📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Il Vangelo della gloria di Cristo annunciato con verità da Paolo 1Perciò, avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo. 2Al contrario, abbiamo rifiutato le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunciando apertamente la verità e presentandoci davanti a ogni coscienza umana, al cospetto di Dio. 3E se il nostro Vangelo rimane velato, lo è in coloro che si perdono: 4in loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio. 5Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù. 6E Dio, che disse: «Rifulga la luce dalle tenebre», rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo.

Il tesoro di Dio nella debolezza dell’apostolo e seconda tesi 7Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. 8In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; 9perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, 10portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. 11Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. 12Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita. 13Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, 14convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. 15Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.

Il rinnovamento dell’uomo interiore 16Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. 17Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: 18noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Il Vangelo della gloria di Cristo annunciato con verità da Paolo Paolo comincia al v. 1 tirando le conclusioni di quanto affermato in 2,14–3,18 riguardo al suo apostolato. egli sostiene che, avendo un ministero di tal fatta, in ragione della misericordia di Dio, lui e i suoi collaboratori non si scoraggiano. L’elemento della misericordia divina si riferisce alla chiamata di paolo, che da persecutore è stato fatto apostolo del Vangelo, ma anche degli altri missionari che insieme con lui condividono lo stesso servizio di annuncio, in quanto inviati da Dio (cfr. 2,17) che da lui ricevono la capacità per agire (cfr. 3,5). Inoltre, il «non ci perdiamo d’animo» richiama la coraggiosa franchezza del loro comportamento (cfr. 3,12), ma è legato anche alle sofferenze derivanti dal ministero (cfr. 4,16). In ogni caso, il v. 1 si pone, insieme al successivo, come una nuova e riassuntiva difesa di Paolo e dei suoi collaboratori. Il v. 2 è da subito segnato da una frase avversativa che indica bene come Paolo non si scoraggi; al contrario, ha attivamente deciso di rinunciare a un comportamento fatto di ambiguità e di sotterfugi. Nonostante l’apertura e la trasparenza dell’annuncio rivolto verso tutti, viene sottolineata la possibilità di un libero rifiuto del Vangelo con la conseguente rovina. Il v. 4 continua a parlare degli avversari spiegando come essi abbiano un velo che impedisce loro la comprensione dell’annuncio apostolico. La ragione è data dall’azione di satana, che li acceca in modo che non possano vedere la luce che emana dal Vangelo che, a sua volta, mostra la gloria di Cristo, il quale è la vera immagine di Dio. Viene così affermata la centralità cristologica del Vangelo predicato da Paolo e dai suoi collaboratori. Avendo chiuso con il tema del Vangelo nel versetto precedente, Paolo nel v. 5 si sofferma sul suo ministero vissuto in relazione a tale soggetto. Così si sostiene che l’apostolo e i suoi collaboratori non annunciano se stessi, ma Gesù Cristo come Signore, mentre loro sono totalmente a servizio della comunità proprio a motivo di Cristo. Paolo intende quindi ribadire, probabilmente anche a fronte di certe critiche provenienti da Corinto, che non vuole mettere se stesso al centro dell’attenzione e dominare sulla comunità (cfr. 1,24). Infatti, al cuore del suo ministero si trova l’annuncio essenziale di Cristo come Signore, comune a tutta la Chiesa primitiva (cfr. At 2,34-36), che attesta la continuità tra il Crocifisso e il Risorto, la sua uguaglianza con Dio, il suo dominio universale e il suo giudizio finale (cfr. Fil 2,6-11). In totale opposizione al titolo di «Signore», l’apostolo intende affermare che lui e i suoi collaboratori sono semplici «schiavi» della comunità, seppur a motivo di Cristo stesso. Così Paolo ripercorre a suo modo lo stesso cammino del suo signore, che si è spogliato della condizione divina per assumere quella di schiavo per amore dell’uomo (cfr. Fil 2,6-11), rinunciando alla propria libertà e vivendo il ministero nella conformazione a Cristo e nell’umile servizio a favore dei suoi destinatari (cfr. 4,7-12). Il v. 6 costituisce una spiegazione del precedente, in particolare del perché dell’annuncio paolino di Cristo. Infatti, l’apostolo afferma che Dio, il quale ha tratto dalle tenebre la luce, è anche colui che ha fatto brillare in Paolo lo splendore della conoscenza di quel Vangelo che rifulge di gloria divina sul volto di Cristo.

Il tesoro di Dio nella debolezza dell’apostolo e seconda tesi Il brano di 4,7-15 racchiude sia la tesi di 4,7 sul tesoro divino presente nella debolezza dell’apostolo, sia le prime prove a sostegno di essa. Il tutto mostra come nelle concrete e attuali avversità del ministero agisca la potenza di Dio e come la fragilità dell’annunciatore non sia un ostacolo, ma uno strumento adatto per il progresso del Vangelo. Il v. 7 in maniera sintetica presenta una nuova posizione di Paolo riguardo al ministero apostolico: lui e i suoi collaboratori portano il tesoro della conoscenza e del Vangelo di Cristo nei fragili vasi di creta delle loro esistenze, affinché sia chiaro a tutti che la potenza straordinaria di ciò che annunciano ha origine in Dio e non viene da loro. Se nonostante la sua fragilità l’apostolo è lo strumento eletto per l’annuncio, questo è dovuto al fatto che «la straordinarietà della potenza viene da Dio», cioè ‒ esattamente come annunciava programmaticamente 1,12 ‒ principio del suo agire è «la grazia di Dio». I vv. 8-9 mostrano in concreto come il vaso di creta possa resistere agli urti esterni: l’apostolo, sostenuto dalla potenza di Dio, prosegue nel suo ministero nonostante le avversità: nei pericoli l’apostolo ha sperimentato la liberazione di Dio. La sopravvivenza alle difficoltà è frutto non del proprio sforzo etico, ma dell’intervento di Dio che, in maniera totalmente inaspettata, secondo quanto sarà esplicitato nel versetto successivo, rende personalmente partecipi del mistero di morte e risurrezione di Cristo. Nel v. 10, infatti, è introdotta una nuova antitesi, attraverso il binomio morte/ vita che sarà presente nei versetti successivi, come a fornire una motivazione cristologica di quanto affermato immediatamente prima. Ora Paolo sostiene che lui e i suoi collaboratori partecipano nelle loro persone al morire di Gesù, affinché sia manifestata in loro anche la sua vita di risorto. Siamo di fronte a una formulazione paradossale, perché dalla morte appare scaturire la vita: l’apostolo vive la comunione con la morte di Cristo, partecipando a un processo di “necrosi” derivante dalle sofferenze del suo ministero, al fine di mostrare a tutti la potenza di Dio manifestata nella risurrezione di Cristo. In dipendenza dalla tesi del v. 7, si intende descrivere la condizione paradossale nella quale Dio pone l’apostolo che, proprio attraverso la sua esistenza segnata dalla sofferenza ed esposta alla morte, manifesta tutta la potenza di vita del risorto. Nel v. 11 Paolo sostiene che gli apostoli nel tempo della loro vita terrena vengono, come Gesù e a causa del suo Vangelo, consegnati alla morte da Dio, in modo che nella loro debolezza mortale mostrino la potenza divina, operante nella risurrezione di Cristo. L’esistenza missionaria è, per volontà di Dio e non per scelta umana, una riproposizione del cammino di Gesù e, quindi, della sua donazione sino alla morte, ma anche della sua risurrezione, cosicché le sofferenze apostoliche diventano feconde, in quanto hanno la capacità di manifestare la vita. Così al v. 12 si giunge a una conclusione, riguardo all’antitesi morte/vita che segna il ministero, coinvolgendo anche la stessa comunità. Infatti, Paolo afferma che la morte, attraverso le sofferenze della missione, è all’opera negli apostoli affinché la vita del risorto raggiunga i destinatari. Certamente non è la capacità di Paolo che produce vita nei Corinzi, ma è la potenza di Dio, la stessa che ha operato nella risurrezione di Cristo e che, come già detto nella tesi del v. 7, abita ora la fragilità del ministro cristiano. Egli è solo uno strumento scelto e un testimone visibile nei confronti della comunità di questo paradossale e sconvolgente agire divino, che ai destinatari è richiesto di accogliere con una stessa piena disponibilità. L’unico ricorso alla scrittura presente nella seconda dimostrazione (4,7–5,10) si trova in 4,13. Qui l’apostolo afferma che lui e i suoi collaboratori hanno la stessa disposizione di fiducia in Dio che possedeva l’autore del Sal 115,1 LXX (TM 116,10). In ragione di tale atteggiamento annunciano il Vangelo a motivo della loro fede. Nel v. 14 Paolo fornisce la base, costituita dalla speranza nella propria risurrezione, per il credere e il parlare che lo caratterizza insieme ai suoi collaboratori. Infatti, attingendo anche a una formula proveniente dalla tradizione cristiana primitiva, egli afferma che quel Dio che ha risuscitato Cristo da morte farà partecipi di questa comunione di vita con il risorto anche gli apostoli e li porrà accanto agli stessi Corinzi al momento del compimento escatologico. Con il v. 15 giungiamo alla conclusione della pericope. Paolo, infatti, riassume il discorso dicendo che tutto il lavoro apostolico, con le avversità e sofferenze menzionate in precedenza, è a beneficio dei destinatari e serve a uno scopo ancora più grande. Esso consiste nel fatto che la stessa grazia divina, veicolata dal suo ministero di annuncio del Vangelo e accolta da un numero sempre maggiore di persone, produca una crescita del rendimento di grazie a Dio per la sua gloria.

Il rinnovamento dell’uomo interiore Al v. 16 oltre al collegamento con quanto precede viene aggiunto il fatto che, se l’uomo esteriore si consuma, quello interiore si rinnova quotidianamente. Le due espressioni «uomo esteriore» e «uomo interiore» indicano due situazioni opposte e contemporanee che il ministro e ciascun credente in Cristo sperimenta nella propria esistenza. È proprio su questa linea che sono da comprendere le due espressioni sotto esame. Così l’uomo «esteriore» è l’intera persona nella sua dimensione relazionale esterna, segnata dall’essere una creatura mortale. Mentre l’uomo «interiore» è l’intera persona nella sua dimensione profonda che è rinnovata a motivo del rapporto con il suo Signore. Il parallelo più adeguato si trova nel testo di Gal 2,20: «e non vivo più io, ma vive in me Cristo (uomo interiore). E ciò che ora vivo nella carne (uomo esteriore), lo vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». Questo processo di trasformazione è progressivo ed è costituito da una partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo, operata per mezzo dello spirito, che conduce il credente di gloria in gloria a una sempre maggiore somiglianza con il suo Signore (cfr. 3,18; 4,6) sino al compimento finale (cfr. 4,14). Al v. 17 è fornita una motivazione riguardo al contemporaneo processo di disfacimento e rinnovamento del credente, del quale si è trattato nel versetto precedente. Il dualismo che ora viene introdotto, però, più che antropologico è escatologico, ossia tra ciò che è momentaneo e ciò che è permanente. Infatti, si afferma che l’afflizione dei credenti, temporanea e leggera, produce un’incommensurabile gloria eterna. A partire dall’ottica di fede nella risurrezione gloriosa, Paolo sostiene che tutte le sofferenze dei credenti appaiono di breve durata e intensità in confronto alla realtà indicibile della vita eterna (cfr. Rm 8,18). Il v. 18 presenta con una nuova antitesi, basata sul contrasto tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, le modalità con le quali il credente è invitato ad accompagnare il processo di trasformazione enunciato nei due versetti precedenti. Dunque, Paolo afferma con una sfumatura paradossale che il cristiano deve guardare non alle realtà visibili, ma a quelle invisibili, perché le prime sono soggette al tempo, mentre le altre possiedono la caratteristica dell’eternità. 2Cor 4,18 si apre al successivo 5,1 che, sempre attraverso lo stile antitetico, introduce il discorso del destino non attualmente visibile del credente dopo la morte.


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La concreta legittimazione del ministero paolino 1Cominciamo di nuovo a raccomandare noi stessi? O abbiamo forse bisogno, come alcuni, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra? 2La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. 3È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani. 4Proprio questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio. 5Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, 6il quale anche ci ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita.

Il confronto tra il ministero apostolico e quello mosaico 7Se il ministero della morte, inciso in lettere su pietre, fu avvolto di gloria al punto che i figli d’Israele non potevano fissare il volto di Mosè a causa dello splendore effimero del suo volto, 8quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito? 9Se già il ministero che porta alla condanna fu glorioso, molto di più abbonda di gloria il ministero che porta alla giustizia. 10Anzi, ciò che fu glorioso sotto quell’aspetto, non lo è più, a causa di questa gloria incomparabile. 11Se dunque ciò che era effimero fu glorioso, molto più lo sarà ciò che è duraturo. 12Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza 13e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli d’Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero. 14Ma le loro menti furono indurite; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. 15Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; 16ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto. 17Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà. 18E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

La concreta legittimazione del ministero paolino L’apostolo prende le distanze dalla pratica delle lettere di raccomandazione non solo perché afferma di non averne bisogno, ma anche per distinguersi dai suoi avversari, che ne fanno uso. Con ogni probabilità si riferisce agli avversari appena menzionati in 2,17 che dovevano muoversi da una comunità all’altra con l’appoggio di tali epistole per potere essere ogni volta adeguatamente accolti e ospitati. Paolo non necessita di una lettera di raccomandazione perché essa è costituita dalla stessa comunità, un’epistola scritta nel suo cuore (e in quello dei suoi collaboratori), nota e leggibile da parte di tutti gli uomini. Dal punto di vista “interno” la lettera è scritta in maniera indelebile nel cuore di Paolo, a segnalare il profondo legame che lo lega con la comunità, mentre dal punto di vista “esterno” è nota e leggibile da parte di tutti gli uomini, mostrando il carattere pubblico e non segreto dell’azione apostolica nella Chiesa corinzia. Il v. 3 riprende l’aspetto esterno della lettera, affermando da subito come sia manifesto che i Corinzi siano una lettera di Cristo, estesa come amanuensi da Paolo e dai suoi collaboratori. Se nel versetto precedente si erano accentuati l’azione e il legame degli apostoli nei confronti dei destinatari, ora si precisa il loro ruolo secondario e di mediazione rispetto a quello di Cristo. Infatti, è lui l’autore della lettera; quindi, fuor di metafora, colui al quale si deve la creazione della comunità e al quale essa appartiene. Con il v. 4 Paolo precisa che la convinzione espressa nei versetti precedenti, riguardo al fatto che la comunità sia una lettera di Cristo alla cui estensione gli apostoli hanno collaborato, è ottenuta per mezzo di Cristo e al cospetto di Dio; si tratta dunque di una convinzione di fede. in particolare, si ricorda il rapporto di comunione dell’apostolo con il suo signore e si chiama Dio a testimone, dal quale deriva il suo ministero. Al v. 5 Paolo opera una “correzione” per evitare un fraintendimento nei destinatari, cioè che la sua convinzione sia presa come un’affermazione di una propria capacità e autosufficienza in relazione al ministero. In questo modo l’apostolo introduce anche una seconda prova dai fatti a supporto della legittimità del suo servizio e, quindi, in relazione a quanto si sosteneva nella tesi di 2,16b-17. Infatti, si dice che Paolo e i suoi collaboratori non sono qualificati in se stessi, non possono considerare niente del loro ministero come proveniente dalle loro risorse, perché la capacità per compiere il proprio servizio viene a loro da Dio. Da ultimo Paolo sembra pure suggerire che perfino la capacità di discernimento sulla propria persona non è derivante da se stesso, ma è dono di Dio. La prima parte del v. 6 si riallaccia al versetto precedente, avendo una funzione esplicativa riguardo il compito per il quale gli apostoli sono resi capaci da Dio (si noti il nuovo richiamo alla tesi di 2,16b-17): si tratta del ministero della nuova alleanza. La seconda parte del v. 6 è infatti caratterizzata dall’opposizione tra il ministero della lettera e quello dello spirito, in quanto il primo dà la morte mentre il secondo porta la vita. In questo versetto la «lettera» ha a che fare con la legge mosaica, visto quanto si dice nei vv. 3.7, tuttavia non può essere identificata tout court con essa, dato che non si usa il sostantivo corrispondente. Paolo, riprendendo anche il contrasto tra morte e vita di 2Cor 2,16, afferma che il ministero mosaico era basato su una Legge la cui osservanza non conduceva alla vita, in quanto era priva di capacità salvifica, mentre quello apostolico è animato dallo Spirito, che porta a partecipare a una nuova esistenza da salvati (cfr. rm 8,1-2).

Il confronto tra il ministero apostolico e quello mosaico L’antitesi presentata alla fine del v. 6 fa da introduzione al nuovo brano di 3,7-18, interamente dedicato al confronto tra ministero paolino e quello mosaico. Paolo intende relativizzare il ministero anticotestamentario, per esaltare nel versetto successivo quello neotestamentario. D’altra parte, l’apostolo non cancella il fatto che il ministero mosaico sia circonfuso di gloria, ricordando dunque il legame di Mosè con Dio: se nella scrittura era attestata la gloria – quindi, la presenza e l’azione di Dio – a proposito del ministero mosaico, tanto più deve essere quella che avvolge il servizio apostolico. al v. 9 la contrapposizione è tra il ministero della condanna e quello della giustizia, e si afferma che il secondo possiede una sovrabbondanza di gloria rispetto al primo. Nel v. 10 Paolo interrompe la sua argomentazione per precisare il riferimento all’abbondanza di gloria presente nel ministero apostolico. L’apostolo afferma che il ministero mosaico, con ciò che era a esso connesso, pur essendo glorioso, perde tutta la sua gloria a confronto con quella sovrabbondante del servizio apostolico. L'argomentazione riprende al v. 11 sulla linea della diversa durata: se il ministero mosaico, pur essendo destinato a sparire, fu glorioso, molto più lo sarà quello apostolico, destinato a rimanere per sempre (si tratta di un’estensione indefinita sino al futuro escatologico). Si è partiti nel v. 8 con l’affermare che quello apostolico è più glorioso dell’altro, si è passati al v. 9 sottolineando che esso sovrabbonda maggiormente di gloria, per giungere alla conclusione del v. 11 sulla sua permanenza rispetto alla transitorietà di quello mosaico.

Sostenuto dalla speranza derivante dal carattere permanentemente glorioso del suo ministero, al v. 12 Paolo torna a parlare del comportamento suo e di quello dei collaboratori, caratterizzato da grande franchezza nei confronti di tutti, in particolare dei destinatari. Il v. 12 non ha però soltanto funzione retrospettiva, perché prepara anche il confronto con il comportamento non positivo di Mosè, che nel versetto successivo rientra ancora una volta in scena. Infatti, al v. 13 si dice che, a differenza degli apostoli, Mosè non agiva con trasparenza, ponendo sul suo volto un velo affinché gli Israeliti non guardassero alla gloria di esso, destinata a finire, insieme al ministero mosaico. Il v. 14, con una sfumatura avversativa nei confronti del precedente, afferma che, invece di poter riconoscere il carattere passeggero della gloria e del ministero mosaici, gli israeliti sono stati induriti. Infatti un velo rimane ancora oggi nella loro lettura dell’antica alleanza, poiché tale velo può essere rimosso soltanto attraverso Cristo. Il testo presenta, quindi, una transizione dall’azione di Mosè a quella degli israeliti, destinatari del suo ministero, sempre con l’uso della stessa immagine del velo. Secondo Paolo l’indurimento fa sì che gli ebrei del suo tempo – o meglio, una parte di loro, visto che diversi come lui hanno creduto in Cristo – abbiano un’incapacità a comprendere l’«antica alleanza» proclamata nelle loro sinagoghe. La vera comprensione della Legge è possibile solo mediante Cristo e, quindi, per coloro che lo accolgono nella fede. Verosimilmente Paolo lascia qui intendere che, una volta tolto il velo, diventa possibile vedere la scrittura come annuncio del Vangelo, in linea così con la lettura in chiave cristologica di essa che l’apostolo propone anche in altre sue lettere. Nel v. 15 si evidenzia, da una parte, che la lettura della «nuova alleanza» coincide essenzialmente con quella della Torà, e che il velo giace ora sul cuore degli israeliti. Dall’altra, si rafforza il parallelo tra le generazioni incredule precedenti, in particolare quella del deserto, e l’attuale: alle menti indurite dei primi subentrano i cuori velati dei secondi. Mentre qui Paolo richiama la predicazione profetica riguardo al «cuore di pietra» (Ez 11,19; 36,26), fa anche indirettamente intendere che la resistenza dei giudei all’annuncio del Vangelo non inficia la legittimità del ministero apostolico a esso legato (cfr. Rm 10,14-21). Al v. 16 l'Apostolo utilizza l’ingresso di Mosè, con il volto scoperto, nella tenda del convegno per indicare la conversione del giudeo del suo tempo, il quale resiste al Vangelo, al Signore. Quando ciò avverrà, Dio stesso toglierà il velo che copre il suo cuore e che gli impedisce di comprendere la scrittura alla luce di Cristo. Il v. 17 riprende il versetto precedente a mo’ di parentesi chiarificatrice e introduce il successivo. Paolo vi afferma che il Signore si identifica con lo Spirito e, dov’è presente lo spirito, lì si sperimenta la libertà. il testo fornisce non una definizione ontologica dello Spirito, ma una descrizione della sua signoria, in quanto appartenente a Dio e in quanto fonte di libertà. Nel nostro contesto tale libertà è da riferirsi prima di tutto al ministero apostolico esercitato con piena franchezza (cfr. v. 12) e, in seconda istanza, è ascrivibile anche ai credenti in Cristo (cfr. il «noi» del v. 18), in particolare ai Corinzi, che per mezzo dello spirito sono stati liberati dal peccato e dalla morte per vivere nella libertà dei figli di Dio chiamati alla gloria (cfr. rm 8,2.16-21). Alla fine, il v. 18, conclude e riassume la pericope con una frase molto densa e concisa, di difficile interpretazione. Il confronto con Mosè e gli Israeliti pervie- ne al termine quando paolo associa a sé non soltanto i collaboratori, ma anche i destinatari del suo ministero. rivolgendosi ai Corinzi, egli afferma che tutti i credenti, non avendo il velo sul volto, riflettono la gloria del Signore, mentre sono trasformati nella stessa immagine che riflettono, passando di gloria in gloria grazie all’azione dello spirito di Dio. per paolo e per i Corinzi, a differenza di Mosè e degli israeliti, il velo è stato tolto al momento della loro conversione al signore (cfr. v. 16) e tale è la loro situazione sino al presente, cosicché possono mostrarsi in piena franchezza e libertà a tutti (cfr. v. 12). in ragione della loro nuova condizione, essi riflettono la gloria divina che avvolge il volto di Cristo e vengono trasfigurati in Cristo stesso, immagine di Dio (cfr. 4,4). Si tratta di una trasformazione progressiva a opera dello spirito, la quale è attuale già al presente, ma trova il suo compimento alla fine dei tempi (questo è il senso dell’espressione «di gloria in gloria»). Paolo delinea la vita cristiana come un cammino progressivo sino alla definitiva somiglianza con l’immagine di Cristo (cfr. Rm 8,28-30; Fil 3,10.21).


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La lettera «tra molte lacrime» e le sue conseguenze 1Ritenni pertanto opportuno non venire di nuovo fra voi con tristezza. 2Perché se io rattristo voi, chi mi rallegrerà se non colui che è stato da me rattristato? 3Ho scritto proprio queste cose per non dovere poi essere rattristato, alla mia venuta, da quelli che dovrebbero rendermi lieto; sono persuaso, riguardo a voi tutti, che la mia gioia è quella di tutti voi. 4Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime, non perché vi rattristiate, ma perché conosciate l’amore che nutro particolarmente verso di voi. 5Se qualcuno mi ha rattristato, non ha rattristato me soltanto, ma, in parte almeno, senza esagerare, tutti voi. 6Per quel tale però è già sufficiente il castigo che gli è venuto dalla maggior parte di voi, 7cosicché voi dovreste piuttosto usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte. 8Vi esorto quindi a far prevalere nei suoi riguardi la carità; 9e anche per questo vi ho scritto, per mettere alla prova il vostro comportamento, se siete obbedienti in tutto. 10A chi voi perdonate, perdono anch’io; perché ciò che io ho perdonato, se pure ebbi qualcosa da perdonare, l’ho fatto per voi, davanti a Cristo, 11per non cadere sotto il potere di Satana, di cui non ignoriamo le intenzioni. 12Giunto a Tròade per annunciare il vangelo di Cristo, sebbene nel Signore mi fossero aperte le porte, 13non ebbi pace nel mio spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello; perciò, congedatomi da loro, partii per la Macedonia.

Ringraziamento a Dio per l’apostolato e prima tesi 14Siano rese grazie a Dio, il quale sempre ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde ovunque per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza! 15Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo per quelli che si salvano e per quelli che si perdono; 16per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita. E chi è mai all’altezza di questi compiti? 17Noi non siamo infatti come quei molti che fanno mercato della parola di Dio, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

La lettera «tra molte lacrime» e le sue conseguenze Paolo comincia con l’affermare che, a seguito di un’attenta riflessione, ha deciso di non ritornare con tristezza dai Corinzi. Si tratta di un riferimento all’afflizione che egli avrebbe potuto causare ai suoi con una visita immediatamente successiva, nella quale con ogni probabilità sarebbe stato costretto a rimproverarli con durezza e prendere anche misure disciplinari: tutta la vicenda precedente ha provocato dolore sia in Paolo sia nei destinatari, e la soluzione del contrasto ha l’effetto di una gioia reciproca. L’apostolo esprime in questo modo come egli soffra e gioisca con loro. Nel v. 3 Paolo afferma che la lettera da lui scritta «tra molte lacrime» aveva come primo scopo di non ricevere tristezza dai Corinzi che sono quelli che dovrebbero rallegrarlo. L’apostolo è convinto che la sua gioia e quella della comunità coincidano! Probabilmente, dal punto di vista pastorale, Paolo ritiene necessario lasciar calmare gli animi dopo l’incidente occorso nella visita precedente (cfr. 2,5; 7,12). Per questo invia in sua vece la lettera. Infatti, generalmente nell’antichità, in un mondo dove gli spostamenti non erano così veloci e agevoli, lo scritto epistolare fungeva da sostituto della persona e talvolta anche del discorso che l’autore avrebbe potuto fare se fosse stato presente in mezzo ai suoi destinatari. Ritornando sullo scopo della lettera «tra molte lacrime», al v. 9 Paolo afferma di avere scritto ai Corinzi anche per mettere alla prova la loro obbedienza nei suoi confronti, cioè il riconoscimento del suo ruolo apostolico di fondatore. Implicitamente, allo stesso modo, ora con la sua nuova epistola chiede loro di seguire le sue indicazioni, perdonando l’offensore. Per i Corinzi obbedire a Paolo (cfr. 2Cor 10,6; 2Ts 3,14; Fm 21) è una questione legata non alla persona, ma al suo compito di rappresentante di Cristo e del Vangelo (cfr. 2Cor 4,5). Paolo afferma che a chi la comunità perdona, anche lui fa altrettanto, e che, se ha perdonato qualcosa, l’ha compiuto per il bene della comunità al cospetto di Cristo. Nel v. 11 Paolo afferma che la riconciliazione con l’offensore è necessaria per non essere ingannati da satana, le cui macchinazioni sono ben note. L’apostolo si mette dalla stessa parte dei Corinzi parlando di «noi», alludendo alle circostanze negative che comporterebbe la continuata esclusione dalla comunità di colui che ha sbagliato. satana, del quale si fa menzione anche in 4,4, potrebbe prendere vantaggio dalla situazione. In questo modo satana avrebbe derubato la comunità di uno dei suoi membri. in secondo luogo, il riferimento è anche alla comunione tra Paolo e i Corinzi, che potrebbe essere messa a repentaglio attraverso il perdurare di una situazione non riconciliata. il diavolo, proprio in base al significato del suo nome («Divisore»), prevarrebbe, alimentando tale divisione. Il discorso però si chiude con una nota di fiducia, perché l’apostolo afferma che lui e i cristiani di Corinto possono ben riconoscere le macchinazioni di satana e per questo fare in modo di non concedergli opportunità di azione. Al v. 12 Paolo comincia ricordando che è giunto a Troade per annunciare il Vangelo e che il Signore ha dato un esito favorevole alla sua missione. Qui il successo dell’evangelizzazione è riportato da Paolo all’azione di Dio che apre le porte delle case delle persone e quindi i loro cuori all’accoglienza dell’annuncio. Comunque, secondo il testo della nostra lettera, nonostante tale incoraggiante risultato, l’apostolo aveva al momento un’altra urgenza. Infatti, al v. 13 rivela che egli non ebbe pace a Troade perché non vi trovò Tito e per questo, avendo salutato la comunità della città, partì alla volta della Macedonia.

Ringraziamento a Dio per l’apostolato e prima tesi Non deve sorprendere il lettore il fatto di trovare un ringraziamento a questo punto della lettera, perché ciò non è fuori dal comune per Paolo, ma ritorna nelle sue lettere anche in forma simile a questa (cfr., p. es., Rm 6,17-18; 1Cor 15,57; 1Ts 2,13-16). Inoltre, è da rammentare che nella retorica era prevista la possibilità di avere un secondo esordio; in questo lo si collocava per lo più poco prima dell’argomentazione. In contrasto con la situazione di angoscia sperimentata a Troade (cfr. v. 13), l’apostolo esprime ora il suo grazie a Dio, richiamando il tema della consolazione divina nella tribolazione (cfr. 1,3-7). Possiamo evidenziare tre aspetti messi in evidenza da Paolo in 2,14: è Dio che agisce nei suoi inviati; Cristo è il punto focale di questa azione; l’attività divina in relazione al Vangelo si configura come continua e universale. Ciò costituisce, già all’inizio dell’argomentazione, un orizzonte nel quale comprendere il significato del ministero apostolico. L'originalità di questi versetti sta nel passare dalla presentazione dell’apostolo come colui che ha la funzione di manifestare la fragranza del Vangelo, a quella dell’apostolo come colui che è lo stesso profumo di Cristo, segnando così la piena identificazione tra annuncio e annunciatore. Il v. 16b pone una domanda sulla capacità degli apostoli di fronte alle gravi responsabilità del loro ministero di annuncio, la cui accoglienza o rifiuto determina il destino degli ascoltatori. La questione riecheggia l’affermazione di Mosè di fronte alla missione richiesta da Dio. Il v. 17, che costituisce insieme al v. 16b la tesi, fornisce una risposta affermativa alla domanda posta in precedenza. Tale risposta si configura come una precisazione correttiva, passando dal negativo al positivo. Infatti, Paolo afferma che lui e i restanti apostoli non si comportano come altri, che fanno mercato della parola di Dio, falsificandola per il proprio interesse, ma l’annunciano, in unione con Cristo, con la sincerità derivante dal loro essere inviati da Dio e posti di fronte al suo giudizio. La tesi di 2,16b-17 assume un aspetto apologetico e, in misura minore, polemico, perché vi compare la contrapposizione agli avversari dell’apostolo. Tali caratteristiche, come visto nella presentazione di tutta l’argomentazione, non possono però essere disgiunte dalla prospettiva pedagogica nei confronti dei destinatari, chiamati a (ri)scoprire il significato e il valore del ministero apostolico.


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Praescriptum 1Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Timòteo, alla Chiesa di Dio che è a Corinto e a tutti i santi dell’intera Acaia: 2grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

Benedizione 3Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! 4Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio. 5Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. 6Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale vi dà forza nel sopportare le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. 7La nostra speranza nei vostri riguardi è salda: sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, così lo siete anche della consolazione. 8Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione, che ci è capitata in Asia, ci abbia colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, tanto che disperavamo perfino della nostra vita. 9Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte, perché non ponessimo fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. 10Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà, e per la speranza che abbiamo in lui ancora ci libererà, 11grazie anche alla vostra cooperazione nella preghiera per noi. Così, per il favore divino ottenutoci da molte persone, saranno molti a rendere grazie per noi.

Tesi generale: vanto del comportamento sincero con la grazia di Dio 12Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della nostra coscienza di esserci comportati nel mondo, e particolarmente verso di voi, con la santità e sincerità che vengono da Dio, non con la sapienza umana, ma con la grazia di Dio. 13Infatti non vi scriviamo altro da quello che potete leggere o capire. Spero che capirete interamente – 14come in parte ci avete capiti – che noi siamo il vostro vanto come voi sarete il nostro, nel giorno del Signore nostro Gesù.

NARRAZIONE APOLOGETICA: IL COMPORTAMENTO DI PAOLO (1,15–2,13)

Difesa riguardo ai piani di viaggio 15Con questa convinzione avevo deciso in un primo tempo di venire da voi, affinché riceveste una seconda grazia, 16e da voi passare in Macedonia, per ritornare nuovamente dalla Macedonia in mezzo a voi e ricevere da voi il necessario per andare in Giudea. 17In questo progetto mi sono forse comportato con leggerezza? O quello che decido lo decido secondo calcoli umani, in modo che vi sia, da parte mia, il «sì, sì» e il «no, no»? 18Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no». 19Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì». 20Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì». Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria. 21È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, 22ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori. 23Io chiamo Dio a testimone sulla mia vita, che solo per risparmiarvi rimproveri non sono più venuto a Corinto. 24Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete saldi.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

La Seconda Lettera ai Corinzi presenta una rottura della sua integrità letteraria nel passaggio dal capitolo 9 al capitolo 10. È probabile che un redattore – senza preoccuparsi della conseguente incoerenza, ma di conservare e trasmettere gli scritti dell’apostolo – abbia unito una prima lettera di Paolo ai Corinzi, comprendente i capitoli 1–9 e mutila del postscriptum, a una seconda, costituita dai capitoli 10–13 e privata del praescriptum, così da formare l’attuale 2 Corinzi. Questo quadro è ben compatibile con la complessa situazione della corrispondenza corinzia. infatti in 1 Corinzi si parla di una lettera precedente, nella quale Paolo invitava i suoi a non mescolarsi con gli immorali (cfr. 1Cor 5,9), mentre in 2 Corinzi si accenna a un’altra scritta «tra molte lacrime» (2Cor 2,4), cosicché alla fine si può pensare all’esistenza di almeno cinque missive dell’apostolo inviate alla sua comunità. D’altra parte dobbiamo ricordare che la Seconda lettera ai Corinzi è testimoniata dagli antichi manoscritti del nuovo testamento unicamente nella sua forma attuale: l’epistola presa nella sua interezza rispetta il tipico canovaccio epistolare paolino (praescriptum, corpus, postscriptum), che il vocabolario presente in 2 Corinzi è omogeneo (p. es., i campi semantici dell’apostolato, del vanto e della raccomandazione) e che è possibile vedere almeno una tematica comune che la percorre tutta (quella dell’apostolato). Verrà adottato questo schema di lettura: 2 Corinzi A = 2Cor 1,1-9,15 2 Corinzi B = 2Cor 10,1-13,13

Praescriptum Il praescriptum è composto, come nel nostro caso, di tre elementi: mittente, destinatario, saluto. Colui che è associato a Paolo nel praescriptum di questa lettera, pur non essendone co-autore ma co-mittente, cioè Timoteo, è un fratello nella fede e un suo stretto collaboratore, coinvolto nella fondazione della comunità di Corinto (cfr. At 18,5; 2Cor 1,19) e in una visita successiva alla stesura della 1 Corinzi (cfr. 1Cor 4,17; 16,10). Il destinatario è la comunità cristiana di Corinto di cui viene sottolineata l’appartenenza a Dio. Il saluto «grazia e pace» (v. 2), pur derivando probabilmente dalla tradizione liturgica cristiana, attesta anche la duplice cultura, ebraica e greca, di Paolo: con «grazia e pace» si mostra sin dall’inizio l’essenza del Vangelo, in quanto buona novella per ogni uomo, di cui Paolo si fa araldo.

Benedizione La benedizione iniziale di Paolo è “generale”, ma prepara aspetti “particolari” che saranno successivamente sviluppati nella lettera e legati alla vicenda stessa dell’apostolo. Infatti, egli ha sperimentato la misericordia di Dio proprio nella sua chiamata al ministero (cfr. 4,1) e ha provato la sua multiforme consolazione (cfr. 1,3: «ogni») nei diversi interventi a suo sostegno in mezzo alle sofferenze derivanti proprio dal suo apostolato (cfr. 7,4-7). Il v. 4 fornisce la ragione per la benedizione stessa: Dio è benedetto perché è colui che ci conforta in ogni tribolazione che possiamo incontrare. Paolo, come ogni apostolo del Vangelo, è in grado di consolare gli afflitti a causa della consolazione che ha ricevuto, attraverso Cristo, in mezzo alle sofferenze derivanti dal ministero. Tali sofferenze mostrano così una valenza positiva non solo in relazione alla consolazione ricevuta a seguito di esse, ma anche come strumento di comunione e conformazione a Cristo. Il v. 7 porta a conclusione le motivazioni generali riguardanti la benedizione di Dio cominciata al v. 3, esprimendo la speranza di Paolo riguardo i Corinzi. Come essi hanno parte alle sofferenze, così l’avranno anche alla consolazione. Quindi, la comunione dei Corinzi con Paolo e, attraverso di lui, con Cristo passa attraverso la condivisione di una medesima situazione di tribolazione, ma anche nella speranza derivante dalla fede che tutto ciò è legato allo stesso conforto divino. Dai riferimenti generali alle afflizioni presenti nei vv. 3-7 si passa ora a un’afflizione particolare, quella capitata a Paolo (e forse anche ai suoi collaboratori) nella provincia romana dell’Asia (v. 8). Si è trattato di una tribolazione insostenibile con le sole forze umane, confidando nelle quali ci sarebbe stato solo da disperare, e ancor più, visto ciò che si dice nei vv. 9-10, è stato un vero e proprio pericolo di morte. L’azione futura di Dio è collegata nel v. 11 alla preghiera dei Corinzi a beneficio di Paolo. Questo annodarsi tra intercessione e ringraziamento in merito al dono di Dio si riproporrà significativamente riguardo alla colletta (cfr. 9,13-14), ma da subito mostra il senso della comunione ecclesiale promossa da Paolo, una comunione che lega lui, la comunità e il Signore in un’unica relazione. Infine, la benedizione che così si conclude ci ha mostrato che, da una lato, i Corinzi già prendono parte, condividendone sofferenza e consolazione, all’esistenza dell’apostolo e, quindi, pure al suo legame con Cristo; dall’altro, sono invitati a progredire ulteriormente in questa comunione anche attraverso la preghiera di intercessione rivolta per lui a Dio.

Tesi generale: vanto del comportamento sincero con la grazia di Dio I vv. 12-14, in quanto “tesi”, presentano la questione sulla quale verterà il resto di 2 Corinzi A: il comportamento di Paolo verso tutti e in particolare verso i Corinzi. Il comportamento semplice e sincero di Paolo verso i Corinzi è dimostrato dal fatto che le sue lettere non sono ambigue. Infatti, l’apostolo afferma, probabilmente rispondendo ad alcune critiche mosse nei suoi confronti, che i destinatari non devono cercare altro nelle sue epistole (si tratta di quelle scritte loro finora e di quella che sta stendendo) se non ciò che sentono al momento della lettura fatta in assemblea e che immediatamente possono comprendere. In questo modo il versetto anticipa tutta la narrazione apologetica di 1,15–2,13; in particolare 1,17, dove Paolo è accusato di un comportamento ambiguo, e 2,4, dove egli chiarisce i fraintendimenti nati dalla lettera «tra molte lacrime». Inoltre prepara l’immagine della comunità come lettera degli apostoli scritta e leggibile da tutti (cfr. 3,2). il v. 13 si chiude poi con la speranza dell’apostolo che i Corinzi comprendano appieno e sino alla fine. La tesi generale di 1,12-14, che si era aperta con il tema del vanto, si chiude quindi con lo stesso motivo, il quale si trova legato all’apostolato paolino. Ma, se al v. 14 si guarda alla riuscita di tale ministero in vista della parusia, il v. 12 presentava i presupposti di questa riuscita nel modo trasparente di vivere la missione in grazia di Dio. Viene quindi mostrata la problematica sulla quale si soffermeranno i primi nove capitoli di 2 Corinzi (in particolare sino al termine del c. 7): la difesa del comportamento di Paolo e dei suoi collaboratori di fronte ai Corinzi. Lo scopo sarà quello di conseguire una piena sintonia relazionale tra l’apostolo e i destinatari, resa possibile proprio da una comune valutazione positiva dell’agire ministeriale degli evangelizzatori. A dimostrare quanto asserito in 1,12- 14 provvederà da subito la narrazione apologetica, che aprirà immediatamente il “corpo” della lettera.

Difesa riguardo ai piani di viaggio Con 1,15 si entra nel “corpo” della lettera. Il brano è una difesa di Paolo dovuta probabilmente a critiche ricevute per la modifica della prevista doppia visita a Corinto. Il testo può essere diviso in tre parti: il piano originario di viaggio (1,15-16), motivazione teologica dell’affidabilità di Paolo (1,17-22); giustificazione del cambiamento di piano in base ai fatti (1,23-24). Paolo aveva ipotizzato una seconda visita a Corinto, dopo quella di fondazione della comunità, in modo che i suoi potessero ricevere un secondo beneficio, legato ai doni spirituali provenienti dalla grazia di Dio. Tuttavia, questo piano di viaggio non sarà rispettato. Dal v. 17 inizia la difesa vera e propria di Paolo riguardo al cambiamento di piano da lui effettuato: vengono riprese le accuse menzionate già al v. 12 in merito al comportamento di Paolo e concernenti ambiguità e opportunismo. Nel v. 18 Paolo chiama Dio, che è fedele, come testimone del fatto che la parola apostolica (quella sua, di Silvano e di Timoteo, cfr. v. 19) non è sì e no, cioè doppia e ambigua. La fedeltà di Dio è presa a garanzia dell’affidabilità della parola dei suoi inviati. Tale «parola» può essere in riferimento a qualsiasi comunicazione orale o scritta intercorsa tra l’apostolo e i suoi collaboratori da una parte e i Corinzi dall’altra. Il contenuto di essa, in considerazione del v. 19, è rappresentato dal Vangelo stesso, ma anche, in ragione dei versetti precedenti, dal piano di viaggio. Quindi Paolo intende affermare che come è affidabile per l’annuncio, così lo è anche per i suoi progetti di visita della comunità corinzia, mostrando indirettamente come la sua esistenza quotidiana è inscindibilmente legata al proprio ministero a favore del Vangelo. Nel v. 20 Paolo amplifica l’affermazione precedente, approfondendo il «sì» di Dio in Cristo: tutte le promesse di salvezza di Dio hanno trovato nel Messia di Nazaret il suo adempimento. Il v. 21 passa a esplicitare l’azione del Dio fedele sui credenti in Cristo, evidenziando la comunione tra apostoli e Corinzi a questo profondo livello. Egli è colui che continua a rendere sicura e a sostenere l’esistenza dei cristiani in relazione al loro Signore e li ha fatti conformi e partecipi della consacrazione e della missione di salvezza del Cristo. Senza soluzione di continuità con quanto precede, il v. 22 afferma che i credenti possiedono un sigillo segno di appartenenza a Dio, come suoi eletti, e hanno ricevuto nei loro cuori il dono dello Spirito come anticipo della salvezza definitiva alla risurrezione finale. Dopo avere difeso a livello teologico la sua posizione e avere detto che, nonostante il cambiamento di piano, egli è affidabile perché al servizio del Dio fedele, Paolo si muove nel v. 23 a livello pratico. Infatti, l’apostolo vuole presentare la concreta ragione per la quale egli non è ritornato a Corinto dopo il passaggio in Macedonia, al contrario di quanto doveva avere convenuto con i destinatari. Paolo ha rinunciato a raggiungere di nuovo Corinto per risparmiare i destinatari, quindi per il loro bene... c'è un riferimento ad alcune misure disciplinari che avrebbero potuto essere prese dall’autorità apostolica nei confronti dei destinatari! Tutto questo, però, potrebbe anche portare i Corinzi a pensare che Paolo e gli altri missionari intendano spadroneggiare su di loro. Così l’apostolo pone una precisazione: lui, Silvano e Timoteo non vogliono dominare sulla fede dei destinatari, ma collaborare tra di loro affinché i Corinzi accrescano la gioia da essa derivante. Così, il motivo della gioia va a caratterizzare non solo il riconoscimento del dono ricevuto da Dio, ma anche la comunione che si crea tra coloro che condividono la stessa fede. Interessante è notare che in 1Cor 3,9 si afferma che gli apostoli sono «collaboratori di Dio», insistendo sull’origine del loro ministero, mentre ora con «collaboratori della vostra gioia» (v. 24) si sposta l’attenzione sulla finalità di esso. Paolo, poi, con una captatio benevolentiae nei confronti dei Corinzi afferma che ciò è tanto più vero dato che in merito alla fede essi sono già ben saldi, cioè hanno un loro valido cammino di vita cristiana (molto diversamente, a indicare una situazione successiva ormai mutata, si esprimerà a riguardo in 2Cor 13,5). Si chiude così il brano di 1,15-24 dedicato alla difesa di Paolo di fronte alle critiche suscitate dal suo cambiamento di programma rispetto alla visita che avrebbe dovuto fare a Corinto.


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Invito a proseguire la colletta 1Riguardo poi alla colletta in favore dei santi, fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia. 2Ogni primo giorno della settimana ciascuno di voi metta da parte ciò che è riuscito a risparmiare, perché le collette non si facciano quando verrò. 3Quando arriverò, quelli che avrete scelto li manderò io con una mia lettera per portare il dono della vostra generosità a Gerusalemme. 4E se converrà che vada anch’io, essi verranno con me.

Progetti missionari 5Verrò da voi dopo aver attraversato la Macedonia, perché la Macedonia intendo solo attraversarla; 6ma forse mi fermerò da voi o anche passerò l’inverno, perché prepariate il necessario per dove andrò. 7Non voglio infatti vedervi solo di passaggio, ma spero di trascorrere un po’ di tempo con voi, se il Signore lo permetterà. 8Mi fermerò tuttavia a Èfeso fino a Pentecoste, 9perché mi si è aperta una porta grande e propizia e gli avversari sono molti. 10Se verrà Timòteo, fate che non si trovi in soggezione presso di voi: anche lui infatti lavora come me per l’opera del Signore. 11Nessuno dunque gli manchi di rispetto; al contrario, congedatelo in pace perché ritorni presso di me: io lo aspetto con i fratelli. 12Riguardo al fratello Apollo, l’ho pregato vivamente di venire da voi con i fratelli, ma non ha voluto assolutamente saperne di partire ora; verrà tuttavia quando ne avrà l’occasione.

Inviti conclusivi 13Vigilate, state saldi nella fede, comportatevi in modo virile, siate forti. 14Tutto si faccia tra voi nella carità. 15Una raccomandazione ancora, fratelli: conoscete la famiglia di Stefanàs. Furono i primi credenti dell’Acaia e hanno dedicato se stessi a servizio dei santi. 16Siate anche voi sottomessi verso costoro e verso quanti collaborano e si affaticano con loro. 17Io mi rallegro della visita di Stefanàs, di Fortunato e di Acàico, i quali hanno supplito alla vostra assenza: 18hanno allietato il mio spirito e allieteranno anche il vostro. Apprezzate persone come queste.

Saluti 19Le Chiese dell’Asia vi salutano. Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa. 20Vi salutano tutti i fratelli. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. 21Il saluto è di mia mano, di Paolo.

Formule liturgiche conclusive 22Se qualcuno non ama il Signore, sia anàtema! Maràna tha! 23La grazia del Signore Gesù sia con voi. 24Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù!

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Invito a proseguire la colletta Anzitutto l'apostolo rivolge ai Corinzi l'appello di proseguire la colletta per i cristiani bisognosi della Chiesa madre di Gerusalemme (vv. 1-4). Nonostante l'indigenza economica dei fedeli di Gerusalemme, Paolo li chiama «santi» (v. 1), riconoscendo loro la stessa dignità e la stessa vocazione dei cristiani di Corinto, «che sono stati santificati in Cristo Gesù» e «chiamati (a essere) santi» (1,2). Per venire in loro soccorso, l'apostolo esorta i Corinzi a perseverare nell'iniziativa, attenendosi alle disposizioni che egli ha già dato alle comunità cristiane della Galazia settentrionale. S'intuisce che tali disposizioni fossero note pure ai Corinzi. Paolo dà ai Corinzi alcune disposizioni pratiche sui tempi e sui modi della colletta (v. 2), precisando anche come intende procedere per inviare la somma di denaro a Gerusalemme (vv. 3-4). Per aiutare i Corinzi a superare il rischio di procedere in modo affrettato e forse anche poco generoso, chiede loro di risparmiare soldi un po' alla volta. L'indicazione cronologica lega questo gesto di carità alla celebrazione eucaristica domenicale (cfr. At 20,7; Ap 1,10), in cui i cristiani si radunavano in assemblea per annunciare la morte del Signore, in attesa della sua venuta gloriosa (cfr. 1Cor 11,26). Paolo intende la colletta non tanto come un'elemosina, quanto piuttosto come un servizio sacro reso a Dio, oltre che ai fratelli (cfr. 2Cor 9,1).

Progetti missionari Lasciando trasparire tutto il suo affetto per i figli spirituali di Corinto, l'apostolo annuncia un prossimo soggiorno piuttosto prolungato nella loro comunità (v. 7). Paolo dettando la Prima lettera ai Corinzi, manifesta loro la decisione di trattenersi fino a Pentecoste nella città di Efeso. E questo, per due ragioni: in positivo, si rende conto di avere una chance irrinunciabile per la diffusione del cristianesimo: con la metafora della «porta» che si «è aperta» Paolo esprime la consapevolezza credente nella costante assistenza dello Spirito Santo, che gli dischiude sempre nuove possibilità pastorali (cfr. At 14,27; 2Cor 2,12; Col 4,3; e anche Ap 3,8); in negativo, ha da risolvere varie tensioni intraecclesiali dovute ai numerosi oppositori, presenti anche lì (vv. 8-9). Sul punto di partire per Corinto è invece il suo collaboratore Timoteo (v.1O; cfr. 4,17). Paolo mette in guardia i fedeli, specialmente quelli a lui contrari, di non mancare di rispetto a Timoteo (v. 11a)! Con Timoteo non partirà Apollo, benché Paolo gli abbia chiesto calorosamente di recarsi anche lui a Corinto. Paolo non precisa i motivi per cui questo predicatore colto preferisca rimanere con lui a Efeso.

Inviti conclusivi Nei vv. 13-14 l'apostolo rammenta ai Corinzi le virtù cristiane principali (cfr. 1Cor 13,13): la speranza vigilante, la fede salda e forte e specialmente la carità. La comunità era guidata da alcune figure di riferimento, come sembrano essere Stefana, Fortunato e Acaico (vv. 15.17). Battezzati da Paolo stesso (cfr. l, 16), Stefana e la sua famiglia erano stati tra i primi a convertirsi al cristianesimo nell'Acaia, ossia nella regione intorno a Corinto. Da tempo si stavano dedicando al servizio degli altri fedeli. Paolo designa questo loro «servizio» ecclesiale con il sostantivo greco diakonia (v. 15). Pur tuttavia, bisognerà attendere le successive lettere pastorali per trovarvi riferimenti espliciti al diaconato come ministero ecclesiale (cfr. specialmente 1Tm 3,8-13). Certo è che già nella Prima lettera ai Corinzi i diversi ministeri («servizi») nell'ambito della comunità cristiana sono intesi come doni, che hanno origine nel Signore risorto (cfr. 12,5). Il probabile compito direttivo svolto nella Chiesa corinzia da Stefana e da alcuni membri della sua famiglia, dovuto inizialmente alloro essere «primizia dell'Acaia» (v. 15), emerge dalla raccomandazione rivolta da Paolo ai fedeli di rimanere sottomessi a loro e ai loro collaboratori. Tra costoro probabilmente c'erano pure Fortunato e Acaico, ai quali l'apostolo riconosce un ruolo di rappresentanti dei Corinzi (v. 17). Paolo è stato allietato dalla loro visita perché gli hanno portato notizie (pur non sempre rasserenanti) della vitalità della Chiesa di Corinto. Ma l'apostolo, dopo aver dichiarato la sua stima per loro, raccomanda anche ai Corinzi di stimarli e -sottinteso- di obbedire loro (v. 18).

Da questi cenni conclusivi della Prima Lettera ai Corinzi ci rendiamo conto dell'infondatezza della supposizione che, nel periodo apostolico, le Chiese paoline, sostanzialmente carismatiche, fossero prive di una gerarchia paragonabile a quella della Chiesa petrina di Gerusalemme. Persino in una comunità così carismatica come quella di Corinto, un gruppo di persone si faceva carico dei cammini di fede degli altri cristiani. Probabilmente questo ruolo di governo era gestito in maniera collegiale da Stefana, cui era riconosciuta una certa preminenza («primizia»), e da altre persone, come Fortunato e Acaico, che mantenevano stretti rapporti con l'apostolo Paolo. Così, attraverso una fitta rete di contatti, costui riusciva a dare alcune direttive pastorali necessarie alle variegate comunità da lui fondate, pur continuando a spostarsi infaticabilmente per fame sorgere altre.

Saluti Ai saluti personali, scritti di suo pugno (v. 21; cfr. Gal 6,11), Paolo premette quelli di «tutti i fratelli» delle comunità cristiane dell'Asia Minore (vv. 19-20). In una vita comunitaria animata dalla carità (cfr. 1Cor 13,1-13; 16,14), il saluto attraverso un «bacio santo» (v. 20) è un gesto semplice e significativo, che va ben al di là delle formalità. Le comunità cristiane dell'epoca apostolica assunsero il «bacio santo» come gesto liturgico, forse proprio a partire dal fatto che le lettere paoline venivano lette nel contesto di una celebrazione. Tuttavia alcuni Padri della Chiesa, come Atenagora e Clemente di Alessandria, denunciarono i possibili atteggiamenti ambigui e i veri e propri inconvenienti morali cui questa consuetudine poteva dare adito.

Formule liturgiche conclusive Già la preghiera di ringraziamento con cui si apre la lettera (cfr. 1,4-9) si adatterebbe bene a un contesto liturgico. Similmente, questa formula di benedizione conclusiva sarebbe una degna conclusione di uno scritto di cui Paolo prevedeva una lettura pubblica, davanti alla comunità cristiana tendenzialmente al completo («con tutti voi», v. 24) raccolta in assemblea (cfr. 1Ts 5,27; Col 4, 16), magari per celebrare l'eucaristia domenicale (cfr. 1Cor 11,17-34; 16,2; anche At 20,7; Ap 1,10). È in questo contesto comunitario, se non addirittura eucaristico, che l'apostolo esprime il suo amore per tutti i Corinzi, nonostante i problemi dottrinali e morali di tanti di loro e persino l'avversione nei suoi confronti provata da una parte della comunità. Ma la carità – di Paolo, a imitazione di quella di Cristo (cfr. 1Cor 11,1) – «non s'arrabbia, non tiene conto del male (ricevuto),[...] tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (13,5-7).


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Il Vangelo della risurrezione di Cristo 1Vi proclamo poi, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi 2e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! 3A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che 4fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture 5e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. 6In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. 7Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. 8Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. 9Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. 10Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. 11Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.

La risurrezione dai morti 12Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? 13Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! 14Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. 15Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo mentre di fatto non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. 16Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; 17ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. 18Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. 19Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.

Risurrezione di Cristo e risurrezione dei cristiani 20Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. 21Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. 22Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. 23Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. 24Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. 25È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. 26L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, 27perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però, quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. 28E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

Altre conseguenze in una vita senza la speranza nella risurrezione 29Altrimenti, che cosa faranno quelli che si fanno battezzare per i morti? Se davvero i morti non risorgono, perché si fanno battezzare per loro? 30E perché noi ci esponiamo continuamente al pericolo? 31Ogni giorno io vado incontro alla morte, come è vero che voi, fratelli, siete il mio vanto in Cristo Gesù, nostro Signore! 32Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Èfeso contro le belve, a che mi gioverebbe? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo. 33Non lasciatevi ingannare: «Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi». 34Tornate in voi stessi, come è giusto, e non peccate! Alcuni infatti dimostrano di non conoscere Dio; ve lo dico a vostra vergogna.

Come si risorge dai morti? 35Ma qualcuno dirà: «Come risorgono i morti? Con quale corpo verranno?». 36Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore. 37Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. 38E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo. 39Non tutti i corpi sono uguali: altro è quello degli uomini e altro quello degli animali; altro quello degli uccelli e altro quello dei pesci. 40Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, altro quello dei corpi terrestri. 41Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle. Ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore. 42Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; 43è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; 44è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che 45il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. 46Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. 47Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. 48Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. 49E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. 50Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità.

Trasformazione dei risorti 51Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, 52in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. 53È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità. 54Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria. 55Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? 56Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. 57Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo! 58Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Il Vangelo della risurrezione di Cristo Il punto di partenza dell'argomentazione paolina sulla risurrezione dai morti è la citazione di uno dei primi simboli di fede della Chiesa apostolica, ossia di una formula sintetica capace di riassumere le verità fondamentali della fede cristiana. Riallacciandosi alla vivente tradizione della Chiesa, Paolo trasmette fedelmente questo simbolo di fede, sentendosi parte egli stesso di questa tradizione, come ultimo testimone oculare di Cristo risorto. Molto probabilmente Paolo apprese questo simbolo di fede negli anni 40-42, vale a dire subito dopo il suo incontro sconvolgente e straordinario con il Signore risorto sulla via di Damasco (cfr. v. 8; 1Cor 9,1; Gal 1,15-17). Forse questa arcaica formula di fede, di matrice giudaico-palestinese, era il «credo» che si recitava nella comunità cristiana di Antiochia di Siria. Il neoconvertito Paolo vi risedette per qualche tempo, prima di partire in missione con Barnaba (cfr. At 13,1-3). Con le parole del credo antiocheno, Paolo dichiara la propria fede nel fatto che la morte in croce di Cristo sia avvenuta «per i nostri peccati secondo le Scritture». In secondo luogo, il credo antiocheno professa che Cristo «venne sepolto». Da un punto di vista umano, con la sepoltura di Gesù si sarebbe conclusa la sua vicenda terrena. Quindi, questa annotazione non fa che confermare quella sulla morte. Una volta che Cristo fu deposto nel sepolcro come cadavere impotente (cfr. Mt 27,59-60 e paralleli), Dio Padre, che «non è un Dio di morti, ma di viventi» (Mt 22,32), «lo ha sopraesaltato» (Fil 2,9), risuscitandolo dai morti. Per iniziare a comprendere qualche aspetto del fatto che Cristo «sia stato risuscitato» da Dio Padre, bisogna rendersi conto, anzitutto, di avere a che fare con un'espressione analogica o antropomorfica: facendo leva cioè sulla somiglianza parziale (analogia) tra l'umano e il divino (cfr. Sap 13,5). Anche il termine «risurrezione» riesce a rendere soltanto qualche sfaccettatura di un atto divino, che comunque è, e rimarrà sempre, del tutto singolare nella storia. Infrangendo le leggi della natura, l'intervento di Dio Padre di risuscitare dai morti Cristo, suo Figlio, pur essendo annunciato con parole umane, trascende ogni esperienza umana. Il credo antiocheno, che precisa che la risurrezione di Cristo avvenne «il terzo giorno» e «secondo le Scritture». Infine, i l credo antiocheno, senza accennare al dato -anch'esso ben attestato (cfr. p. es. Mt 28,6 e paralleli; Lc 24,24; Gv 20,1-2) – del sepolcro vuoto, testimonia le cosiddette apparizioni del Crocifisso risorto. Dalla concisa formulazione del credo antiocheno si può già intuire come le apparizioni del Signore fossero atti inscindibilmente legati alla sua risurrezione, senza però coincidere con essa: Cristo, in virtù della risurrezione, è entrato in una dimensione diversa da quella terrena. Per questa ragione egli non è più immediatamente percepibile dai sensi delle persone viventi sulla terra come invece lo era prima, fino alla sua morte. Il Crocifisso risorto è sempre lo stesso individuo che, pochi giorni prima, è morto crocifisso; tant'è che ha le cicatrici della passione (cfr., p. es., Gv 20,20.25.27). Eppure è entrato nello stesso modo di vivere di Dio, per cui non è più soggetto alle nostre leggi spazio-temporali (cfr. Lc 24,31; Gv 20,19.26). Di conseguenza ha un aspetto non più immediatamente sperimentabile dai sensi umani (cfr. Mc 16,12), se non a condizioni che egli stesso, nella sua libertà, voglia farsi percepire dai suoi discepoli che accolgano con fede questa sua manifestazione (cfr., p. es., Lc 24,31; Gv 20, 16.28). La prima apparizione menzionata è rivolta a Cefa, ossia a Simon Pietro. Alla fine dell'elenco di apparizioni del Risorto, Paolo inserisce anche il ricordo del proprio incontro con lui sulla via di Damasco (v. 8; cfr. At 9,1-19; 22,4-21; 26,12-18). Il suo incontro con il Risorto è dunque del tutto equiparabile a quello degli altri apostoli, Dodici inclusi (cfr. 15,5.6.7). Paolo però è consapevole di aver incontrato il Risorto in ritardo rispetto al periodo delle apparizioni agli altri testimoni. In questo senso, quindi, sarebbe simile a un feto abortito perché nato in un momento sbagliato.

La risurrezione dai morti Facendo leva sulla fede dei Corinzi nella risurrezione del Signore Gesù, Paolo viene incontro alle loro perplessità sulla risurrezione universale, suscitate da «alcuni» cristiani che non vi speravano (v. 12). Paolo sembra dire ai Corinzi: ammettiamo per assurdo che non si risorga dai morti. Se così fosse, si dovrebbe negare anche la risurrezione di Cristo; cioè si dovrebbe concludere per la falsità della verità di fede centrale del cristianesimo. Ma se davvero non credeste in questo evento, conclude l'apostolo, come potreste professarvi cristiani? In effetti certi fedeli di Corinto, magari senza neppure rendersene conto, stavano muovendosi verso questa posizione. Perciò l'apostolo, dopo aver rammentato loro il credo antiocheno (vv. 3b-5) al quale anch'essi avevano dato il proprio assenso di fede convertendosi al cristianesimo, mostra la contraddittorietà di certe loro dichiarazioni attuali. Se Cristo non fosse risorto, tutta la vita dei fedeli di Corinto, che nonostante tutto tenevano a dichiararsi cristiani, sarebbe vuota, essendo privata della sua meta ultima: la comunione eterna con il Signore. Bene che vada, i cristiani potrebbero sperare qualche soccorso da Cristo «solo per questa vita», ma non oltre.

Risurrezione di Cristo e risurrezione dei cristiani Paolo giunge così al cuore del suo discorso sulla risurrezione dei cristiani, che egli pare curare particolarmente dal punto di vista della struttura letteraria. Il suo scopo è mostrare come la speranza nella risurrezione universale dei cristiani si fondi sulla solidarietà che lega Cristo risorto ai credenti in lui. Perciò Paolo ricorre a due argomenti, ciascuno dei quali è strutturato concentricamente. Anzitutto approfondisce un parallelismo antitetico tra Adamo e Cristo (vv. 20-23): noi moriamo in Adamo, ma vivremo in Cristo risorto. Per essere più precisi, si potrebbe dire che il rapporto vivificante di solidarietà con cui siamo legati a Cristo è ben più stretto della connivenza mortifera con Adamo. La seconda argomentazione paolina (vv. 24-28), che precisa il passaggio dal regno storico di Cristo al regno escatologico del Padre, è scandita in modo concentrico: un primo sguardo è rivolto alla fine dei tempi e al regno eterno di Dio Padre (a: v. 24); un secondo colpo d'occhio è orientato all'attuale regno in fieri di Cristo (v. 25-27) e, infine, una scorsa contemplativa va ancora alla fine della storia e alla signoria universale del Padre (v. 28). Paolo crede fermamente che la risurrezione di Cristo abbia anticipato nel «centro del tempo» ciò che avverrà per tutti i cristiani alla sua fine. Ma questo evento singolare, verificatosi per una persona nella storia, non solo precede la risurrezione di tutti i cristiani, ma ne è anche la causa e il modello. In sostanza, esiste un legame di solidarietà, che unisce il Risorto ai credenti in lui, che non s'infrange nemmeno quando costoro s'addormentano nella morte (v. 20b). Proprio in quanto fin d'ora sono uniti a lui, soprattutto nel battesimo (1Cor 1,13.15; cfr. Rm 6,4; Gal 3,27-28; Col 2,12) e nell'eucaristia (1Cor 10,16-17), sono destinati a risorgere come lui. Per mostrare la conseguenza universalmente salvifica della risurrezione di Cristo, vale a dire che tutti i credenti saranno risuscitati grazie a lui, Paolo dichiara che alla fine della storia, ossia quando essa giungerà al suo «fine» ( télos v. 24), Cristo porterà a termine la sua vittoria, sconfiggendo persino la morte degli uomini (v. 26). Allora tutto sarà davvero sottomesso a Cristo tranne Dio Padre (v. 27), al quale il Figlio riconsegnerà l'intera umanità, anzi, l'intera creazione (cfr. Rm 8,22), ormai pienamente redenta. Ogni creatura, a cominciare dall'uomo, sarà resa partecipe della comunione filiale che unisce il Figlio amato al Padre amante tramite lo Spirito-amore.

Altre conseguenze in una vita senza la speranza nella risurrezione Ora Paolo mette in luce che, se non ci fosse la possibilità di risorgere, sarebbe inutile sia farsi battezzare per i propri defunti (v. 29) sia affrontare, come stava facendo lui stesso, tanti parimenti e difficoltà per annunciare il Vangelo (vv. 30-32). Paolo sta giocando tutta la sua vita per testimoniare il Crocifisso risorto. Se Paolo non sperasse di essere risuscitato dai morti per essere «sempre col Signore» (1Ts 4, 17), non continuerebbe a vivere in questa maniera. Che senso avrebbe per lui affrontare tutti questi patimenti unicamente per motivi umani, cioè legati a un mondo transitorio (cfr. 7,31), destinato a finire nel nulla? A una domanda posta in termini personali Paolo dà una risposta di carattere tendenzialmente universale: se così fosse, sarebbe meglio mangiare e bere (v. 32b), ossia godersi spensieratamente i piaceri della vita, consapevoli che al di là della morte non ci sarebbe nulla da attendersi. Dal punto di vista letterario, la conclusione dei vv. 33-34 riprende l'interrogativo con cui si apriva la sezione (v. 12): lì Paolo ricordava come «alcuni» dei Corinzi «dicessero» che non esiste la risurrezione dai morti. Ora, è l'apostolo che replica «dicendo» ai cristiani di Corinto che «alcuni» di loro vivono ignorando Dio. Per cercare di farli ravvedere, così da evitare i peccati (v. 34b) che possono facilmente scaturire da una vita senza speranza, Paolo cita un verso della commedia Taide del poeta Menandro (ca. 342-291 a.C.) a riguardo della corruzione morale causata dalle conversazioni all'interno di cattive compagnie. Con questo detto, che all'epoca forse circolava come un proverbio, l'apostolo avverte la comunità corinzia di non lasciarsi abbindolare dalle opinioni fuorvianti di alcuni scettici a riguardo della risurrezione universale dai morti. Sostenendo certe concezioni contrarie al nucleo fondamentale della fede cristiana, persone del genere, benché si dichiarino credenti in Cristo, mostrano di non conoscere veramente il Dio rivelato definitivamente da lui (v. 34): soltanto apparentemente si sono convertiti dal paganesimo (cfr. 1Ts 4,5). Chiunque si lasci ingannare da costoro deve solo vergognarsi.

Come si risorge dai morti? Come avverrà questo processo di continuità dell'identità della persona risorta, nella trasformazione positiva delle sue condizioni di vita? Paolo ricorre a tre paragoni terreni, forse già in uso nelle scuole rabbiniche dell'epoca: la similitudine del seme e della pianta (vv. 36-38), quella della carne umana e dei vari generi di carne animale (v. 39) e, infine, quella della luminosità dei corpi terrestri e di quelli astrali (vv. 40-41). Tra la persona che vive in questo mondo e la medesima persona risorta esiste una continuità nella differenza e questa differenza è in meglio. La persona risorta, con la sua corporeità, rimane la stessa. Tuttavia raggiunge quella perfezione di cui era priva prima della sua morte (cfr. 15,42-44). Non si tratta però di una novità verificabile per chi è ancora in vita sulla terra. Di conseguenza l'apostolo ha cercato di renderne l'idea con le tre similitudini precedenti (vv. 36-41). Grazie a esse, egli intende correggere, in primo luogo, il bieco materialismo di chi riteneva che la risurrezione dai morti coincidesse con una specie di vivificazione del cadavere. Il defunto avrebbe ripreso a vivere in una situazione sostanzialmente coincidente con quella terrena. Paolo professa di credere non solo nella continuazione dell'identità personale dell'individuo, ma anche nella risurrezione della persona in ogni sua dimensione, inclusa quella corporea. Giunge così a parlare di un «corpo spirituale» donato da Dio ai risorti che, come un seme nella terra, sono morti con il loro «corpo animale» (v. 44). Più esattamente: l'apostolo prende le distanze dalla posizione di alcuni cristiani spiritualisti di Corinto, i quali disprezzavano la debolezza del corpo umano e il suo squallore, specialmente se preda della vecchiaia, della malattia e della morte. Senza celare la fragilità e la corruttibilità del corpo terreno dell'uomo, Paolo ribadisce che il corpo risorto sarà perfezionato. Non sarà quindi più soggetto alla corruzione né alle varie forme di miseria e di debolezza come quello terreno, entrando invece a partecipare della stessa condizione gloriosa di Dio (vv. 42-43). Oltre a ciò, dichiarando che «viene seminato un corpo animale, viene risuscitato un corpo spirituale» (v. 44), l'apostolo ci consente di sperare che sia proprio il «corpo» a essere completamente trasfigurato dallo Spirito Santo e a essere introdotto nella gloria di Dio. A conferma della propria visione della condizione risorta, Paolo porta il passo del libro della Genesi che racconta la creazione dell'essere umano come «anima vivente» (v. 45a; cfr. Gen 2,7). In sintesi: Paolo pensa alla risurrezione dai morti come a una nuova creazione (cfr. Gen 1,27). Grazie a essa, il credente in Cristo viene trasfigurato dall'immagine di Adamo a quella del Risorto, nel senso che il suo «corpo naturale» viene plasmato come «corpo spirituale» (vv. 44.46). Qui giunto, Paolo può riprendere in termini conclusivi il duplice interrogativo d'inizio paragrafo sul modo in cui si risorge corporalmente dai morti (v. 35). In negativo egli precisa che l'essere umano nella sua fragilità creaturale («la carne e il sangue», v. 50) non è in grado da solo di risorgere e di entrare nel regno di Dio. In quanto essere corruttibile, l'uomo non è capace di passare in una dimensione di vita incorruttibile, com'è quella che caratterizza i risorti.

Trasformazione dei risorti Nella letteratura biblica e giudaica di genere apocalittico, il termine «mistero» designava un intervento salvifico che il Signore avrebbe portato a termine in un futuro indeterminato. A un suo inviato, poi, Dio stesso ne manifestava il significato salvifico con il compito di comunicarlo ai fedeli (cfr., p. es., Dn 2,18- 19.27-30.47; Ap 1O,7). Ispirato da Dio, anche Paolo rivela ai Corinzi che c'è un salto qualitativo da fare per entrare in un'altra dimensione di vita ed «è necessario» per tutti farlo (v. 53). Lo devono fare persino i fedeli che, al termine della storia, saranno ancora in vita (vv. 51-52). Non solo il corpo corrotto dei defunti, ma anche quello dei viventi, che comunque è corruttibile e mortale, deve diventare incorruttibile e immortale (v. 53). Sia per gli uni che per gli altri sarà come indossare un vestito d'incorruttibilità (cfr. 2Cor 5,2-4). D'altronde, se è vero che tutti, sia morti che vivi, dovranno fare questo salto di qualità, è altrettanto vero che in questa trasformazione positiva sarà comunque salvaguardata l'identità personale. Giunto al termine del suo lungo discorso sulla risurrezione universale dei cristiani, Paolo esulta di gioia sulla sconfitta definitiva della morte e rende grazie a Dio che l'ha portata a termine tramite Cristo. In conclusione Paolo esprime tutta la sua riconoscenza a Dio perché ha vinto in modo definitivo la morte, pur passando paradossalmente attraverso la morte in croce di Cristo (v. 57). Come al v. 34 Paolo aveva concluso la risposta al primo quesito sull'esistenza della risurrezione dai morti con un'esortazione, così con un'esortazione conclude anche la risposta al secondo interrogativo sul modo in cui si risorge dai morti.


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Superiorità della profezia sul dono delle lingue per l'edificazione della Chiesa 1Aspirate alla carità. Desiderate intensamente i doni dello Spirito, soprattutto la profezia. 2Chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini ma a Dio poiché, mentre dice per ispirazione cose misteriose, nessuno comprende. 3Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto. 4Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l’assemblea. 5Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia. In realtà colui che profetizza è più grande di colui che parla con il dono delle lingue, a meno che le interpreti, perché l’assemblea ne riceva edificazione.

Esempi sul limite del dono delle lingue 6E ora, fratelli, supponiamo che io venga da voi parlando con il dono delle lingue. In che cosa potrei esservi utile, se non vi comunicassi una rivelazione o una conoscenza o una profezia o un insegnamento? 7Ad esempio: se gli oggetti inanimati che emettono un suono, come il flauto o la cetra, non producono i suoni distintamente, in che modo si potrà distinguere ciò che si suona col flauto da ciò che si suona con la cetra? 8E se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia? 9Così anche voi, se non pronunciate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlereste al vento! 10Chissà quante varietà di lingue vi sono nel mondo e nulla è senza un proprio linguaggio. 11Ma se non ne conosco il senso, per colui che mi parla sono uno straniero, e chi mi parla è uno straniero per me.

Invito a cercare doni della grazia per l'edificazione della Chiesa 12Così anche voi, poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di averne in abbondanza, per l’edificazione della comunità. 13Perciò chi parla con il dono delle lingue, preghi di saperle interpretare.

Altri esempi sul limite del dono delle lingue 14Quando infatti prego con il dono delle lingue, il mio spirito prega, ma la mia intelligenza rimane senza frutto. 15Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l’intelligenza. 16Altrimenti, se tu dai lode a Dio soltanto con lo spirito, in che modo colui che sta fra i non iniziati potrebbe dire l’Amen al tuo ringraziamento, dal momento che non capisce quello che dici? 17Tu, certo, fai un bel ringraziamento, ma l’altro non viene edificato. 18Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi; 19ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue.

Dimostrazione della superiorità della profezia per l'edificazione della Chiesa 20Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi. 21Sta scritto nella Legge: In altre lingue e con labbra di stranieri parlerò a questo popolo, ma neanche così mi ascolteranno, dice il Signore. 22Quindi le lingue non sono un segno per quelli che credono, ma per quelli che non credono, mentre la profezia non è per quelli che non credono, ma per quelli che credono. 23Quando si raduna tutta la comunità nello stesso luogo, se tutti parlano con il dono delle lingue e sopraggiunge qualche non iniziato o non credente, non dirà forse che siete pazzi? 24Se invece tutti profetizzano e sopraggiunge qualche non credente o non iniziato, verrà da tutti convinto del suo errore e da tutti giudicato, 25i segreti del suo cuore saranno manifestati e così, prostrandosi a terra, adorerà Dio, proclamando: Dio è veramente fra voi!

Uso ecclesiale dei diversi doni della grazia 26Che fare dunque, fratelli? Quando vi radunate, uno ha un salmo, un altro ha un insegnamento; uno ha una rivelazione, uno ha il dono delle lingue, un altro ha quello di interpretarle: tutto avvenga per l’edificazione. 27Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due, o al massimo in tre, a parlare, uno alla volta, e vi sia uno che faccia da interprete. 28Se non vi è chi interpreta, ciascuno di loro taccia nell’assemblea e parli solo a se stesso e a Dio. 29I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. 30Ma se poi uno dei presenti riceve una rivelazione, il primo taccia: 31uno alla volta, infatti, potete tutti profetare, perché tutti possano imparare ed essere esortati. 32Le ispirazioni dei profeti sono sottomesse ai profeti, 33perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace. Come in tutte le comunità dei santi, 34le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. 35Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea. 36Da voi, forse, è partita la parola di Dio? O è giunta soltanto a voi? 37Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto vi scrivo è comando del Signore. 38Se qualcuno non lo riconosce, neppure lui viene riconosciuto. 39Dunque, fratelli miei, desiderate intensamente la profezia e, quanto al parlare con il dono delle lingue, non impeditelo. 40Tutto però avvenga decorosamente e con ordine.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Il carisma della profezia era stimato dai Corinzi come un dono spirituale prestigioso, perché le parole pronunciate dai profeti apparivano loro inequivocabilmente ispirate dallo Spirito Santo (cfr. At 13,1-5; 1Tm 4,14). Come i profeti dell'Antico Testamento, anche i cristiani che avevano ricevuto questo dono della grazia erano capaci di vedere nella storia i segni di rivelazione di Dio e di cogliervi la sua volontà salvifica per il presente e anche per il futuro. Quindi non si trattava anzitutto di predire avvenimenti futuri, benché i profeti facessero anche previsioni (cfr. At 11,27-28; 21,11). È più che verosimile che non solo alcuni atteggiamenti estatici dei profeti di Corinto, ma anche la loro capacità di prevedere il futuro, affascinassero notevolmente l'intera comunità cristiana.

Superiorità della profezia sul dono delle lingue per l'edificazione della Chiesa L'apostolo dichiara il primato della profezia, ma questa sua importanza non era condivisa dai Corinzi, che bramavano piuttosto il dono delle lingue. Si può capire l'esaltazione della glossolalia a Corinto se si coglie che cosa s'intendesse, in quel contesto socio-religioso, per «spirituale». Il concetto di spirito non era legato di per sé alle facoltà intellettuali. Designava piuttosto un impulso, una forza, simile, per esempio, a una ventata d'aria che, inspirata da una persona, la pervade tutta, fin nelle sue fibre più profonde. Se questo vale per l'aria, immaginavano già gli antichi Israeliti, tanto più deve valere per l'onnipotente Spirito vivificatore (cfr. Ez 37,9; Sal 104,30) con cui Dio opera efficacemente per la salvezza dell'umanità. Del vento nessuno sa «donde viene né dove va» (Gv 3,8); eppure muove le cose. Alla luce di questa concezione dello Spirito di Dio, s'intuisce il motivo per cui i Corinzi bramassero soprattutto i fenomeni carismatici più direttamente spirituali. Tra questi, la preghiera in lingue era messa al vertice, perché i cristiani che la praticavano apparivano, magari improvvisamente, come pervasi da una forza soprannaturale e misteriosa. Forse cadevano anche in estasi; mossi da questo impulso interiore, alcuni cristiani elevavano a Dio «gemiti inespressi» (Rm 8,26), senza quindi attenersi alle regole del linguaggio ordinario; anzi, senza una vera e propria lingua, senza il controllo della mente, senza forse sapere essi stessi che cosa intendessero comunicare al Signore. Per ridimensionare l'aspirazione dei Corinzi alla glossolalia l'apostolo mostra un'indubbia differenza tra questa e la profezia: mentre gli oracoli profetici potevano essere capiti da tutti, le preghiere in lingue restavano oscure ai più (vv. 2-3), a meno che qualcuno ne rivelasse il significato (v.5). Sotto il profilo comunitario il valore della profezia è superiore perché essa edifica non solo il carismatico che la esercita, ma anche la comunità cristiana (v. 4) alla quale è destinato il messaggio divino da lui mediato. Se è vero che è l'utilità comune il fine primario per cui ciascun cristiano riceve alcuni doni dallo Spirito (cfr. 12,7), allora è chiaro che la profezia è più importante della preghiera in lingue!

Esempi sul limite del dono delle lingue Intuendo la reazione dei destinatari della lettera, certamente contrari a questo suo ridimensionamento della glossolalia, Paolo fa tre tipi di esempi, prendendoli dalla propria esperienza personale (v. 6), dalla musica (vv. 7-9) e dalla linguistica(vv. 10-11).

  1. Un missionario come Paolo non riuscirebbe a svolgere alcuna attività pastorale efficace se si limitasse a esercitare il dono delle lingue. Una comunità cristiana come quella di Corinto necessita di insegnamenti dottrinali e morali, che Paolo può darle soltanto ricorrendo ad altri suoi doni spirituali.

  2. A livello ecclesiale, le preghiere in lingue prive di una traduzione sarebbero inutili come i suoni confusi di vari strumenti musicali. Perché ci sia una melodia, occorre che ciascuno strumento emetta un suono distinguibile da quello di un altro. Come un esercito non si muove a battaglia se non sente bene il suono della tromba, così una comunità cristiana non matura nella fede ascoltando le preghiere incomprensibili di un carismatico.

  3. Se infine si considera la comunicazione verbale tra gli uomini, è chiaro che la sua condizione di possibilità è l'uso di una lingua nota agli interlocutori. Senza di essa sarebbe arduo per loro intendersi.

Una comunità cristiana matura nella fede nella misura in cui comprende i messaggi salvifici che lo Spirito di Dio le comunica. A questo scopo lo Spirito Santo suscita al suo interno alcuni profeti e ne ispira gli oracoli, capaci d'illuminare la vita degli altri fedeli che docilmente li ascoltano. In quest'ottica la profezia è un dono spirituale più utile della glossolalia.

Invito a cercare doni della grazia per l'edificazione della Chiesa Alla luce degli esempi precedenti Paolo ribadisce (cfr. vv. 4-5) sotto forma di esortazione la prospettiva fondamentale che più gli sta a cuore, che è quella dell'edificazione della Chiesa (v. 12). Dopo di che, rivolgendosi direttamente ai cristiani che hanno ricevuto il dono delle lingue, suggerisce loro di chiedere allo stesso Spirito la capacità di tradurre le proprie preghiere, così che gli altri fedeli possano comprenderle e maturare nella fede (v. 13; cfr. vv. 5.27).

Altri esempi sul limite del dono delle lingue Se venisse a mancare la possibilità di comprendere il contenuto della preghiera in lingue, il suo limite sarebbe davvero grave a livello ecclesiale. Per aiutare i Corinzi a rendersene conto, Paolo fa altri tre esempi.

  1. Anzitutto Paolo mostra, a partire dalla propria esperienza personale, quanto sia fecondo elevare preghiere e salmi a Dio non solo con il proprio spirito, ma anche con la propria intelligenza. S'intuisce che egli designi con il termine «spirito» gli aspetti più emotivi della persona, che vibrano entrando in contatto con lo Spirito Santo (cfr. Rm 8,16). La «mente», invece, indica per lui la parte più cosciente e razionale dell'essere umano, che pure entra in gioco nel rapporto con lo Spirito. Anzi, per l'apostolo l'ideale sarebbe pregare con entrambi!

  2. Per favorire quindi la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla preghiera comunitaria, è necessario tradurre le invocazioni in lingue. In caso contrario, l'assemblea, composta per la maggior parte da «non iniziati» (v. 16), ossia da cristiani che non hanno ricevuto il dono dell'interpretazione delle lingue, pur restando impressionata da un fenomeno spirituale così appariscente, non parteciperà in maniera sentita alla preghiera.

  3. Paolo confessa senza falsi pudori di possedere anche lui il dono delle lingue. Anzi – non senza una punta di orgoglio, tipica della sua personalità –, si vanta addirittura di essere capace di pregare in lingue più di tutti i Corinzi messi assieme (v. 18). Subito, però, aggiunge che, quando parla in un contesto comunitario, preferisce fare discorsi brevi ma comprensibili a tutti, piuttosto che preghiere prolisse in lingua, che quasi nessuno comprende (v. 19). Pur cedendo a qualche esagerazione, Paolo tiene anche qui a proporsi come modello per i suoi figli spirituali (cfr. 1Cor 4,16; Fil 3, 17), così da aiutarli a seguire Cristo, che egli stesso cerca d'imitare (cfr. 1Cor 11,1; 1Ts 1,6).

Dimostrazione della superiorità della profezia per l'edificazione della Chiesa Già precedentemente Paolo ha rimproverato i Corinzi di essere rimasti, sotto il profilo spirituale, come neonati, bisognosi di latte e incapaci di mangiare cibo solido. Indizio inequivocabile di questa loro immaturità sono le contese, causate dal loro attaccamento a un missionario piuttosto che a un altro (cfr. 3,1-4). Ora (v. 20) l'apostolo ripete il richiamo, ma da un altro punto di vista: siano pure innocenti come bambini, ma non siano immaturi nei modi di pensare e (sottinteso) anche nei modi di affrontare problemi importanti come quelli legati ai doni della grazia. A questo livello, cerchino invece di essere «perfetti», ossia maturi nella fede (cfr. anche 2,6). Trattando quindi i suoi fratelli di Corinto come maturi nella fede, Paolo cita la Sacra Scrittura (v. 21) a conferma della sua tesi circa la superiorità della profezia rispetto alla glossolalia. Paolo cita in maniera abbastanza libera un passo del libro del profeta Isaia (28,11-12) e coglie nel testo isaiano un'allusione alla glossolalia: come la lingua dei nemici stranieri era un segno per gli Israeliti increduli, così il dono delle lingue è un segno per i non credenti (v. 22a). Assistendo a una preghiera in lingue, si può restare impressionati emotivamente, ma non si è sollecitati a credere in Cristo! Come spiega Paolo subito dopo: ascoltando tali preghiere incomprensibili, si pensa di essere davanti a dei pazzi (cfr. 12,23). Rimanendo perciò non credenti, proprio come preannunciava l'oracolo isaiano: «Neppure così mi ascolteranno, dice il Signore». Per la maggior parte della giovane comunità di Corinto, proveniente dal paganesimo e non ancora esperta di Bibbia come Paolo, l'argomentazione non sarà sembrata subito così perspicua. Rendendosene forse conto, egli fa due esempi chiarificanti. Al caso negativo di non cristiani – definiti ora «non credenti» e «non iniziati» (v. 23) – sconcertati alla vista di un'intera comunità che pregasse in lingue, Paolo ne aggiunge uno positivo sulla profezia: un non cristiano potrebbe convertirsi al cristianesimo se, entrando in un'assemblea ecclesiale, si sentisse rivolgere da alcuni carismatici una serie di profezie sui suoi peccati o sui suoi segreti più intimi (vv. 24-25).

Uso ecclesiale dei diversi doni della grazia Dalla descrizione che l'apostolo fa di ciò che molto probabilmente avveniva quando la comunità cristiana di Corinto si riuniva in assemblea, si ha l'impressione di una notevole vivacità e libertà d'intervento. Alla domanda sul da farsi per regolamentare l'uso dei numerosi doni della grazia qui soltanto parzialmente evocati, Paolo tiene a ribadire subito un intento di fondo che va sempre perseguito dai fedeli, vale a dire l'edificazione della comunità cristiana (cfr. 14,3.5.12). Se lo scopo dei doni della grazia è la costruzione del tempio di Dio che è la Chiesa (cfr. 3,9), allora si può comprendere anche una rinuncia alloro utilizzo comunitario: se un fedele possiede un dono che, in una determinata situazione, non solo non è utile alla comunità, ma le è anche dannoso, in nome della carità non deve utilizzarlo. Paolo interviene a regolamentare l'uso comunitario della preghiera in lingue, che comunque egli valuta come un dono dello Spirito, benché ecclesialmente meno utile della profezia (cfr. 14,4-5.15). In particolare, l'apostolo raccomanda che, in nome della carità, un cristiano sia disposto ad astenersi dall'esercizio della glossolalia in un contesto comunitario, a meno che non si verifichino tre condizioni (v. 27). La prima è che a pregare in lingue nelle riunioni comunitarie siano solo due o al massimo tre carismatici. Resta immediatamente accantonata la possibilità di un esercizio collettivo di questo dono. A far problema non era tanto la durata delle riunioni, quanto piuttosto il loro ordine, visti gli atteggiamenti estatici che probabilmente accompagnavano queste preghiere già di per sé impressionanti. Da qui deriva la seconda condizione stabilita dall'apostolo: in ogni caso queste preghiere siano elevate a Dio in maniera ordinata. Ma soprattutto l'apostolo esige la presenza, all'interno dell'assemblea cristiana, di qualche altro fedele capace di rendere intelligibili le preghiere in lingue a tutti i presenti. Altrimenti i carismatici, pur avendo effettivamente ricevuto in dono da Dio la glossolalia, in pubblico devono tacere. Si rivolgano direttamente al Signore nel loro cuore (v. 28)!

Benché per la vita della comunità cristiana la profezia abbia un'utilità maggiore della glossolalia, anche il suo esercizio comunitario esige, per Paolo, qualche norma. Prima di tutto, allo stesso modo della preghiera in lingue, anche gli oracoli profetici siano numericamente ridotti a due o, al massimo, a tre (v. 29). In secondo luogo, è vero che le parole profetiche non necessitano di una traduzione come le preghiere in lingua, perché sono comprensibili a tutti; ma è altrettanto vero che richiedono di essere sottoposte a un discernimento altrui: nessun profeta può arrogarsi il diritto d'imporre agli altri il semplice frutto del proprio discernimento, senza che la comunità attui un «discernimento sul discernimento» profetico. Tant'è vero che un contributo profetico può essere offerto comunque anche da altri fedeli, che reagiscono agli oracoli iniziali. Ciò che conta, in questo caso – ed è la terza norma data da Paolo sulla profezia –, è che il profeta che ha concluso un oracolo taccia e, in maniera ordinata, prenda la parola chi vi reagisce. In breve: si parli uno per volta (vv. 30-31)! A motivare questa cura dell'ordine all'interno delle assemblee ecclesiali è la presenza del Signore, che è un Dio della pace, non del disordine!

È precisamente per evitare confusione che Paolo introduce, a questo punto del discorso, una digressione sul silenzio delle donne nelle assemblee. Il divieto paolino riguarda la discussione successiva agli oracoli profetici, finalizzata a farne un discernimento comunitario (v. 29). Effettivamente, per le consuetudini diffuse in tutte le Chiese (v. 33b), il fatto stesso che una donna entrasse in discussione con degli uomini sarebbe stato indecoroso per suo marito: i Corinzi sono debitori nei confronti di altre Chiese, da cui hanno ricevuto, tramite Paolo e suoi collaboratori, il Vangelo (v. 36). È sottinteso il richiamo a non arrogarsi il diritto di mutare queste usanze tradizionali.

Tornando alle direttive pratiche sull'uso dei doni della grazia, Paolo tiene a precisare l'autorevolezza di esse. Non sono semplicemente sue opinioni personali né precetti tradizionali, magari di discutibile attualità; sono un «comando del Signore» (v. 37; cfr. 7,10): Paolo intende affermare di essere coerente allo spirito dell'insegnamento di Cristo. Di conseguenza, se qualcuno tra gli oppositori di Paolo non riconosce questa coerenza dell'insegnamento paolino con quello del Signore, sappia che sta incrinando in questo modo il proprio rapporto con Dio (v. 38; cfr. 8,3).

In sede conclusiva Paolo può così enunciare in maniera lapidaria, ma ormai ampiamente provata da diversi punti di vista, la sua tesi della superiorità della profezia sul dono delle lingue. In concreto, la profezia è da ricercare e coltivare, mentre la glossolalia non è da contrastare, ma (sottinteso) è da moderare e regolamentare con più attenzione.

Se ciò vale sul piano dottrinale, a livello più pratico l'ordine e il decoro sono per Paolo l'atmosfera più adeguata affinché la carità si determini come edificazione della comunità (cfr. 8,1) e come ricerca del bene comune (cfr. 12,7).


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Senza la carità, i doni della grazia non giovano 1Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. 2E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. 3E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.

Ritratto della carità 4La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, 5non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

Senza i doni della grazia, la carità resta 8La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. 9Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. 10Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. 12Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. 13Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

L'amore evangelico è il principio e il fondamento dell'esercizio dei doni spirituali per il bene comune della Chiesa. Per estirpare dalla comunità cristiana dei Corinzi ogni complesso d'inferiorità, che produceva scoraggiamento, disimpegno e individualismo, ma soprattutto ogni complesso di superiorità, che portava alla superbia e al disprezzo degli altri, Paolo rammenta loro con fermezza che la vita nella Chiesa deve essere animata dalla carità. I vv. 1-3 sono sotto il segno dell'«ora», mentre i vv. 8-12 sono nell'ottica dell'«allora», ossia della fine della storia, anche se la conclusione dell'elogio alla carità torna significativamente a considerare il presente (v. 13). «Ora» i doni concessi dallo Spirito Santo a ogni cristiano non produrrebbero frutti di salvezza se non fossero alimentati, come i tralci della vite, dalla linfa, anch'essa spirituale (cfr. Rm 5,5; Gal5,22), della carità. «Allora», quando saremo glorificati e i doni terreni della grazia svaniranno, rimarrà soltanto la carità. Ed è precisamente la carità, con i suoi pregi, a essere messa al centro (vv. 4-7) tra l'oggi della Chiesa e la sua eternità.

Senza la carità, i doni della grazia non giovano Il primo paragrafo è caratterizzato fortemente da tre ipotesi negative: Paolo fa il caso di essere in possesso di alcuni doni spirituali, ma di non avere la carità. «Poniamo – sembra dire ai Corinzi – che io riuscissi a pregare Dio persino con la lingua inaudita delle creature angeliche...» disgiunto dalla carità, persino questo dono così ambìto non servirebbe a niente. Anzi, provocherebbe confusione. Causerebbe un fastidioso rumore, simile a quello provocato dalla ripetuta percussione di una spranga di bronzo: così, si fa fracasso, non si tiene il ritmo della melodia, come invece si dovrebbe fare con i cembali (cfr. Sal 150,5). Poi l'apostolo riconduce nei giusti limiti anche un secondo dono spirituale molto apprezzato a Corinto, vale a dire la profezia (v. 2a; cfr. 12,10.28): anche questo dono spirituale, privo della carità, sarebbe inutile (v. 2). Infine Paolo allarga il discorso a qualsiasi gesto di generosità e di dedizione (v. 3): senza la carità un comportamento generoso o addirittura eroico, non sarebbe utile in vista della propria salvezza. Paolo, insomma, denuncia la possibilità di compiere atti di assistenza ai poveri così grandi sotto la spinta non della carità, ma dell'orgoglio. Qualsiasi cosa facciamo, se desideriamo rimanere in una relazione salvifica con il Signore, dobbiamo lasciarci avvolgere e coinvolgere dalla sua stessa carità (cfr. 2Cor 5,14). Altrimenti, potremmo pure fare tantissimo, magari in nome di Dio e a vantaggio degli altri, ma ci agiteremmo invano!

Ritratto della carità Che cosa intende Paolo per «carità»? Non è primariamente l'amore dei cristiani per Cristo o – come appare da 1Cor 13 – il loro amore per gli altri; originariamente è l'amore generoso e incondizionato di Cristo per gli uomini (cfr. 2Cor 5, 14-15), “principio e fondamento” del loro amore per Cristo o per il prossimo. Paolo fa una specie di identikit della carità. Ne schizza i pregi con quindici tratti essenziali, sette indicati in positivo e otto in negativo, partendo sempre da ciò che in concreto essa suscita nelle persone. La prima caratteristica della carità è la magnanimità, che spinge chi ama a vincere la collera. Adirarsi e vendicarsi sono atteggiamenti contrari all'amore (v. 5): chi segue Cristo cerca di vincere il male con il bene (cfr. Rm 12,21). Nella Chiesa di Corinto invidia (cfr. 1Cor 3,3) e orgoglio (cfr. 4,6.18-19; 5,2; 8,1) erano di casa. Del resto, esse non sono che due facce della stessa medaglia: chi si gonfia d'orgoglio e si vanta per le proprie doti non solo non ne riconosce l'origine divina, ma è incapace di rallegrasi delle qualità altrui. Al contrario, s'impegna con zelo per scavalcare il prossimo. Da qui a comportarsi sconvenientemente nei suoi confronti (cfr. 7,36), il passo è breve. Al contrario, la carità sgorga dall'imitazione di Cristo (cfr. 1Cor 11,1) e dal lasciarsi conformare dal suo Spirito alla solidarietà vissuta da lui, il quale, da ricco che era nella sua condizione divina, si è svuotato e si è fatto povero, per arricchire noi (cfr. Fil 2,6-7; 2Cor 8,9). Sempre cercando di conformarsi a Cristo (cfr. Rm 8,29; Fil3,10-11), i cristiani che vivono la carità non cercano il proprio interesse (v. 5b). La carità è un amore particolare, che spinge a donarsi agli altri in maniera generosa, disinteressata, senza porre alcuna condizione, neanche quella umanamente più ovvia di essere contraccambiati dalle persone amate. In questo senso, essa è il primo «frutto dello Spirito» (Gal 5,22), il quale suscita nei cristiani la stessa capacità di Cristo di perdonare gli altri e di continuare a credere in loro nonostante tutto, sperando nella loro bontà, anche a costo di sopportare ingiustizie da parte loro (v. 7)

Senza i doni della grazia, la carità resta Dopo aver inneggiato all'amore evangelico (vv. 4-7), Paolo proietta lo sguardo verso la vita eterna, perché se è vero che l'amore dà senso all'esercizio dei doni della grazia, è altrettanto vero che lo fa perché li trascende. Dal punto di vista della venuta gloriosa di Cristo risorto, che Paolo spera come imminente (cfr. 7,29.31; 15,51-52), l'amore risalta ancora di più, essendo l'unica realtà che non verrà meno (v. 8). Passando dalla condizione terrena alla vita dei risorti, con un processo di maturazione analogo a quello che dall'infanzia conduce alla maturità, i credenti in Cristo percepiranno con chiarezza la caducità e l'imperfezione dei doni terreni dello Spirito, in particolare quelli legati al parlare come la profezia e la glossolalia (v. 11). Per quanto riguarda la conoscenza, per esempio, sulla terra possiamo sì conoscere Dio, cioè entrare in rapporto con lui, ma in fondo – sembra chiedersi l'apostolo – che cosa vediamo di lui? Soltanto qualche immagine «come in uno specchio» (v. 12): a quei tempi, gli specchi greci, piuttosto rudimentali, non permettevano una visione nitida. È vero che la creazione del mondo manifesta qualcosa del suo autore (Rm 1,20; cfr. Sap 13,5), ma di fatto, per chi è ancora in cammino in questo mondo, Dio rimane «invisibile» (Col 1,15; 1Tm 1,17; Eb 11,27). In questo senso nemmeno i cristiani devono illudersi di amare il Signore che non si vede, se non amano il prossimo che invece si vede (cfr. lGv 4,20)! Per l'apostolo quando saremo risuscitati dai morti, potremo conoscere amorevolmente Dio in un modo più perfetto rispetto a quello della fede terrena. E questa reciprocità della conoscenza d'amore (v. 12b; cfr. 8,3; Gal 4,9) ci colmerà di felicità. In questo senso la fede si trasformerà in visione. Ciò che quindi rimarrà per sempre in paradiso è il bene che avremo voluto e che continueremo a volere a Dio e agli altri. In questo senso la carità è l'unica realtà che «non viene mai meno», cioè che non «cade» nel nulla (1Cor 13,8), perché tornerà, assieme a noi, risorti e trasfigurati in corpi spirituali (cfr. 15,44), alla sua fonte divina. Se questo è il destino glorioso dell'amore umano (cfr. Rm 8,29-30; Ef 1,5.11), è chiaro perché esso, fin d'ora, è la virtù più grande (v. 13). Ogni altra realtà della vita, inclusi i doni della grazia, profuma fin d'ora d'eternità soltanto nella misura in cui è intrisa di carità.


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Diversi doni dell'unico Spirito di Cristo 1Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio lasciarvi nell’ignoranza. 2Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti. 3Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: «Gesù è anàtema!»; e nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. 4Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; 6vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. 7A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: 8a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; 9a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; 10a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. 11Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

Diverse membra per formare l'unico corpo di Cristo 12Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. 13Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. 14E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. 15Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. 16E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. 17Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? 18Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. 19Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? 20Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. 21Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». 22Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; 23e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, 24mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, 25perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. 26Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. 27Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. 28Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. 29Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? 30Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? 31Desiderate invece intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Diversi doni dell'unico Spirito di Cristo L'apostolo inizia a fare una premessa di taglio cristologico: senza l'influsso esercitato dallo Spirito sull'uomo di fede, questi non riuscirebbe nemmeno a proclamare che «Gesù è il Signore», ovvero la formula-base della propria fede. Perciò il fatto stesso che una persona rinneghi, a parole o con la vita, questa professione di fede mostra come non stia agendo secondo lo Spirito (v. 3). Paolo invita i suoi fratelli di Corinto a far discernimento (cfr. 1Ts 5,21), alla luce della professione di fede sulla signoria salvifica di Cristo (cfr. 1Cor 8,6; anche Rm 10,9; Fil 2,11), tra i doni spirituali autentici e altri fenomeni idolatrici magari apparentemente coincidenti. Se è l'unico Spirito a suscitare la fede in Cristo e i doni della grazia, un sedicente carismatico che dichiarasse che «Gesù è maledetto!» (v. 3) o qualsiasi altra bestemmia del genere non sarebbe di sicuro ispirato dallo Spirito Santo. Paolo passa a considerare la natura e, in particolare, la provenienza divina dei veri doni spirituali. L'accento del discorso cade sull'unicità della loro origine (l'unico Dio, che è Padre, Figlio e Spirito), alla quale va comunque ricondotta la loro molteplicità. Per illustrare tale diversità, l'apostolo distingue «doni della grazia», «ministeri» e «capacità operative», benché siano realtà che in parte vengono a sovrapporsi. Se i doni della grazia indicano le attitudini suscitate nei singoli fedeli, i ministeri designano piuttosto le attività di servizio dell'intera comunità cristiana, che possono andare dal governo di essa (cfr. v. 28) fino al cosiddetto servizio delle mense (cfr. At 6, 1-4). Infine, le capacità operative (o «operazioni») sono caratterizzate da una certa straordinarietà, come nel caso della «capacità di operare miracoli» (v. 10). Individuata l'unità teologica dei diversi doni, Paolo ne fa un elenco che, pur essendo più preciso della precedente catalogazione tripartita (vv. 4-6), resta comunque parziale. Al di là della non facile determinazione di questi e altri doni spirituali, si coglie che, per Paolo, l'intento perseguito dallo Spirito è sollecitare ciascun cristiano a mettersi a servizio della comunità ecclesiale, «per il bene comune» dei suoi membri (v. 7). Questi doni della grazia, quindi, sono essenziali alla vita della comunità cristiana; a una condizione, però: che cioè (come subito l'apostolo puntualizzerà con la similitudine del corpo umano, cfr. vv. 12-31) ogni cristiano metta i propri doni a disposizione della Chiesa non in maniera scomposta, ma armonica; non per trame un guadagno personale né per emergere sugli altri, ma per fare loro del bene. In questa docilità generosa all'unico Spirito del Crocifisso risorto, per amore del quale si vive (cfr. Rm 14,7-9; 2Cor 5,14-15), Paolo individua il rimedio principale a qualsiasi forma di ambizione, di protagonismo ecclesiastico, di gelosia e d'invidia, che rischiava di smembrare la Chiesa di Corinto.

Diverse membra per formare l'unico corpo di Cristo Finora l'apostolo ha mostrato come dall'unico Spirito provengano doni differenti. A questo punto evidenzia come nell'unico corpo ecclesiale di Cristo ci siano membra diverse, tutte comunque necessarie alla sua esistenza. Paolo sottolinea particolarmente questo aspetto perché nella Chiesa corinzia il problema più grave consisteva nel fatto che stavano sviluppandosi deleteri complessi di superiorità, se così si può dire, nei carismatici dotati delle capacità più prestigiose e complessi d'inferiorità nei cristiani che non le possedevano. Paolo applica alla Chiesa un'immagine usata a quei tempi specialmente dallo stoicismo, per descrivere la società civile. La più famosa testimonianza di questa concezione della società è l'apologo di Menenio Agrippa, console di Roma nel 503 a.C. e abile mediatore nella prima grande frattura verificatasi tra i patrizi e i plebei. Il fondamento dell'identificazione tra la comunità cristiana e il corpo di Cristo è rintracciato da Paolo nel battesimo: grazie a esso, i fedeli di Corinto, pur nelle loro diversità etnico-culturali («Giudei o Greci») e sociali («schiavi o liberi»), hanno fatto un tutt'uno con Cristo (v. 13; cfr. anche Gal 3,28). Sono stati immersi nell'acqua e nello Spirito e misteriosamente hanno preso parte così alla morte di Cristo, iniziando a partecipare a una vita nuova in virtù della sua stessa risurrezione (cfr. Rm 6,4; Col 2,12.20; 3,3). È come se nel battesimo (ma, forse, qui Paolo allude anche all'eucaristia) essi si fossero abbeverati dello Spirito. Attraverso questa immagine somatica, comprensibile anche ai più semplici, l'apostolo aiuta i fedeli di Corinto a cogliere quanto sia necessaria, all'interno dell'unica Chiesa, la sinergia di doni spirituali differenti. Per lui la comunità cristiana ideale non è caratterizzata affatto dall'uniformità. Sarebbe come un corpo costituito da membra tutte uguali: non sarebbe un corpo armonico, ma un mostro (vv. 12,14.17.19). In concreto, questo modo di vedere la Chiesa porterà l'apostolo a evitare, per esempio, d'imporre ai cristiani di Corinto di pregare tutti allo stesso modo. D'altro canto, non minaccerà mai di espellere dalla comunità i carismatici, pur sapendo che facevano confusione, pregando pubblicamente in lingue, cioè con espressioni inarticolate e incomprensibili. La Chiesa è un'unità nella diversità animata dalla carità.

In primo luogo Paolo cerca di rinsaldare l'identità cristiana dei fedeli che stavano cedendo a dannosi complessi d'inferiorità. Non avendo carismi prestigiosi, costoro erano trattati dai carismatici della comunità come «deboli» (cfr. 1Cor 8,9; 9,22; 12,22), «uomini naturali» (2,14), «carnali» (cfr. 3,1-3), insomma come cristiani di rango inferiore. Mettendosi invece nei loro panni, Paolo li rassicura del fatto che nessun membro del corpo umano possa esserne escluso soltanto perché svolge una funzione meno prestigiosa di un altro. La varietà dei doni della grazia diffusi tra tutti i cristiani non va tollerata semplicemente perché inevitabile. È piuttosto la condizione di possibilità perché una comunità cristiana sussista e, nella sua vivacità spirituale, renda presente Cristo in questo mondo. Tutti i doni dello Spirito sono essenziali alla missione della comunità cristiana e, siccome ciascun fedele ha in dotazione alcuni di questi doni (vv. 7.11), non c'è nessuno che non sia necessario alla Chiesa.

L'apostolo si rivolge poi ai cristiani che ostentavano doni divini straordinari: Paolo si sente in dovere di ridimensionare i complessi di superiorità di questi carismatici. Cerca però di non umiliarli con rimproveri troppo espliciti e diretti, per evitare che abbandonino la comunità: nella comunità cristiana abbiamo bisogno gli uni degli altri! Anche i cristiani meno spiritualmente maturi, con i quali magari ci si vergogna a farsi vedere nelle grandi occasioni, appartengono a pieno titolo al corpo di Cristo. Anzi, il Vangelo di Gesù spinge gli altri fedeli a prendersi cura in maniera particolare di queste persone (cfr. Mt 25,40). Paolo raccomanda con fermezza che la Chiesa viva all'insegna della logica alternativa della solidarietà con gli altri (v. 25) nella buona e nella cattiva sorte (v. 26), in modo simile a quanto avviene, per volontà di Dio, nel corpo umano (v. 24). Non solo: ma se c'è un debole, è a lui che deve andare il posto d'onore; è a lui che spetta un'attenzione particolare da parte della comunità. Anzi, è doveroso prendersi cura di lui con quella discrezione e con quella delicatezza con cui si trattano le parti intime del proprio corpo.

Dalla definizione della comunità cristiana come corpo di Cristo l'apostolo tira una prima conseguenza concreta: ogni cristiano, a partire dai doni della grazia che ha ricevuto, può e deve fare la sua parte in armonia con gli altri (v. 27). Tornando poi a parlare esplicitamente della comunità cristiana, l'apostolo introduce una seconda breve lista di doni della grazia (v. 28). Le domande retoriche conclusive (vv. 29-30) sono finalizzate a riaffermare la tesi della variegata molteplicità dei doni della grazia all'interno dell'unica Chiesa che, proprio grazie a essi, seguita a essere nel mondo corpo di Cristo.

Mediante la Chiesa, Cristo risorto continua a fare spiritualmente (cfr. Rm 1,4) ciò che faceva ai suoi tempi tramite il suo corpo terreno: arricchire i credenti «in ogni cosa, in ogni parola e in ogni conoscenza» (1Cor 1,5) così da giustificarli e santificarli (cfr. 1,30). A questo scopo, la Chiesa fa risuonare lungo la storia il Vangelo e consente agli uomini di sperimentare nell'eucaristia e negli altri sacramenti i gesti di bontà, sempre attuali nelle diverse epoche, di Gesù risorto. Così li mette in grado di vivere con lui e «in [... ] memoria di lui» (1Cor 11,24.25), ossia come ha vissuto lui.

Grazie ai doni ricevuti dallo Spirito, ciascun cristiano (cfr. 12,7.11) diventa, nella propria epoca, memoria vivente di Cristo, secondo le proprie capacità (cfr. 12,27). Da questa profonda consapevolezza di fede sgorga il criterio fondamentale per vivere in modo evangelico le diversità nella Chiesa: nel corpo ecclesiale di Cristo le membra sono tutte necessarie.

Se nella Chiesa non ci fosse questa originalità dei singoli cristiani, il volto stesso del Signore finirebbe per impallidire. La Chiesa è una perché ha un unico fondamento: Cristo crocifisso e risorto, con il quale i cristiani, pur essendo molti, fanno un solo corpo (1Cor 10,17). Ma per consentire agli uomini di ogni epoca d'incontrare Cristo risorto, tutte le membra del suo organismo ecclesiale sono indispensabili, animate come sono dalla carità, che è la via «più sublime» che Paolo invita a percorrere (12,31b). Solo se si è sospinti da essa (cfr. 2Cor 5,14), è lecito desiderare i doni spirituali più grandi (v. 31a), messi ai primi posti dell'elenco paolino (v. 28). Altrimenti tale desiderio si trasforma in vuota e dannosa ambizione (cfr. 13,1-3).


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Invito conclusivo all'imitazione della carità di Paolo 1Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.

Abbigliamento delle donne nelle assemblee liturgiche 2Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. 3Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. 4Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. 5Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. 6Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. 7L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. 8E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; 9né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. 10Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli. 11Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna. 12Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio. 13Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna preghi Dio col capo scoperto? 14Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, 15mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La lunga capigliatura le è stata data a modo di velo. 16Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio.

Biasimo di Paolo per le divisioni ecclesiali 17Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. 18Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. 19È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. 20Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. 21Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. 22Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!

Tradizione ecclesiale della cena del Signore 23Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane 24e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». 25Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». 26Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Direttive di Paolo in vista della comunione ecclesiale 27Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. 28Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; 29perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. 30È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. 31Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; 32quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo. 33Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. 34E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Invito conclusivo all'imitazione della carità di Paolo A conclusione dell'articolata trattazione del problema della carne sacrificata agli idoli, Paolo osa proporsi esplicitamente ai cristiani di Corinto come modello di comportamento. La condizione previa di quest'imitazione di Paolo è la sua continua tensione verso l'imitazione di Cristo. Questo processo d'imitazione risale a Cristo stesso: i Vangeli sono concordi nell'attestare che Gesù si è costantemente presentato ai discepoli come modello di obbedienza al Padre (cfr. Gv 15,10), di servizio del prossimo (cfr. Mt 20,28; Lc 22,26-27; Gv 13,14-15) e, più in genere, di carità (cfr. Gv 13,34; 15,12).

Abbigliamento delle donne nelle assemblee liturgiche Nel I secolo d.C., sia in ambito giudaico che nella cultura greco-romana, alla donna era assegnata una posizione subordinata rispetto all'uomo. Il costume che la donna portasse il velo in luoghi pubblici era presente sia nel giudaismo che nella società greco-romana, nella quale andavano a capo scoperto in pubblico soltanto le schiave e le prostitute. Paolo ribadisce la consuetudine che le donne abbiano il capo coperto durante le riunioni ecclesiali. In queso egli è di certo influenzato dalla cultura maschilista del tempo. Tuttavia, ad animare la sua presa di posizione è anche la convinzione che, dopo la conversione alla fede cristiana, sia meglio che «ciascuno proceda» verso la santità «secondo la condizione che gli ha affidato il Signore, come egli (era quando) Dio lo ha chiamato» (7, 17). In altre parole: come per la questione della carne immolata agli idoli (cfr. 10,32), così anche per l'uso del velo femminile a Paolo sta a cuore evitare la diffusione, nella comunità già irrequieta di Corinto, di comportamenti sovversivi, che avrebbero finito per scandalizzare i fedeli ancora immaturi e per ostacolare la conversione dei non cristiani. Si può cogliere in Paolo l'intento positivo di raccomandare alle credenti in Cristo di osservare questa consuetudine culturale del velo per salvaguardare la propria dignità, senza mettere in imbarazzo il marito.

Da buon fariseo (cfr. At 23,6; 26,5; Fil 3,5), abilissimo conoscitore della Sacra Scrittura, Paolo aggiunge una prova biblica a supporto della sua posizione. Il testo evocato è quello di Gen 1,26-27 sulla creazione dell'essere umano a «immagine» di Dio. Di per sé questo passo, mettendo in parallelo l'«immagine di Dio» con «maschio e femmina» (Gen 1,27), la identifica non con l'essere umano di sesso maschile, ma con l'uomo e con la donna. Anzi, il nucleo incandescente della rivelazione biblica che qui si sprigiona è che l'immagine del Dio-amore (cfr. 1Gv 4,8.16) è la comunione d'amore dell'uomo e della donna. Tutto preso dal suo intento pastorale, Paolo attribuisce soltanto all'uomo la dignità di «immagine[...] di Dio» (v. 7b). Paolo insiste, invece, sul fatto che il primo capolavoro plasmato dal Creatore sia l'uomo. È lui, quindi, che dà onore a Dio. La donna, invece, dà gloria all'uomo, perché deriva da lui (v. 8), ossia – per il secondo racconto della creazione nel libro della Genesi (2,21-23) – è stata tratta da una sua costola. Senza considerare il fatto che il testo biblico avrebbe potuto essere interpretato nel senso che l'uomo e la donna sono esseri di pari dignità, destinati a completarsi a vicenda, l'apostolo insiste piuttosto sulla creazione della donna «per l'uomo» (v. 9).

L'ultima ragione che, per Paolo, supporta la consuetudine che le donne cristiane non partecipino a capo scoperto alle assemblee ecclesiali è l'osservazione dei processi biologici della capigliatura maschile e femminile. Ma, a questo riguardo, l'apostolo interpella con due domande retoriche gli stessi destinatari della sua lettera (v. 13). Siano loro a dare un parere, tenendo conto di quanto insegna la stessa natura, secondo cui i capelli lunghi sono motivo di disonore per l'uomo, ma ragione di vanto per la donna. In questo modo, la natura pare insegnare agli uomini a tagliarsi i capelli e alle donne a lasciarseli crescere. Per i primi, quindi, sarebbe sconveniente farli crescere; per le seconde, tagliarseli sarebbe un atto contro natura, perché la stessa natura ha donato loro una lunga capigliatura quasi fosse un copricapo (v. 15).

Giunto al termine della triplice argomentazione, Paolo riprende la lode inizialmente rivolta ai Corinzi per la loro fedeltà alle tradizioni da lui ricevute sotto forma di invito a continuare a osservare la consuetudine del velo femminile.

Biasimo di Paolo per le divisioni ecclesiali Al rimprovero iniziale che Paolo fa ai cristiani di Corinto per il loro modo non caritatevole di riunirsi a celebrare la memoria dell'ultima cena del Signore (cfr. v. 17) fa da inclusione la domanda retorica e la secca risposta data dall'apostolo: «Che dirvi? Devo lodarvi? In questo non (vi) lodo!» (v. 22). Il dato è inequivocabile e scandaloso: proprio in occasione della celebrazione dell'eucaristia – che si svolgeva nell'ambito di un pasto comunitario- alcuni ricchi non solo si permettevano di esagerare nel mangiare e specialmente nel bere, ma soprattutto si disinteressavano dei più bisognosi, costretti così a mangiare gli avanzi o le poche vivande che si erano portati da casa. Paolo si mostra indubbiamente irritato per la loro sfacciata mancanza di carità, del tutto incoerente con il gesto culminante della carità di Cristo celebrato nell'eucaristia. Ciò nonostante, Paolo riesce a cogliere persino in una situazione così squallida un aspetto positivo: essa può diventare un'occasione favorevole per vedere chi tra i Corinzi è davvero un credente in Cristo (v. 19). Messi alla prova da questo scandalo i fedeli che non cadranno in certi atteggiamenti discriminatori, anzi che vi si opporranno con decisione, saranno cristiani autentici. Gli altri, invece, contribuiranno ad accentuare le divisioni che già feriscono la comunità cristiana, dimostrando di essere ancora immaturi nella vita spirituale (cfr. 3,1-4). Paolo non può fare a meno di dare un'indicazione pratica, da cui traspira tutto il suo sdegno: per lui sarebbe meglio mettere fine a questa farsa! In breve: converrebbe che ciascuno mangiasse a casa propria e poi si recasse alla celebrazione eucaristica. Che senso avrebbe perpetuare l'umiliazione dei fedeli più poveri, se non quello di svergognare l'intera Chiesa (v. 22a)? Se stanno così le cose, ogni lode per i Corinzi è fuori luogo (v. 22b)! Una celebrazione eucaristica evidentemente contraddetta dalla mancanza di solidarietà diventa inevitabilmente vuota e incoerente ritualità. Così era a Corinto: l'eucaristia finiva per essere equiparabile ai riti pagani, ritenuti capaci di efficacia salvifica, anche a prescindere dalle relazioni di solidarietà tra i partecipanti.

Tradizione ecclesiale della cena del Signore Com'è possibile aiutare i cristiani di Corinto a vivere in concreto la carità che celebravano nel rito eucaristico? Nella visione cristocentrica di Paolo non c'è mezzo migliore che offrire alla contemplazione dei Corinzi la memoria ecclesiale dell'ultima cena di Gesù. Paolo attinge al racconto che aveva ascoltato molto probabilmente nella comunità cristiana di Antiochia, in cui aveva vissuto per un anno (cfr. At 11,25-26), qualche tempo dopo il suo incontro con il Signore risorto. Questa narrazione paolina dell'istituzione dell'eucaristia – che è la più antica del Nuovo Testamento – fu messa per iscritto, più di due decenni dopo, anche da Luca, fedele collaboratore di Paolo (cfr. Col 4,14; 2Tm 4,11; Fm 24), nel proprio vangelo (cfr. Lc 22,19-20). Nel ricordo trasmesso qui da Paolo è esplicitata l'intenzione di Gesù di portare a compimento, attraverso la sua morte in croce, la promessa fatta da Dio per mezzo del profeta Geremia di una «alleanza nuova» (Ger 31,31- 34) con il popolo d'Israele: «Questo calice – dichiara Gesù – è la nuova alleanza nel mio sangue» (v. 25; cfr. Lc 22,20). Senza precisare il riferimento alla Pasqua, puntualizzato invece dai vangeli sinottici (cfr. Mt 26,17-19; Mc 14,12-16; Lc 22,7-15), Paolo inquadra l'ultima cena di Gesù «nella notte in cui veniva tradito)) o, più letteralmente, «consegnato». In quella notte in cui Cristo fu «tradito» da Giuda e «consegnato» dal Padre, egli stesso anticipò la propria auto-consegna sulla croce nei gesti eucaristici. Paolo ricorda anzitutto che Gesù rese grazie a Dio (v. 24; cfr. Lc 22,19), un gesto espresso con il verbo greco eucharistéo, da cui «eucaristia». Era la preghiera con cui il capofamiglia dava inizio al banchetto pasquale – e, meno solennemente, anche ai pasti quotidiani – per il cibo ricevuto in dono dal Signore. Nella cena pasquale il ringraziamento si ampliava fino a comprendere i grandi benefici compiuti da Dio a favore del popolo d'Israele, lungo la storia della salvezza. Dopo di che, il capofamiglia distribuiva il pane spezzato ai presenti, che così partecipavano al «memoriale» della Pasqua (Es 12,14), ossia del passaggio dalla schiavitù in Egitto alla libertà dei figli di Dio (cfr. Es 23,15; 34,18; Dt 16,1). Ma nel contesto rituale d'intensa comunione, e anche di grande angoscia della sua ultima cena, Gesù rivelò il senso salvifico che intendeva dare alla propria morte cruenta, ormai prevista come imminente. A questo scopo, egli identificò del pane con il suo corpo, che di lì a poche ore sarebbe stato crocifisso a favore di ogni uomo. Giunto poi al termine della cena, Gesù benedisse il terzo e ultimo calice del rituale pasquale ebraico e dichiarò che il vino dato da bere ai discepoli era il suo sangue, che egli avrebbe dovuto versare allo scopo d'istituire la «nuova alleanza» tra Dio e gli uomini (v. 25; Lc 22,20; cfr. Ger 31,31-34). In questo modo Gesù manifestò, a parole e con gesti particolarmente significativi, il desiderio che il proprio modo di morire «per» gli altri (v. 24; cfr. Lc 22,19.20) – sulle orme del servo sofferente del Signore (cfr. Is 53,12) – diventasse il mezzo efficace del compimento della salvezza. Grazie a esso, Dio Padre avrebbe potuto perdonare e giustificare gli uomini peccatori (cfr. 2Cor 5,21), stringendo con loro una nuova ed eterna alleanza (cfr. 2Cor 3,6.10; Eb 8,6.8; 9,15; 12,24; 13,20). Paolo rammenta ai Corinzi questo gesto supremo d'amore di Gesù perché è convinto che così avrebbero potuto riscoprire il senso profondo del comando di lui: «Fate questo in mia memoria» (vv. 24.25; cfr. Lc 22,19). Questa esortazione non va intesa riduttivamente nel senso di continuare a ripetere, lungo la storia, la celebrazione dell'eucaristia. L'invito di Cristo è a vivere in sua memoria, ossia a vivere come lui all'insegna dell'amore per Dio e per il prossimo. Ma, certo, per riuscirvi, i credenti sono chiamati a vivere strettamente uniti a lui (cfr. lCor lO,16-17), mangiando tutti «lo stesso cibo spirituale» (10,3). Dunque, è con la vita, e non solo a parole, che i fedeli di Corinto dovranno proclamare il mistero della morte e della risurrezione di Cristo, attendendo il suo ritorno glorioso alla fine dei tempi (v. 26; cfr. 1,7; Fil3,20). Ma anche nel tempo dell'attesa è sempre il Crocifisso risorto che, tramite lo Spirito, unisce a sé i credenti nella celebrazione dell'eucaristia (cfr. lO,16-17), facendo memoria della sua passione e della sua morte, attraverso cui è passato «da questo mondo al Padre» (Gv 13,1).

Direttive di Paolo in vista della comunione ecclesiale L'apostolo dà ai Corinzi alcune disposizioni e ammonizioni non prive di severità. Conclude poi prospettando ai cristiani che non le dovessero osservare una «condanna». Paolo inizia con l'ammonire i Corinzi, avvertendoli che chiunque partecipi all'eucaristia senza riconoscere il corpo ecclesiale di Cristo, perché vive persino questa celebrazione in maniera incoerente rispetto alla carità, si autocondanna al cospetto del Signore (v. 27). Per modalità indegna di celebrare l'eucaristia Paolo intende proprio quella mancanza di solidarietà, che tanto differenziava il vivere «in mia memoria (di Cristo») (vv. 24.25) dagli atteggiamenti poco caritatevoli con cui alcuni Corinzi s'accostavano all'eucaristia. Chi fa discriminazioni nei confronti dei meno abbienti e incrementa le divisioni comunitarie (cfr. vv. 17-22) non è colpevole soltanto verso gli altri, ma lo è primariamente nei confronti di Cristo. Egli, infatti, ama specialmente i deboli ed è morto anche per loro (cfr. 8,11). Per di più, causare divisioni interne alla comunità cristiana significa distruggere il tempio di Dio che essa è (cfr. 3, 17), ovvero smembrare il corpo di Cristo che essa rende visibile nella storia (cfr., p. es., 1,13; 12,18-27). Il suggerimento pressante che l'apostolo dà ai suoi interlocutori è che ciascuno faccia un esame di coscienza, per evitare di autocondannarsi al cospetto di Dio. Il punto fondamentale su cui verificarsi è la propria effettiva capacità di riconoscere il «corpo (del Signore)» (v. 29). Ma con questa espressione Paolo non designa soltanto il corpo eucaristico di Cristo, ma anche il suo corpo ecclesiale. Paolo teme che alcuni dei fedeli di Corinto non credano in questa verità di fede. Tant'è vero che si sono verificati vari casi di malattie e di morti (v. 30).Pur individuando un rapporto di causalità tra il peccato e la sofferenza («Per questo molti tra voi sono deboli e malati e certi sono morti», v. 30), l'apostolo lascia trasparire una certa reticenza ad attribuire la sofferenza e la morte dei cristiani peccatori direttamente a Dio. Probabilmente, per lui, infermità e decessi possono essere effetti deleteri anche di tensioni interpersonali, di contrasti comunitari e di altri atteggiamenti peccaminosi, a cui i Corinzi cedevano persino quando celebravano l'eucaristia. Oggi si potrebbe individuare in tali atteggiamenti la causa di sensi di colpa, rimorsi e altre patologie psicosomatiche. Al contrario, una celebrazione dell'eucaristia animata dalla carità non solo non provocherebbe queste ripercussioni nocive per i partecipanti, ma donerebbe loro una serenità interiore, frutto anch'essa dello Spirito Santo (cfr. Gal 5,22). Paolo sintetizza il da farsi in due punti: occorre aspettare tutti prima d'iniziare il pasto comune; e, in caso di bisogno, conviene mangiare a casa propria. Dunque l'apostolo non comanda di abolire i l pasto comune preliminare alla celebrazione dell'eucaristia. Questa abolizione avverrà in seguito, verosimilmente per evitare in radice i comportamenti incoerenti già verificatisi alle origini della Chiesa. Chi prende parte con superficialità alla celebrazione eucaristica, dimenticando la relazione inscindibile, vitalizzata dallo Spirito Santo, tra il corpo eucaristico di Cristo e il suo corpo ecclesiale, commette un peccato gave, degno di essere punito (cfr. 11,30).


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