📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

segue: LA VERA COMUNIONE CON DIO

Non peccate! 1Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. 2È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. 3Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. 4Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. 5Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui. 6Chi dice di rimanere in lui, deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato.

IL VERO DIMORARE NELLA LUCE Il comandamento insieme antico e nuovo 7Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto da principio. Il comandamento antico è la Parola che avete udito. 8Eppure vi scrivo un comandamento nuovo, e ciò è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e già appare la luce vera.

Il vero essere nella luce si prova amando i fratelli 9Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. 10Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo. 11Ma chi odia suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi.

Non amate il mondo! 12Scrivo a voi, figlioli, perché vi sono stati perdonati i peccati in virtù del suo nome. 13Scrivo a voi, padri, perché avete conosciuto colui che è da principio. Scrivo a voi, giovani, perché avete vinto il Maligno. 14Ho scritto a voi, figlioli, perché avete conosciuto il Padre. Ho scritto a voi, padri, perché avete conosciuto colui che è da principio. Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti e la parola di Dio rimane in voi e avete vinto il Maligno. 15Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; 16perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo. 17E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!

I VERI POSSESSORI DEL PADRE

L'ora finale manifesta gli anticristi e i veri possessori del Padre 18Figlioli, è giunta l’ultima ora. Come avete sentito dire che l’anticristo deve venire, di fatto molti anticristi sono già venuti. Da questo conosciamo che è l’ultima ora. 19Sono usciti da noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; sono usciti perché fosse manifesto che non tutti sono dei nostri. 20Ora voi avete ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza. 21Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità. 22Chi è il bugiardo se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio. 23Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre. 24Quanto a voi, quello che avete udito da principio rimanga in voi. Se rimane in voi quello che avete udito da principio, anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre. 25E questa è la promessa che egli ci ha fatto: la vita eterna. 26Questo vi ho scritto riguardo a coloro che cercano di ingannarvi. 27E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca. Ma, come la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera e non mentisce, così voi rimanete in lui come essa vi ha istruito. 28E ora, figlioli, rimanete in lui, perché possiamo avere fiducia quando egli si manifesterà e non veniamo da lui svergognati alla sua venuta.

I VERI FIGLI DI DIO

Chi pratica la giustizia è stato generato da Dio 29Se sapete che egli è giusto, sappiate anche che chiunque opera la giustizia, è stato generato da lui.

Approfondimenti

(cf LETTERE DI GIOVANNI – introduzione, traduzione e commento di MATTEO FOSSATI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

LA VERA COMUNIONE CON DIO L'autore abbandona il tono argomentativo per quello parenetico, e questo ci pone di fronte alla prima breve esortazione della lettera: dopo aver riconosciuto l'inevitabilità del peccato, si affretta a mettere in guardia da esso i suoi figlioli, incoraggiandoli a fuggirlo: il fatto che Dio possa perdonare ogni peccato non è un buon motivo per abbandonarsi al lassismo morale. Ogni cristiano deve continuamente sforzarsi di camminare nella luce; solo così egli si accorge che, per quanto alto possa essere il suo impegno di fuggire le tenebre, esso è destinato al fallimento se non è supportato dalla grazia comunicatagli dal sangue di Cristo. In questo modo si scioglie quella che, a prima vista, poteva apparire come una contraddizione: l'inevitabilità del peccato non deve scoraggiare l'impegno morale del cristiano, così come l'eccezionale disponibilità di Dio a perdonare non deve incoraggiarlo al lassismo. L'amore misericordioso di Dio è la luce che mette il credente di fronte alle proprie tenebre (cfr. Gv 15,22.24), ma è anche la forza che lo spinge a fuggirle.

L'autore afferma anzitutto l'azione di intercessione del Risorto presso il Padre in difesa dei peccatori: i credenti non devono temere il giudizio di Dio, poiché sarà il Signore Gesù stesso a prendere le loro difese.

La relazione tra conoscere Dio e osservare i suoi comandamenti, su cui è basato questo brano, è un tema chiave dell'Antico Testamento, che afferma chiaramente che non c'è altro modo di conoscere Dio se non quello di camminare per le sue vie e seguire i suoi comandi (cfr. Es 33,13). La 1Giovanni ci ricorda dunque che, per entrare in relazione con Dio, al cristiano è chiesto di obbedire ai suoi comandi, sull'esempio di Gesù che obbedì a ciò che il Padre gli chiese (Gv 10,18; 12,49-50; 14,31). Ricordando che i comandamenti di Dio, nella letteratura giovannea, sono spesso ricondotti all'unico comandamento dell'amore lasciato da Gesù ai suoi (Gv 13,34; 15,12), allora si vede come tutto il discorso tenda all'unità: obbedienza, conoscenza e amore sono sfaccettature diverse dell'unica realtà della comunione del credente con Dio (cfr. Gv 14,15-24).

IL VERO DIMORARE NELLA LUCE Il kerygma della prima pericope è stato presentato come un «annuncio» (1,5), quello della seconda come un «comandamento», termine che ritorna ben quattro volte in poco più di un versetto. L'autore non esplicita quale sia il suo contenuto; vi allude solo in modo enigmatico, dicendo che esso è «non... nuovo, ma... antico»; «antico (eppure) nuovo». Questa sorta di “indovinello” è un genere letterario, usato nell'antichità, per trasmettere insegnamenti di personaggi illustri. Il credente può sciogliere l'enigma in due passi successivi. La sua antichità è spiegata apertamente affermando che tale comando è posseduto «da principio» e già udito dai lettori: tali espressioni si riferiscono al tempo passato in cui il comandamento fu anzitutto proclamato da Gesù e poi ripetuto dalla comunità al momento dell'iniziazione cristiana dei destinatari. La sua novità deriva invece dal fatto che esso fu chiamato «nuovo» da Gesù stesso, oltre che dall'occasione immediata creata dalla lettera, che lo propone ai suoi lettori «di nuovo» (questo è infatti uno dei significati dell'avverbio che si trova nel v. 8). L'autore richiama ai suoi interlocutori la necessità di mettere in pratica il comandamento dell'amore, che viene riproposto in due diverse contestualizzazioni: amare i fratelli (2,10) e non amare il mondo né le cose del mondo (2,15a), poiché tale amore è incompatibile con l'amore per Dio (2,15b).

È possibile individuare i gruppi di persone ai quali l'autore vuole rivolgersi? «Figlioli» e «fanciulli» sono due sinonimi e vengono usati con questa accezione generica anche in altri luoghi della lettera. «Padri» e «giovani» individuerebbero invece una ripartizione, già usata nell'Antico Testamento in riferimento al popolo dell'alleanza (cfr. Es 10,9; Is 20,4; Ger 31,34). Si può presumere che con «padri» l'autore si riferisca a cristiani di lunga data, visto che per due volte ribadisce che essi conoscono il Cristo (2,13.14), mentre con «giovani» intenda i nuovi entrati nella famiglia cristiana, più facili prede degli attacchi dei falsi maestri e degli anticristi, e quindi elogiati dall'autore per aver vinto il Maligno.

Questa sezione non si limita a spingere i credenti ad amare i fratelli o a scoraggiarli a odiare, ma li mette in guardia dalla possibilità di un amore sbagliato: quello per il «mondo» o le «cose del mondo». Chi si è visto perdonare i peccati, chi ha conosciuto il Signore, chi ha sconfitto il Maligno non deve farsi sedurre da falsi amori: quella dell'amore, sembra dirci la 1Giovanni, è una realtà complessa, che va sempre vagliata alla luce vera di Cristo. Amare il mondo equivale a odiare Dio (cfr. Gv 3,19). Attenzione: con questa esortazione l'autore non vuole certo negare l'amore di Dio per il mondo intero (Gv 3,16); piuttosto usa la categoria “mondana” come esemplificazione estrema del rifiuto di certi uomini di credere in Gesù, e la introduce nella seconda parte della pericope come sostituto di quella delle tenebre, che aveva fin qui rappresentato il polo negativo del discorso. Sarà proprio l'espressione «amare il mondo», infatti, a funzionare da collegamento tra questo brano e il successivo.

I VERI POSSESSORI DEL PADRE Il retroscena dell'epistola è quello di una vera e propria secessione: «sono usciti da noi», «nessuno di loro è dei nostri» (2, 19). La comunità giovannea soffrì profondamente per questa divisione – il dolore per il tradimento fu infatti accompagnato dalla preoccupazione per i fratelli più deboli, possibili prede dell'inganno dei secessionisti – e dovette impegnare tutte le proprie forze per far fronte all'attacco. L'autore quindi, con tono risoluto, presenta in uno scenario escatologico i personaggi del dramma: il «noi» delle guide della comunità giovannea, il «voi» dei figlioli da rincuorare e rinsaldare nella fede, il «loro» dei traditori ormai lontani da Cristo e dalla comunione con i fratelli. Egli inoltre ordisce un complesso intreccio di relazioni fra i tre suddetti gruppi e fa chiarezza sul destino di ciascuno: chi si allontanò dalla comunità e rinnegò Cristo non possiede il Padre (2,19.22-23); chi invece rimane fedele alla parola ricevuta da principio godrà della vita eterna (2,24-26) e starà a testa alta di fronte al Signore (2,28).

L'autore della 1Giovanni non sembra dipendere direttamente dalla forma scritta del quarto vangelo, bensì dalla tradizione giovannea precedente, a cui anche il vangelo attinge. Gli annunci escatologici del quarto vangelo sono inseriti nel grande discorso di addio pronunciato da Gesù durante l'ultima cena e testimoniano quindi un tono diverso da quello sinottico, tono che può essere meglio compreso se inserito in una prospettiva post-pasquale, quasi stesse parlando un Cristo già risorto e glorificato (Gv 15,26; 16,5-15.20-23). Comunque anche in quel testo vi è un chiaro accenno alla predizione di tribolazioni per i seguaci di Gesù (Gv 16,1-4), argomento centrale in tutta la predicazione neotestamentaria (Mt 24,21; 2Ts 2,1-12; Ap 13,1-8), che si rifà a testi apocalittici anticotestamentari (Dn 7,1-8; 12,1-13).

L'autore parte con un'affermazione che lascia poco spazio alla discussione: «sono usciti da noi». In essa è racchiuso tutto il dramma vissuto: un gruppo di persone, che erano considerate come fratelli e che vivevano all'interno della comunità, a un certo punto se ne andò. Come fu possibile una rottura tanto profonda? La 1Giovanni suggerisce che il gesto plateale dell'allontanamento non fu che l'ultimo passo di un tradimento che veniva da lontano: il cuore di tali individui era già nella tenebra, essi «non erano dei nostri». Questa spiegazione viene ripresa alla fine del versetto, dove l'autore esplicita la riflessione sulla possibilità di uno scollamento tra ciò che appare esteriormente e la realtà: la fuga dei secessionisti ha reso manifesta la loro condizione interiore di persone lontane da Dio e dalla comunità.

Dal punto di vista interpretativo è fondamentale comprendere a che cosa si riferisse l'autore utilizzando il rarissimo termine chrîsma «unzione» (v. 27). Il “crisma” sarebbe la parola di Cristo accolta dal credente e vissuta nella fede grazie all'azione dello Spirito Santo. Concretamente, l'autore avrebbe potuto avere in mente il rito con cui i credenti venivano ammessi nella comunità giovannea, oppure il gesto sacramentale del battesimo, che già nei primi secoli veniva accompagnato da un'unzione.

Se la menzogna per eccellenza è negare la messianicità di Gesù, ne consegue che la somma verità alla quale aggrapparsi per non venire ingannati dall'anticristo è l'affermazione che Gesù è il Cristo. Credere che Gesù è il Cristo implica la fede nella sua figliolanza divina, il che coinvolge anche il Padre, con cui chi nega il Figlio non può pretendere di avere alcun legame. L'autore sta affermando in modo chiaro che qualsiasi rapporto cristiano tra uomo e Dio deve passare tramite Gesù: la fede nel Figlio è condizione necessaria per entrare in comunione con Dio o, detto in altri termini, per possedere il Padre.

I VERI FIGLI DI DIO A dispetto di quanto si possa pensare, non è così facile trovare nel Nuovo Testamento testi che chiamino Dio «giusto». Molto più frequente è l'attribuzione di questo aggettivo a Gesù, sia nei Sinottici (Mt 27,19; Le 23,47), sia negli Atti (At 3,14; 22,14), sia nella letteratura epistolare (2Tm 4,8; 1Pt 3,18; cfr. anche 1Gv 2,1). Pur esistendo diversi riferimenti neotestamentari alla «giustizia di Dio» (Rm 1,17; 3,5.21.26; 2Cor 5,21; Gc 1,20; 2Pt 1,1), le uniche proclamazioni di Dio come «giusto» si trovano nella letteratura giovannea (Gv 17,25; l Gv l ,9; 2,29; 3,7; Ap 16,5). Illuminante per noi è quanto si legge nel grande discorso di addio di Gesù riportato nel quarto vangelo: «Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, io invece ti ho conosciuto e costoro hanno riconosciuto che tu mi hai mandato. Io ho fatto loro conoscere il tuo nome e continuerò a farlo conoscere...» (Gv 17,25-26). Il testo (che è semanticamente molto vicino alla nostra pericope, con la quale ha in comune i termini «Padre», «giusto», «conoscere», «mondo») testimonia che, per la tradizione giovannea, fu Gesù stesso a insegnare ai suoi discepoli il nome di Dio, che nel contesto prossimo è chiamato «Padre giusto». La nostra lettera è poi la prova che nella comunità del Discepolo amato questo insegnamento fu conservato e tramandato, tanto che chi scrive può basare tutta la sua argomentazione sul fatto che i suoi figlioli «sanno» che «Dio è giusto». Anche la presente pericope appare quindi come l'elaborazione di un dato presente nella predicazione giovannea originaria: quello della giustizia di Dio, che permette all'autore di dimostrare la figliolanza divina di tutti coloro che praticano la giustizia.


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Prologo: il fondamento della verità 1Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – 2la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, 3quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. 4Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena.

LA VERA COMUNIONE CON DIO

Annuncio del tema: Dio è luce 5Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna.

La vera comunione con Dio si prova camminando nella luce 6Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. 7Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato.

I cristiani e il peccato 8Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. 9Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. 10Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.

Approfondimenti

(cf LETTERE DI GIOVANNI – introduzione, traduzione e commento di MATTEO FOSSATI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

Prologo: il fondamento della verità Questo esordio è obiettivamente insolito per una lettera: non vi è infatti alcuna traccia dell'indirizzo e saluto, la classica apertura dell'epistola greco-romana. Qui si è invece di fronte a quello che viene unanimemente riconosciuto dalla critica come il «prologo» della 1Giovanni, e l'uso di questo termine non è casuale, in quanto intende sottolineare una vicinanza con l'apertura del maggiore tra gli scritti giovannei: il quarto vangelo. L'autore è abile nel creare in chi legge un forte senso di attesa mediante cinque frasi iniziali che rimangono sospese fino alla fine del primo versetto, quando specifica: «il Verbo della vita». Con queste parole, che s'inseriscono in modo anomalo nella sintassi del brano, egli chiarisce l'argomento dello scritto: ciò che era da principio e che è stato udito, visto, contemplato e toccato dagli apostoli, altri non è che il Verbo della vita. È la teologia giovannea nel suo complesso che permette di leggere l'espressione in modo cristologicamente alto: non si riferisce semplicemente al messaggio di vita contenuto nella rivelazione, bensì alla persona stessa del Figlio di Dio che la letteratura giovannea chiama il «Verbo» (Gv 1,1.14), il «Verbo di Dio» (Ap 19,13), la «Vita» (Gv 11,25; 14,6), la «Vita eterna» (1Gv 5,20). Dopo aver comunicato l'argomento dello scritto, l'autore ne specifica anche lo scopo, e lo fa mediante una subordinata finale posta esattamente al centro del v. 3: «perché anche voi siate in comunione con noi». L'intento della lettera è dunque quello di offrire ai destinatari la medesima comunione che il gruppo dei testimoni gode «con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo». Da un punto di vista teologico e interpretativo, anche se nel prologo non troviamo il vocabolario della verità/falsità – che è invece una presenza costante in tutto il resto dello scritto, finalizzato a fornire ai destinatari gli strumenti per discernere tra veri e falsi maestri, tra veri e falsi insegnamenti e, in definitiva, tra il vero Dio e i falsi dèi –,l'interesse per tale tema non deve sfuggire al lettore. Tutta l'insistenza sul contatto fisico tra i testimoni e il Verbo della vita indica che l'autore intende rivelare qui il solido fondamento di quella verità su cui verterà l'insegnamento di tutta la lettera: essa si poggia sull'eccezionale testimonianza di chi ha avuto la fortuna di udire, vedere, contemplare e toccare il Verbo della vita, esperienza storica fondante il cristianesimo e capace di infondere in chi scrive la responsabilità e il coraggio dell'annuncio, annuncio che può realizzarsi solo nella comunione con il Verbo e con il Padre e al fine di offrire a tutti i veri credenti la stessa gioiosa intimità.

Annuncio del tema: Dio è luce L'annuncio con il quale si apre ogni pericope della 1Giovanni rappresenta sempre il ricordo di un insegnamento di Gesù – è infatti a Lui che si riferisce il pronome di terza persona singolare. Nell'introduzione si è precisato che gli insegnamenti dell'epistola non dipendono direttamente dalla forma scritta del quarto vangelo, ma dal kerygma giovanneo originario. Ciò significa che le parole e le azioni del Gesù storico, elaborate nella riflessione e nella predicazione del Discepolo amato, hanno trovato una duplice espressione scritta: quella evangelica e quella epistolare. Questo fatto ci deve scoraggiare dal pretendere di trovare una corrispondenza letterale tra le due formulazioni. Quanto a perentorietà, l'affermazione «Dio è luce», rafforzata dalla coordinata antitetica «e di tenebra in lui non ve n'è alcuna», è una novità nel panorama biblico. Dal punto di vista letterario questo versetto iniziale lega saldamente al prologo della 1Giovanni tutta la pericope, grazie alla ripresa del tema del suo verbo principale (1,2.3:«annunciamo») mediante il sostantivo «annuncio», e il verbo «proclamare». La dinamica della trasmissione di fede che emerge da questo testo è quella binaria tipicamente giovannea: a differenza di quella evidenziata in passi come 1Cor 15,3 o Le 1,2 (in cui i momenti presupposti sono tre, ovvero la rivelazione di Gesù, la tradizione degli apostoli e la scrittura), qui viene saltata la fase intermedia, ossia la mediazione della comunità, poiché il «noi» scrivente coincide con quello dei testimoni oculari. Il tema annunciato in 1,5 viene elaborato mediante quattro brani argomentativi che si richiamano a due a due secondo lo schema A B B' A' (A:1,6- 7; B:1,8-10; B':2,1b-2; A':2,3-6) intorno al centro della pericope, rappresentato dalla breve esortazione di 2,1a. Questa elaborazione punta a tirare le conseguenze pratiche dell'affermazione iniziale «Dio è luce» per la vita dei cristiani e ruota attorno all'idea della comunione con Dio e alle sue esigenze, facendo riflettere i destinatari dello scritto sulla necessità di coerenza tra parola e vita, requisito essenziale dei veri maestri e dei veri cristiani.

La vera comunione con Dio si prova camminando nella luce Con i vv. 6-7 si entra appieno in quella che sarà la principale modalità argomentativa di tutto lo scritto: l'autore, mediante ragionamenti di tipo sillogistico, vuole istruire i destinatari a riconoscere i falsi maestri, smascherando le loro menzogne mediante semplici prove riguardanti la vita concreta. Infatti ogni pretesa qualità spirituale interiore deve essere provata mediante atteggiamenti esteriori oggettivamente verificabili. Le parole da sole non bastano: ci vogliono i fatti. Si deve quindi prestare la massima attenzione alle relazioni tra la realtà interiore (ciò che è) e quella esteriore (ciò che appare): se tra le due c'è corrispondenza, si è nel campo della verità; se tale corrispondenza manca, si è in quello della falsità. Per l'autore della 1Giovanni è inoltre determinante smascherare quanti con la menzogna vogliono apparire quello che in realtà non sono: è il caso dei falsi maestri, apostrofati come «anticristi» e «figli del diavolo» (cfr. 2,18.22.26; 3,7-8.10; 4,1). Dai pochi dati fornitici dalla lettera non si riesce a ricostruire con certezza né l'identità né l'insegnamento di questi avversari contro i quali l'autore si scaglia con forza e determinazione. Eppure, anche se appare riduttivo interpretare la nostra lettera come uno scritto polemico, è innegabile in essa un intento di difesa della vera tradizione giovannea contro deviazioni concrete reputate pericolose. Il primo insegnamento del nostro scritto può essere così sintetizzato: non chiunque dice di essere in comunione con Dio lo è veramente; la verità della comunione con Dio va provata a partire dall'agire quotidiano, che si deve qualificare come un camminare nella luce. Un maestro non deve quindi essere giudicato solo dal suo insegnamento, dalle sue parole suadenti, bensì a partire dall'intima corrispondenza tra ciò che dice e ciò che fa. Questa coerenza radicale tra parola e vita impone all'uomo non solo di «fare» ciò che dice, ma anche di «essere» ciò che fa: non c'è spazio per menzogna, inganno o falsità. Il credente deve vivere sempre nella luce, senza mai rifugiarsi in zone d'ombra. In tal modo la vita concreta diventa la prova più evidente dell'appartenenza di un uomo al regno della luce o a quello delle tenebre.

I cristiani e il peccato Dopo aver chiarito la necessità per i cristiani di camminare nella luce, l'autore della lettera non teme di ammettere che su questo cammino si possono incontrare degli ostacoli capaci di far cadere chiunque: è il caso del peccato, dal quale nessun uomo e nessuna donna può dichiararsi immune se non cadendo sotto il dominio dell'inganno e della falsità, arrivando praticamente ad accusare di menzogna Dio stesso. Dietro l'argomentazione di questo brano si può leggere, in filigrana, una polemica contro gli avversari della comunità giovannea, che presumibilmente sostenevano la propria impeccabilità in quanto figli di Dio e credenti in Cristo; si sentivano forse una cosa sola con Gesù, che aveva detto: «Chi di voi può dimostrare che io abbia peccato?» (Gv 8,46). Secondo l'autore della lettera, un atteggiamento del genere è pericoloso e nasconde l'inganno dell'anticristo: causa infatti una relativizzazione di quell'impegno morale che invece è la prova oggettiva della fede. Chi cadesse nella rete di queste idee perverse si ritroverebbe nella stessa condizione di quanti si rifiutarono di credere in Cristo, condannandosi in quel modo a morire nei propri peccati (Gv 8,24).


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Le obiezioni degli avversari 1Questa, o carissimi, è già la seconda lettera che vi scrivo, e in tutte e due con i miei avvertimenti cerco di ridestare in voi il giusto modo di pensare, 2perché vi ricordiate delle parole già dette dai santi profeti e del precetto del Signore e salvatore, che gli apostoli vi hanno trasmesso. 3Questo anzitutto dovete sapere: negli ultimi giorni si farà avanti gente che si inganna e inganna gli altri e che si lascia dominare dalle proprie passioni. 4Diranno: «Dov’è la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione». 5Ma costoro volontariamente dimenticano che i cieli esistevano già da lungo tempo e che la terra, uscita dall’acqua e in mezzo all’acqua, ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio, 6e che per le stesse ragioni il mondo di allora, sommerso dall’acqua, andò in rovina. 7Ora, i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima Parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina dei malvagi.

Il tempo nell'ottica di Dio 8Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. 9Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. 10Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta.

Epilogo 11Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, 12mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! 13Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia. 14Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia. 15La magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza: così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, 16come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina.

Esortazioni conclusive e dossologia 17Voi dunque, carissimi, siete stati avvertiti: state bene attenti a non venir meno nella vostra fermezza, travolti anche voi dall’errore dei malvagi. 18Crescete invece nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo. A lui la gloria, ora e nel giorno dell’eternità. Amen.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA DI PIETRO – introduzione, traduzione e commento di MARIDA NICOLACI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2018 – SECONDA LETTERA DI PIETRO a cura di ROSARIO CHIARAZZO in LA BIBBIA PIEMME © EDIZIONI PIEMME, 1995)

Le obiezioni degli avversari L'autore ribadisce l'importanza del “ricordare” (cfr. 1, 12-15)ciò che è stato annunciato nelle profezie (1, 16-20; 1Pt 1,10-12) e quanto è stato tramandato dagli apostoli riguardo le parole del Signore sulla sua seconda venuta (Mc 13,33-37; Lc 12,35-40). È posta in evidenza la collegialità apostolica su ciò che è stato tramandato. Il collegarsi idealmente a 1Pt sottolinea l'armonia di quanto viene trasmesso e chiarisce come le istruzioni sulla parusia di 2Pt siano in linea con il tema della speranza escatologica espressa in 1Pt (cfr. 1Pt 3,13-17). I primi cristiani avevano vissuto nella speranza di un imminente ritorno di Cristo; fu necessaria una lunga riflessione per comprendere e maturare una coscienza diversa sulla seconda venuta di Cristo e che si inquadrasse nell'ottica di Dio, piuttosto che in una attesa cronologica a scadenza fissa. Tuttavia se ciò nei primi cristiani poté suscitare delusione e talvolta sconforto (1Ts 4,13), a maggior ragione essi erano facile bersaglio di ironie, beffe e derisioni da parte di denigratori perché tra coloro che attendevano la venuta di Cristo alcuni erano già morti e tutto era rimasto inalterato nel cosmo. Di fronte a ciò l'autore di 2Pt per confutare gli eretici attinge al racconto della Genesi e ricorda che la creazione è dovuta ad un intervento sovrano della parola di Dio (cfr. Gn 1,1ss.); inoltre lo stesso diluvio illustra la fragilità del mondo e preannuncia contemporaneamente il giudizio ultimo: solo Dio con la sua parola dà origine, dirige e prepara il rinnovamento radicale di tutta la creazione.

Il tempo nell'ottica di Dio Con la citazione di Sal 90,4, secondo l'interpretazione giudaica tradizionale, si ribadisce che il tempo, nell'ottica di Dio, ha una dimensione cronologica differente rispetto a quella degli uomini. L'apparente ritardo della parusia deve essere considerato come un tempo di grazia: se Dio interviene nella storia è per dispiegare la sua misericordia ed il suo amore (Sir 18, 8-11). Il tempo attuale è un tempo propizio per beneficiare della sua misericordia attraverso la conversione del cuore. L'imprevedibilità del ritorno del Signore è richiamata con l'immagine del ladro nella notte (cfr. Mt 24, 43-47 e parr.; 1Ts 5,2; Ap 3,3; 16,15) per sottolineare l'importanza della vigilanza e dell'essere pronti. L'evento finale del giorno del Signore, tipica espressione dell'AT per indicare l'intervento di Dio nella storia (Am 5,18; Is 2,2-22; Ger 30,5; Sof 1,14-18; Gl 4,1), è descritto utilizzando le concezioni cosmologiche del tempo in base alle quali il mondo doveva dissolversi secondo una specie di conflagrazione universale. Tali immagini, utilizzate dalla tradizione apocalittica giudaica e poi da quella cristiana, non sono da prendere alla lettera in quanto simboleggiano la presenza dinamica di Dio che opera una nuova creazione. Tuttavia, pur riprendendo le concezioni cosmologiche, l'autore in sintonia con la concezione biblica, sottolinea il carattere di definitività insito nel giorno del giudizio, a differenza della mentalità stoica che proponeva il mito dell'eterno ritorno.

Epilogo L'annuncio della fine di ogni realtà mondana comporta un cammino di santità di vita (cfr. 1Pt 1,13-21) e di pietà, ossia un giusto rapporto con Dio che coinvolge tutta l'esistenza, in contrapposizione a quello degli eretici che scadevano nel disordine morale. Tale impegno comporta come conseguenza una compartecipazione dei giusti all'affrettarsi del pieno compimento della salvezza che culminerà nella parusia. La realizzazione della salvezza comporterà un rinnovamento totale e radicale, ossia una nuova creazione (Is 65,17ss.; 66,22) in cui ci sarà una perfetta armonia e la giustizia sarà il contrassegno della realizzazione piena dei tempi messianici (At 17,31; Ap 19,11): ciò che si trova al di là del limite escatologico è tutt'altra cosa rispetto ad ogni realtà esistente e pensabile. Un'ulteriore esortazione pone in risalto che tutta la vita del credente deve trasformarsi in un sacrificio gradito a Dio (cfr. 1Pt 1,19) e ciò è espresso dai termini cultuali «senza colpa e senza macchia». Il rapporto tra presente e parusia come possibilità di salvezza offre la possibilità di richiamare gli insegnamenti dell'apostolo Paolo (cfr. Rm 13,11-14; 1Cor 7,29.32; 2Cor 5,6-10: Ef 4,30; Fil 2,15, Col 3,4; 1Ts 3,4-1; 2Tm 3,1.5; Tt 2,12-14). Si pone in risalto l'unità tra Pietro e Paolo così come precedentemente era stata messa in evidenza la collegialità apostolica (cfr. 2Pt 3,1-2), soprattutto per quanto riguarda gli insegnamenti sulla venuta del Signore. La tensione tra i due principi degli apostoli di cui si parla nella lettera ai Galati (cfr. Gal 2,11-17) è ormai acqua passata. Il richiamo agli scritti paolini è probabilmente introdotto poiché molti, rifacendosi all'autorità dell'Apostolo, erroneamente interpretavano la libertà cristiana in termini di libertinismo (cfr. Gal 5,13-6,10; 1Cor 10,23-33; Rm 8). Il v. 16 è particolarmente importante per la storia della formazione del canone del NT, in quanto nel periodo in cui veniva composta 2Pt, si era già formato un gruppo di scritti che nutrivano la vita della Chiesa (liturgia, catechesi, predicazione, ecc.) ed erano considerati al pari delle altre Scritture, cioè dell'AT.

Esortazioni conclusive e dossologia Un ultimo indirizzo affettuoso, «carissimi», conclude la lettera e sintetizza quanto è stato espresso nel corso dello scritto: essere vigili (cfr. 1Pt 4,12-5,11) per non lasciarsi trascinare negli errori dei falsi maestri poiché la fedeltà agli insegnamenti degli apostoli è fondamentale per vivere in sintonia con il vangelo. La comunità cristiana è invitata a guardarsi da possibili deviazioni dottrinali e ad impegnarsi in un sempre maggiore approfondimento del dono della benevolenza divina (charis, cfr. 1Pt 1,10-11.13; 2,19-20; 3,7; 4,10-11; 5,5.10) realizzatasi nell'evento di Gesù Cristo (cfr. 1,2.5) e che continuamente deve essere radicata nell'esistenza di ogni credente e di tutta la Chiesa. La solenne dossologia conclusiva proclama la divinità di Cristo salvatore, come era stato fatto all'inizio dello scritto (cfr. 1,1), nucleo fondamentale della fede tramandata dagli apostoli e nel quale è fondata saldamente la speranza escatologica: la garanzia dell'escatologia cristiana è data dal Cristo glorificato da Dio il quale verrà con gloria e potenza (1Pt 4,11).


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Annuncio dell'arrivo dei falsi maestri 1Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri, i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina, rinnegando il Signore che li ha riscattati. Attirando su se stessi una rapida rovina, 2molti seguiranno la loro condotta immorale e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo. 3Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma per loro la condanna è in atto ormai da tempo e la loro rovina non si fa attendere.

Esempi di castigo tratti dalla Scrittura 4Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio. 5Ugualmente non risparmiò il mondo antico, ma con altre sette persone salvò Noè, messaggero di giustizia, inondando con il diluvio un mondo di malvagi. 6Così pure condannò alla distruzione le città di Sòdoma e Gomorra, riducendole in cenere, lasciando un segno ammonitore a quelli che sarebbero vissuti senza Dio. 7Liberò invece Lot, uomo giusto, che era angustiato per la condotta immorale di uomini senza legge. 8Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, giorno dopo giorno si tormentava a motivo delle opere malvagie. 9Il Signore dunque sa liberare dalla prova chi gli è devoto, mentre riserva, per il castigo nel giorno del giudizio, gli iniqui, 10soprattutto coloro che vanno dietro alla carne con empie passioni e disprezzano il Signore.

La rovina dei falsi maestri Temerari, arroganti, non temono d’insultare gli esseri gloriosi decaduti, 11mentre gli angeli, a loro superiori per forza e potenza, non portano davanti al Signore alcun giudizio offensivo contro di loro. 12Ma costoro, irragionevoli e istintivi, nati per essere presi e uccisi, bestemmiando quello che ignorano, andranno in perdizione per la loro condotta immorale, 13subendo il castigo della loro iniquità. Essi stimano felicità darsi ai bagordi in pieno giorno; scandalosi e vergognosi, godono dei loro inganni mentre fanno festa con voi, 14hanno gli occhi pieni di desideri disonesti e, insaziabili nel peccato, adescano le persone instabili, hanno il cuore assuefatto alla cupidigia, figli di maledizione! 15Abbandonata la retta via, si sono smarriti seguendo la via di Balaam figlio di Bosor, al quale piacevano ingiusti guadagni, 16ma per la sua malvagità fu punito: un’asina, sebbene muta, parlando con voce umana si oppose alla follia del profeta. 17Costoro sono come sorgenti senz’acqua e come nuvole agitate dalla tempesta, e a loro è riservata l’oscurità delle tenebre. 18Con discorsi arroganti e vuoti e mediante sfrenate passioni carnali adescano quelli che da poco si sono allontanati da chi vive nell’errore. 19Promettono loro libertà, mentre sono essi stessi schiavi della corruzione. L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina. 20Se infatti, dopo essere sfuggiti alle corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del nostro Signore e salvatore Gesù Cristo, rimangono di nuovo in esse invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. 21Meglio sarebbe stato per loro non aver mai conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltare le spalle al santo comandamento che era stato loro trasmesso. 22Si è verificato per loro il proverbio: «Il cane è tornato al suo vomito e la scrofa lavata è tornata a rotolarsi nel fango».

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA DI PIETRO – introduzione, traduzione e commento di MARIDA NICOLACI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2018 – SECONDA LETTERA DI PIETRO a cura di ROSARIO CHIARAZZO in LA BIBBIA PIEMME © EDIZIONI PIEMME, 1995)

Annuncio dell'arrivo dei falsi maestri La caratteristica del genere letterario dei testamenti o dei discorsi di addio è quella di presentare gli ultimi tempi come un periodo di grandi calamità (At 20,29; 1Tm 4,1-5; 2Tm 3,1; Mt 24,11; Ap 16,13) con la presenza di dottrine false e fuorvianti. La comparsa dei falsi maestri era già stata sperimentata nel corso della storia della salvezza. La constatazione che anche nell'AT, accanto ai veri profeti vi erano gli pseudoprofeti che annunciavano false profezie (Ger 28) per il proprio tornaconto, è di monito per la situazione che i cristiani stavano vivendo. Infatti falsi maestri propagandavano insegnamenti errati riguardo la venuta del Signore (cfr. 1,6; 3,4); con la loro vita dissoluta si ponevano in contrasto con la «verità» (= «il vangelo») e rinnegavano di fatto il vero Maestro. La tecnica di persuasione, di propaganda e di penetrazione con cui tali disturbatori facevano adepti è quella di inserirsi all'interno della comunità cristiana in maniera subdola per «introdurvi» (lett. «portare dentro di nascosto») false dottrine. Gli insegnamenti dei falsi dottori sono definiti come «eresie», un termine che nell'antichità indicava l'indirizzo di pensiero o di una particolare scelta di vita di una determinata scuola. Qui il termine è utilizzato in senso dispregiativo ed equivale a deviazione dottrinale. L'annuncio di fede cristiano è descritto come una via da percorrere, come un cammino da seguire che viene ostacolato, oltraggiato e pertanto bestemmiato. Il movente di tutto ciò è l'avidità, la brama di potere e di dominio, ma per queste loro opere i responsabili saranno affidati al giudizio di Dio (cfr. 1 Pt 1, 17).

Esempi di castigo tratti dalla Scrittura La prova della certezza del giudizio di Dio nei confronti dei falsi maestri è tratta da alcuni esempi di castigo dell'AT. Il procedimento è simile nella lettera di Giuda (cfr. Gd 5-7), ma nella prospettiva dell'autore di 2Pt gli esempi di castigo sono utilizzati per illustrare che Dio salva coloro che gli sono fedeli. Un primo esempio fa riferimento a Gn 6,1-4, un brano alquanto oscuro per quanto riguarda i personaggi presentati, ma che l'autore interpreta sulla base di particolari credenze giudaiche secondo cui il castigo inflitto ai «figli di Dio» di Gn 6,4 (che nel codice Alessandrino dei LXX sono detti «angeli», sarebbero cioè quegli angeli ribelli che furono responsabili del diluvio) che furono precipitati negli abissi tenebrosi degli inferi, lett. «tartaro», luogo dei morti condannati. In opposizione alla generazione peccatrice è presentato Noè, esempio di colui che ha un comportamento retto davanti a Dio, che secondo la tradizione giudaica aveva esortato i suoi contemporanei a convertirsi finché le acque non fossero sopraggiunte sulla terra, ma ne aveva ricevuto solo derisione. Il riferimento al diluvio richiama 1Pt 3,20. Nella storia della distruzione di Sodoma si pone soprattutto l'accento su Lot, esempio di colui che, pur trovandosi a vivere in una generazione perversa, non vi si adeguò, ma ne soffrì e pertanto fu risparmiato dal giudizio. Il riferimento a Lot richiama l'immoralità dei falsi maestri circa la loro dissolutezza sessuale. Il termine «carne» (v. 10a) è pertanto preso nella accezione negativa di istinto sessuale perverso, una realtà che contraddice lo statuto di rigenerati, mostrando un evidente disprezzo per l'opera salvifica compiuta dal Signore, il cui ritorno non è ammesso. Nella vicenda di Noè e di Lot si evidenzia che Dio agisce nel mondo con giustizia e potenza e che nel suo intervento nella storia si propone di salvare dalla rovina un piccolo resto fedele che sarà all'origine di un popolo rinnovato (cfr. Sir 44,17; Is 10,20-33; Rm 9,27).

La rovina dei falsi maestri La denuncia della perversa condotta degli eretici è ripresa e portata avanti con acceso sarcasmo. Essi sono accusati di bestemmiare gli esseri gloriosi decaduti, ma non è esplicitato in che cosa consista tale bestemmia (cfr. Gd 8.9). Si può supporre che gli eretici non ritengano la propria condotta essere dissoluta perché si autostimano esseri superiori, al punto da essere dotati di un potere tale che non li condurrà alla stessa sorte degli angeli decaduti. Una realtà quest'ultima che è invece ben considerata da parte delle altre potenze angeliche, le quali, proprio per tale motivo, non stimano accentuare davanti a Dio il loro essere in una condizione di privilegio. Emerge qui la speculazione angelologica di stampo giudaico sugli esseri intermedi tra il mondo degli uomini e Dio. I falsi maestri, ignari di ciò che bestemmiano, saranno colti da rovina improvvisa, così come le bestie che vivono allo stato brado sono soggette ad essere catturate dai cacciatori. L'autore della lettera si premura di descrivere ogni sorta di turpitudini; tra le altre cose probabilmente approfittano dei pasti in comune nei quali si faceva memoria della morte e risurrezione del Signore per adescare i loro adepti. La loro cupidigia e l'abbandono della giusta condotta è posta in evidenza dal richiamo della vicenda di Balaam (Nm 22-23), un racconto interpretato in chiave didattica e narrato aumentandone il senso dispregiativo rispetto al contesto originario del libro dei Numeri, per indicare che persino un asino era stato capace di scorgere la dissolutezza delle azioni di Balaam suo padrone. Le promesse dei falsi maestri sono illusioni e come tali paragonate alle nubi che promettono pioggia, ma che poi, trasportate dal vento, vanno a bagnare altri luoghi. Le loro speranze ed i loro desideri sono vuoti, ingannevoli, e soprattutto ciò che vorrebbe essere espressione di libertà maestri è in realtà libertinismo, il che si trasforma, per essi stessi e per coloro che adescano, in forme di schiavitù, una condizione questa ben peggiore di quella schiavitù precedente alla salvezza portata da Gesù Cristo, poiché di quest'ultima i falsi maestri hanno piena consapevolezza. In definitiva anche la mancanza di una ortoprassi denuncia un rinnegamento consapevole e voluto della vera fede. Il paragone degli “eretici” con gli animali più disprezzati, perché considerati impuri nella cultura giudaica antica, tratto dalla tradizione sapienziale (Pr 26,11; Sir 34,25), cerca di rendere evidente come sia la condizione di colui che ritorna alla schiavitù del peccato: come il cane rimangia ciò che ha vomitato cosi gli “eretici”' riprendono i peccati deposti, e come la scrofa che, essendo stata ripulita, ritorna a guazzare nel fango, così i falsi maestri che avevano ricevuto il bagno della purificazione, il Battesimo, ritornano sotto il dominio del peccato. Si sottolinea così l'esigenza etica della fede cristiana in risposta al libertinismo ostentato dai falsi dottori.


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Indirizzo e saluto 1Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo, a coloro ai quali il nostro Dio e salvatore Gesù Cristo, nella sua giustizia, ha dato il medesimo e prezioso dono della fede: 2grazia e pace siano concesse a voi in abbondanza mediante la conoscenza di Dio e di Gesù Signore nostro.

Dichiarazione di onore a Dio che ha chiamato i credenti a partecipare della sua stessa vita 3La sua potenza divina ci ha donato tutto quello che è necessario per una vita vissuta santamente, grazie alla conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua potenza e gloria. 4Con questo egli ci ha donato i beni grandissimi e preziosi a noi promessi, affinché per loro mezzo diventiate partecipi della natura divina, sfuggendo alla corruzione, che è nel mondo a causa della concupiscenza. 5Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, 6alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, 7alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità. 8Questi doni, presenti in voi e fatti crescere, non vi lasceranno inoperosi e senza frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo. 9Chi invece non li possiede è cieco, incapace di vedere e di ricordare che è stato purificato dai suoi antichi peccati. 10Quindi, fratelli, cercate di rendere sempre più salda la vostra chiamata e la scelta che Dio ha fatto di voi. Se farete questo non cadrete mai. 11Così infatti vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo.

Inizio del discorso di addio 12Penso perciò di rammentarvi sempre queste cose, benché le sappiate e siate stabili nella verità che possedete. 13Io credo giusto, finché vivo in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni, 14sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come mi ha fatto intendere anche il Signore nostro Gesù Cristo. 15E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose.

La memoria della trasfigurazione del Signore 16Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. 17Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». 18Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte.

Affidabilità e solidità della profezia 19E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino. 20Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, 21poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA DI PIETRO – introduzione, traduzione e commento di MARIDA NICOLACI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2018 – SECONDA LETTERA DI PIETRO a cura di ROSARIO CHIARAZZO in LA BIBBIA PIEMME © EDIZIONI PIEMME, 1995)

Indirizzo e saluto L'autore della lettera, che scrive secondo l'uso antico della “pseudoepigrafia”, è un cristiano erudito della diaspora «giudeo» di fede e di cultura (se non addirittura di sangue) che scrive a nome di Pietro, divenuto simbolo condiviso di apostolicità. Il doppio titolo di «servo e apostolo» lo definisce in relazione al legame con Gesù e implica la fedeltà e lealtà proprie di chi si riconosce appartenente ad un Altro: il servizio dovuto diventa un titolo d'onore per l'inviato stesso! Il primato e la precedenza appartengono a Gesù Cristo, in rapporto al quale si definiscono il servizio apostolico di Pietro, la fede dei suoi interlocutori epistolari e anche la «conoscenza» che consente la pienezza dei beni salvifici.

Dichiarazione di onore a Dio che ha chiamato i credenti a partecipare della sua stessa vita I vv. 3-4 sono di transizione: l'accento cade sulla dimensione già realizzata del dono di Dio, la cui presenza e azione storica in Gesù Cristo permette a chi crede in lui di godere già della realizzazione delle promesse. Partecipare alla «natura divina» significa vivere un'esistenza liberata dal peccato, grazie alla partecipazione della vita di grazia di cui Dio ci fa partecipi. La consapevolezza dei doni ricevuti e del loro pieno compimento escatologico, produce un conseguente impegno sul piano dell'azione: se Dio pone in atto la sua potenza, l'uomo deve porre in atto un impegno di vita coerente. Il “catalogo” di ciò in cui l'uomo si deve impegnare è presentato in modo concatenato, senza un passaggio automatico da una dimensione all'altra. La fede è nominata prima della virtù per indicare che non si tratta solo di una “prestazione” personale, ma anche di un dono della grazia di Dio. Alla virtù segue la conoscenza, cioè la capacità di discernere nella propria vita ciò che è conforme alla volontà di Dio; la capacità di autodominio; la costante perseveranza; la pietà, cioè il culto reso a Dio in un fattivo coinvolgimento personale; l'amore fraterno attraverso cui si giunge a comprendere lo stesso amore che proviene da Dio. La fede è il fondamento della vita cristiana, la carità è il suo compimento. L'impegno costante e coerente sul piano etico favorisce la conoscenza di Cristo. Invece chi dimentica gli impegni conseguenti la scelta battesimale ha una condotta morale separata dalla conoscenza del bene e non risponde alla propria vocazione. Il credente è impegnato a consolidare la propria vocazione ed elezione, come condizione per entrare nel regno di Dio. Nell'attesa del compimento escatologico, il tempo dell'attesa è vissuto con impegno vigile in cun cammino di perseveranza.

Inizio del discorso di addio Inizia il discorso di addio con cui Pietro traccia le linee del suo testamento spirituale. In particolare, si insiste su ciò che deve essere ricordato” (vv. 12.13.15; cfr. 3, 1-2) per continuare a restare saldi nella verità. Il ricordo (cfr. 1 Cor 11,2-23ss.; 15,1; Lc 22,19; 24,6; Gv 2,22; 12,16; Gd 5.17) non è il semplice richiamo a qualcosa che è accaduto nel passato, né tantomeno la conoscenza mnemonica di nozioni religiose, ma è quella piena consapevolezza della verità di fede ossia della rivelazione affidata alla Chiesa da cui deve sprigionarsi quel dinamismo che porta i credenti di tutti i tempi ad immettere nella storia quella forza propria del messaggio evangelico: la predicazione della Chiesa non sarà altro che il “ricordo” della parola tramandata. Il passaggio alla vita eterna è descritto utilizzando l'immagine della «tenda» (v. 13), una metafora che da una parte sta ad indicare il corpo (Sap 2,15; 2Cor 5,1-4) e dall'altra allude alla vita nomade dei pastori quasi a sottolineare il carattere di transitorietà della vita umana, proprio di chi si trova nella condizione di pellegrino (cfr. 1Pt 1,17; 2,11; 2Cor 5,6; Eb 13,14). Non a caso il termine greco utilizzato per indicare la partenza è «esodo». L'insegnamento apostolico sarà anche affidato ad un documento scritto perché «in ogni occasione» la Chiesa potrà trovarne vantaggio. Il v. 15 segnala la trasformazione della tradizione apostolica in Scrittura.

La memoria della trasfigurazione del Signore La differenza tra quanto propagandato dai falsi maestri e gli insegnamenti degli apostoli passa attraverso la storia: se la speculazione degli eretici si basa su «favole artificiosamente inventate» (cfr. 1Tm 1,4; 4,7; 2Tm 4,4; Tt 1,14), la testimonianza apostolica è fondata su “ciò che è stato visto”, un'espressione quest'ultima caratteristica dei culti misterici greci per indicare il grado più elevato d'iniziazione. Il contrasto tra storia della salvezza e mitologia è netto poiché quest'ultima esprime la forza creatrice dell'uomo che cerca attraverso il mito la possibilità di varcare il proprio limite: ma ciò, in realtà, lascia l'uomo prigioniero di se stesso. Nel mondo greco con il termine «mito» si designavano sia le leggende mitologiche e cosmologiche sia gli oracoli rivelati, probabilmente circolavano nell'ambiente tendenze che cercavano la spiegazione di vari aspetti della vita umana proiettandoli nel tempo passato, fino a raggiungere la zona ideale della mitologia. Il cristianesimo, con i suoi riferimenti all'Antico Testamento, poteva dare adito a queste speculazioni, ma ciò minava la validità del messaggio cristiano, fondato sulla presenza concreta della persona di Gesù Cristo nella storia degli uomini. La rievocazione della scena della trasfigurazione ha un valore di anticipazione perché, attraverso la testimonianza della parola di Dio su Cristo, manifesta che questi è partecipe della natura divina, viene proclamato Signore e con gloria e potenza si renderà manifesto nella parusia. I credenti possono avere la certezza che egli, quale Cristo della gloria che ora è in cielo, si mostrerà nella parusia. Il testo greco, quando parla di venuta, utilizza il termine parousia, che ben presto diventerà un termine tecnico per indicare la seconda venuta. Sulla trasfigurazione il testo di 2 Pt si discosta dai Sinottici (cfr. Mc 9,2-13; Mt 17,1.9; Lc 9,28-36); in particolare, omettendo l'invito ad ascoltare il Figlio (cfr. Mc 9,7c), si pone in risalto che attraverso la testimonianza degli apostoli il Figlio sarà ascoltato in tutte le epoche.

Affidabilità e solidità della profezia La profezia rappresenta la testimonianza più solida sulla venuta del Signore poiché la tensione verso l'avvenire, oltre ad essere testimoniata dalla predicazione e dall'esperienza degli apostoli, è saldamente fondata negli annunci degli antichi profeti. Vi è un procedimento simile a quello presentato in 1 Pt. Come in 1 Pt si associa al messaggio apostolico sulla perseveranza nelle sofferenze il discorso profetico incentrato nella predizione delle sofferenze di Cristo e della sua gloria (cfr. 1Pt 1,10), così in 2Pt la manifestazione finale di Cristo è indicata dai profeti. La profezia è come una piccola luce che brilla in un luogo tenebroso: ha il compito di indicare il cammino di speranza fino a quando non splenderà il giorno del Signore (cfr. Rm 13,12; 1Ts 5,2; 1Cor 1,8), allorché Cristo stesso si manifesterà per un giorno che non avrà mai fine e la verità illuminerà la mente dei fedeli per cui non ci sarà più bisogno della testimonianza delle Scritture (cfr. 1Cor 13,10-13; Ap 21,22;22,5). Il simbolismo della «stella del mattino» era familiare ai primi cristiani (Ap 2,28 e 22,16; Ger 23,5; Zc 3,8). I v. 20-21 rappresentano insieme a 1Tm 3,14 il passo più importante per quanto riguarda il carisma dell'ispirazione della Scrittura. Se i profeti hanno potuto essere portavoce di Dio (profezia-parola cioè orale) grazie all'azione dello Spirito, ne consegue che nessuna «scrittura profetica» (lett.: «profezia scritta») può essere interpretata per fini personali ed arbitrari. Gli scritti profetici e la profezia-parola (orale) sono posti entrambi sul medesimo piano e partecipano ugualmente dello Spirito di Dio. La profezia nel suo aspetto esteriore è parola umana, ma nella sua intima natura è parola di Dio. Perciò la parola dei profeti che è parola di Dio non consente un'interpretazione arbitraria, ma deve essere letta nell'alveo di una tradizione di senso che porta a comprendervi il Figlio prediletto.


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Agli anziani e ai neofiti 1Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: 2pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio, non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, 3non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. 4E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce. 5Anche voi, giovani, siate sottomessi agli anziani. Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili.

Ai fedeli 6Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti al tempo opportuno, 7riversando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi. 8Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare. 9Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo. 10E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta. 11A lui la potenza nei secoli. Amen!

Motivo della lettera 12Vi ho scritto brevemente per mezzo di Silvano, che io ritengo fratello fedele, per esortarvi e attestarvi che questa è la vera grazia di Dio. In essa state saldi!

Saluti 13Vi saluta la comunità che vive in Babilonia e anche Marco, figlio mio. 14Salutatevi l’un l’altro con un bacio d’amore fraterno. Pace a voi tutti che siete in Cristo!

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA DI PIETRO – introduzione, traduzione e commento di ALBERTO BIGARELLI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2016)

Agli anziani e ai neofiti Di fronte alle ostilità sociali incontrate dai destinatari della lettera sono necessarie guide pastorali di alto profilo. Perché le comunità rimangano fedeli nel fare il bene e salde nell'unità, ci vogliono leader dediti non al proprio interesse privato, ma alla custodia dell'intera comunità. Gli «anziani» a cui si rivolgono i vv. 1-4 sono capifamiglia a cui l'età e la condizione sociale hanno fatto guadagnare una posizione di prestigio e di guida all'interno della loro comunità locale. Non sono persone che occupano un posto particolare nella struttura “gerarchica” e organizzativa delle comunità cristiane, ma coloro ai quali, per tradizione, sono conferite autorità e responsabilità. La collegialità e la cooperazione richieste agli «anziani» sono sottolineate dal fatto che l'autore gli scrive affermando di essere anche lui “uno di loro”. L'autore però sottolinea anche ciò che lo identifica e lo differenzia: egli si presenta come «testimone delle sofferenze di Cristo». Il fatto di essere testimone richiama l'obiettivo della lettera (cfr. v. 12): dare testimonianza che la pienezza della grazia di Dio è presente e oprante nella loro esperienza di cristiani. L'autore identifica tre caratteristiche necessarie per svolgere bene il compito di guida degli anziani (vv. 2-3).

  1. La comunità è immaginata come il gregge di Dio, che ha Cristo come capo dei pastori e gli anziani come guardiani-sorveglianti. Il compito descritto con questa immagine è quello dell'istruzione sui temi della fede, la guida morale, la protezione del gregge, al consulenza organizzativa e l'amministrazione delle risorse.

  2. Gli anziani sono ammoniti perché il loro servizio alla comunità sia volontario e con una “buona disposizione verso Dio” non motivato dall'interesse di una guadagno economico. L'attaccamento al denaro è una cosa disonorevole per il cristiano! In genere le guide cristiane ricevono una sorta di compenso per il loro lavoro a favore della comunità, come il vitto e l'alloggio, indumenti o qualche altra forma di “stipendio”. Inoltre la “sorveglianza” può comportare qualche responsabilità verso le finanze della comunità e le proprietà comuni. Tutto ciò giustifica il richiamo ad essere persone libere da ogni avidità e guadagno.

  3. Occorre assolutamente evitare che “l'anziano”, una volta ricevuto l'incarico, lo pieghi a proprio vantaggio, invece di avere una dedizione esemplare alla comunità. L'autorità esemplare è quella di Gesù pastore, colore che lo rappresentano devono tendere ad assomigliargli il più possibile in tutto.

Al v. 4 la metafora del pastore è applicata a Cristo, con la conseguenza che gli anziani-pastori sono subordinati a lui, pastore supremo. Secondo il nostro autore con l'arrivo escatologico del pastore supremo gli anziani-pastori che hanno operato nel suo nome riceveranno la loro gloriosa ricompensa, indicata con l'immagine della corona.

Al v. 5 si passa all'esortazione rivolta ai giovani, che sono la naturale controparte degli anziani. In questo caso si sta parlando di “neofiti”, giunti da poco alla fede, “giovani” di conversione. A costoro si dice che devono stare sottomessi agli anziani. La sottomissione viene sottolineata ancora una volta per l'importanza che ha per l'armonia all'interno della comunità cristiana. Il rispetto e la subordinazione agli anziani, ai genitori e ai capi erano atteggiamenti “dovuti”. L'insistenza sull'umiltà si fonda sull'umiltà stessa di Gesù e non ha nulla di degradante; è piuttosto l'accettazione della propria posizione sociale. Nel mondo latino e greco l'umiltà era propria degli schiavi, indegna degli uomini liberi; per i cristiani, invece, significava il riconoscimento e l'accettazione del proprio ruolo nel progetto di Dio, la sottomissione alla sua volontà, la fiducia nel suo generoso favore e sostegno, la rinuncia all'ambizione e al dominio sugli altri. Ognuno di questi atteggiamenti contribuisce all'armonia e alla coesione della comunità.

Ai fedeli Il fatto che Dio sia benevolo verso gli umili spinge ad essere umili verso di lui. Come Dio ha risuscitato Gesù Cristo e lo ha onorato, così innalzerà e onorerà quelli che partecipano alla vita di Cristo. L'umiltà davanti a Dio è la condizione e il preludio alla propria esaltazione: tale capovolgimento riecheggia un motivo ricorrente nella storia della relazione di Dio con il suo popolo.

Affidare a Dio le preoccupazioni è un modo per sottomettersi al suo paterno interessamento, per credenti che vivono un presente ricco d'insidie e hanno un futuro incerto: in ogni circostanza Dio offre loro la sua protezione! Gesù stesso ha sottolineato la cura paterna di Dio per le sue creature come motivo per non essere preoccupati e ansiosi (cfr. Mt 6,25-34; Lc 12,22-34).

Ma avere un Dio vicino non vuol dire sfuggire a una società ostile e alla sua dimensione demoniaca. La situazione difficile e precaria in cui si trovano i credenti richiede un appello alla vigilanza. Dietro lo sforzo di un ambiente ostile, preoccupato di riassorbire, neutralizzare ed eliminare il movimento cristiano, forzandolo a rientrare negli standard di valori estranei al Vangelo e alla volontà di Dio, s'intravede un nemico formidabile, il principe di tutte le forze infernali: il «diavolo».

Paolo non usa mai questo termine, preferisce «satana»; il termine appare solo nelle lettere “deuteropaoline”. Il termine ebraico «satana» era usato sia per le figure angeliche che umane. Nel NT i due termini sono interscambiabili nel designare il principale avversario soprannaturale di Dio e del suo popolo. Egli è «colui che della morte ha il potere» (Eb 2,14) e che afferma che tutti i regni della terra sono nelle sue mani (cfr. Lc 4,6). Il suo è il potere delle tenebre (cfr. Lc 22,53), opposto al potere della luce (cfr. At 26,18). È l'origine di ogni peccato e di ogni malvagità (cfr. Mc 4,15: Lc 22,3; Gv 8,44; 13,27; At 5,3; Tm 5,15), il grande ingannatore delle nazioni (cfr. Ap 20,3-8), colui che realizza deliri di massa. Originariamente le figure angeliche negative erano considerate accusatori celesti sotto il controllo di Dio (cfr. Nm 22,22.32; Gb 1,6-12; 2,1-7). Il loro compito era quello di esaminare e verificare l'autenticità della lealtà e delle virtù umane. Nel tardo post-esilio questa figura fu vista come una forza del male indipendente e opposta a Dio e al suo popolo (cfr. 1Cr 21,1; Zc 3,1-2), come colui che affligge il genere umano. Questo periodo postesilico è contrassegnato dallo sviluppo di un'angelologia e una demonologia elaborate, che mostrano che vi sono non solo spiriti buoni, ma anche spiriti malvagi che abitano le regioni celesti influendo sulle vicende umane. Nello stesso tempo la concettualizzazione e la descrizione del demonio come una potenza personale, sviluppata sotto l'influenza del dualismo persiano, si arricchì ulteriormente nel II e nel I sec a.C.

La tradizione che ha preso origine da Gen 6,1-4 ha immaginato un esercito di spiriti angelici e malvagi con a capo Satana, che si era ribellato contro Dio abbandonando i cieli e compiendo devastazioni tra gli uomini, causando malattie, suscitando invidie, ostilità, odio, dissensi, guerre e tante occasioni di morte. Questa personificazione del maligno fu anche identificata con il serpente tentatore: Sap 2,24 afferma che «per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo», ma ciò nonostante la sua presunzione e la sua potenza sarebbero state vanificate (cfr. Is 14,12-15). Il cristianesimo primitivo adottò e adattò questo modo di pensare.

Il leone è simbolo di grande forza (cfr. Pr 30,30), ma è anche il distruttore del gregge (cfr. Am 3,12) e strumento di morte (cfr. Dn 6,16-28). Il suo ruggito suscita paura e terrore. Solo in alcuni casi vengono paragonati a leoni fortissimi Dio (cfr. Os 13,7; Am 1,2; 3,7-8; Gb 10,6; Lam 3,10), Giuda e i suoi re (cfr. Gen 49,9; Ez 19,2-9) o il Messia, il leone della tribù di Giuda (cfr. Ap 5,5). Più frequentemente sono gli empi (cfr. Sal 10,9; 17,12) o i nemici d'Israele ad essere paragonati ad un leone che assale i giusti o il gregge di Dio (cfr. Is 5,29; Ger 2,15; 4,7; 5,6; Ez 32,2; Gl 1,6; Na 2,11-12; Mi 5,8; Sal 7,3; 17,8-12; 22,14; Dn 7,4.17).

L'immagine del leone applicata al diavolo è unica nella Bibbia; trasmette l'idea di un avversario contraddistinto da ferocia mortale e da una grande forza divoratrice. In altri passi del NT si parla di lupi che minacciano il gregge di Dio (cfr. Mt 7,15; 10,16; Lc 10,3; Gv 10,12; At 20,29). Due passi del NT possono essere paragonati a questo versetto di 1 Pietro: scrivendo a Timoteo, Paolo dice: «Così fui liberato dalla bocca del leone» (2Tm 4,17); e l'autore dell'Apocalisse descrive l'Impero romano come una bestia che sale dal mare e ha «la bocca di leone» (13,2). È il Sal 21,14 che ha influenzato i vocaboli adoperati qui: «Tengono aperte su di me le loro fauci, leoni ruggenti, pronti a sbranare».

Il verbo «divorare», che significa anche «inghiottire», «trangugiare» si usa per le bestie feroci che si accaniscono sulla preda (cfr. Gio 2,1; Tb 6,2) ed è molto appropriato nella descrizione del Diavolo.

La presenza del Diavolo e la sua attività registrate nei vangeli e nelle letteratura apostolica sono variegate e innumerevoli, ma i discepoli di Cristo possono resistere alle sue seduzioni e tentazioni perché Gesù ha sgominato questo avversario e ha vinto il suo potere di danneggiare e uccidere. I credenti non devono lasciargli lo spazio di operare (cfr. Ef 4,27); se gli resisteranno, infatti, egli fuggirà da loro (cfr. Gc 4,7) e Dio lo schiaccerà sotto i loro piedi (cfr. Rm 16,20). Per altro verso, i peccatori e gli oppositori umani dei cristiani sono consegnati al potere di Satana (cfr. 1Cor 5,5; 1Tm 1,20) e sono etichettati nell'Apocalisse «sinagoga di Satana» (2,9; 3,9) o appartenenti al diavolo (cfr. Gv 8,44; At 13,10; 1Gv 3,8.10). Quella di demonizzare gli estranei è una scelta tipica dei gruppi minoritari, quali il movimento dei discepoli di Gesù, quando affrontano un contesto ostile; nel nostro caso l'ostilità è una pressione perché il cristianesimo si assimili alla cultura del mondo pagano circostante, come appare evidente in molti passi del Nuovo Testamento (cfr. Mt 16,33; Mc 8,33; Gv 6,70; 8,44; At 13,10; 1Gv 3,8-10; Ap 2,9.13.24; 3,9; 12,18; 20,2-3.7-10). D'altra parte l'invito a resistere (v. 9) alle seduzioni, all'arroganza e all'ostilità demoniaca richiama l'opposizione di Dio agli arroganti (v. 5). L'accondiscendenza a una forma estranea di condotta potrebbe condurre all'assimilazione e l'assimilazione all'asfissia completa del movimento cristiano. Comandi simili a questo, cioè di resistere al maligno (cfr. Gc 4,7; Ef 4,27;6,11-12.16), riflettono la più antica tradizione esortativa cristiana, associata alle prime catechesi battesimali. Il corrispettivo positivo dell'esortazione e la saldezza nella fede, intesa come impegno incrollabile verso Dio e verso Cristo.

Per motivare l'invito alla resistenza, i destinatari dell'Asia Minore sono invitati a ricordare che la loro esperienza di sofferenti è la stessa che vivono i fratelli di fede sparsi nel mondo. Degno di nota è il fatto che per descrivere l'intera comunità cristiana l'autore preferisca «fraternità» piuttosto che «Chiesa». «Fraternità» infatti esprime la natura familiare e solidale della comunità credente, i cui membri sono «figli di Dio» (cfr. 1Pt 1,14), che devono essere obbedienti al loro Padre (cfr. 1,2-3.14-17) e amarsi uni gli altri (cfr. 1,22; 2,17; 3,8; 4,8). La situazione difficile in cui si trovano i credenti dell'Asia Minore non è atipica o isolata, come potrebbero essere portati a pensare, ma caratteristica di tutti coloro che sono solidali alle sofferenze di Cristo. In quest'unità c'è molta forza. La portata consolatoria del v. 9 è rafforzata dal contesto: i destinatari, sebbene possano essere esposti alla minaccia dei nemici di Dio, sono alla fine nelle mani di un Creatore che può proteggerli (cfr. 5,6-7.10). Con i loro fratelli e le loro sorelle nella fede possono resistere dovunque agli attacchi del demonio e dei suoi emissari, perché il Dio potente (cfr. 5,6.11), che li ha chiamati alla fraternità, li sosterrà sempre.

Nel finale non poteva mancare il riferimento alla sofferenza dei credenti, per giungere alla conclusione con una dossologia, in cui si celebra il potere divino; simile a quella di 4,11.

Motivo della lettera La lettera si conclude con la lode di Silvano, a cui è stata affidata la lettera, affinché gli venga riservata un'accoglienza cordiale e un ascolto attento. Coloro che sono rinati a vita nuova grazie alla risurrezione di Gesù Cristo e sono diventati membri della famiglia dei discepoli, sono quello che sono per l'azione della grazia: devono però rimanere fermi in quella grazia divina che ha plasmato il loro passato, modella il loro presente e fiorirà nel loro futuro.

Saluti I saluti esprimono il caloroso affetto che univa i mittenti ai fratelli e alle sorelle dell'Asia Minore. Il nome «Babilonia» viene usato metaforicamente e localizza i mittenti a Roma. Come attestano anche le lettere di Paolo, le comunità cristiane praticavano il bacio (v. 14) non come rituale frettoloso, ma come un'autentica espressione d'amore all'interno della fraternità. Quest'espressione intima di solidarietà è molto appropriata in 1 Pietro, dove il più importante simbolo ecclesiale della comunità è quello del nucleo familiare, della casa di Dio in cui l'amore e la fraternità sono tanto sottolineati (cfr. 1,8.22; 2,11.17; 3,8; 4,8.12). La lettera chiude con un augurio del tutto convenzionale di pace (cfr. Ef6,23; Eb 13,20; 3Gv 15). Come l'autore ha aperto la lettera desiderando per i suoi lettori questo dono divino (cfr. 1Pt 1,2), allo stesso modo la conclude. Se è vero che la pace si manifesta in un buono stato di salute e nella comune concordia, qui è implicata anche la sua dimensione escatologica e cristologica, essendo fondata nella relazione tra i destinatari e Cristo, come dice l'ultimo termine dello scritto. Quelli che sono rinati grazie alla risurrezione di Cristo, che vivono secondo il suo esempio e condividono la sua gloria sono destinatari di quella pace che è accessibile a tutti coloro che sono «in Cristo». Anche di fronte a un'aspra ostilità, il loro cuore può stare in pace, una pace assicurata da un' ininterrotta cura e protezione divina. La lettera da Roma è il primo documento conosciuto che riguarda i cristiani della capitale e indirizzato alle sorelle e ai fratelli osteggiati in Asia Minore. Questo impegno, per rendere più forte il legame fra le comunità di Roma e le fraternità all'estero, è stato un piccolo ma significativo passo nella costruzione di un ponte che unisse la Chiesa di Roma con le Chiese sparse nell'Impero. Il ponte doveva essere attraversato più volte, e in entrambe le direzioni, nel successivo sviluppo della storia della cristianità.


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Tenere le distanze dal paganesimo 1Avendo Cristo sofferto nel corpo, anche voi dunque armatevi degli stessi sentimenti. Chi ha sofferto nel corpo ha rotto con il peccato, 2per non vivere più il resto della sua vita nelle passioni umane, ma secondo la volontà di Dio. 3È finito il tempo trascorso nel soddisfare le passioni dei pagani, vivendo nei vizi, nelle cupidigie, nei bagordi, nelle orge, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli. 4Per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione, e vi oltraggiano. 5Ma renderanno conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti. 6Infatti anche ai morti è stata annunciata la buona novella, affinché siano condannati, come tutti gli uomini, nel corpo, ma vivano secondo Dio nello Spirito.

La vicinanza della parusia 7La fine di tutte le cose è vicina. Siate dunque moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera. 8Soprattutto conservate tra voi una carità fervente, perché la carità copre una moltitudine di peccati. 9Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare. 10Ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. 11Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!

La beatitudine nella sofferenza 12Carissimi, non meravigliatevi della persecuzione che, come un incendio, è scoppiata in mezzo a voi per mettervi alla prova, come se vi accadesse qualcosa di strano. 13Ma, nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. 14Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria, che è Spirito di Dio, riposa su di voi. 15Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. 16Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; per questo nome, anzi, dia gloria a Dio. 17È questo il momento in cui ha inizio il giudizio a partire dalla casa di Dio; e se incomincia da noi, quale sarà la fine di quelli che non obbediscono al vangelo di Dio? 18E se il giusto a stento si salverà, che ne sarà dell’empio e del peccatore? 19Perciò anche quelli che soffrono secondo il volere di Dio, consegnino la loro vita al Creatore fedele, compiendo il bene.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA DI PIETRO – introduzione, traduzione e commento di ALBERTO BIGARELLI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2016)

Tenere le distanze dal paganesimo L'esperienza di Cristo serve ancora una volta da motivazione per la condotta dei destinatari. Dopo la sollecitazione a sposare la stessa mentalità che accompagnò Gesù Cristo nella prova, l'autore si sofferma sulla sofferenza fisica stessa, sulle sue implicazioni e sulle sue conseguenze. Il riferimento soggiacente è l'azione disciplinatrice della sofferenza, viene dalla sapienza israelitica che l'applicava particolarmente nel campo dell'educazione dei fanciulli. Intesa così la sofferenza disciplina il corpo fisico con il quale si compie il peccato e allena a rompere con i cattivi comportamenti. Il credente deve tenersi lontano dalle passioni e dai vizi che si oppongono al benessere e alla coesione della comunità. I pagani rimangono stupiti del fatto che per i credenti la conversione abbia richiesto di rompere con un comportamento che per loro è normale e quindi parlano e agiscono in modo cattivo contro di loro! Essi ne «renderanno conto» a Dio. L'intervento divino è in favore dei credenti oppressi, sia vivi che defunti, così come lo testimonia l'esperienza stessa di Gesù Cristo.

La vicinanza della parusia La prospettiva escatologica conferisce una particolare urgenza all'esortazione: insieme all'esclusiva adorazione di Dio, alla fedeltà a Gesù come Messia e all'attenzione al sostegno reciproco, il senso dell'imminenza del giudizio divino è ciò che distingue la comunità cristiana dai contemporanei. Autocontrollarsi ed evitare gli eccessi erano considerarti essenziali per l'armonia sociale e la concordia di un gruppo. Il cristianesimo delle origini ha sempre sottolineato la necessità di giudizi sani e il controllo dei desideri e delle brame come espressioni di santità personale. Ma La preoccupazione più grande dell'autore è che in quel momento storico particolare le comunità cristiane a cui si rivolge perseverino in una “sana” vita di preghiera. Dopo aver parlato della preghiera come espressione della relazione dei cristiani con Dio, l'autore volge l'attenzione a quelle azioni che mantengono un rapporto fraterno e “sano” tra i credenti. Al v. 9 s'individua nell'ospitalità un'espressione pratica e costante dell'amore fraterno. Nell'insieme, l'incoraggiamento alla sobrietà mentale, alla vigilanza, all'amore, al perdono, all'ospitalità, al dialogo e al servizio ha come scopo quello di rafforzare l'unità della comunità, necessaria di fronte all'ostilità dell'ambiente pagano. Una dossologia che conclude questo paragrafo (cfr. 5,11 la conclusione della lettera) è una pausa nell'esortazione, ma allo stesso tempo prepara ciò che segue. La gloria di Dio è anche la gloria che rimane sui credenti, quella che viene loro riconosciuta mentre soffrono come cristiani.

La beatitudine nella sofferenza L'autore si rivolge ai suoi destinatari per chiarire che le sofferenze non devono essere considerate un elemento estraneo, così da generare sorpresa tra loro. Come già affermato in precedenza, i credenti soffrono come ha fatto il loro Signore. Lo specifico del cristianesimo è che lo stesso Messia soffre e pertanto i suoi discepoli non possono immaginare di essere esentati dalla sofferenza, piuttosto sono compartecipi di quella del loro Signore. A ciò si aggiunge che, anche nel dolore, i credenti hanno motivo per essere pieni di gioia. Infatti, coloro che hanno partecipato alla sofferenza innocente di Cristo parteciperanno anche alla sua gloria nel giorno della rivelazione finale. Il punto di partenza del giudizio finale sarà proprio «la casa di Dio», il suo popolo. La comunità cristiana, ancora una volta, è descritta come casa e famiglia di Dio, una casa spirituale, cioè animata dallo Spirito Santo. Il giudizio ad essa rivolto non è di condanna, ma di valutazione, di verifica e di difesa. Per coloro che disobbediscono al Vangelo e non appartengono alla casa di Dio, invece il giudizio sarà diverso! Tutto questo dà valore alla sofferenza innocente senza però incoraggiarla come qualcosa di buono! La salvezza non è liberazione dalla sofferenza, ma un traguardo raggiunto attraverso la sofferenza o in mezzo alle sofferenze. Con lo sguardo fisso su questo traguardo, i cristiani possono perseverare facendo il bene e confidando nel sostegno di Dio.


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Mogli e mariti 1Allo stesso modo voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti, perché, anche se alcuni non credono alla Parola, vengano riguadagnati dal comportamento delle mogli senza bisogno di discorsi, 2avendo davanti agli occhi la vostra condotta casta e rispettosa. 3Il vostro ornamento non sia quello esteriore – capelli intrecciati, collane d’oro, sfoggio di vestiti – 4ma piuttosto, nel profondo del vostro cuore, un’anima incorruttibile, piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio. 5Così un tempo si ornavano le sante donne che speravano in Dio; esse stavano sottomesse ai loro mariti, 6come Sara che obbediva ad Abramo, chiamandolo signore. Di lei siete diventate figlie, se operate il bene e non vi lasciate sgomentare da alcuna minaccia. 7Così pure voi, mariti, trattate con riguardo le vostre mogli, perché il loro corpo è più debole, e rendete loro onore perché partecipano con voi della grazia della vita: così le vostre preghiere non troveranno ostacolo.

Invito all'umiltà e alla mitezza 8E infine siate tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili. 9Non rendete male per male né ingiuria per ingiuria, ma rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione. 10Chi infatti vuole amare la vita e vedere giorni felici trattenga la lingua dal male e le labbra da parole d’inganno, 11eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua, 12perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie sono attente alle loro preghiere; ma il volto del Signore è contro coloro che fanno il male.

Beatitudine e speranza nella sofferenza 13E chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? 14Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, 15ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. 16Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. 17Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male,

L'efficacia salvifica della risurrezione di Cristo 18perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. 19E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, 20che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua. 21Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. 22Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA DI PIETRO – introduzione, traduzione e commento di ALBERTO BIGARELLI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2016)

Mogli e mariti Continua il tema della “condotta onorata”, questa volta l'autore si rivolge alla famiglia, in particolar modo ai coniugi nella loro situazione concreta. Nel v. 1 l'esortazione alle mogli è fatta utilizzando il verbo precedente «essere sottomessi», così viene indicata una somiglianza circa la subordinazione e il rispetto che le mogli, come gli schiavi domestici, devono vivere. Nell'antica società patriarcale la sottomissione della moglie al proprio marito era considerata una realtà, dettata dalle differenze fisiche e mentali. La femmina era generalmente inferiore per natura al maschio ed era affidata alla sua protezione. Attraverso la loro subordinazione si riteneva che le mogli dimostrassero la loro lealtà verso i mariti e mantenessero alto l'onore e la buona reputazione delle famiglie, anche quelle dalle quali provenivano. Una famiglia ben ordinata portava beneficio a tutta la società. L'autore di 1Pt condivide questa idea di sottomissione delle donne, ma ne dà una ragione decisamente cristiana e senza paralleli nel NT: anzitutto sostiene che la sottomissione e una condotta santa possano vincere la resistenza alla fede da parte dei mariti non credenti (quelli che «non credono alla Parola»). La realtà dei matrimoni “misti” nelle prime comunità cristiane è trattata anche da Paolo in 1Cor 7,12-16. Le donne che sono diventate cristiane dopo il matrimonio hanno l'opportunità di far conoscere ai mariti non credenti la realtà della comunità cristiana, che magari non avrebbero avuto altre occasioni di conoscenza. Data la loro condizione di sottomissione le mogli non avrebbero potuto forzare i loro mariti alla conversione! Ma, in quanto membri della comunità cristiana, le donne attraverso il loro comportamento esemplare, sono chiamate a diventare esempio di condotta per tutti, sia per i mariti che per i pagani in generale. Quindi ciò che viene chiesto alle donne è, in realtà, richiesto a tutti i cristiani delle comunità a cui si rivolge 1Pt. Al v.7 l'autore si rivolge ai mariti, prendendo in considerazione i matrimoni di coniugi entrambi cristiani. I mariti sono incoraggiati a «onorare» le proprie mogli: entrambi sono chiamati alla «vita eterna» quindi anche se non c'è uguaglianza sociale, marito e moglie hanno lo stesso destino: «partecipano [insieme] della grazia della vita».

Invito all'umiltà e alla mitezza I destinatari sono sollecitati a curare gli aspetti caratteristici che accrescono la coesione interna e la solidarietà della comunità. Come comunità di minoranza i cristiani sono invitati a rispondere al male con il bene, seguendo con amore l'esempio di Cristo. Viene citato il Sal 33,13-17 per rassicurare i giusti sofferenti, che riceveranno la benedizione divina per il comportamento retto e per il rifiuto di reagire al male con il male. Trattenere la lingua dal pronunciare cattiverie è il primo passo da fare se si vuole entrare in una vita benedetta. Un secondo ostacolo all'ingresso nella vita benedetta è compiere azioni malvagie; mentre compiere il bene e attuare la giustizia ne sono la porta di accesso. Questo coinvolge la ricerca della pace in tutti gli ambiti: sociale, personale e religioso.

Il punto centrale di questa parte che si conclude al v. 12 non è la sottomissione, ma compiere il bene ed evitare il male.

Beatitudine e speranza nella sofferenza Dal v. 13 in avanti, viene introdotto il tema della sofferenza. I credenti, anche se in questa vita hanno sperimentato maltrattamenti e insulti, non potranno essere privati della grazia della vita al momento dell'apparizione ultima di Gesù Cristo. Il v. 17 è il culmine del discorso sul tema della sofferenza che si subisce nel fare ciò che è giusto, affermando che è meglio soffrire facendo il bene, piuttosto che che soffrire per aver agito male. La sofferenza innocente per avere fatto il bene è un grande onore agli occhi di Dio, come Gesù stesso ha assicurato ai discepoli. La volontà di Dio non è quella di amare la sofferenza per la sofferenza, ma quella di accettare (e apprezzare) la sofferenza nel compiere il bene. La perseveranza dei credenti, pur nella sofferenza, è il modo migliore perché i pagani, non aspettandosi un atteggiamento così innaturale ai loro occhi, ricevano una testimonianza convincente della forza del Vangelo che trasforma e irrobustisce tante vite.

L'efficacia salvifica della risurrezione di Cristo Gesù è il giusto sofferente e la sua sofferenza vicaria ha efficacia perché Dio l'ha risuscitato dai morti e innalzato nella gloria, all'onore e alla potenza celeste. Coloro che partecipano alla sua sofferenza innocente parteciperanno anche alla gloria della sua risurrezione. Il battesimo, come azione salvifica, è corrispondente all'antica salvezza di Noè e della sua famiglia ma dopo la Pasqua di Gesù ora è associato alla sua risurrezione. All'interno dell'affermazione della risurrezione e dell'ascensione di Cristo, che costituisce il centro dell'annuncio cristiano, l'autore ha inserito elementi tradizionali sul diluvio che mostrano una corrispondenza tra la salvezza della famiglia di Noè e la salvezza dei credenti.


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Rinuncia al male e desiderio della Parola 1Allontanate dunque ogni genere di cattiveria e di frode, ipocrisie, gelosie e ogni maldicenza. 2Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, 3se davvero avete gustato che buono è il Signore.

Gesù Cristo pietra angolare del popolo di Dio 4Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, 5quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. 6Si legge infatti nella Scrittura: Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso. 7Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo 8e sasso d’inciampo, pietra di scandalo. Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. 9Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. 10Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia.

Vivere come stranieri e forestieri 11Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai cattivi desideri della carne, che fanno guerra all’anima. 12Tenete una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita.

Sottomessi alle autorità civili 13Vivete sottomessi ad ogni umana autorità per amore del Signore: sia al re come sovrano, 14sia ai governatori come inviati da lui per punire i malfattori e premiare quelli che fanno il bene. 15Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti, 16come uomini liberi, servendovi della libertà non come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio. 17Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re.

Gli schiavi cristiani 18Domestici, state sottomessi con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli prepotenti. 19Questa è grazia: subire afflizioni, soffrendo ingiustamente a causa della conoscenza di Dio; 20che gloria sarebbe, infatti, sopportare di essere percossi quando si è colpevoli? Ma se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. 21A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: 22egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; 23insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. 24Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. 25Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA DI PIETRO – introduzione, traduzione e commento di ALBERTO BIGARELLI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2016)

Rinuncia al male e desiderio della Parola Il Battesimo impegna i cristiani a sbarazzarsi di ogni comportamento ipocrita e contrario alla verità ma è anche necessario che chi è stato “rigenerato nel fonte battesimale” si nutra della Parola che l'ha portato nella nuova vita. Il pensiero si sviluppa dalla rinascita all'alimentazione per la crescita. La metafora della rinascita e del nutrimento attraverso la Parola viene estesa al v. 3 con l'identificazione del soggetto principale di questa Parola: il Signore Gesù Cristo. Il linguaggio è derivato dal Sal 33 (34) v. 9: il salmo invita a gustare la bontà del Signore e questa espressione ben si adatta al contesto dove si parla del nutrimento del “latte”. La citazione del Salmo però è modificata per descrivere l'esperienza passata dei credenti, quando per la prima volta udirono la buona notizia del Vangelo.

Gesù Cristo pietra angolare del popolo di Dio La sofferenza ingiusta dei primi cristiani e il loro estraniamento sociale sono compensati dall'onore assicurato loro da Dio, onore attribuito come esito della loro rinascita divina, della loro fede in Cristo Gesù, della loro incorporazione nella casa o famiglia di Dio. I lettori sono esortati ad avvicinarsi nella fede a Gesù Cristo che viene presentato come «pietra vivente»: risuscitato da Dio è mediatore della vita a favore dei credenti che sono rinati attraverso la risurrezione e che ora possono agire con “rettitudine” e possiedono una “speranza viva”. Coloro che credono in lui costituiscono la “stirpe eletta” perché Dio che ha eletto e onorato Gesù opera ora nella costruzione della comunità cristiana. In 1Pt il fatto di condividere la vita in Cristo fornisce le basi e le motivazioni per essere partecipi anche delle sue sofferenze (cfr. 2,21-25; 3.13-18; 4,1.12-16; 5,1.10). L'appartenenza dei destinatari della lettera alla famiglia di Dio si trova in forte contrasto con la loro difficile condizione nella società, in cui vivono come stranieri e di passaggio. La consapevolezza di avere, in quanto credenti, questa comune identità di famiglia, pur essendo dispersi nelle regioni dell'Asia Minore, è un elemento essenziale per affrontare l'ostilità circostante: l'immagine della comunità cristiana come “casa” fa da presupposto al resto della lettera. Coloro che non credono inciampano perché non obbediscono alla Parola che è sia Gesù Cristo sia la buona notizia che lo riguarda. I credenti, invece, vengono descritti con espressioni prese dall'AT che lì erano riferite all'antico Israele: «stirpe eletta, residenza regale, comunità sacerdotale, nazione santa, popolo acquistato da Dio» e «popolo di Dio». Vengono così sottolineate l'elezione e la santità dei credenti, riconosciuti come eredi d'Israele e beneficiari delle attese dei profeti. I cristiani non sono chiamati a costituire un popolo nuovo, sono piuttosto il compimento escatologico d'Israele come popolo eletto e santo di Dio. Viene così completato e concluso il tema della rinascita, crescita e consolidamento della famiglia di Dio. È dato un fondamento comune all'identità e all'onore divino conferito ai cristiani come popolo dell'alleanza. Inoltre viene determinata una profonda differenza fra coloro che aderiscono per fede a Gesù Cristo e quelli che hanno respinto la «pietra vivente». L'unione particolare sia con il Padre che con Gesù Cristo, insieme alla loro esperienza della misericordia di Dio, serve come consolazione nel mezzo della sofferenza e come fondamento per l'esortazione seguente che riguarda anzitutto il comportamento della famiglia di Dio nella società.

Vivere come stranieri e forestieri Descrivendo i destinatari della sua lettera con i termini «stranieri e forestieri» derivati da Gen 23,4 l'autore lega la loro situazione di estraniamento sociale a quella dei loro antenati spirituali Abramo e Sara. Come l'antico Israele, i cristiani sono forestieri in una terra straniera e ostile. Nel medesimo tempo i credenti sono esortati ad impegnarsi con gli estranei, in modo tale che mentre manifestano la propria peculiarità, possono allontanare da loro i sospetti e persino attirare elogi.

Sottomessi alle autorità civili Il principio generale stabilito nei vv. 11-12 viene ora applicato nei rapporti con le autorità civili. L'esortazione a una condotta “onorevole”, rispettosa e collaborativa verso le autorità civili nell'esercizio delle loro funzioni (ovvero: punire i malfattori e onorare i cittadini virtuosi) viene fondata teologicamente «a motivo del Signore» «perché questa è volontà di Dio» (cfr. v.13 e v. 15). «Fare il bene» costituisce il tema chiave dell'etica petrina. Facendo il bene, i cristiani non solo lasciano senza parole i calunniatori, ma dimostrano ai propri vicini che condividono con loro un serio impegno per una condotta costruttiva e onorevole. Viene specificato ai cristiani che se sono nella condizione di cittadini liberi (e non schiavi domestici come coloro a cui l'autore si rivolgerò dal v. 18 in avanti) sono tenuti «per volontà di Dio» ad evitare l'abuso di libertà e non a sfruttare il loro stato come un “velo” per nascondersi e agire male. I cristiani sono liberi cittadini, ma nello stesso tempo sono servi di Dio, sua proprietà perché è Lui ad averli creati, riscattati e dato loro una nuova vita: chi obbedisce a Dio è veramente libero, questo è il paradosso cristiano! Il v. 17 indica che i cristiani, in quanto figli di Dio, si relazionano con le strutture sociali e con l'autorità in modo rispettoso. 1Pt e tutto il NT accettano come un dato di fatto l'autorità dell'imperatore, dei governatori, l'istituzione della schiavitù, la relazione di subordinazione della moglie al marito, la sottomissione dei giovani agli anziani. Mantenere l'ordine sociale assicurava una vita sicura e prospera della comunità. I cristiani erano sospettati e calunniati perché considerati stranieri o forestieri, perciò era necessario che i cristiani assicurassero ai loro vicini di non essere malfattori e che non avrebbero sfidato o messo in pericolo l'ordine sociale. 1Pt vuole affermare che le autorità civili e l'ordine sociale possono essere rispettati dai cristiani nella misura in cui questi non compromettono il primato di Dio creatore e salvatore.

Gli schiavi cristiani Gli schiavi domestici dovevano stare sottomessi non per paura, per finzione o per forza, ma per venerazione verso Dio e cercando la sua approvazione. Il punto centrale non è semplicemente la subordinazione dei domestici, ma fare ciò che è giusto, nonostante la sofferenza ingiusta. Viene presentata quindi un'altra motivazione: la solidarietà tra i servi che soffrono e Gesù “servo” di YHWH, che ha sofferto e ha lasciato il suo esempio da seguire. La citazione nei vv. 21-25 è tratta dal quarto canto del servo sofferente di Isaia (Is 52,13-53,12), ma viene “adattata” alla passione di Gesù in modo che emerga che l'effetto dell'atto con cui Cristo porta i nostri peccati è che «noi» (i credenti) siamo liberati dall'influenza e dall'impulso a compiere il male. Questo impulso conduce all'allontanamento da Dio che provoca la morte invece Cristo, consegnandosi alla morte, è stato capace di dare la vita. Grazie a questo «comportamento giusto e retto» Cristo ha reso possibile ai credenti la rinuncia al male e la capacità di compiere il bene. Cristo non è semplicemente un esempio di un autentico “servo sofferente”, ma anche colui che abilita il ristabilimento della comunione con Dio. L'ultimo versetto evoca l'immagine delle pecore e del pastore: l'AT ha parlato di Israele come di un gregge sperduto e senza pastore mentre Gesù, in relazione alla sua passione, viene descritto come il pastore che viene percosso, provocando la dispersione del gregge dei discepoli prima della sua morte. La comunità cristiana, dopo la risurrezione di Gesù, viene presentata come il gregge di Dio, il cui pastore supremo è Cristo. Il Cristo, il cui esempio i servi sono stati chiamati a seguire e la cui sofferenza li ha liberati dal fare il male e li ha resi capaci di vivere nella giustizia, è colui al quale Dio ha affidato la guida e la protezione dei credenti. La condizione sociale e la vocazione divina degli schiavi domestici rappresentano la vocazione e la condizione della comunità cristiana come tale. Per i servi e per l'intera comunità, Cristo è il servo sofferente di Dio, che sostiene con l'esempio e l'incoraggiamento.


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Indirizzo e saluto 1Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli che vivono come stranieri, dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell’Asia e nella Bitinia, scelti 2secondo il piano stabilito da Dio Padre, mediante lo Spirito che santifica, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi dal suo sangue: a voi grazia e pace in abbondanza.

Lode a Dio per i benefici della salvezza operata da Gesù 3Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, 4per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, 5che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo.

6Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, 7affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. 8Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, 9mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime.

10Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; 11essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite. 12A loro fu rivelato che, non per se stessi, ma per voi erano servitori di quelle cose che ora vi sono annunciate per mezzo di coloro che vi hanno portato il Vangelo mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo.

Diventare santi nel sangue di Gesù 13Perciò, cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri, ponete tutta la vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si manifesterà. 14Come figli obbedienti, non conformatevi ai desideri di un tempo, quando eravate nell’ignoranza, 15ma, come il Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta. 16Poiché sta scritto: Sarete santi, perché io sono santo. 17E se chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri. 18Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, 19ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. 20Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; 21e voi per opera sua credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio.

Amore fraterno fondato sulla Parola 22Dopo aver purificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, 23rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna. 24Perché ogni carne è come l’erba e tutta la sua gloria come un fiore di campo. L’erba inaridisce, i fiori cadono, 25ma la parola del Signore rimane in eterno. E questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunciato.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA DI PIETRO – introduzione, traduzione e commento di ALBERTO BIGARELLI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2016)

Indirizzo e saluto L'autore è uno solo, Pietro, anche se nella lettera appaiono altri due nomi: Silvano (in 5,12), e Marco (in 5,13). Diversamente da quelle paoline, la lettera è indirizzata a un lontano e molto esteso numero di comunità sparse nelle quattro province romane dell'Asia Minore; per tale ragione questo scritto può essere considerato la prima lettera enciclica “papale”. Le parole «apostolo di Gesù Cristo» identificano l'autore della lettera o, ancor meglio, l'autorità primaziale a cui è attribuita. L'indirizzo «ai fedeli che vivono come stranieri» è un'espressione particolarmente sintetica e significativa. È una metafora per descrivere la condizione in cui si trovano i destinatari della lettera: pur abitando in Asia Minore, in quella società sono pellegrini ed esuli; stranieri in terra straniera, sospettati e senza diritti. Come nelle comunità ebraiche della diaspora, anche in quelle cristiane l'impegno a conservare la propria identità era molto vivo. La Chiesa nasce per elezione: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). Infatti il dono della fede e l'accettazione della Parola non si spiegano né con la sapienza umana, né con la potenza, né con la nascita, ma con la sola scelta di Dio (cfr. At 15,7; 1Cor 1,26-31; 1Ts 1,4-5). La causa prima dell'elezione di cui parla Pietro è la «preconoscenza» di Dio (1,2), un termine che ricorre solo qui e in At 2,23 nel Nuovo Testamento. Esso non solo indica che la conoscenza di Dio precede assolutamente e cronologicamente la conoscenza umana, ma ha una connessione con la rivelazione che si è compiuta in Gesù Cristo, come si vede nei v. 19-20 di questo capitolo. Una conseguenza dell'elezione è la santificazione, che si produce attraverso l'azione dello Spirito di Dio che consacra, separa dal peccato, purifica (cfr. 1Cor 6,11; Eb 21,1; 10,10) e caratterizza ni modo preminente l'identità e la condotta cristiana (cfr. 1Pt 1,15.16; 2,5.9; 3,15). Elezione e santità sono, nell'Antico Testamento, qualità tipiche del popolo di Dio, contrassegnandolo come comunità dell'alleanza, separato rispetto agli altri popoli. Ciò che rende possibile al santificazione nello Spirito dei credenti è l'obbedienza di Gesù alla volontà del Padre, la sua sofferenza e la sua morte, compresa l'effusione del sangue, che hanno una grande forza rinnovatrice. Secondo il nostro autore (cfr. 1,18-19), il sangue di Cristo è un bene prezioso, perché prezzo e causa della redenzione.

Lode a Dio per i benefici della salvezza operata da Gesù Il corpo della lettera si apre con una benedizione rivolta a Dio Padre (vv. 3-5), un richiamo alla gioia in mezzo alle prove (vv. 6-9) e una sottolineatura della condizione privilegiata dei destinatari (vv. 10-12).

La benedizione esalta l'opera di Dio; si può pensare ad un uso liturgico del brano, che probabilmente è stato un inno battesimale. 1Pietro contiene un unico esplicito riferimento al battesimo (cfr. 1Pt 3,21), ma l'influenza della tradizione battesimale cristiana e i motivi che l'accompagnano sono evidenti in tutto lo scritto.

1Pt dall'inizio alla fine, è attenta al dilemma della sofferenza del cristiano, parla di gioia nella prova (cfr. 1,6; 3,14; 4,12-14), sottolinea la solidarietà con Cristo sofferente (cfr. 2,18-25; 3,13-4,1.13), la certezza della protezione divina (cfr. 1,4; 5,6-7.10-11) e il dono dello Spirito (cfr. 4,14); ha lo scopo non solo di motivare chi si trova di fronte al dolore (cfr. 1,6; 4,13), ma anche di ricordare ai credenti che la realtà della sofferenza è inevitabile e comune a tutti i cristiani (cfr. 4,12; 5,9). Al v.7, come in 4,12, la prova della lealtà del cristiano è paragonata a quella dell'oro attraverso il fuoco. È vero, infatti, che al fede è più preziosa dell'oro, ma come questo pregiato metallo viene purificato attraverso il calore del fuoco, così l'impegno e la fedeltà sono purificati nella fornace dell'afflizione. Il verbo «amare» al v. 8 indica l'attaccamento e la lealtà verso il Cristo, nonostante i lettori non abbiano avuto li privilegio di vederlo. Questo amore caratterizza l'esistenza cristiana, esprime familiarità, fiducia, affetto e rende possibile la gioia. Il v.9 qualifica la finale del v 8 confermando in prospettiva escatologica la prova della fede e il senso della gioia.

I vv. 10-12 sono incentrati sulla grazia straordinaria e sul privilegio esclusivo concessi ai destinatari, che li rendono superiori agli antichi profeti di Dio e persino agli angeli. Questo non perché abbiano ricevuto una nuova rivelazione, ma grazie alla sofferenza e alla gloria di Gesù Cristo. Nei vv. 10-12, dunque, troviamo enunciata la prospettiva ermeneutica per l'utilizzo della Scrittura proprio della lettera. Questi versetti affermano non solo la continuità fra il popolo escatologico di Dio e l'antico Israele, ma anche la demarcazione fra cristiani e Israeliti dovuta all'accoglienza o al rifiuto di Gesù come Messia. Quello che è evidente qui non è tanto un bilanciamento fra promessa e compimento, come appare nei vangeli, ma un netto contrasto fra le anticipazioni non realizzate dei profeti e una rivelazione che in questo contesto è grazia e buona notizia per i soli cristiani.

Diventare santi nel sangue di Gesù Il nostro autore sviluppa ulteriori aspetti dell'opera con cui Dio fa rinascere i credenti a vita nuova e le loro implicazioni in termini di speranza e di santità, preparando il terreno a ciò che segue. Un primo effetto della conversione dei destinatari, rinati per opera di Dio e divenuti figli, è che hanno in questo dono la ragione della loro speranza e dell'impegno per una condotta santa che li distingua dai non credenti. I credenti hanno già fatto l'esperienza della grazia di Dio, attraverso la fede nella morte e risurrezione di Gesù Cristo. Questa grazia sarebbe la base della speranza, mentre il traguardo sarebbe la sua conferma finale. La santità di Dio viene citata come base e modello del comportamento dei figli di Dio obbedienti. Sottolineando la santità, l'autore colloca i destinatari dentro la storia d'Israele e àncora la santità nell'unione con Cristo, così come quella di Israele lo è nel rapporto con YHWH, distinguendo fra i segnati dalla santità egli estranei, i lontani; fra una vita da empi precedente il battesimo e una condotta santa dopo al conversione. Come il«santo» Israele ha soggiornato in terra straniera, i destinatari della lettera sono sollecitati a non conformarsi al modo comune di vivere dei pagani ma, obbedendo a Dio, a vivere santamente, com'è santo colui che li ha chiamati. La loro santità è fondata sulla santità di Dio e di Gesù Cristo e ha un aspetto sia morale che sociale. Una condotta santa è l'obbedienza che i figli di Dio devono al loro Padre che è anche giudice, un'obbedienza che deve imitare quella di Gesù. I v. 18-21 contengono una serie di subordinate che descrivono fatti noti ai destinatari e servono come motivazioni agli imperativi che seguiranno in vista di una condotta di vita santa e rispettosa. In rapporto alla situazione dei credenti, il brano sottolinea il fatto che la fraternità cristiana è una minoranza vulnerabile, esposta ai sospetti e alle accuse dei vicini. Nonostante la famiglia di Dio si trovi in un ambiente estraneo, come lo era stato spesso in passato il popolo di Israele, ha motivo di sperare perché Dio la sostiene. Colui che un tempo liberò il suo popolo dall'Egitto e da Babilonia, ancora una volta, alla fine dei tempi ha liberato il suo popolo attraverso il sangue del Cristo, sofferente, risorto e glorificato. Questa fiducia e speranza in Dio è animata dall'unione col Messia ormai manifestato e che riapparirà presto, alla fine dei tempi. Questa speranza viva distingue i discepoli da tutti i gruppi non credenti (cfr. 3,15).

Amore fraterno fondato sulla Parola Questi versetti richiamano l'esperienza battesimale ed elaborano le implicazioni che ne derivano per uno stile di vita adeguato dentro la comunità cristiana: i credenti sono diventati non solo figli di Dio, ma anche fratelli e sorelle. Questa nuova identità esige la responsabilità dell'amore nella nuova famiglia di cui sono diventati membri e la lealtà verso i compagni credenti. La frase iniziale del v.22 descrive il cammino di conversione che deve vivere colui che vuole tenere le distanze dall'impurità del mondo pagano. L'«obbedienza», collegata alla santità nei v. 14-16 e qui alla purificazione, è l'azione che distingue i credenti dallo stile di vita precedente. Il termine «verità» si trova solo qui in 1Pietro, ma in 5,12 la «grazia di Dio» è proclamata «vera»: «obbedire alla verità», come «obbedire alla Parola» (cfr. 2,7-8) è il tratto distintivo di un figlio di Dio. Tale obbedienza sfocia in «un amore fraterno senza ipocrisie». L'imperativo «amatevi» costituisce il verbo principale dei v. 22-23 e segue logicamente ciò che precede: il comando dell'amore reciproco precisa cosa sia l'amore fraterno, mentre «cuore puro» riformula «senza ipocrisie» (cfr. Mt 5,8). Il verbo «amare» non ha nulla a che vedere con il senso moderno di amore: individualista, sentimentale e romantico. Designa piuttosto un atteggiamento di bontà, di apertura, disponibilità e stima. Non per nulla è il più grande dei carismi dello Spirito Santo (cfr. 1Cor 12,27-13,13) e va vissuto anzitutto nella comunità cristiana, rinnovandone continuamente i rapporti interni. Al v. 23 si identifica il seme incorruttibile attraverso il quale i cristiani sono rinati a vita nuova: la Parola vivente e permanente di Dio. L'autore, nel commento finale al passo di Isaia, identifica al parola riguardante il Signore come la buona notizia proclamata: afferma infatti che essa «vi è stata annunciata», sottolineando ancora una volta il “per voi” del Vangelo. In tale prospettiva, la citazione di Isaia illustra il carattere permanente della Parola, simboleggiata dal seme indistruttibile attraverso il quale sono stati rigenerati i figli di Dio. L'equivalenza fra parola e seme richiama l'interpretazione della parabola del seminatore in Mc 4,1-9.13-20 e paralleli, e la metafora della semina come annuncio del Vangelo (cfr. Mt 13,24-30; 1Cor 9,11).


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