla radice del problema costituito dalla visione e impostazione dell'esistenza umana (4,15-17). Una ma­niera sbagliata, superficiale e ingannevole di impostare la vita è pensare che tutto e sempre accadrà come precisamente pianificato, supponendo che tutto dipenda dall'uomo e non da Dio. La maniera giusta di impostare la vita è invece pensare che, qualsiasi cosa possa accadere, nulla sfugge allo sguardo e al volere di Dio. Non un invito alla paura o al pessimismo, come se la vita umana fosse sotto la co­stante minaccia del peggio, ma una esortazione alla confidenza nella volontà prov­vidente di Dio. Certo, neppure il credente conosce il futuro, ma egli ha fiducia per­ ché lo affida e si affida a Dio.


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Non presumere di fare da maestri e non mancare nel parlare 1Fratelli miei, non siate in molti a fare da maestri, sapendo che riceveremo un giudizio più severo: 2tutti infatti pecchiamo in molte cose. Se uno non pecca nel parlare, costui è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo. 3Se mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possiamo dirigere anche tutto il loro corpo.

Il potere tremendo della lingua 4Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e spinte da venti gagliardi, con un piccolissimo timone vengono guidate là dove vuole il pilota. 5Così anche la lingua: è un membro piccolo ma può vantarsi di grandi cose.

La lingua è come un fuoco alimentato dalla Geenna Ecco: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta! 6Anche la lingua è un fuoco, il mondo del male! La lingua è inserita nelle nostre membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geènna. 7Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dall’uomo, 8ma la lingua nessuno la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale.

Con la stessa lingua benediciamo il Signore e Padre e malediciamo gli uomini, sue creature 9Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. 10Dalla stessa bocca escono benedizione e maledizione. Non dev’essere così, fratelli miei! 11La sorgente può forse far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce e amara? 12Può forse, miei fratelli, un albero di fichi produrre olive o una vite produrre fichi? Così una sorgente salata non può produrre acqua dolce.

Mostrare opere ispirate a mite sapienza 13Chi tra voi è saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. 14Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità.

La sapienza terrena fomenta gelosia e spirito di contesa 15Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica; 16perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni.

Le qualità della sapienza che viene dall'alto 17Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. 18Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.

Approfondimenti

(cf LETTERA DI GIACOMO – nuova versione, introduzione e commento di GIOVANNI CLAUDIO BOTTINI © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2014)

Non presumere di fare da maestri e non mancare nel parlare L'argomento della lingua sembra introdotto senza evidenti nessi letterari e te­matici con il contesto immediato (la fede in Gc 2). Però il discorso sull'uso della lingua e l'autocontrollo nel parlare è già stato anticipato in Gc 1,19 e in Gc 1,26. Sembra che questo argomento dell'uso o abuso nel parlare susciti una reazio­ne emotiva nell'autore della lettera, come quello dei rapporti tra ricchi e poveri nella comunità. Il discorso che sembra stare a cuore a Giacomo è circa il controllo nel parlare. Il peccare in parole è un pericolo inerente alla natura dell'uomo. Forse la frase che funge da transizione, dal monito ai maestri al tema più generale, più che un'umile ammissione è una constatazione proverbiale. La somma importanza posta sul controllo della lingua non solo corrisponde bene al problema che Giacomo vede nella smania di far da maestri, ma riposa su un tratto biblico-giudaico comune. Il senso del v. 3 è chiaro e le illustrazioni por­tate sono abbastanza comuni al punto che si può parlare di un patrimonio cono­sciuto nel mondo biblico-giudaico e profano.

Il potere tremendo della lingua In questi versetti vengono messi in luce gli effetti deleteri e funesti di un uso incontrollato e contraddittorio della lingua: la lingua è come il ti­mone per governare le navi. La tecnica a incastro lega il verbo, riferito alla gui­da dei cavalli (3,3b) con quello riferito alla guida delle navi (3,4b). L'applicazione alla lingua è resa ancora più esplicita dal versetto finale introdotto «co­sì anche la lingua... », (3,5a). Il confronto è fondato sul contrasto tra la piccola di­mensione della causa-strumento (freno/timone/lingua) e il grande effetto ottenuto o possibile. Così viene sottolineata l'importanza dell'autocontrollo nel parlare. L'uomo è perfetto perché controlla il membro controllore (v. 2bc). Il pensiero, in tutta la sezione, si muove in una tonalità negativa e in progressione, dal potere della lingua alla ma­lignità della lingua e alla necessità di controllarla.

La lingua è come un fuoco alimentato dalla Geenna Facendo leva sul contrasto tra la piccolezza della lingua e le gravi conse­guenze che può produrre, si mettono in evidenza gli effetti disastrosi dell'abuso del parlare. L'immagine della piccola scintilla che incendia un grande bosco fa parte del repertorio classico per illustrare gli effetti nefasti della lingua e delle passioni. Celebre è la descrizione degli effetti disastrosi causati dalla lingua del delatore o calunniatore in Sir 28,13-26, dove ricorre anche l'immagine del fuoco della lingua che « divamperà senza spegnersi» fra gli empi, mentre i pii non bruceranno alla sua fiamma (Sir 28,22-23). La Geenna era un burrone a sud-ovest di Gerusalemme, dove gli israe­liti infedeli avevano un tempo immolato i loro figli a Moloch (2Re 21,6; 23,1O; Ger 7,31; 19,5-6; 32,35) e divenuto perciò luogo di abominio; dopo l'esilio babi­lonese vi si gettarono le immondezze e i cadaveri dei giustiziati, e a diminuire il puzzo vi si alimentava di continuo il fuoco. Già prima di Cristo (cfr. Is 66,24) era considerato dagli ebrei l'immagine dell'inferno, e talora si designa con questo no­me l'inferno stesso. La Geenna non è solo il luogo di punizione dei dannati, ma il regno dei demoni, pervertitori del genere umano; e la lingua è un valido stru­mento in mano loro. Il sostantivo fuori dai sinottici (Mt 5,22.29-30; 10,28; 18,9; 23,15.33; Mc 9,43-47; Lc 12,5) non ha altri esempi nel NT. Il riferimento al dominio dell'uomo sull'universo animale può ispi­rarsi alle parole di Gn 1,26-28. Ma il motivo è classico anche nei testi greco-ellennistici per celebrare la superiorità dell'uomo nel mondo. L'uomo è in grado di domare ogni specie di animali creati, ma non riesce a controllare la lingua. Il con­fronto tra immagine e realtà qui è chiaro.

Con la stessa lingua benediciamo il Signore e Padre e malediciamo gli uomini, sue creature In questo paragrafo Gia­como sembra spostare l'attenzione dalla nocività della lingua al suo uso. Essa in­ fatti può servire al bene e al male (vv. 9-10). Ma non dev'essere così. La necessità di evitare tale ambiguità era un insegnamento comune nell'etica biblica e antico­ giudaica. Tutto il discorso dell'autore tende non solo a convincere ma vuole con­durre a una decisione pratica portando il lettore-ascoltatore alla conclusione: l'uso incontrollato e contradditorio della lingua è cosa riprovevole e assurda. È evidente dal ragionamen­to dell'autore che non si può avere la pretesa di benedire la persona (di Dio) e insieme maledire la sua rappresentazione (un uomo). L'immagine della sorgente dell'acqua salata e dolce e quella degli alberi e rispettivi frutti (cfr. Mt 7, 16 e par.) evocano il suolo palestinese, ma pure gli ambienti filosofici ellenistici vi fanno ri­corso per sottolineare la coerenza della condotta etica dell'uomo saggio. Per l'autore, non sono in gioco solo le relazioni comunitarie, perché la parola e la lingua mettono in rapporto con gli altri; il con­ trollo della lingua è richiesto dall'ideale verso l'uomo «perfetto» (3,2) e non af­fetto da una «doppiezza» nel parlare, che contraddice al disegno di Dio (3,9-10) ed è contraddetta pure dalla natura (3,11-12).

Mostrare opere ispirate a mite sapienza La lezione di Giacomo nei vv. 13-14 è questa: chi nella comunità aspira a essere «saggio-esperto» deve dimostrarlo con una prassi corrisponden­te, caratterizzata dalla «mitezza». Gli atteggiamenti concreti contrari fanno della presunzione di essere «sapiente» una menzogna. La preoccupazione di Giacomo è rivolta sempre alla pratica o, meglio, all'unità tra teoria e prassi, tra sapere e vivere.

**La sapienza terrena fomenta gelosia e spirito di contesa» Il pannello negativo è aggravato da tre qualifiche della pseudosa­pienza: terrena, carnale e demoniaca (notare il crescendo!). «Terrena» rimanda alla concezione dualistica, divenuta corrente nella tradizione sapienzia­le sotto l'influsso ellenistico e apocalittico. Il mondo terreno-umano si oppone a quello celeste-divino, come la realtà mondana si oppone a Dio (cfr. Gc 4,4). No­tare però che l'opposizione tra i due ambiti è più di carattere morale che cosmico e metafisico (cfr. Sap 7,1-3; 9,1-4.10.13-16; 1Cor 5,1; Fil 3,19). Nello stesso sen­so vanno intesi gli altri due. «Materiale» si oppone a «spirituale» come in 1Cor 2,14.16 che nell'applicazione di Paolo ai cristiani litigiosi e fanatici di Corinto di­venta «carnale» (1Cor 3,3). La massima opposizione all'origine celeste-divina è la qualifica «demoniaca» della sapienza terrena-carnale, che po­tremmo tradurre anche con «diabolica». Questa è la fonte ultima della menzogna e delle divisioni anarchiche che distruggono le relazioni comunitarie e la loro cau­sa ultima è «il diavolo» (cfr. 4,7). In 3,6 l'autore ha individuato nella Geenna o nell'ambito infernale la radice profonda del sistema di malvagità che si serve del­ la lingua come fuoco distruttore dell'intera esistenza umana.

Le qualità della sapienza che viene dall'alto La presentazione della “vera sapienza” fa pensare all'elogio della Sapienza(in Sap 7,22-8,1) o all'inno alla carità (in 1Cor 13,1-13). Il tono pratico la fa accostare alla tradizione parenetica, dove si presenta una sintesi del­l'esistenza cristiana (cfr. Gal 5,22; Ef 4,2.32; 5,9; Col 3,12-13). La vera sapienza viene dall'alto, cioè da Dio, datore di ogni dono (1,17). È a lui che si deve chiede­re la sapienza con preghiera fiduciosa per giungere alla perfezione, o la maturità spirituale, superando le prove (Gc 1,2-5). Gia­como prospetta due progetti di vita antitetici fra loro, e l'etica da lui raccomanda­ta consiste nel vivere secondo la sapienza divina, che si oppone a quella terrena per la natura e i frutti. Analogamente si può affermare che quanto Paolo dice dei frutti dello Spirito Santo (Gal 5,22), Giacomo lo afferma della vera sapienza. Tuttavia il tenore per­sonale con cui egli stende il catalogo dei vizi (3, 15) e delle virtù (3,17) mette in lu­ce il suo apporto non convenzionale alla letteratura cristiana delle origini.


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La fede non fa preferenza di persone 1Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. 2Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. 3Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», 4non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? 5Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano? 6Voi invece avete disonorato il povero! Non sono forse i ricchi che vi opprimono e vi trascinano davanti ai tribunali? 7Non sono loro che bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi? 8Certo, se adempite quella che, secondo la Scrittura, è la legge regale: Amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene. 9Ma se fate favoritismi personali, commettete un peccato e siete accusati dalla Legge come trasgressori. 10Poiché chiunque osservi tutta la Legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto; 11infatti colui che ha detto: Non commettere adulterio, ha detto anche: Non uccidere. Ora se tu non commetti adulterio, ma uccidi, ti rendi trasgressore della Legge. 12Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché 13il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio.

La fede senza le opere è morta 14A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? 15Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano 16e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? 17Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. 18Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». 19Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! 20Insensato, vuoi capire che la fede senza le opere non ha valore? 21Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le sue opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? 22Vedi: la fede agiva insieme alle opere di lui, e per le opere la fede divenne perfetta. 23E si compì la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio. 24Vedete: l’uomo è giustificato per le opere e non soltanto per la fede. 25Così anche Raab, la prostituta, non fu forse giustificata per le opere, perché aveva dato ospitalità agli esploratori e li aveva fatti ripartire per un’altra strada? 26Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.

Approfondimenti

(cf LETTERA DI GIACOMO – nuova versione, introduzione e commento di GIOVANNI CLAUDIO BOTTINI © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2014)

La fede non fa preferenza di persone Gc 2,1-13 tratta dell'inconciliabilità tra la fede in Cristo e il fare preferenza di persone. Questo è il primo caso (ne seguiranno altri) in cui l'autore invita alla coerenza tra il dire e il fare, e in particolare tra le pa­role della fede con cui si dice di volere eseguire tutta la legge secondo il principio dell'amore del prossimo e il modo di agire che contraddice ciò che esso stabilisce con le sue norme. Giacomo inizia con un comando (2,1) e poi porta un esempio concreto di par­zialità o preferenza per i ricchi quasi a mostrarne la bruttezza (2,2-4). Quindi per dissuadere da tale atteggiamento riprovevole porta diverse ragioni: il comporta­mento di Dio (2,5-6a), il rispetto ordinato delle persone umane (2,6b-7), il coman­damento dell'amore che compendia tutta la legge (2,8-11), il pensiero del giudizio divino (2,12-13).

Nel primo paragrafo viene enunciato il principio che i favoritismi personali sono incompatibili con la fede cristiana a cui segue un esempio di tale condot­ta inammissibile. Il comportamento riprovato da Giacomo tocca la fede: i destinatari peccano di dubbio contro la fede (Gc 1,6), che insegna a comportarsi diversamente o esitano – mescolando/inquinando – la propria fede con il pregiudizio del mondo. La malignità che l'autore rimprovera consiste nel fatto che i lettori-ascolta­ tori si comportano diversamente da Dio, che giudica rettamente e senza pregiudi­zi e ordina di non fare favoritismi (cf. Lv 19,15: «Non commetterete ingiustizia in giudizio; non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente, ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia»).

Presentata l'incompatibilità della fede in Cristo con i favoritismi, Giacomo insiste sulla condotta assurda dei fratelli attraverso due argomenti tratti dall'espe­rienza. Il primo è derivato dal compimento della storia della salvezza: Dio ha scel­to i poveri; il secondo proviene dall'esperienza dello scontro con i ricchi. Seguendo l'ordine espositivo del testo, si osserva che l'autore fa una premessa alla confuta­zione del modo di agire appena evocato e che giudica un errore perché trasgredi­sce la legge di Dio che comanda di amare il prossimo. Dopo la contrapposizione tra la condotta di Dio e quella dei fedeli, vengono mosse tre accuse ai ricchi: sono oppressori, fanno processi ai credenti, bestemmiano il nome in­ vocato su coloro che credono.

In 8-11 la discussione sul favoritismo viene approfondita. Il pensiero – suppo­nendo una tacita obiezione – potrebbe essere questo: se voi rispettate il precetto sovrano della carità fraterna, fate bene. Ma dovete ricordarvene anche quando si tratta dei poveri. Altrimenti agite con parzialità e incorrete pertanto nella condan­na della legge mosaica. Ma non si può escludere che Gc 2,8-9 abbia un signifi­cato più generale, quindi il ragionamen­to potrebbe essere il seguente: Certo, se dite di compiere la legge secondo il co­mandamento della Scrittura sull'amore del prossimo (Lv 19,18), fate bene. Ma se disprezzate i poveri facendo preferenze di persone, agite male e la stessa legge vi denunzia come trasgressori, perché con il vostro comportamento violate una sua norma che vieta di fare preferenze di persone, come si legge subito prima di quel comandamento, in Lv 19,15.

in Gc la legge è detta “della libertà” perché si fonda sulla libertà di quelli che so­no chiamati ad attuarla, in quanto sono stati generati per mezzo di una «parola di verità» che stimola un agire libero, perché sta nel loro intimo come una forza in­teriore capace di salvare. La «legge della libertà» di Gc2,12, in base alla quale i fratel­li saranno giudicati, alla luce di Gc 1,25 ha un significato coerente e abbastanza chiaro: è quella parola efficace di Dio che sta all'origine dell'esistenza cristiana, la feconda con la forza salvifica interiore, ma è pure – soprattutto alla luce del no­stro contesto immediato, Gc 2,8-13 – una legge di amore, che in quanto tale non solo abbraccia la totalità dell'agire del cristiano, ma si radica nell'intimo del suo essere, là dove germina e matura la libertà. È una legge esigente – deve essere at­tuata perché sarà criterio del giudizio – e totalitaria, ma come «parola impianta­ta» o interiore ha anche la forza di salvare quelli che sono chiamati al regno.

Il brano di Gc 2,1-13 è particolarmente ricco di insegnamenti, ma su tutti ri­salta quello relativo alla dimensione sociale della fede cristiana. Fare preferenze e discriminazioni all'interno della comunità, onorando i ricchi e disprezzando i po­veri, contraddice alla fede in Cristo e ai comandamenti di Dio, che hanno al loro centro l'amore del prossimo. Contenuto e tono del discorso rivelano in Giacomo un acuto senso pastorale proteso a correggere e a esortare i fratelli mediante osser­vazioni pratiche e di principio.

La fede senza le opere è morta Il tema in esame è quello della fede che non produce le opere. Ma gli esem­pi addotti in 2,15-16 e 2,21.25 mostrano con chiarezza che le opere di cui parla qui l'autore non sono quelle prescritte dalla legge e combattute da Paolo, ma le opere dell'amore misericordioso. Stabilito che il criterio del giudizio (finale) sarà la misericordia praticata verso il prossimo (2,13), Giacomo procede portando il caso tipico di chi si vanta di avere fede, ma non offre aiuto ai fratelli e alle sorelle che mancano del necessario per vivere. E la sua conclusione è inappellabile: la fede che non ha opere di bene non può sal­vare dalla condanna finale. Giacomo combatte una visione distorta della fede cristiana, quella di chi si accontenta di una proclamazione verbale della fede, senza tradurla in una pras­si di vita corrispondente. Questa fede non conduce alla salvezza e perciò è inutile e vana. Si tratta di quella salvezza definitiva o escatologica che si realizza nel giu­dizio ultimo (2,13), in cui prevale solo la misericordia operata dai creden­ti che hanno accolto la parola impiantata capace di salvare le loro anime (1,21). Nella tradizione biblica ed evangelica chi è senza vestiti e senza cibo rappresenta la categoria dei poveri, verso i quali si deve attuare il soccorso attivo ed efficace da parte dei pii e dei fedeli (cfr. Is 58,7; Ez 18,7.16; Mt2 5,35.43 e ancora Pro 3,28; Sir 4,3 e 1Gv 3,17-18). Giacomo risulta molto vicino a que­sta tradizione profetica e sapienziale. Perciò non è casuale che egli, per illustra­re la sterilità della dissociazione tra fede e opere, abbia scelto non un caso qual­siasi, ma precisamente una situazione in cui dei fratelli cristiani poveri e indigenti si trovano di fronte ad altri cristiani che si limitano a dire parole di augurio che suonano amara ironia (v. 16), perché non danno loro il necessario che augurano parlando.

Il fatto che i demoni conoscano Dio, non li salva, li fa solo tremare per la loro rovina.

Lo scopo di Gc 2,20-24, rafforzato in ogni elemento dalla struttura letteraria, è di com­prendere primariamente la fede: come essa agisce, come è perfezionata attraverso le opere e come essa non è «separata da» o «aggiunta a» le opere. Fede e opere stanno in Gc in rapporto “sinergetico” (cf. v. 22). Non si può intendere tale espres­sione nel senso di una giustapposizione additiva (fede assommata alle opere); fede e opere operano congiuntamente (v. 22) e le opere “dimostrano” la fede (v. 18b). Le opere risultano necessariamente da una fede viva.

La giustificazione non è un atto forense nel quale un peccatore viene dichiarato prosciolto (come è il caso in Paolo), ma una dichiarazione da parte di Dio che una persona è giusta (questo impli­ca l'espressione «ora io so» di Gn 22,12; cfr. Is 5,23). L'enfasi sembra cadere quindi sull'aspetto morale e non giudiziario. Il punto dell'argomento di Giacomo non ha nulla a che vedere con una dichiarazione forense della giustificazione, ma l'argomento è semplicemente che Abramo ebbe veramente fede e che insieme ebbe le opere scaturite da tale fede. La sua fede non era solo «dire», ma «dire e fare». Abramo fece opere di misericordia perché credeva che Dio è uno, così Dio diede la sua approvazione alla vita di Abramo e lo dichiarò giusto. La verifica della realtà della fede di Abramo forma il punto nel quale il verdetto di Dio divenne chiaro, perché quando Abramo comin­cia a offrire Isacco, Dio ratifica l'alleanza, risparmiando la vita del ragazzo. L'«offerta» termina con la «legatura», perché Abramo era veramente giusto e obbe­diente in tutte le sue relazioni con Dio.

Raab è una figura biblica molto cara al giudaismo. Giacomo non si diffonde molto. La fede è presupposta in lei. Le opere da lei compiute sono quel­ le dell'ospitalità con protezione e liberazione degli esploratori (cfr. Gs 2,1.15 e 6,17). Diversi autori hanno tentato di precisare perché Giacomo porta come esempi di fede animata dalle opere Abramo e Raab. Ad esempio: due come i due testimoni richiesti per risolvere una controversia (cfr. Dt 17,6); Abramo è esem­pio proposto ai giudei, Raab modello per i pagani. È certo che Raab è presen­te nella tradizione giudeo-cristiana: Mt 1,5 la nomina fra le quattro donne della genealogia del Messia, Eb 11,31 ne esalta la fede e 1Clemente 12,1.7-8 dice che fu salvata per la fede e l'ospitalità. Da notare che Clemente di Roma cita anche. Abramo e che con Giacomo ha in comune il richiamo alla fede e all'ospitalità. Con tutta probabilità però i due scritti sono indipendenti.


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Indirizzo e saluto: autore e destinatari 1Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono nella diaspora, salute.

Esortazione alla gioia nelle prove 2Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, 3sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. 4E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla. 5Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti con semplicità e senza condizioni, e gli sarà data. 6La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare, mossa e agitata dal vento. 7Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore: 8è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni. 9Il fratello di umili condizioni sia fiero di essere innalzato, 10il ricco, invece, di essere abbassato, perché come fiore d’erba passerà. 11Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l’erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco nelle sue imprese appassirà. 12Beato l’uomo che resiste alla tentazione perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promesso a quelli che lo amano.

La tentazione e la sua origine 13Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. 14Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; 15poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte. 16Non ingannatevi, fratelli miei carissimi; 17ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. 18Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature.

Non solo ascoltare, ma mettere in pratica la Parola 19Lo sapete, fratelli miei carissimi: ognuno sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira. 20Infatti l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio. 21Perciò liberatevi da ogni impurità e da ogni eccesso di malizia, accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. 22Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; 23perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: 24appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. 25Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla. 26Se qualcuno ritiene di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana. 27Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.

Approfondimenti

(cf LETTERA DI GIACOMO – nuova versione, introduzione e commento di GIOVANNI CLAUDIO BOTTINI © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2014)

Indirizzo e saluto: autore e destinatari Nella tradizione ha avuto molto seguito l'opinione che identifica l'autore del­la lettera con Giacomo il minore, figlio di Alfeo e apostolo (cfr. Mt 10,3; At 1,13). Questi è stato identificato con Giacomo «fratello del Signore» (cf. Gal 1,18-19; 2,9; At 12,17; 15,13-21) e primo vescovo di Gerusalemme. È l'identificazione raccolta dalla tradizione liturgica della Chiesa. A lui è attribuita la lettera che porta l'intestazione «di Giacomo». Tuttavia l'opinione abbastanza diffusa fra i moderni è che «Giacomo» sia uno pseudonimo. Il vero autore si serve di questo nome autorevole per facilitare l'accoglienza al suo messaggio. Questo modo di procedere era normale nell'an­tichità. Non tocca affatto la «canonicità» dello scritto che i Padri e i dottori del­ la Chiesa hanno accolto e venerato. L'argomento più convincente per la pseudonimia è che non vi è concordan­za tra ciò che sappiamo di Giacomo dalle tradizioni fuori dalla lettera e ciò che l'autore di questa dice presentandosi come Giacomo. Tale discordanza riguarda infatti un punto nodale dello scritto. La discussione tra Paolo e la tradizione giu­daica rappresentata da Giacomo aveva per oggetto il rapporto tra fede e osservan­za delle norme rituali della legge di Mosè. L'autore della lettera invece sembra ignorare questa controversia e in Gc 2,14-26 dibatte il problema della fede e del­le opere e il loro rapporto con la salvezza; ma per «opere» intende le opere di ca­rità verso il prossimo come risulta da Gc 2,14-17. Chi ha scritto la lettera conosceva forse la Lettera ai Romani, perché il tenore dell'affermazione di Gc 2,24 (letteralmente: «Vedete che l'uomo è giustificato da opere e non soltanto da fede») sembra contrapporsi a Rm 3,28, dove Paolo dice: «Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede senza opere di legge». Questo elemento è importante per la datazione della Lettera di Giacomo, perché in­dica che essa non può essere anteriore alla stesura della Lettera ai Romani, posta intorno al 58. Di chi è allora la lettera? Dallo scritto in sé si ricava poco. Probabilmente, era un uomo do­tato della «grazia spirituale» del maestro, senza tuttavia averne la funzione. Dallo scritto risulta anche che era un uomo preoccupato delle tensioni esistenti tra i fede­li di diverse condizioni sociali e all'interno della comunità per motivi di fede.

I destinatari dello scritto sono: tutti i credenti in Cristo, senza distinzioni, tutta la Chiesa e non solo una parte. L'aspetto più rimarcato della situazione in cui si tro­vano i destinatari è quello delle tensioni all'interno della comunità, e alcune giun­gono fino a lotte drammatiche per motivi economici. Risalta anche che all'interno della comunità c'è conflitto, forse per discussioni dottrina­li, a causa di presunti maestri (Gc 3); costoro in realtà sono solo persone che abu­sano della lingua per creare disordine e sconvolgere la vita della comunità.

Esortazione alla gioia nelle prove L'invito alla gioia piena qui rivolto corrisponde a un diffuso sentimento dell'esperienza cristiana delle origini (At 13,52; Rm 14,17; 15,13; 2Cor 1,15; 2,3; Gal 5,22; Fil 1,4; Col 1,1; 1Pt 1,8; 1Gv 1,4; 2Gv 12). Una gioia spesso compati­bile con le tribolazioni e la sofferenza (Gv 16,20-22; 2Cor 7,4; 1Ts 1,6; Eb 10,34). L'espressione «miei fratelli» mostra che l'autore si colloca allo stesso livello dei suoi ascoltatori o lettori, è in continuità con la terminologia religiosa giudaica che il cristianesimo ha fatto propria. Si tratta del senso me­taforico di «fratello» inteso come correligionario, vale a dire fratello di fede in Dio e in Cristo (cfr. Gc 1,1; 2,1). Giacomo usa il termine anche come semplice equivalente di «prossimo».

La perfezione è un'idea che sta particolarmente a cuore alla Lettera di Giacomo. L'uomo perfetto (3,2c) è colui che sa controllare la sua lingua e tutta la sua persona (3,2b.d), il quale è il sapiente che può mostrare con una buona con­ dotta (3,13ab) che la sua sapienza è dall'alto (3,17a); 1,4 va interpretato in questa luce. L'idea immediata è che se la co­stanza «conduce a perfezione» la sua opera, coloro che la possiedono saranno «perfetti», cioè raggiungono il fine, e sono «integri», cioè han­no tutto ciò che costituisce la perfezione. Il terzo attributo «senza mancare di nul­la» ripete il concetto in forma negativa.

Il tema della sapienza è un'idea di fondo di tutta la lettera che in 3,13-18 ne fa una singolare descrizione. Giacomo, che in questo brano la mette in relazio­ne con la perfezione, dice esplicitamente che la sapienza è dono di Dio e in 3,17-18 la chiama «dono dall'alto» e ne descrive i frutti (analoghi a quelli dello Spirito, cfr. Gal 5,22). Quindi non si tratta certamente di abilità umana né di sapienza intellettuale, frutti dell'esperienza, della ragione e dello sforzo umano, ma di una grazia divina, secondo la nostra terminologia teologica. La sapienza è qualificata come dono divino e la si vede in stretta relazione con il comportamento dell'uomo.

Non basta chiedere, ma bisogna chiedere con fede. Anche in 5,15 la fede sarà associata alla preghiera sul malato. Qui il sen­so è spiegato dalla negazione successiva «senza dubitare». Si tratta quindi di una fede fiduciale senza esitazioni. L'uomo diviso interiormente, che esita e dubita, crede di poter ricevere da Dio ciò che gli chiede, ma il suo animo è esitante, il suo spirito è diviso perché dubita della utilità della sua stessa richiesta. Vengono così delineate due personalità in contrapposizione: l'uomo credente che prega Dio per ottenere la sapienza con tutto il suo spi­rito senza le esitazioni e colui che è debole di fede, i cui dubbi compromettono la qualità della sua preghiera. Il dubbioso o l'indeciso che oscilla tra fiducia e sfiducia, tra mondo e Dio (cfr. Gc 4,4.8) ha due anime! Ha il cuore doppio, il contrario dell'ideale religioso anticotestamentario e tardogiu­daico che vuole integrità e totalità nella dedizione a Dio (cfr. Sal 101,2; Sir 1,25). L'uomo che esita si comporta nella vita come nella fede: la sua anima divisa tra sentimenti contrastanti è sballottata dagli avvenimenti della sua esistenza come l'onda del mare portata dal vento che «mai non [si] arresta».

A restare nella gioia non è invitato solo il fratello povero elevato, ma anche il fratello «ricco» quando viene a trovarsi «nella sua umiliazione». Gia­como proclama senza equivoci la predilezione divina per i poveri (cfr. 2,5), ma risulta anche che fra i suoi lettori/ascoltatori si trovavano ricchi e benestanti (cfr. 2,2-4 e soprattutto 4,13-17). Coerentemente con il significato di elevazione sociale/ma­teriale del povero, anche qui l'umiliazione nella quale il ricco deve rallegrarsi, va intesa nello stesso senso: è la prova nella quale viene a trovarsi, la perdita della ricchezza o della posizione. Non vi sono indizi nella lettera per determinare le cause di tale abbassamento/umiliazione. Il ricco «umiliato» non so­lo non deve ramamricarsi, ma addirittura esultare. Il fratello ricco, che viene a trovarsi nella prova dell'umiliazione, deve esultare anzitutto perché le prove, sopportate con pazienza, rendono «perfetti e integri» (1,4) e poi perché il ricco «passerà come fiore d'er­ba» (1,10b). Il senso della frase, rafforzato da quelle successive, sta nell'afferma­re che la sorte del ricco, di ogni ricco, è segnata dalla sicura perdita delle ricchez­ze per la transitorietà dell'umana condizione.

Al v. 12 il termine “uomo” va inteso come “persona umana” in senso inclusivo (uomo/donna). Si può intendere «beato» anche nel significato di «benedetto» in quanto si trova nella giusta relazione con Dio. L'affermazione «sopporta la tentazione» può essere spiegata nel senso di «essere paziente sotto qualcosa» o «resistere / tenere duro di fronte a qualcuno o qualcosa» e anche «attendere con pazienza». Dal confronto dei testi della Lettera di Giacomo, della 1Pietro e della Lettera ai Romani, letti in sinossi, si ricava che il senso delle prove è quasi identico per i tre autori; ma la funzione a loro attribuita è diversa: Giacomo resta nella tradi­zione sapienziale, che era giunta a comprendere le prove come espressione della «pedagogia divina». La parenesi di 1Pietro non specifica la funzione delle pro­ve, ma fa rilevare che è grazia soffrire per la fede (1Pt 2,20; 3,17; 5,12). Paolo in­ vece, che sostituisce inserisce il tema nella sua teologia: la grazia divina fa crescere la fede e la speranza sotto la pressione delle prove, e il tutto è visto nella prospettiva tipicamente paolina della teologia della croce.

La tentazione e la sua origine In Gc 1,13-15 si ha un quadro simbolico sull'origine della tentazione con termini figurati molto espres­sivi, in antitesi alla parenesi di 1,2-4.12. Gli effetti nefasti della tentazione (pecca­to e morte), causata dalla concupiscenza che seduce e assoggetta l'uomo, fanno da contrasto con gli effetti positivi delle tentazioni o prove superate con l'aiuto della sapienza invocata con fede (perfezione morale, vita eterna). Questo messaggio teo­logico-parenetico di Giacomo si inscrive nella tradizione sapienziale, dove si ripe­te chiaramente che il peccato conduce alla rovina e alla morte (Sal 1; Pro 19,5-9; Sap 1,11) e la pratica della virtù porta alla vita (Sap 5,15-16). Il brano di Gc 1,16-18 si apre con uno stile solenne, quasi lirico, che nella sua prima parte (v. 17) espone la visione positiva che bisogna avere di Dio e nella seconda (v. 18) parla del processo vitale nel quale i cristiani sono stati generati da lui me­diante la parola di verità. Al pericolo di vedere in Dio l'origine della tentazione Giacomo contrappone questo rimedio: ricordare che Dio, il Padre della luce, non tenta nessuno al male, perché ci ha creato (o generato) con una parola di verità per primeggiare nel bene. Coerente con la sua esortazione a correggere il fratello che si allontana dal­ la verità (cfr. 5,19-20), Giacomo rettifica l'eventuale errore di attribuire a Dio l'origine della tentazione al male e sottolinea fortemente la natura essenzialmen­te buona di Dio. Facendo questo e coinvolgendosi nel «noi» dei destinatari pro­clama che Dio ha generato i credenti a una forma di vita che li costituisce «pri­mizia» e anticipo di un piano di salvezza che coinvolgerà tutta la creazione.

Non solo ascoltare, ma mettere in pratica la Parola Il discorso sulla generazione da Dio con «la parola di verità», che sembra­va concludere il monito sulla tentazione, ricordando che siamo stati creati da Dio per il bene, in realtà era solo la premessa teologica per l'esortazione pressante che segue. Nei vv. 19-25 Giacomo invita i destinatari ad accogliere e a eseguire quella stessa parola per conseguire la beatitudine riservata a chi si attiene con fedeltà alle nor­me delle legge che essa proclama. Questa è detta «perfetta», perché è da Dio ed è definita «della libertà», perché non riduce in schiavitù l'uomo, ma lo eleva alla perfezione se si attiene ad essa in modo fedele. Non basta ascoltare, né ci si può fermare all'accoglienza, bisogna diventare «esecutore della parola». Questo in sintesi il senso dell'esortazione che Giacomo enuncia prima in forma di­retta e che poi sviluppa attraverso la similitudine dell'uomo che si guarda allo specchio. Ciò che nella metafora è lo specchio, nell'applicazione alla vita morale è la «legge perfetta della libertà», una delle espressioni più celebri dello scritto di Giacomo. La legge è perfetta, in quanto è la piena e definitiva espressione della vo­lontà di Dio, la cui attuazione conduce alla meta salvifica, al “fine”, in forza anche della sua efficacia connessa con la promessa di Dio. Si tratta infatti di quella leg­ge che è una «parola impiantata» per la salvezza dell'anima dei credenti (1,21), e per mezzo della quale, come «parola di verità», è avvenuta la rigenerazione gra­zie all'iniziativa del Padre (1,18).

Il v. 26, parlando della presunzione di chi si crede religioso senza frenare la lingua, richiama l'illusione di co­lui che ascolta senza attuare la parola (vv. 19.22). Giacomo inizia col prospettare il caso di una presunta religiosità, smentita dal fatto che chi presume di averla, in realtà non frena la propria lingua. Il tema del freno della lingua era corrente sia nella tradizione sapienziale biblico-giudaica sia in quella filosofica ellenistica, e a Giacomo sta particolarmente a cuore.

L'autore in 1,19-27 presenta un messaggio essenzialmente pratico. Egli invita i fratelli a essere pronti ad ascoltare la parola di Dio e lenti a prendere la pa­rola; di essere lenti all'ira, cioè di frenarla, perché tale sentimento impedisce di compiere ciò che è giusto davanti a Dio. Poi trae la conseguenza da queste racco­mandazioni esortando a liberarsi da ogni impurità e malizia e ad accogliere con do­cilità la parola capace di salvare la loro anima.


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Orientamenti concreti per la vita cristiana 1L’amore fraterno resti saldo. 2Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli. 3Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, perché anche voi avete un corpo. 4Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia. I fornicatori e gli adùlteri saranno giudicati da Dio. 5La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò. 6Così possiamo dire con fiducia: Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura. Che cosa può farmi l’uomo?

Indicazioni per un'autentica comunità cristiana fedele e obbediente 7Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito finale della loro vita, imitatene la fede. 8Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre! 9Non lasciatevi sviare da dottrine varie ed estranee, perché è bene che il cuore venga sostenuto dalla grazia e non da cibi che non hanno mai recato giovamento a coloro che ne fanno uso. 10Noi abbiamo un altare le cui offerte non possono essere mangiate da quelli che prestano servizio nel tempio. 11Infatti i corpi degli animali, il cui sangue viene portato nel santuario dal sommo sacerdote per l’espiazione, vengono bruciati fuori dell’accampamento. 12Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, subì la passione fuori della porta della città. 13Usciamo dunque verso di lui fuori dell’accampamento, portando il suo disonore: 14non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura. 15Per mezzo di lui dunque offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome. 16Non dimenticatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perché di tali sacrifici il Signore si compiace. 17Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi e devono renderne conto, affinché lo facciano con gioia e non lamentandosi. Ciò non sarebbe di vantaggio per voi. 18Pregate per noi; crediamo infatti di avere una buona coscienza, desiderando di comportarci bene in tutto. 19Con maggiore insistenza poi vi esorto a farlo, perché io vi sia restituito al più presto.

Augurio finale e inno di lode 20Il Dio della pace, che ha ricondotto dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un’alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, 21vi renda perfetti in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà, operando in voi ciò che a lui è gradito per mezzo di Gesù Cristo, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Biglietto di accompagnamento 22Vi esorto, fratelli, accogliete questa parola di esortazione; proprio per questo vi ho scritto brevemente. 23Sappiate che il nostro fratello Timòteo è stato rilasciato; se arriva abbastanza presto, vi vedrò insieme a lui. 24Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi salutano quelli dell’Italia. 25La grazia sia con tutti voi.

Approfondimenti

(cf LETTERA AGLI EBREI – Introduzione, traduzione e commento a cura di Filippo Urso © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

Orientamenti concreti per la vita cristiana Il culto cristiano non è autentico ed effettivo senza un agire cristiano nella carità. Ciò verrà affermato esplicitamente più avanti al v. 16. Il primo invito del predicatore ai membri della comunità è quello di rimanere saldi nell'amore fraterno (cf. Rm 12,10; 1Ts4,9; 1Pt 1,22; 2,17). In questo modo essi potranno dare prova di amare Dio (cf. 1Gv 4,20) e di rendergli un vero culto (cf. Eb 13,16). I credenti sono chiamati ad amare anche ad extra, ad accogliere chi viene da fuori, sviluppando sempre più la potenza dell'amore e la comunione della fratellanza (cf. Rm 12,13). Considerando l'esempio di Cristo, i cristiani si faranno solidali con i carcerati, «co- me» se condividessero la loro stessa condizione, e si ricorderanno di coloro che sono maltrattati per esercitare la compassione e immaginare nel proprio corpo quello che essi soffrono, così da essere con loro in empatia. La seconda indicazione del predicatore riguarda la fedeltà matrimoniale e la castità. Le successive due raccomandazioni fanno riferimento alla «condotta» dei cristiani. Il predicatore mette in guardia dalla bramosia di denaro dapprima in negativo, invitando a non essere avidi di denaro, e poi in positivo, esortando ad accontentarsi di ciò che si ha. Le raccomandazioni sono fondate sulla promessa più volte ricorrente nell'Antico Testamento (cf. Gen 28,15; Dt 4,31; 31,6.8; Gs 1,5) – che Dio non abbandonerà mai l'uomo che spera in lui.

Indicazioni per un'autentica comunità cristiana fedele e obbediente Il predicatore, preoccupandosi di tenere uniti i suoi uditori nella fede e nella disciplina, li invita (v. 7) a ricordarsi di coloro che, mediante l'annuncio della parola di Dio, fondarono le loro comunità e le guidarono con l'autorevolezza della loro vita di fede. I cristiani di Ebrei, sull'esempio dei loro capi e degli antichi padri (cf. Eb 11), vengono quindi esortati a mantenere ferma la loro confessione di fede in Dio (cf. 4,14), saldi in Cristo, il quale rimane immutabile per sempre (v. 8). Avendo quindi in lui il fondamento sicuro e definitivo della loro fede, non devono farsi portare fuori strada da dottrine varie e stravaganti basate su prescrizioni alimentari (v. 9) di cibi e bevande varie appartenenti al vecchio regime della Legge (cf. 9,10). L'autore, stabilendo un'antitesi tra i sostantivi «grazia» e «cibi», fa comprendere che le osservanze alimentari del culto antico non giovano alla vita spirituale, per la quale, invece, è efficace l'azione della grazia di Dio comunicata da Cristo che fortifica il cuore del credente. Continuando a usare il linguaggio del culto e argomentando per analogia, il predicatore afferma che la morte di Cristo è il vero sacrificio espiatorio che libera gli uomini dal peccato e dona loro la salvezza eterna (cf. Eb 5,9). Gesù ha preceduto i credenti come «precursore» (6,20) sulla «via nuova e vivente» da lui inaugurata (10,20); omessi, per amore del nome di Cristo, devono andare «verso di lui, fuori dell'accampamento» (v. 13), non restando chiusi nel mondo giudaico o pagano, ma liberandosi dalle prescrizioni della legge mosaica e dalle sicurezze delle loro posizioni sociali, affrontando tutto il disprezzo e le persecuzioni della società in cui vivono. I cristiani sono chiamati a offrire, per la mediazione di Gesù (v. 15), un sacrificio di lode a Dio e di servizio ai fratelli. È il sacrificio di lode e ringraziamento che offrono in comunione tra loro (cf. «offriamo», al plurale) a Dio nei fratelli e nei fratelli a Dio, per mezzo dell'unica mediazione di Cristo sommo sacerdote (cf. 2, 17). È un sacrificio di lode «frutto di labbra che confessano il suo nome» (cf. Os 14,3) che si eleva a Dio continuamente e in ogni circostanza (cf. Ef 5,20; 1Ts 5,18), cioè nel contesto della celebrazione eucaristica, ma anche della vita quotidiana con la beneficenza e la condivisione di beni verso i più bisognosi. In questi «sacrifici» (v. 16) di amore a Dio e ai fratelli consiste il vero culto cristiano nel quale il Signore «si compiace» (cf. Sir 35,2). Concludendo la sua esortazione, il predicatore si rivolge ai membri della comunità e con due imperativi (v. 17) chiede loro l'obbedienza e la docilità ai capi attuali. Essi sono affidabili, in quanto fedeli agli insegnamenti ricevuti dai responsabili che li hanno preceduti (cf. v. 7). Osservando la loro parola la comunità sarà stabile e perseverante nella professione di fede e nell'amore fraterno. Le guide nel loro ministero vegliano sulle persone loro affidate, privandosi anche del sonno per il bene delle loro anime. Di questa responsabilità pastorale così grave i capi dovranno rendere conto a Dio (cf. Le 16,2) al momento del giudizio finale. Rivolgendosi ai suoi uditori con un ultimo imperativo, il predicatore chiede di pregare (v. 18; cf. Rm 15,30-32; Ef 6,18-20) per sé e per gli altri predicatori che passavano tra le varie comunità al fine di rafforzarne la fede.

Augurio finale e inno di lode Con una formula liturgica di lode a Gesù Cristo, il predicatore riassume l'intera dottrina del suo discorso e ne ricorda le esortazioni, per poi terminare con una dossologia. L'alleanza che era stata promessa (Ger 38,31- 34 LXX [TM 31 ,31-34]; Ez 37,26) ora è divenuta realtà salvifica piena e definitiva in virtù del sangue di Cristo, che per sempre ha aperto la via verso Dio e ha stabilito la vera comunione con lui entrando nel «santuario» (9,12) vero nei cieli, per mezzo della «tenda più grande e più perfetta» (9,11) del suo corpo risorto e glorificato. La morte sacrificale, con cui Cristo ha inaugurato la nuova ed eterna alleanza annunziata dai profeti, è la causa per la quale Dio lo ha fatto risalire dai morti e lo ha reso mediatore di una comunione perfetta con lui e tra gli uomini. Dopo aver ricordato l'opera salvifica, il predicatore augura a sé e ai suoi uditori che Dio li renda adatti a ogni bene, perché possano compiere la sua volontà. Il predicatore conclude l'augurio con un'acclamazione: la formula dossologica, «al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen», può essere riferita sia a Cristo, il nome più vicino, sia a Dio, come sembra più esatto grammaticalmente, riprendendo attraverso il relativo il soggetto principale. Qui, come nel prologo (1,1-4), si rivela la prospettiva teologale dell'intero discorso, che vede Dio all'origine della storia della salvezza e Gesù come l'unico mediatore.

Biglietto di accompagnamento L'autore di questo biglietto fa un appello accorato e fraterno ai «fratelli», perché diano una buona accoglienza allo scritto e si dispongano con pazienza a un ascolto attento: perché gli argomenti contenuti sono molti e le dottrine esposte necessitano di un sforzo di comprensione (cf. 5,11). Si tratta, infatti, di esortazioni che invitano i credenti a rimanere saldi negli insegnamenti ricevuti sulla loro confessione di fede (cf. 4, 14) e professione della speranza (cf. 10, 23). Tuttavia, con una formula retorica («in fondo, vi ho scritto poche cose», v. 22) cerca di giustificare l'imbarazzo di fronte alla lunghezza di uno scritto, nel quale non ha poi potuto dire tutto (cf. 9,5 e 11,32), e li invita ad accoglierlo, rassicurandoli che ha fatto di tutto per essere breve.

Il saluto-finale è rivolto all'intera la comunità, costituita sia dai «capi» (cf. 13,7.17) sia da tutti gli altri cristiani, comunemente chiamati «i santi».L'autore del biglietto augura che «la grazia» di Dio sia con tutti i cristiani destinatari dello scritto. È l'augurio che Dio, magnanimo e benevolo, resti sempre in loro e con loro, per proteggerli e assisterli.


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Perseverare nella fede imitando la pazienza di Gesù 1Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, 2tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. 3Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo.

La sofferenza come «correzione» divina per partecipare della santità di Dio 4Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato 5e avete già dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli: Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; 6perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio. 7È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? 8Se invece non subite correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete illegittimi, non figli! 9Del resto noi abbiamo avuto come educatori i nostri padri terreni e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre celeste, per avere la vita? 10Costoro infatti ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità. 11Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. 12Perciò, rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche 13e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire.

Perseguire la santificazione 14Cercate la pace con tutti e la santificazione, senza la quale nessuno vedrà mai il Signore; 15vigilate perché nessuno si privi della grazia di Dio. Non spunti né cresca in mezzo a voi alcuna radice velenosa, che provochi danni e molti ne siano contagiati. 16Non vi sia nessun fornicatore, o profanatore, come Esaù che, in cambio di una sola pietanza, vendette la sua primogenitura. 17E voi ben sapete che in seguito, quando volle ereditare la benedizione, fu respinto: non trovò, infatti, spazio per un cambiamento, sebbene glielo richiedesse con lacrime. 18Voi infatti non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, 19né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola. 20Non potevano infatti sopportare quest’ordine: Se anche una bestia toccherà il monte, sarà lapidata. 21Lo spettacolo, in realtà, era così terrificante che Mosè disse: Ho paura e tremo. 22Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa 23e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, 24a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele. 25Perciò guardatevi bene dal rifiutare Colui che parla, perché, se quelli non trovarono scampo per aver rifiutato colui che proferiva oracoli sulla terra, a maggior ragione non troveremo scampo noi, se volteremo le spalle a Colui che parla dai cieli. 26La sua voce un giorno scosse la terra; adesso invece ha fatto questa promessa: Ancora una volta io scuoterò non solo la terra, ma anche il cielo. 27Quando dice ancora una volta, vuole indicare che le cose scosse, in quanto create, sono destinate a passare, mentre rimarranno intatte quelle che non subiscono scosse. 28Perciò noi, che possediamo un regno incrollabile, conserviamo questa grazia, mediante la quale rendiamo culto in maniera gradita a Dio con riverenza e timore; 29perché il nostro Dio è un fuoco divorante.

Approfondimenti

(cf LETTERA AGLI EBREI – Introduzione, traduzione e commento a cura di Filippo Urso © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

Perseverare nella fede imitando la pazienza di Gesù Il predicatore, dopo aver celebrato la memoria dei giusti dell'antichità, esorta i suoi uditori (si noti l'enfasi data dall'iniziale «anche noi», in contrasto con «eppure, tutti costoro» di 11,39) a correre con perseveranza nella vita cristiana, offrendo come esempio da imitare Gesù, il quale si è assiso alla destra di Dio dopo aver sopportato la croce. Egli insiste sulla necessità della pazienza al fine di non scoraggiarsi. I cristiani sono esortati a contemplare Gesù, «l'autore e perfezionatore della fede», nel senso che egli è colui che dà origine alla loro fede e la porta a compimento. Gesù non è un semplice credente, venuto a prendere posto nella lunga fila degli eroi della fede dell'Antico Testamento: egli è stato l'iniziatore della fede, perché la comunicò con la sua parola, la suscitò e la impresse nei cuori dei credenti, comunicando la capacità d'imitare la sua sopportazione. L'uso del nome umano di Gesù rivolge l'attenzione degli uditori alla sua persona storica di carne e sangue (non a un eroe mitico) che ha sostenuto l'evento doloroso, umiliante e vergognoso della croce. In Gesù, quindi, non ci fu l'esercizio della fede, di cui invece egli è l'autore e il perfezionatore nei credenti. Gesù ha rinunziato alla gioia e si è sottoposto alla croce, rimanendo in perfetta comunione con il Padre (cf. 5,8), i cristiani sono chiamati ad accogliere la via della sofferenza, per acquistare per mezzo di essa la vera gioia, essere uniti a Dio e partecipare alla sua santità.

La sofferenza come «correzione» divina per partecipare della santità di Dio Quello dei cristiani è un combattimento spirituale contro il peccato e deve arrivare fino al dono della vita («fino al sangue»: v. 4), come già è avvenuto per Gesù (cf. 12,2). Provati nella sofferenza e bisognosi di consolazione, essi sono tentati di distogliere la loro attenzione da tutto ciò che può confortarli, e di rinchiudersi nella loro pena, proclamando con amarezza l'assurdità della sofferenza e non dando accoglienza alla speranza. Esiste una consolazione (v. 5) che non devono dimenticare. Invece, i membri della comunità sembrano aver dimenticato – e continuano a non curarsi- della parola di consolazione di Dio a causa della prova e dello scoraggiamento. La parola di Dio non ravviva la sofferenza, ma le dà un senso e la rende meno pesante da portare. Con la sofferenza l'uomo acquista la maturità e al tempo stesso è posto in relazione con Dio per una fedele e obbediente figliolanza. Si tratta di non disprezzare la disciplina del Signore e non rigettarla, diventando duri e cinici; si deve, invece, essere aperti all'azione divina per riconoscere dietro le prove e le tribolazioni Dio che fa crescere il credente e ne purifica le fede. Dinanzi all'oppressione della sofferenza, una tristezza deprimente invade l'anima e la paralizza; il pensiero della sofferenza ingiusta provoca lo scoraggiamento prima ancora della rivolta. Per questo il predicatore aggiunge: «non ti scoraggiare quando sei ripreso da Lui» (v. 5). Dinanzi alla sofferenza i cristiani di Ebrei dovranno piuttosto riconoscere nella prova una correzione salutare e un interesse affettuoso di Dio in vista della maturità dei suoi figli. Stabilendo una relazione tra il tema della correzione e quello della sopportazione delle prove già precedentemente incontrato (vv. 1-3), il predicatore spiega che le prove che essi stanno sostenendo sono ordinate alla loro formazione morale e spirituale secondo il progetto educativo di Dio. La ragion d'essere della formazione dolorosa da parte di Dio sta nel fatto che il cristiano è figlio di Dio; Dio si comporta con il credente come un Padre; per questo la disciplina si rivela come un distintivo di appartenenza. Quindi, invece di provocare inquietudine e scoraggiamento, la prova deve ravvivare la coscienza della relazione filiale con Dio e della sua patema premura: è il segno della chiamata a essere suoi figli e il mezzo mediante il quale Dio forma e conserva – fino alla perfezione – i cristiani a una fedele e obbediente figliolanza, proprio come Gesù che, Figlio e non bisognoso di correzione, divenne perfetto scegliendo comunque di imparare l'obbedienza dalla sofferenza. Gesù soffrì per solidarietà con gli uomini e non per necessità personale; invece, i cristiani non possono essere figli senza passare per le prove (cf. Rm 8,17; 2Cor 4,1O; Fil 3,10; 1Pt 4,13). Devono crescere nella confidenza e fierezza d'essere cristiani, dal momento che attraverso le prove e le tribolazioni Dio attesta loro che sono figli. Il predicatore stabilisce la necessaria connessione tra figliolanza e correzione e che la ragione della correzione è conveniente, cioè conforme alla formazione impartita dai genitori verso i figli: «Qual è infatti il figlio che il padre non corregge?». La risposta sottintesa è che nessun figlio è esente dalla correzione. La correzione è quindi attestazione di figliolanza e la novità sta nel fatto che viene da Dio, che è Padre. L'educazione divina non avviene secondo l'opinione umana, ma sulla reale utilità dei credenti, perché Dio legge nel cuore degli uomini e conosce infallibilmente ciò che è più utile e vantaggioso, affinché siano partecipi della sua santità. A conclusione di Eb 12,4-11 sul valore educativo della sofferenza nei cristiani, i l predicatore riprende liberamente Is 35,3 per riaffermare il tema della forza d'animo nelle tribolazioni e della fermezza nella sopportazione delle prove: «Perciò rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia vacillanti» (v. 12).

Perseguire la santificazione La santificazione non riguarda le separazioni rituali dell'Antico Testamento, ma consiste nell'accogliere l'opera di Cristo, che mediante il suo sacrificio (cf. 9,14), ha santificato i credenti e li ha introdotti nella via nuova e vivente che li conduce nel santuario dei cieli (cf. 9,24). Il predicatore, affinché i suoi uditori conseguano la santificazione, li mette in guardia contro tre pericoli, riguardanti tutti l'infedeltà o apostasia. Innanzitutto, è necessario che vigilino (v. 15), affinché nessuno venga meno nella grazia di Dio e di conseguenza venga escluso (cf. 4,1) dal dono della salvezza ricevuto grazie al sacrificio di Gesù (cf. 4,16; 10,29). Perdere quel dono significa commettere una colpa grave, che mette in una situazione di perdizione. Poi, a proposito di coloro che allontanando i loro cuori dal Signore si asservirono a pratiche idolatriche, esorta a stare attenti a ciò che potrebbe causare la separazione da Dio; è necessario che non nasca all'interno della comunità alcuna «radice amara», cioè di apostasia (cf. 10,29). Il terzo invito alla vigilanza è che non ci sia tra i credenti alcun «impudico» (v. 16), come coloro che – secondo il linguaggio dei profeti – si prostituivano agli idoli (cf. Ger 2,20; Ez 16,15-19; Os 1,2): è una messa in guardia contro l'infedeltà. Mediante l'adesione a Cristo nella fede e in virtù del battesimo, i credenti sono entrati in relazione con la Gerusalemme celeste, città dove Dio è la fonte della vita. In questa città celeste essi partecipano all'intensa vita spirituale delle migliaia di angeli in adunanza festosa (cf. Is 35,10) e, grazie alla loro nascita nel battesimo e alloro essere partecipi di Cristo stesso (cf.3,14), condividono gli stessi privilegi della sua primogenitura.

La grazia di Dio ricevuta mediante l'effusione del sangue di Cristo è eccezionale e un dono così grande richiede una responsabilità altrettanto straordinaria (cf. 1Pt 1,18-19). In questo modo l'autore prepara l'esortazione successiva.

Dinanzi a un regno incrollabile, che già ora ricevono nella fede, i cristiani sono esortati al dovere della gratitudine (v. 28; cf. 1Tm 1,12; 2Tm 1,3) mediante la quale possono rendere un culto davvero gradito a Dio. Infine, nella tensione escatologica della loro vita, i cristiani dovranno rapportarsi a Dio con profondo rispetto e timore (cf. Eb 5,7). Dio, infatti, è un fuoco che divora e che giudicherà severamente i ribelli, che peccano volontariamente dopo aver conosciuto la verità (cf. 10,26-27).


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Definizione di fede e gli esempi di Abele, Enoc e Noè 1La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. 2Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio. 3Per fede, noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sicché dall’invisibile ha preso origine il mondo visibile. 4Per fede, Abele offrì a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino e in base ad essa fu dichiarato giusto, avendo Dio attestato di gradire i suoi doni; per essa, benché morto, parla ancora. 5Per fede, Enoc fu portato via, in modo da non vedere la morte; e non lo si trovò più, perché Dio lo aveva portato via. Infatti, prima di essere portato altrove, egli fu dichiarato persona gradita a Dio. 6Senza la fede è impossibile essergli graditi; chi infatti si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano. 7Per fede, Noè, avvertito di cose che ancora non si vedevano, preso da sacro timore, costruì un’arca per la salvezza della sua famiglia; e per questa fede condannò il mondo e ricevette in eredità la giustizia secondo la fede.

La fede di Abramo e dei patriarchi 8Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. 9Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. 10Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso. 11Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. 12Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare. 13Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. 14Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. 15Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; 16ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città. 17Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, 18del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza. 19Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo. 20Per fede, Isacco benedisse Giacobbe ed Esaù anche in vista di beni futuri. 21Per fede, Giacobbe, morente, benedisse ciascuno dei figli di Giuseppe e si prostrò, appoggiandosi sull’estremità del bastone. 22Per fede, Giuseppe, alla fine della vita, si ricordò dell’esodo dei figli d’Israele e diede disposizioni circa le proprie ossa.

La fede di Mosè 23Per fede, Mosè, appena nato, fu tenuto nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perché videro che il bambino era bello; e non ebbero paura dell’editto del re. 24Per fede, Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, 25preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere momentaneamente del peccato. 26Egli stimava ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto l’essere disprezzato per Cristo; aveva infatti lo sguardo fisso sulla ricompensa. 27Per fede, egli lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; infatti rimase saldo, come se vedesse l’invisibile. 28Per fede, egli celebrò la Pasqua e fece l’aspersione del sangue, perché colui che sterminava i primogeniti non toccasse quelli degli Israeliti. 29Per fede, essi passarono il Mar Rosso come fosse terra asciutta. Quando gli Egiziani tentarono di farlo, vi furono inghiottiti. 30Per fede, caddero le mura di Gerico, dopo che ne avevano fatto il giro per sette giorni. 31Per fede, Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto con benevolenza gli esploratori.

Le vittorie e le prove di una fede perseverante 32E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo se volessi narrare di Gedeone, di Barak, di Sansone, di Iefte, di Davide, di Samuele e dei profeti; 33per fede, essi conquistarono regni, esercitarono la giustizia, ottennero ciò che era stato promesso, chiusero le fauci dei leoni, 34spensero la violenza del fuoco, sfuggirono alla lama della spada, trassero vigore dalla loro debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri. 35Alcune donne riebbero, per risurrezione, i loro morti. Altri, poi, furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore risurrezione. 36Altri, infine, subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. 37Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati – 38di loro il mondo non era degno! –, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra. 39Tutti costoro, pur essendo stati approvati a causa della loro fede, non ottennero ciò che era stato loro promesso: 40Dio infatti per noi aveva predisposto qualcosa di meglio, affinché essi non ottenessero la perfezione senza di noi.

Approfondimenti

(cf LETTERA AGLI EBREI – Introduzione, traduzione e commento a cura di Filippo Urso © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

La parola «fede» caratterizza tutta la sezione (ventiquattro occorrenze sulle trentadue totali della lettera), delimitata da un'inclusione tra le parole «fede» (v. 1 e v. 39) e «ricevere testimonianza» (v. 2 e v. 39). A partire da Abele fino al tempo dei Maccabei, attraverso i patriarchi, i giudici e i profeti, il predicatore narra, con tono entusiasta, il valore grande della loro fede provata in svariati modi. Sulla scia di Sir 44-50, che tesse la lode di uomini famosi, o di Sap 1O, che celebra la Sapienza, in questa sezione Eb 11,1-40 ricorre al genere letterario dell'encomio. Offrendo uno splendido affresco di ciò che la fede aveva realizzato in quei credenti, l'autore di Ebrei dà un'immagine positiva dell'Antico Testamento. La parola «Cristo» (11,26) è posta al centro del discorso e costituisce il fondamento del cammino di fede dei credenti, dai patriarchi ai cristiani in crisi a cui si rivolge l'autore. Gesù con la sua morte e risurrezione realizza la parabola profetica di Isacco (v. 19), offre la garanzia di una «migliore risurrezione)) (v. 35) e compie l'attesa dei padri (v. 40).

Definizione di fede e gli esempi di Abele, Enoc e Noè Per esortare i suoi uditori a una fede perseverante e coraggiosa in mezzo alle prime prove e tribolazioni del loro essere cristiani, il predicatore presenta degli esempi di fede eroica di antichi personaggi biblici. Innanzitutto, dà una definizione programmatica di fede, in termini non astratti. Per attestare la necessità della fede – al fine di essere graditi da Dio e ricevere in ultimo la sua ricompensa (cf. v. 6) – il predicatore offre tre esempi di questa virtù in Abele, Enoc e Noè. I tre esempi sono letti alla luce delle tre fasi della mediazione sacerdotale di Cristo: quella ascendente (8,1-9,28), quella centrale (7,1-28) e, infine, quella discendente (10,1-18). Il sacrificio di Abele corrisponde alla fase ascendente, la traslazione di Enoc in cielo alla fase centrale e la vicenda di Noè a quella discendente di conseguimento delle grazie per la salvezza della sua famiglia.

La fede di Abramo e dei patriarchi Abramo è il padre della fede, perché «credette al Signore, che glielo accreditò a giustizia» (Gen 15,6; cf. Rm 4 e Gal 3,6-18). La sua storia si articola in tre momenti: la partenza (vv. 8-10), l'attesa (vv. 11-12) e la prova (vv. 17-19). Coeredi della promessa di Abramo (cf. v. 9) sono anche Isacco e Giacobbe che per fede estesero nei figli la benedizione ricevuta da Dio. Isacco benedisse sia Giacobbe (cf. Gen 27,27-29) che Esaù (Gen 27,39-40) sulle cose sperate e invisibili (cf. 11,1) che avrebbero riguardato il loro futuro posto tutto nelle mani di Dio, causa e origine della salvezza. Per fede Giacobbe, mentre stava morendo, benedisse Efraim e Manasse, i figli di Giuseppe (cf. Gen 48,8-20), affinché ereditassero le promesse e, appoggiandosi sull'estremità del suo bastone, si prostrò dinanzi a Dio e lo adorò. Infine, Giuseppe si ricordò che Dio avrebbe guidato il suo popolo fuori dall'Egitto e diede disposizione sulla sepoltura delle proprie ossa, affinché, arrivati nella terra promessa, trasferissero lì le sue spoglie. Come Abramo, Isacco e Giacobbe, anche Giuseppe vide quindi da lontano i beni promessi (v. 13) e morì con il desiderio di entrare nel riposo definitivo di Dio (cf. 4,1).

La fede di Mosè Mediante la figura di Mosè il predicatore mostra in filigrana il mistero di Cristo, il cui nome viene posto al centro in questo capitolo 11. Tutta la vita di Mosè è presentata come permeata dalla fede. Parlando di Mosè, l'autore presenta una persona che intuisce la modalità della salvezza del popolo di Dio che sarebbe stata realizzata dal Messia mediante la condivisione – anche umiliante – della condizione umana. Per leggere la vicenda di Mosè in parallelo con quella di Cristo, l'autore si discosta dal testo dell'Esodo. La scelta di Mosè di fondare la sua vita nella fede, guardando ai beni salvifici definitivi e facendo esperienza di Dio che non è visibile, riprende le affermazioni di 11,1 sulla fede come fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Il predicatore presenta poi l'episodio della caduta di Gerico e della salvezza di Raab, la prostituta, e della sua famiglia. Per fede Giosuè obbedì al comando di Dio di accerchiare le mura di Gerico e marciare intorno a esse per sette giorni. Così «caddero su se stesse le mura della città» (Gs 6,20) e «gli increduli» (v. 31) furono votati allo sterminio (cf. Gs 6,21). Invece, Raab, per la sua fede, fu salva e non morì. Ella aveva creduto in Dio, che aveva fatto uscire Israele dall'Egitto per introdurlo nella terra di Canaan (cf. Gs 2,9-11) e in base a questa fede accolse e nascose gli esploratori che Giosuè aveva inviato per perlustrare Gerico (cf. Gs 6,17.25).

Le vittorie e le prove di una fede perseverante Nella sezione finale del suo discorso il predicatore conclude con la presentazione delle figure dei giudici, dei re, dei profeti e, infine, dei martiri maccabei che soffrirono ogni tipo di tribolazione. La rassegna dei personaggi biblici è rapida e sintetica e procede con un ritmo incalzante, che diventa concitato nella presentazione delle molteplici situazioni drammatiche. Dapprima presenta un quadro di personaggi che nella loro fede furono trionfanti (cf. vv. 32-35a); poi offre una rassegna di credenti che sopportarono sofferenze di vario genere fino al martirio, ma che sono tutti accomunati dalla perseveranza nella professione di fede nell'unico Dio di Israele (cf. vv. 35b-38). Dovendo pervenire alla conclusione, il predicatore, richiama l'attenzione dei suoi uditori (v. 32): ha già fatto una lunga rassegna di credenti – da Abele fino a Mosè – e si è reso conto che non gli basterebbe il tempo per continuare dettagliatamente la presentazione di altri eroi della fede. Nell'entusiasmo nomina – secondo tre coppie di nomi – sei personaggi biblici, non però in ordine cronologico, ma di importanza: Gedeone (Gdc 5-6) e Barak: (Gdc 4-5), Sansone (Gdc 13-16) e Iefte (Gdc 11-12) e, infine, David (1Sam 16,11-1Re 2,10) e Samuele (1Sam 1-16). L'effetto che ne consegue è quello di compendio e accumulo, che giustifica l'impossibilità di continuare ad andare avanti, ma al tempo stesso quello di impressionare l'uditorio. A questo elenco di nomi aggiunge la menzione dei profeti, comprendente i cosiddetti profeti anteriori e posteriori, dal periodo dei Giudici a quello di Daniele. Di tutti questi eroi della fede il mondo – nella sua dimensione di peccato – non era degno. Tuttavia nessuno fra questi testimoni, che sopportarono con coraggio prove e tribolazioni di ogni genere, ottenne la realizzazione della promessa di entrare nel riposo di Dio. Dovevano infatti attendere che Cristo, come «precursore» (Eb 6,20), tracciasse attraverso il suo mistero pasquale il cammino per l'ingresso nella gloria di Dio. Con l'umanità resa perfetta dal suo sacrificio, Cristo è divenuto la «via nuova e vivente» (10,20), che ha dato anche ai credenti dell'Antico Testamento «qualcosa di meglio» (v. 40), cioè la piena libertà di entrare nel «santuario» (10,19) dei cieli. Dio, infatti, aveva predisposto nel suo progetto di salvezza che essi giungessero a tale perfezione «in questi tempi che sono gli ultimi» (1,2), insieme ai cristiani che erano già divenuti partecipi di Cristo (cf. 3, 14) e delle realtà del mondo futuro (cf. 6,5).


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L'inefficacia dei sacrifici antichi 1La Legge infatti, poiché possiede soltanto un’ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose, non ha mai il potere di condurre alla perfezione per mezzo di sacrifici – sempre uguali, che si continuano a offrire di anno in anno – coloro che si accostano a Dio. 2Altrimenti, non si sarebbe forse cessato di offrirli, dal momento che gli offerenti, purificati una volta per tutte, non avrebbero più alcuna coscienza dei peccati? 3Invece in quei sacrifici si rinnova di anno in anno il ricordo dei peccati.

L'offerta del corpo di Cristo per la santificazione dei credenti 4È impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati. 5Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. 6 Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. 7Allora ho detto: «Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà». 8Dopo aver detto: Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose che vengono offerte secondo la Legge, 9soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. 10Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.

I sacrifici ripetitivi dei sommi sacerdoti e l'unico sacrificio di Cristo 11Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. 12Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, 13aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. 14Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.

La nuova alleanza e la fine dei sacrifici antichi 15A noi lo testimonia anche lo Spirito Santo. Infatti, dopo aver detto: 16Questa è l’alleanza che io stipulerò con loro dopo quei giorni, dice il Signore: io porrò le mie leggi nei loro cuori e le imprimerò nella loro mente, dice: 17e non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità. 18Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.

Appello a un generoso impegno di vita di fede, speranza e carità 19Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, 20via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, 21e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, 22accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. 23Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso. 24Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone. 25Non disertiamo le nostre riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma esortiamoci a vicenda, tanto più che vedete avvicinarsi il giorno del Signore.

Ammonimento a non peccare contro il rischio dell'apostasia 26Infatti, se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, 27ma soltanto una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli. 28Quando qualcuno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. 29Di quanto peggiore castigo pensate che sarà giudicato meritevole chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell’alleanza, dal quale è stato santificato, e avrà disprezzato lo Spirito della grazia? 30Conosciamo infatti colui che ha detto: A me la vendetta! Io darò la retribuzione! E ancora: Il Signore giudicherà il suo popolo. 31È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!

Ricordo della fortezza nei patimenti e invito alla fiducia nella ricompensa 32Richiamate alla memoria quei primi giorni: dopo aver ricevuto la luce di Cristo, avete dovuto sopportare una lotta grande e penosa, 33ora esposti pubblicamente a insulti e persecuzioni, ora facendovi solidali con coloro che venivano trattati in questo modo. 34Infatti avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di essere derubati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e duraturi. 35Non abbandonate dunque la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa.

Esortazione alla pazienza e alla costanza nella fede 36Avete solo bisogno di perseveranza, perché, fatta la volontà di Dio, otteniate ciò che vi è stato promesso. 37Ancora un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà. 38Il mio giusto per fede vivrà; ma se cede, non porrò in lui il mio amore. 39Noi però non siamo di quelli che cedono, per la propria rovina, ma uomini di fede per la salvezza della nostra anima.

Approfondimenti

(cf LETTERA AGLI EBREI – Introduzione, traduzione e commento a cura di Filippo Urso © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

L'inefficacia dei sacrifici antichi Il predicatore riprende le critiche nei confronti del culto antico che era risultato inefficace per la purificazione delle coscienze dai peccati (cf. 9, 14). Se per Eb 7,19 la Legge non aveva condotto a perfezione il sacerdozio – incapace di mediazione salvifica a favore dei credenti- qui, invece, risulta inefficace in relazione ai sacrifici, cioè ai mezzi usati per rendere perfetto l'uomo e farlo giungere a Dio. La Legge e le sue prescrizioni liturgiche erano impotenti a stabilire una mediazione, perché non trasformavano la coscienza dell'uomo (cf. 9,9) liberandolo dai peccati per sempre. Ora, invece, in virtù dell'efficacia del sacrificio di Cristo, il credente può vivere nella grazia e, non più dominato dal peccato (cf. Rm 6,14), è libero da esso grazie alla legge dello Spirito (cf. Rm 8,2).

L'offerta del corpo di Cristo per la santificazione dei credenti L'inefficacia della mediazione antica viene stigmatizzata dal predicatore con una frase vigorosa e audace: «È impossibile, in effetti, che il sangue di tori e di capri tolga i peccati» (v. 4). Non poteva essere più chiaro e definitivo. Ponendosi nell'alveo della critica rivolta da diverse tradizioni anticotestamentarie a un culto formale e sterile, il predicatore esprime il disgusto di Dio per i sacrifici animali. Tra i testi più significativi sceglie il Sal 39,7-9 LXX (TM 40,7-9), dove vengono elencati quattro tipi di offerte sacrificati e per ben due volte viene espresso il non gradimento di Dio. È l'unica volta che tale salmo viene applicato a Cristo nel Nuovo Testamento. Non si tratta, tuttavia, di un salmo messianico, perché nel v. 13 si fa allusione a colpe commesse dall'orante. Contro un culto incapace di mediazione il salmo propone l'offerta personale da parte dell'orante, che si dispone con tutto se stesso a compiere la volontà di Dio. In questo tipo di offerta l'autore di Ebrei riconosce la disposizione di Gesù al suo ingresso nel mondo (cf. v. 5) e vi prefigura profeticamente il sacrificio della sua passione e morte. Solo la mediazione efficace del sacrificio del corpo di Gesù Cristo, offerto «una volta per sempre» sul calvario, ha superato il vecchio sistema cultuale antico e ha trasformato l'uomo, santificandolo (v. 1O) dal di dentro. Divenuto perfetto (cf. 5,9), Cristo ha comunicato agli uomini la santificazione e, mentre ne ha eliminato i peccati, li ha trasformati interiormente. Si noti come l'autore parli qui di «Gesù Cristo», considerando insieme l'umanità di Gesù e la sua messianicità, secondo una formula che ricorre nella lettera solo altre due volte: 13,8.21.

I sacrifici ripetitivi dei sommi sacerdoti e l'unico sacrificio di Cristo Continuando a trattare il tema dell'efficacia del sacrificio di Cristo, il predicatore non si riferisce più alla liturgia del Kippur officiata dal sommo sacerdote, ma a quella dei sacrifici quotidiani celebrati da «ogni sacerdote» (v. 11). Dal confronto tra il ministero dei sacerdoti, con i loro molteplici e ripetuti sacrifici, e l'unica offerta del sacrificio di Cristo, egli fa emergere un contrasto molto eloquente. Da una parte ci sono i sacerdoti che stanno in piedi per il servizio liturgico quotidiano con i loro sacrifici inefficaci perché incapaci di rimettere i peccati; dall'altra c'è Cristo che, dopo l'unico e definitivo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, «aspettando d'ora in avanti che i suoi nemici siano posti a sgabello dei suoi piedi» (v. 13; cf. 1,13 e Sal 109,1 [TM 11O,1]). Il suo sacrificio di mediazione è stato efficace sia sul versante umano, per aver tolto i peccati degli uomini, sia su quello teologico, perché grazie alla sua obbedienza ha avuto accesso all'intimità di Dio (cf. Eb 4, 10).

La nuova alleanza e la fine dei sacrifici antichi Con la conclusione della nuova alleanza, in virtù del sacrificio di Cristo avvenuto una volta per sempre, non c'è più offerta per il peccato e quindi viene dichiarata la fine dei sacrifici antichi. Guidato dallo Spirito Santo (cf. 9,14), in obbedienza filiale al Padre e in una carità misericordiosa verso gli uomini, Gesù affrontò la sofferenza e la morte con amore; appresa l'obbedienza dalle cose che patì (cf. 5,8), fu reso perfetto e divenne causa di salvezza per tutti gli uomini (cf. 5,9), inaugurando la nuova alleanza con il suo sangue versato sulla croce (cf. 9,12). Per mezzo delle sofferenze (cf. 2,10) Dio lo ha perfezionato e ha inscritto in modo nuovo le sue leggi nel suo cuore. La profonda trasformazione in Gesù della natura umana ha reso l'uomo capace di vivere la propria esistenza in atteggiamento di ascolto e obbedienza della parola di Dio.

Appello a un generoso impegno di vita di fede, speranza e carità Per descrivere la situazione privilegiata in cui si trovano i cristiani dopo la nuova alleanza, il predicatore ritorna all'immagine già incontrata (cf 9,7.11-12.25) della liturgia del Kippur, quando il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi, e la applica a Cristo, affermando che egli ha inaugurato la via nuova e vivente attraverso il cielo (v. 20). Grazie alla sua mediazione i cristiani si trovano in una situazione privilegiata di accesso al santuario vero dei cieli, cioè a Dio, attraverso una via per accedervi e un sacerdote per guidarli. L'incontro con Dio richiede però una condizione: avere «i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura» (v. 22). Il riferimento qui è al battesimo già ricevuto, il cui effetto è duplice: interiore, per la purificazione del cuore da ogni cattiva coscienza, ed esteriore, mediante il lavacro del corpo con l'acqua. Il battesimo cristiano è presentato come il mezzo per entrare nella nuova alleanza. Continuando nella sua esortazione i l predicatore le dà poi un taglio teologale. La relazione con Dio e con i fratelli è possibile, ma comporta un impegno di vita di fede, speranza e carità. L'esortazione su queste tre virtù riprende quanto già detto nel corso della lettera a proposito dell'avvertimento contro la mancanza di fede (cf. 3,7-4, 14), dell'invito alla fiducia (cf. 4,14-16) e alla speranza (cf. 6,11), del ricordo dell'amore a Dio e al prossimo mediante il servizio (cf. 6,10). Al tempo stesso, annuncia quanto verrà esposto nel resto della lettera a proposito dell'elogio della fede degli antenati (cf. 11,1-40), dell'esortazione alla perseveranza e resistenza nelle prove (cf. 12,1- 13), dell'incoraggiamento a vivere in pace con tutti (cf. 12,14) nell'amore fraterno (cf. 13,1) e nell'unione con Dio mediante la santificazione (cf. 12,14). La constatazione dell'avvicinarsi del giorno è motivo di incoraggiamento e speranza, come pure di monito, per i credenti che attendono la salvezza.

Ammonimento a non peccare contro il rischio dell'apostasia Il predicatore, con grande abilità retorica, parla alla prima persona plurale e coinvolge se stesso nel discorso al fine di addolcirne la portata; procedendo su un piano ipotetico («Se pecchiamo...», v. 26), e senza riferirsi a qualche particolare peccato grave, ma potendoli includere tutti, dissuade i suoi uditori da eventuali defezioni dalla fede e dagli impegni della vita cristiana (cf. 10,39). Infatti, dopo aver ricevuto la piena «conoscenza» della verità, il consapevole indietreggiare nella fede con il peccato dell'apostasia, significa che coloro che peccano si mettono nell'impossibilità di essere perdonati, perché rifiutano il sangue del sacrificio di Cristo. Per la loro ostinazione non c'è più alcun sacrificio di espiazione per i peccati e, quindi, solo l'attesa di un terribile giudizio a causa del loro rifiuto (cf. v. 27).

Ricordo della fortezza nei patimenti e invito alla fiducia nella ricompensa Dopo l'ammonimento contro il peccato viene ora l'esortazione alla generosità. Nonostante le angustie delle afflizioni sopportate, i destinatari della lettera diedero esempio di profonda coesione, essendo «solidali» con coloro che soffrivano allo stesso modo. Per i cristiani la solidarietà con Cristo «pietra vivente scartata dagli uomini ma scelta da Dio e di valore» (lPt 2,4) provoca disprezzo e umiliazioni: c'è il rischio di vergognarsi di lui (cf. Mc 8,38; Le 9,26), di non mantenere salda la professione di fede e di non permanere nella solidarietà con i fratelli nella fede. Per questo è necessario che non abbandonino la loro fiducia, ma che la mantengano salda, perché procura già ora una grande ricompensa: il riposo di Dio (cf. 4,3), il dono celeste della vocazione cristiana (cf. 3,1) e della salvezza, la partecipazione dello Spirito Santo, la bellezza e l'efficacia salvifica della parola di Dio e dei miracoli (cf. 6,4-5).

Esortazione alla pazienza e alla costanza nella fede L'appello qui è a sostenere con pazienza e fortezza le sofferenze del momento presente, rispetto, invece, a quelle del passato di cui si è parlato in 10,32- 34. Al tempo stesso è l'annuncio dei temi della fede e della perseveranza che saranno sviluppati nella quarta parte della lettera (11,1-12,13). Il predicatore, per passare dal tema della perseveranza a quello della fede, ricorre al testo di Ab 2,3-4 sul giusto che attende con fede costante la venuta del Salvatore. Il messaggio che vuole comunicare è che, nonostante le prove e le sofferenze, il cristiano è chiamato a compiere la volontà di Dio rimanendo saldo nella fede in attesa del Cristo glorioso che deve presto venire (v. 37). Vivere in questo modo significa camminare rettamente e nella fede (v. 38) davanti a Dio per la salvezza dell'anima. Diversamente si indietreggia, si viene meno nella fede (v. 39) e Dio non si compiace di un cammino a ritroso di questo tipo. Infine, con un «noi» enfatico, posto a conclusione della sua esortazione, il predicatore riprende il tono di fiducia con cui si era rivolto ai «fratelli» (cf. 10,19) e, includendosi tra loro, rivolge, con una negazione che rafforza la successiva affermazione, decise parole di fedeltà e di sprone per una vita di fede che non deve andare verso la perdizione, ma verso la salvezza dell'anima, perché solo «chi avrà perseverato sino alla fine, questi si salverà» (Mt 10,22).


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I riti inefficaci del culto antico nel santuario terreno 1Certo, anche la prima alleanza aveva norme per il culto e un santuario terreno. 2Fu costruita infatti una tenda, la prima, nella quale vi erano il candelabro, la tavola e i pani dell’offerta; essa veniva chiamata il Santo. 3Dietro il secondo velo, poi, c’era la tenda chiamata Santo dei Santi, con 4l’altare d’oro per i profumi e l’arca dell’alleanza tutta ricoperta d’oro, nella quale si trovavano un’urna d’oro contenente la manna, la verga di Aronne, che era fiorita, e le tavole dell’alleanza. 5E sopra l’arca stavano i cherubini della gloria, che stendevano la loro ombra sul propiziatorio. Di queste cose non è necessario ora parlare nei particolari. 6Disposte in tal modo le cose, nella prima tenda entrano sempre i sacerdoti per celebrare il culto; 7nella seconda invece entra solamente il sommo sacerdote, una volta all’anno, e non senza portarvi del sangue, che egli offre per se stesso e per quanto commesso dal popolo per ignoranza. 8Lo Spirito Santo intendeva così mostrare che non era stata ancora manifestata la via del santuario, finché restava la prima tenda. 9Essa infatti è figura del tempo presente e secondo essa vengono offerti doni e sacrifici che non possono rendere perfetto, nella sua coscienza, colui che offre: 10si tratta soltanto di cibi, di bevande e di varie abluzioni, tutte prescrizioni carnali, valide fino al tempo in cui sarebbero state riformate.

Il sacrificio di Cristo, oblazione efficace e perfetta 11Cristo, invece, è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. 12Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna. 13Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, 14quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?

La nuova alleanza fondata sul sangue di Cristo 15Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa. 16Ora, dove c’è un testamento, è necessario che la morte del testatore sia dichiarata, 17perché un testamento ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive. 18Per questo neanche la prima alleanza fu inaugurata senza sangue. 19Infatti, dopo che tutti i comandamenti furono promulgati a tutto il popolo da Mosè, secondo la Legge, questi, preso il sangue dei vitelli e dei capri con acqua, lana scarlatta e issòpo, asperse il libro stesso e tutto il popolo, 20dicendo: Questo è il sangue dell’alleanza che Dio ha stabilito per voi. 21Alla stessa maniera con il sangue asperse anche la tenda e tutti gli arredi del culto. 22Secondo la Legge, infatti, quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue, e senza spargimento di sangue non esiste perdono. 23Era dunque necessario che le cose raffiguranti le realtà celesti fossero purificate con tali mezzi; ma le stesse realtà celesti, poi, dovevano esserlo con sacrifici superiori a questi.

Il livello celeste del culto di Cristo 24Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. 25E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: 26in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. 27E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, 28così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.

Approfondimenti

(cf LETTERA AGLI EBREI – Introduzione, traduzione e commento a cura di Filippo Urso © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

I riti inefficaci del culto antico nel santuario terreno La «prima» alleanza (cf. 8,7-13), poiché non era capace di perfezionare nella coscienza colui che offriva il sacrificio, si era rivelata imperfetta e bisognosa di essere sostituita. Da un punto di vista funzionale essa aveva tutto ciò che era necessario per essere attuata, e cioè norme di culto e un luogo santo che dovevano permettere l'incontro con Dio. Tuttavia, il culto e il santuario erano confinati a livello solo terreno (v. 1; cf. 8,3-5), livello non certo adeguato per quello che doveva essere il luogo dell'incontro con il Signore delle altezze e in contrasto con la dimensione spirituale e celeste del sacrificio di Cristo. Una volta presentati gli arredi del Santuario, il predicatore inizia a descrivere i riti che avvenivano nella prima tenda e poi nella seconda. Egli insiste quindi sul carattere di separazione tra le due parti del santuario. Concisamente dice che nella prima parte della tenda erano molti i sacerdoti che officiavano; essi entravano continuamente nel tempio e compievano una varietà di riti (alimentare le lampade, offrire l'incenso, rinnovare i pani ecc.). Invece, per il Santo dei Santi, ciò che afferma con precisione è l'unicità del luogo, del celebrante, del tempo liturgico e del rito: l'accesso era riservato solo al sommo sacerdote (cf. Lv 16,17), una sola volta all'anno, nel giorno dell'Espiazione, aspergendo il sangue delle vittime animali sul propiziatorio veniva ristabilita la comunione di vita tra Dio e l'uomo interrotta a causa del peccato. Questo era il rito culmine di tutte le celebrazioni dell'apparato liturgico e sacrificale dell'Antico Testamento. Ma proprio su questo atto di culto il giudizio è negativo. Il predicatore contesta dapprima il valore del santuario (cf. v. 8) e poi quello dei riti (cf. vv. 9-10). La «prima tenda», cioè là prima parte del santuario, doveva essere via per l'incontro con Dio, ma di fatto non conduceva a lui, perché costituiva solo una realtà terrena e immanente che non portava all'«Altissimo» (7,1) che abita nei cieli (cf. 1,3), ma in un altro luogo (il «Santo dei Santi») costruito anch'esso dalle mani dell'uomo (cf. At 7,48). Perciò nella liturgia annuale della purificazione il sommo sacerdote, e quindi anche il popolo, non si avvicinava realmente a Dio, la mediazione non si stabiliva, il sistema di separazioni si rivelava inefficace e si giungeva solo a un vicolo cieco. Questa situazione non doveva durare per sempre: sussistendo le restrizioni del culto antico, lo Spirito Santo non aveva ancora manifestato «la via» (v. 8) per accedere definitivamente a Dio (cf. Ef 3,5). In seguito la via sarebbe stata completamente svelata in Cristo, che entrato come precursore per i credenti al di là del velo (cf. Eb 6, 19-20) lo avrebbe squarciato da cima a fondo (cf. Mt 27,51; Mc 15,38; Lc 23,45). Cristo, dunque, trasformato dal suo sacrificio, è divenuto «la via» per i credenti per arrivare a Dio. Dopo la critica al valore del santuario, il predicatore passa a contestare la complessa articolazione dei riti mosaici (cf vv. 9-10): essi erano solo una «figura» rappresentativa «per il tempo presente», cioè per quel tempo in cui i credenti, non conoscendo Cristo, vivevano ancora secondo quelle prescrizioni umane (cf 7,16; 9,1). Il culto antico era quindi provvisorio. Cristo risorto, invece, «ministro del santuario e della vera tenda» (cf 8,2), inaugurando il mondo futuro (cf 2,5; 6,5; 9,11; 10,1), ha sostituito la «figura» con la realtà della sua opera di salvezza (cf 5,9; 10,1). L'incontro con Dio, a cui l'uomo era chiamato (cf. v. 8), doveva dunque cominciare da una trasformazione interiore (cf. v. 9). Perciò era necessario cambiare i riti antichi e passare da una osservanza di norme esteriore a una religione del cuore tanto invocata dai profeti. Evocando così un tempo di cambiamento, il predicatore prepara i suoi uditori a contemplare l'opera di Cristo, la sua oblazione sacerdotale e la nuova alleanza fondata nel suo sangue (cf. 9,11-28).

Il sacrificio di Cristo, oblazione efficace e perfetta La pericope è composta da due frasi che costituiscono il centro di tutta la lettera agli Ebrei:

  1. la prima (vv. 11-12) sintetizza magnificamente tutto il mistero pasquale di Cristo secondo le tre fasi dell'atto di mediazione sacerdotale: quella ascendente, con gli strumenti della «tenda» e del «sangue» per entrare nel santuario, quella centrale con l'entrata nel santuario dell'intimità di Dio e quella discendente con la redenzione eterna ottenuta per i credenti;
  2. la seconda (vv. 13-14) comincia con allusioni al culto dell'Antico Testamento e procede con un ragionamento in riferimento a quanto detto in 9,9-1O sui cibi, sulle bevande e sulle abluzioni varie incapaci di perfezionare la coscienza, specificando che l'offerta di Cristo non è stata una serie di «prescrizioni carnali», ma un atto compiuto sotto l'impulso dello «Spirito eterno» ed efficace a livello della coscienza, così da rendere a Dio un vero culto.

Da quanto detto si comprende come il mistero pasquale di Cristo è presentato secondo un linguaggio cultuale. Cristo ha fondato la nuova alleanza, ha aperto la via verso Dio e ha stabilito la vera comunione con lui entrando nel «santuario» (v. 12) vero nei cieli, per mezzo della «tenda più grande e più perfetta» (v. 11) del suo corpo risorto e glorificato. Questa tenda sostituisce la prima, quella costruita da Mosè, fatta da mani d'uomo e che introduceva nel santuario terreno, anch'esso creazione umana. Questa nuova tenda non è opera di mani d'uomo, né è di questa creazione, ma opera di Dio, realizzata nella passione, morte e risurrezione di Gesù. È la «Vera tenda» (8,2) che ha introdotto i credenti nel santuario della santità di Dio, la «Via» (9,8) che fino al mistero pasquale non era ancora stata manifestata, il nuovo tempio «non fatto da mani d'uomo» (Mc 14,58), dove finalmente Dio e gli uomini si incontrano (cf. Gv 2,21), la nuova creazione nella quale tutti i credenti sono chiamati a inserirsi per essere anch'essi «nuova creazione» (Mt 19,28). L'accoglienza di tutti (e non solo dei sacerdoti e del sommo sacerdote) rende questa tenda «più grande» (v. 11): tutti formano la «sua casa» (3,6) e tutti, in qualità di popolo sacerdotale (cf. 2Pt 2,9), sono introdotti nell'intimità di Dio (cf. Eb 4,3; 7,19.25). La trasformazione poi di Cristo «reso perfetto» (5,9) nella docilità filiale al Padre, nella preghiera e nella sofferenza (cf. 5,7-9), qualifica la tenda del suo corpo glorioso come «più perfetta».

L'altro mezzo usato da Cristo per entrare nel santuario divino è stato il sangue. Come il sommo sacerdote entrava nel Santo dei Santi, dapprima con il sangue del giovenco per espiare le colpe dei sacerdoti (cf. Lv 16,11) e, in un secondo momento, con il sangue del capro per espiare le colpe del popolo (cf. Lv 16,15), così Gesù, per mezzo del proprio sangue, non mediante il sangue di capri e vitelli, è entrato una volta per sempre nel santuario dei cieli là dove risiede Dio (cf. v. 12), procurando così una redenzione eterna all'uomo. Nella liturgia del giorno dell'espiazione, lo Yom Kippur, il sangue delle vittime immolate veniva asperso sul propiziatorio e davanti ad esso (cf. Lv 16,11-16) dal sommo sacerdote. Gesù sostituisce questo rito con una nuova liturgia (cf. Eb 8,6), quella del dono della propria vita sulla croce. Mediante l'obbedienza perfetta a Dio e la misericordia solidale con gli uomini, ha trasformato la sua morte in sacrificio e ha ottenuto una redenzione che ha introdotto l'uomo nell'eternità. In questo nuovo genere di sacrificio, nel quale il sacerdote e la vittima sacrificate sono coincisi, Gesù ha effuso il proprio sangue sulla croce, espiando i peccati del popolo (cf. 2, 17) e riconciliando l'umanità con Dio. Il corpo di Cristo, sul quale è stato asperso il sangue, è il nuovo propiziatorio (cf. Rm 3,25), dove è presente Dio e al tempo stesso l'umanità da riconciliare. Gesù subì una morte ingiusta e violenta, ma la trasformò con il suo amore in offerta, facendone un sacrificio, cioè un'opera sacra impregnata della santità di Dio; non offrì qualcosa di esterno a sé, ma la sua vita stessa, in atteggiamento di perfetta obbedienza al Padre e di misericordia solidale con gli uomini. Nell'offerta di sé, novità questa inaudita per il culto israelitico, Gesù si presentò quale vittima perfetta, immacolata, senza alcuna colpa morale o complicità con il male (cf. 4, 15; 7,26; ma anche 1Pt 1,19; 2,22). L'espressione «con Spirito eterno offri se stesso» è unica in tutta la Bibbia. Lo «Spirito eterno» non è una disposizione interiore di Gesù né la sua natura divina, ma lo Spirito Santo, qualificato qui come «eterno» in stretto parallelismo con l'altra realtà definita come «eterna»: la redenzione ottenuta da Gesù (cf. 9,12). Ciò che l'autore dice è che Gesù affrontò la passione nella potenza dello Spirito Santo; questo dato è assente sia nei vangeli che in Paolo, i quali parlano dell'azione dello Spirito Santo rispettivamente solo in riferimento al ministero di Gesù e alla sua risurrezione. Lo Spirito diede a Gesù la forza necessaria per elevarsi fino a Dio e fu la causa efficiente (cf. l'uso di «per mezzo», greco dia al v. 12) per cui effuse il suo sangue. Lo «Spirito eterno» prese il posto che nei sacrifici dell'Antico Testamento aveva il «fuoco di YHWH», il «fuoco venuto dal cielo» che esprimeva l'intervento di Dio che bruciava sull'altare gli olocausti e li elevava fino a sé (cf. Lv 9,24; 1Re 18,38; 2Cr 7,1; 2Mac 2,10); aveva la caratteristica di essere un «fuoco continuo» (1Esdra 6,23) che bruciava sull'altare del tempio di Gerusalemme e che mai doveva essere spento. Per l'evento della passione e morte di Gesù il fuoco di Dio non fu un fulmine, ma lo Spirito Santo, vero fuoco eterno che trasformò la sua offerta esistenziale in sacrificio. Aperto e animato dall'azione interiore dello Spirito Santo, Gesù offrì la sua vita (cf. Eb 5,7-8) secondo le due dimensioni dell'amore (quello a Dio e quello al prossimo) nella totale obbedienza al Padre e nella completa solidarietà con gli uomini, trasformando la propria morte di condannato in offerta a Dio per la salvezza di tutti gli uomini. A differenza dei sacrifici antichi, «prescrizioni carnali» (9, 10), quella di Gesù fu un'offerta non esteriore, ma personale e spirituale, cioè compiuta nello Spirito Santo. Questa dimensione spirituale della sua oblazione ha assicurato al sangue di Cristo l'efficacia di agire sulle coscienze dei credenti, purificandole dai peccati e stabilendo una comunicazione autentica di adorazione e servizio (v. 14) al Dio vivente. Tutta l'opera salvifica di Gesù di trasformazione delle coscienze e purificazione dai peccati ha quindi la finalità di condurre il credente alla conoscenza e all'amore a Dio. Si compie così la profezia di Geremia che annunciava un cambiamento interiore dell'uomo per la nuova e definitiva alleanza con Dio.

La nuova alleanza fondata sul sangue di Cristo Con la sua offerta sacrificate Gesù ha compiuto la purificazione dei peccati (cf. 1,3) e ha anche inaugurato la nuova alleanza: ogni «alleanza» (v. 15), infatti, richiede una morte espiatrice, perché nessun «testamento» (v. 16) è effettivo finché il testatore non muore. Il sacrificio redentore di Cristo ha un effetto retroattivo sui credenti dell'antica alleanza.

Il livello celeste del culto di Cristo Nel compimento dei tempi Cristo si è manifestato nel mondo e si è offerto per prendere su di sé e togliere i peccati di molti (cf. v. 28 e Gv 1,29), mediante il sacrificio di se stesso, evento questo irripetibile, come irripetibile è la morte di ogni uomo, dopo la quale viene il giudizio. Cristo è ora il Risorto dai morti che non muore più (cf. Rm 6,9) e, alla fine dei secoli, apparirà una seconda volta nel mondo senza alcuna relazione con il peccato, cioè con un'umanità glorificata e non più rivestita della debolezza di chi si era fatto carico delle conseguenze disastrose dei peccati degli uomini; non deve più vivere e morire per espiare, ma può rendere partecipi della sua gloria coloro che nella speranza lo attendono per la salvezza (cf. v. 28).


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