📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Comportamento idolatrico degli Israeliti 1Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, 2tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, 3tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. 5Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. 6Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. 7Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. 8Non abbandoniamoci all’impurità, come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. 9Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro, e caddero vittime dei serpenti. 10Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. 11Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. 12Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. 13Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere. 14Perciò, miei cari, state lontani dall’idolatria.

Inconciliabilità del culto pagano con l'eucaristia 15Parlo come a persone intelligenti. Giudicate voi stessi quello che dico: 16il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? 17Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane. 18Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? 19Che cosa dunque intendo dire? Che la carne sacrificata agli idoli vale qualcosa? O che un idolo vale qualcosa? 20No, ma dico che quei sacrifici sono offerti ai demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; 21non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. 22O vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo forse più forti di lui?

Direttive pratiche 23«Tutto è lecito!». Sì, ma non tutto giova. «Tutto è lecito!». Sì, ma non tutto edifica. 24Nessuno cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri.

25Tutto ciò che è in vendita sul mercato mangiatelo pure, senza indagare per motivo di coscienza, 26perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene.

27Se un non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza.

28Ma se qualcuno vi dicesse: «È carne immolata in sacrificio», non mangiatela, per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di coscienza; 29della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro.

Per quale motivo, infatti, questa mia libertà dovrebbe essere sottoposta al giudizio della coscienza altrui? 30Se io partecipo alla mensa rendendo grazie, perché dovrei essere rimproverato per ciò di cui rendo grazie?

31Dunque, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. 32Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; 33così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Comportamento idolatrico degli Israeliti Paolo prima di offrire alla Chiesa corinzia alcune direttive pastorali per risolvere la questione problematica (cfr. 1Cor 10,23-33), propone un midrash, ossia una ricerca all'interno della Sacra Scrittura di insegnamenti ed esortazioni valide per l'oggi (10,1-14).

Il libro dell'Esodo racconta come il Signore guidasse il suo popolo nel deserto, facendolo precedere da una colonna di nube di giorno e da una colonna di fuoco di notte (cfr. Es 13,21-22; 14,20). Quella nube era un modo divino anche per proteggere il popolo d'Israele (cfr. Sap 19,7). Ma Paolo immagina il cammino degli Israeliti sotto la nuvola e specialmente il loro passaggio attraverso il mare dei Giunchi come una sorta di immersione battesimale. Per Paolo, la vicenda degli Israeliti è una prefigurazione del battesimo che i credenti hanno ricevuto in Cristo, o «nel» suo «nome» (At 10,48; cfr. anche At 2,38; 8,16; 19,5), vale a dire mediante il suo Spirito così da entrare nel suo corpo ecclesiale (1Cor 12,13).

Ma anche l'episodio successivo, quello della manna (cfr. Es 16; Nm 11; Dt 8,3.16), ha per Paolo una chiara valenza prefigurativa: è a questo «pane dal cielo» (Sal 105,40; cfr. Es 16,4; Sal 78,24; Sap 16,20) che egli allude quando ricorda che tutti gli Israeliti in cammino verso Canaan «mangiarono lo stesso cibo spirituale» (v. 3), cioè donato dallo Spirito di Dio. Un'intuizione analoga sarà sviluppata dalla tradizione giovannea del discorso di Gesù sul pane miracolosamente moltiplicato, che, alcuni decenni dopo la Prima lettera ai Corinzi, si cristallizzerà nel quarto vangelo. Stando a esso, Gesù rilesse il dono divino della manna come segno anticipatore del pane eucaristico (cfr. Gv 6,31-33).

Più allusivo è l'asserto paolino sulla «bevanda spirituale» che «tutti» gli antichi Israeliti «bevevano da una roccia spirituale» (v. 4): Paolo sostiene che l'acqua scaturita dalla roccia da cui si dissetarono gli Israeliti nel deserto (Es 17,6) era – prefigurativamente (1Cor 10,6.11) – Cristo, da cui sgorga lo Spirito Santo per tutti i credenti (cfr. 1Cor 15,45; Gal4,6; anche Gv 7,37-39; 19,34).

Paolo intende piuttosto mostrare ai cristiani l'esito deleterio cui pervenne il comportamento idolatrico degli Israeliti, nonostante i prodigiosi benefici ricevuti: ecco la sottolineatura conclusiva delle ventitremila persone che, pur essendo state tutte beneficate da Dio, morirono in quel frangente (vv. 1-5.8).

Raccogliendo l'ammonimento proveniente da questi antichi racconti biblici (v. 11b), l'apostolo raccomanda di non cadere negli stessi peccati degli Israeliti soprattutto a quei cristiani che s'illudono di essere al riparo da questo rischio (v. 12). È vero che Cristo ha inaugurato il tempo della salvezza definitiva (v. 11e); ma è altrettanto vero che anche per i credenti in lui continuano le tentazioni. Tuttavia, grazie alla mediazione salvifica portata a termine dal Crocifisso risorto, i cristiani, non più schiavi del peccato (cfr. Rm 6,6.12.15), possono non solo combatterlo (cfr. Rm 7,14-25), ma anche vincerlo. Dio stesso, infatti, quando insorgono le tentazioni, dona ai credenti lo Spirito di Cristo, ossia la potenza santificatrice (cfr. Rm 1,4) con cui essi possono superarle (v. 13). Da qui proviene l'esortazione conclusiva di Paolo a non commettere atti idolatrici.

Inconciliabilità del culto pagano con l'eucaristia Paolo aiuta i Corinzi a rendersi conto di quanto sia inconciliabile per loro partecipare sia ai banchetti idolatrici che all'eucaristia: la celebrazione dell'eucaristia, che nella Chiesa corinzia già si svolgeva probabilmente alla domenica (cfr. 16,2), avveniva all'interno di un vero e proprio pasto comunitario (cfr. 11,17-34).

Nella celebrazione dell'eucaristia si benediceva il calice e si spezzava il pane, ripetendo fedelmente gli stessi gesti di azione di grazie e di dedizione compiuti da Gesù nella sua ultima cena. Come l'apostolo tiene a precisare più avanti (cfr. 11,23a), egli stesso aveva appreso tutto questo dalla tradizione (liturgica, omiletica e catechetica) della Chiesa, che, anni dopo, sarebbe stata messa per iscritto nei vangeli sinottici (Mt 26,26-27; Mc 14,22-23; Le 22,19-20). Qui, però, Paolo non si sofferma sulle modalità celebrative della Chiesa corinzia, ma sul legame inscindibile tra il Crocifisso risorto, il suo corpo ecclesiale e il suo corpo eucaristico: la comunità cristiana diventa il corpo del Signore primariamente grazie alla celebrazione rituale dell'eucaristia. Grazie a essa, i fedeli entrano in comunione con il sangue e con il corpo di Cristo crocifisso (vv. 16-17), cioè con il mistero della sua morte salvifica (cfr. Rm 3,25; 5,9), e ne attendono la venuta gloriosa alla fine dei tempi (cfr. 1Cor 11,26). Ma, assimilando comunitariamente il pane spezzato, i cristiani stessi sono assimilati (resi simili) a Cristo. Da questa comunione eucaristica con Cristo sgorgano poi relazioni di carità con i fratelli che credono in lui e che partecipano dell'unica memoria della sua ultima cena. In questo senso si potrebbe dire lapidariamente che l'eucaristia «fa» la Chiesa come corpo di Cristo.

È chiaro per Paolo che la partecipazione all'eucaristia non sia compatibile con la frequentazione ai banchetti idolatrici. Ma per spiegarsi meglio l'apostolo fa l'esempio a lui più spontaneo dei banchetti sacrificati ebraici. D'altronde, nella Chiesa di Corinto, i cristiani d'origine ebraica come lui lo avrebbero capito subito. Per loro era scontato che in tali pasti sacri si rinvigorisse la comunione tra Dio, rappresentato simbolicamente dall'altare, e i fedeli che, dopo avergli offerto in sacrificio un animale, ne consumavano insieme il resto della carne (v. 18).

Paolo vieta ai cristiani, probabilmente rivolgendosi in primo luogo a quelli che si credono più maturi nella fede, di partecipare ai sacrifici idolatrici (v. 20b). Come potrebbero i credenti in Cristo, che in virtù dell'eucaristia entrano in una reale comunione personale con lui, fare comunione anche con i demoni, partecipando ai riti sacrificati dei pagani (v. 21)?

Direttive pratiche Chiarito così il divieto conclusivo di partecipazione ai banchetti sacrificali pagani, restavano aperti alcuni problemi pratici: per esempio, come avrebbe dovuto comportarsi un cristiano quando andava ad acquistare la carne al mercato, oppure quando veniva invitato a pranzo o a cena da un pagano? Paolo dà alcune direttive pastorali, volte a orientare con carità «intelligente» (cfr. 10,15) i fedeli di Corinto che si trovassero in casi del genere.

Principio generale: non cercare i l proprio interesse, ma quello altrui. Paolo sottolinea qui la prospettiva ecclesiale più che quella personale. In quest'ottica è sradicata in maniera ancora più decisa la posizione che ritiene che ai credenti in Cristo tutto sia lecito.

La prima delle tre circostanze prese in considerazione da Paolo è l'acquisto della carne al mercato. Di solito, la carne che vi era messa in vendita proveniva dai resti dei numerosi animali immolati quotidianamente nei templi per essere in parte bruciati in sacrificio alle varie divinità. Questa consuetudine causava una diminuzione consistente della macellazione per il puro uso alimentare. Conseguentemente risultava arduo acquistare questo secondo tipo di carne. Per chi avesse voluto attenersi alle proibizioni alimentari giudaiche rimaneva soltanto una possibilità, accennata da Paolo come alternativa allo scandalo dei fratelli più deboli: non mangiare mai carne (cfr. 8,13). Ma per quelle situazioni in cui non c'era il rischio dello scandalo altrui, l'apostolo dà un 'indicazione liberante, che non è che la conseguenza di quanto ha già spiegato sul fatto che non sarà di certo un cibo a renderei più o meno graditi a Dio (cfr. 8,8): un cristiano può acquistare e mangiare qualsiasi tipo di carne (v. 25).

A proposito, poi, degli inviti a pranzo o a cena che i pagani rivolgevano ai cristiani, Paolo è assolutamente condiscendente: i fedeli non si facciano problemi di coscienza. Come Gesù stesso aveva raccomandato ai discepoli, prima d'inviarli in missione (cfr. Lc 10,7a.8), i cristiani possono mangiare qualsiasi cibo venga loro offerto (v. 27).

Ma si potrebbe verificare la situazione in cui alla stessa mensa partecipi anche un altro cristiano, che invece si fa problemi di coscienza a riguardo della carne servita a tavola. Questi ritiene che mangiarne coinciderebbe con un atto idolatrico; o, per lo meno, dubita che sia così. Ebbene – coerentemente con quanto Paolo ha già chiarito prima (cfr. 8,9-13) – , per non scandalizzare quel debole (cfr. 1,27; 9,22; 12,22), il cristiano forte rinunci a mangiare di quella carne (vv. 28-29a). Il criterio della carità porta a rispettare la coscienza dell'altra persona, proprio perché in coscienza si ritiene indifferente la scelta di consumare o meno quel cibo.

I due quesiti conclusivi (vv. 29b-30) non sono immediatamente comprensibili. Si possono leggere come due domande in senso retorico: mediante esse l'apostolo esorterebbe le persone più mature nella fede a non prestare il fianco a giudizi negativi (v. 29) o, peggio, a rimproveri (v. 30) da parte dei fratelli più fragili.

L'apostolo conclude ribadendo il principio enunciato all'inizio (vv. 23-24): agire in ogni circostanza per la gloria di Dio, evitando di scandalizzare gli altri, cristiani o non cristiani che siano.

Il tentativo che Paolo si sforza di mettere in atto «piacere a tutti in tutto» (v. 33) può essere preso come modello di comportamento; però quando questo desiderio di compiacere gli uomini è in contrasto con l'essere graditi al Signore, è Paolo stesso a giudicarlo come un atteggiamento deplorevole. L'attività pastorale è finalizzata davvero a «piacere a tutti in tutto» nella misura in cui, contrapponendosi all'istintivo «piacere a se stessi», cerca d'imitare Cristo, che appunto «non piacque a se stesso» (Rm 15,3). Soltanto così il missionario – proprio come faceva Paolo – non cerca il proprio interesse personale. Il suo tentativo di essere sempre gradito a ogni persona con cui entra in contatto diventa, quindi, espressione di effettiva carità fraterna e coincide con il desiderio di fare primariamente ciò che Dio desidera da lui. Ma nel momento in cui il «piacere agli altri» risulta antitetico al «piacere a Dio» (1Ts 2,4), l'approvazione umana si trasforma in una subdola modalità di «piacere a se stessi»!


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Libertà apostolica di Paolo 1Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? 2Anche se non sono apostolo per altri, almeno per voi lo sono; voi siete nel Signore il sigillo del mio apostolato.

I diritti a cui Paolo rinuncia in nome della carità 3La mia difesa contro quelli che mi accusano è questa: 4non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? 5Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? 6Oppure soltanto io e Bàrnaba non abbiamo il diritto di non lavorare? 7E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? Chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge? 8Io non dico questo da un punto di vista umano; è la Legge che dice così. 9Nella legge di Mosè infatti sta scritto: Non metterai la museruola al bue che trebbia. Forse Dio si prende cura dei buoi? 10Oppure lo dice proprio per noi? Certamente fu scritto per noi. Poiché colui che ara, deve arare sperando, e colui che trebbia, trebbiare nella speranza di avere la sua parte. 11Se noi abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo beni materiali? 12Se altri hanno tale diritto su di voi, noi non l’abbiamo di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non mettere ostacoli al vangelo di Cristo. 13Non sapete che quelli che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e quelli che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte? 14Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo. 15Io invece non mi sono avvalso di alcuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché si faccia in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto! 16Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! 17Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.

La libertà apostolica a cui Paolo rinuncia in nome della carità 19Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. 21Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. 22Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. 23Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io. 24Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! 25Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. 26Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; 27anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Alle precedenti argomentazioni teoriche Paolo ritiene più convincente, a questo punto, far seguire il proprio esempio personale. Ai suoi figli spirituali di Corinto osa presentarsi come modello di rinuncia a determinati diritti in nome della carità, che sola è in grado di edificare la Chiesa (cfr. 8,2). A questo scopo, l'apostolo elenca, sotto forma di domande retoriche, alcuni dei suoi diritti, per mostrare come li abbia sacrificati «per non creare alcun intralcio al Vangelo di Cristo» (9,12). L'unica ragione di una scelta del genere è l'amore evangelico, che diventa esemplare per i cristiani di Corinto, soprattutto per quelli dalla fede più matura.

Libertà apostolica di Paolo Paolo non si limita a dichiarare di essere apostolo, ma precisa anche ciò su cui si fonda la propria identità: il Crocifisso risorto prese l'iniziativa di «farsi vedere» anche a lui (15,8; cfr. At 9,17) come «si fece vedere» a Cefa, cioè Simon Pietro, ai Dodici (1Cor 15,5), a più di cinquecento cristiani (cfr. 15,6), a Giacomo e a tutti gli apostoli (cfr. 15,7). Perciò, Paolo lo «ha visto» (9,1; cfr. At 26,13; anche At 9,3-6; 22,5-10) e tra le permanenti conseguenze salvifiche di quell'incontro con il Risorto c'è il suo essere diventato apostolo. Certo, Paolo non ha vissuto con il Gesù terreno. Probabilmente gli veniva rimproverato dai suoi oppositori a Corinto (cfr. 9,3): egli era sì un buon missionario, ma era inferiore agli altri apostoli. Non senza una certa amarezza, Paolo mostra qui di essere al corrente di questa opinione malevola (v. 3) che circolava nella Chiesa a cui scrive. Ma è anche consapevole che, in ogni caso, era stato lui a fondare quella comunità (cfr. 2Cor 3,2-3). Perciò almeno i Corinzi non possono negargli l'identità apostolica; anzi, per il fatto stesso di esistere, la comunità cristiana di Corinto è il «sigillo» della sua efficace attività pastorale (v. 2).

I diritti a cui Paolo rinuncia in nome della carità Paolo istituisce un rapido confronto con altri apostoli ben conosciuti pure a Corinto per far affiorare le prerogative che di per sé spetterebbero anche a lui. La rapidità delle sue allusioni non permette di determinare con sicurezza i diritti ai quali l'apostolo fa qui riferimento. Per prudenza pastorale, Paolo rinunciò persino ai suoi diritti economici, pur di non ostacolare la diffusione del Vangelo di Cristo. Del resto, era venuto a Corinto solo a questo scopo. E mantenendosi economicamente aveva reso più credibile, fin dall'inizio, la sua evangelizzazione. Anche per questo aveva cominciato a predicare soltanto di sabato, nella sinagoga della città (cfr. At 18,4). Quando poi lo avevano raggiunto dalla Macedonia i collaboratori Sila (Silvano) e Timoteo, che probabilmente gli avevano consegnato un'offerta economica spontaneamente inviatagli dai cristiani di Filippi, l'apostolo si era dato a tempo pieno alla predicazione (cfr. At 18,5). Se nel contesto militare i soldati sono pagati da chi li assolda, in ambito rurale i contadini e gli allevatori ricavano essi stessi sostentamento dalla terra e dal gregge. E gli apostoli come Paolo? Anche per loro dovrebbe valere la stessa logica retributiva. A stabilirlo è la Legge mosaica, di cui l'apostolo interpreta allegoricamente una norma in riferimento al sostentamento dei missionari: «Non metterai la museruola al bue che trebbia» (Dt 25,4), così che possa nutrirsi mentre lavora. In sintesi: come avviene per ogni genere di attività lavorativa, dal servizio militare alla coltivazione dei campi (vv. 8-10), sarebbe giusto che anche l'evangelizzazione fosse rimunerata. Paolo precisa subito di non aver rivendicato questo diritto, benché altri apostoli -come, forse, lo stesso Cefa (cfr. 1,12)– ne avessero usufruito, passando per Corinto (v. 12). Ma a sancire questo dovere delle comunità cristiane di provvedere a un adeguato sostentamento degli evangelizzatori è stato soprattutto il Signore stesso, di cui Paolo riporta un insegnamento inequivocabile: quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo (v. 14). A dire il vero, nei vangeli non è attestato in questi termini alcun detto di Gesù. Tuttavia la sua sostanza si ritrova nelle raccomandazioni che egli dà ai discepoli inviandoli in missione: «non vi procurate oro o argento o denaro per le vostre tasche..., poiché l'operaio ha diritto al suo sostentamento» (Mt 10,9-10); «restate in quella casa [che vi avrà accolto], mangiate e bevete quello che vi daranno, perché l'operaio ha diritto alla sua ricompensa» (Lc 10,7). A questo riguardo possiamo aggiungere che non conosciamo se non in parte, attraverso la ricostruzione di Luca negli Atti degli Apostoli, il contenuto della predicazione di Paolo. Ma possiamo supporre che si soffermasse sui fatti e sull'insegnamento di Gesù. Sta di fatto che nelle sue lettere l'apostolo si concentra sul mistero della morte e della risurrezione di Cristo (cfr., p. es., 1,17-25; 2,2; 15,3b-5 ecc.), che gli si era fatto vedere sulla via di Damasco (cfr. 15,8; e Gal 1,15-17). Comunque, soprattutto in 1Corinzi, l'apostolo mostra di essere venuto a conoscenza, tramite la primitiva tradizione ecclesiale, di alcuni detti (cfr. 7, 10-11; 9, 14) e atti del Gesù terreno (cfr. 11,23-25), che egli s'impegna a trasmettere con esattezza. Paolo ci tiene a ripetere che personalmente non si è servito del diritto dei missionari a essere sostenuti dal punto di vista economico dalla gente cui annunciano il Vangelo (v. 15; cfr. v. 12). Anzi, anche per il futuro seguiterà a essere coerente con questa sua decisione, che costituisce per lui un motivo di vanto. Certamente, da questo vanto Paolo esclude subito la missione apostolica in quanto tale, dato che essa non è frutto di una sua iniziativa personale, ma di un comando divino. Perciò disobbedirvi provocherebbe effetti deleteri dal punto di vista della sua salvezza personale (v. 16).Dunque non ha senso per Paolo vantarsi della propria attività evangelizzatrice. È piuttosto sulla gratuità di tale attività che l'apostolo tiene a vantarsi davanti ai suoi figli spirituali (v. 15), ma soprattutto nei confronti dei missionari, suoi avversari, che invece non potevano gloriarsene, perché si facevano mantenere dalla comunità. Paolo, quindi, giunge qui a paragonarsi a uno schiavo, come, per esempio, un amministratore (cfr. 4,1), al quale il padrone ha dato una mansione. Di conseguenza egli è costretto a portarla a termine, senza retribuzione alcuna (v. 17). Non è come nel caso di una persona libera, che può acconsentire o meno a una proposta di lavoro, per la quale è previsto un salario. Come altrove(cfr. 1Cor 1,26-29; 2Cor 5,21; 8,9; 13,4), anche qui Paolo si esprime in modo paradossale, sostenendo in sostanza che il salario corrispostogli per annunciare il Vangelo di Cristo consiste precisamente nel non ricevere alcun salario (v. 18). È sottinteso che il conto aperto non pagato a Paolo dai Corinzi gli sarà saldato un «giorno» (1,8; 3,13) dal Signore di cui si è messo completamente a servizio.

La libertà apostolica a cui Paolo rinuncia in nome della carità L'apostolo riprende il contenuto della domanda iniziale, giungendo a mostrare come, sempre in nome della carità apostolica, ha rinunciato in fondo a tutta la sua libertà: «Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero» (v. 19), vale a dire per permettere a più persone possibile di essere «di Cristo» (3,23; cfr. 7,22). L'apostolo perviene così a offrire ai cristiani spiritualmente più maturi di Corinto il criterio di discernimento ultimo per non suscitare dubbi e confusione nei fratelli più «deboli»: farsi debole con loro e per loro (v. 22a), così da non rischiare di allontanarli da Cristo; anzi, riuscendo ad avvicinarli a lui. Paolo stesso si è comportato così, senza assolutizzare come unica regola di comportamento le proprie conoscenze a riguardo della non esistenza degli idoli e del diritto di consumare la carne sacrificata loro. Questa indicazione non è esplicitata qui. Ma farsi evangelicamente (v. 23) «tutto per tutti, per salvare in ogni modo qualcuno» (v. 22b), una volta applicato alla questione della carne immolata agli idoli, non può che confermare la scelta di astenersene per non scandalizzare i «deboli» (cfr. 8, 13). La conclusione del discorso cita due sport (corsa e pugilato), che implicano allenamenti faticosi e veri e propri scontri agonistici. Paolo rilegge così tutti i parimenti e le persecuzioni che continua ad affrontare con coraggio per Cristo e per l'annuncio del suo Vangelo (cfr., p. es., 1Cor 4,9-13; 2Cor 4,7-12; 11,23-33). Nonostante tutto, ciò che conta per lui è giungere alla salvezza divina proprio attraverso il ministero apostolico, evitando il rischio di non conquistare lui la meta verso cui tanto ha sospinto gli altri (v. 27).


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La conoscenza gonfia d'orgoglio, la carità edifica 1Riguardo alle carni sacrificate agli idoli, so che tutti ne abbiamo conoscenza. Ma la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica. 2Se qualcuno crede di conoscere qualcosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere. 3Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto.

I «forti» che hanno la conoscenza 4Riguardo dunque al mangiare le carni sacrificate agli idoli, noi sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo e che non c’è alcun dio, se non uno solo. 5In realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo che sulla terra – e difatti ci sono molti dèi e molti signori –, 6per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui.

I «deboli» che non hanno la conoscenza 7Ma non tutti hanno la conoscenza; alcuni, fino ad ora abituati agli idoli, mangiano le carni come se fossero sacrificate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com’è, resta contaminata. 8Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio. 9Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. 10Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? 11Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! 12Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo.

Per carità, non mangiare la carne sacrificata 13Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Paolo era stato consultato dai Corinzi, forse sempre per iscritto (cfr. 7,1), su un'altra questione tutt'altro che irrilevante: le «carni sacrificate agli idoli)) (8,1). Alla questione, che s'inquadra nell'orizzonte più vasto dei rapporti tra la Chiesa e la società, l'apostolo dedica la quarta parte della lettera (8,1-11,1).

Ma in che termini stava il problema? Lo si intuisce subito, se si considera il fatto che nella metropoli dell'Acaia, arazzo variopinto di numerose religioni, le attività cultuali prevedevano di frequente sacrifici animali offerti alle varie divinità. La carne di queste vittime solo in parte veniva bruciata nel rito sacrificale e consumata dagli offerenti nel pasto sacro all'interno dei templi. Il resto veniva mangiato dagli stessi offerenti a casa loro oppure venduto al mercato.

I cristiani, pur non offrendo sacrifici animali, potevano comunque essere invitati da parenti o amici a partecipare a banchetti in famiglia o nel tempio. Oppure poteva capitare loro di acquistare carne al mercato, che in gran parte proveniva dai sacrifici. Come comportarsi al riguardo?

Paolo non fa cenno all'assemblea di Gerusalemme, in cui le principali guide del cristianesimo primitivo giunsero, intorno all'anno 50, a una decisione consensuale proprio su questo punto: prescrivere non solo ai cristiani d'origine giudaica ma anche a quelli di matrice pagana di astenersi dalle «contaminazioni degli idoli», cioè dalle carni a loro immolate (At 15,20; cfr. anche 15,29). Il decreto, inviato ad Antiochia tramite alcuni missionari tra cui lo stesso Paolo (cfr. At 15,23-24), non pare essere noto alla comunità cristiana di Corinto, lacerata, a questo proposito, da due fazioni.

Un primo gruppo, costituito probabilmente da cristiani provenienti dal giudaismo o da altri comunque influenzati da loro, si atteneva rigidamente al divieto della Legge mosaica di cibarsi delle carni sacrificate agli idoli e, tanto più, di partecipare ai culti idolatrici.

Un secondo gruppo comprendeva verosimilmente cristiani di cultura ellenistica, che avevano ricevuto un'istruzione superiore e che, in ogni caso, erano lontani dai costumi ebraici e dalla Legge di Mosè. Pare che costoro, restando legati a una concezione dualistica dell'anima e del corpo, ben radicata in diversi filoni di pensiero della tradizione culturale greco-ellenistica, ritenessero che nutrirsi di un determinato cibo piuttosto che di un altro riguardasse soltanto il corpo, ma non avesse rilevanza alcuna nella vita spirituale.

La faccenda avrebbe potuto acutizzare i contrasti interni alla Chiesa corinzia. Per evitarlo, Paolo ha offerto alcune direttive incentrate sulla carità evangelica. Riteneva, infatti, che soltanto se si fossero lasciati avvincere dalla carità, anche i cristiani che, come lui, erano convinti della liceità di mangiare la carne sacrificale, avrebbero evitato di scandalizzare i fratelli dalla coscienza più «debole» (1Cor 8,7.9).

La conoscenza gonfia d'orgoglio, la carità edifica Paolo prende le mosse da questo slogan di un questo gruppo di fedeli: «tutti già conosciamo a sufficienza la dottrina cristiana per risolvere il problema della carne immolata agli idoli». Ma Paolo afferma che non è questo il punto per affrontarlo da cristiani.

L'apostolo cerca così di far comprendere ai suoi interlocutori che la «conoscenza» delle verità di fede, pur essendo un dono dello Spirito Santo (cfr. 1,5; 12,8), non è il criterio ultimo dell'esistenza cristiana Questo posto spetta piuttosto alla carità. Anzi, la conoscenza, disarcionata dalla carità, finisce per sospingere surrettiziamente la persona verso l'orgoglio. Può quindi essere nociva sia sul piano personale, perché illude il credente di potersi salvare con le proprie capacità intellettuali e, quindi, di essere autosufficiente anche di fronte a Dio; sia sul piano ecclesiale, perché scatena deleteri complessi di superiorità in chi ha una buona formazione religiosa e culturale e altrettanto dannosi complessi d'inferiorità in chi non la possiede.

Al contrario, la carità è costruttiva. Lo è a livello personale, perché orienta il credente verso Dio e verso gli altri. Ma, di conseguenza, lo è anche in ambito comunitario, venendo a essere il cemento necessario per edificare la Chiesa come «tempio di Dio» (cfr. 3, 16-17). Quindi anche chi si ritiene sapiente ha ancora da imparare la cosa più importante (v. 2b): il fondamento della vera conoscenza è sapere di essere amorevolmente conosciuto da Dio (v. 3; cfr. Gal4,9). In principio sta l'amore con cui il Signore da sempre ci ha conosciuti, ci ha predestinati a essere conformi al Figlio suo, ci ha chiamati alla santità, ci ha giustificati e ci aiuterà ad accedere alla sua gloria (cfr. Rm 8,29-30 ed Ef 1,4-12). Ma questa verità fondamentale dell'amore preveniente e permanente di Dio per noi può essere appresa soltanto da chi ama Dio.

I «forti» che hanno la conoscenza Individuato il criterio fondamentale della «carità» che «edifica», Paolo inizia ad applicarlo alla questione concreta delle «carni sacrificate agli idoli». Continuando a considerarla dal punto di vista dei cristiani che si credono sapienti, l'apostolo dichiara di essere ben consapevole, come loro, dell'esistenza dell'unico vero Dio e della non esistenza di altri dèi (v. 4). Ma allo stesso tempo ammette di condividere anche la credenza giudaica, fondaJa sulla rivelazione neotestamentaria, dell'esistenza di esseri soprannaturali, angeli o demoni che siano. Anzi, per Paolo questi «cosiddetti dèi», che vivono «sia nel cielo che sulla terra», sono «molti» (v. 5). Indubitabilmente sono inferiori all'unico Dio, rivelato in maniera piena e definitiva da Cristo. I cristiani non adorano alcuna delle divinità pagane, che sono idoli inesistenti (v. 4). Ma non si asserviscono neanche agli esseri angelici o demoniaci, denominati talvolta «dèi» e «signori» (v. 5). La conclusione, quindi, sarebbe che i credenti in Cristo potrebbero cibarsi, senza problemi, della carne degli animali sacrificati agli idoli. È carne qualunque!

I «deboli» che non hanno la conoscenza La libertà dei cristiani rispetto alla possibilità di nutrirsi anche con la carne proveniente dai sacrifici pagani deve essere sottoposta al criterio ultimo del discernimento cristiano (cfr. 1Ts 5,21 ), vale a dire la carità. A questo scopo, Paolo, che finora si è quasi calato nella parte dei cristiani «forti» (o che si credevano tali), ora osserva il problema nella prospettiva di quelli più «deboli» (vv. 7.9). Erano fedeli che non avevano avuto una buona formazione culturale e religiosa o che, comunque, erano facilmente scandalizzabili. In quest'ottica appare subito evidente la falsità del presupposto iniziale, tanto declamato dai sedicenti sapienti (cfr. 8,1a): non era vero che sul problema in questione «tutti» i cristiani di Corinto avessero conoscenza a sufficienza per prendere decisioni coerenti con la propria fede (v. 7a). In realtà, alcuni cristiani avevano, invece, una «coscienza debole» (v. 7b), dovuta alla loro esperienza religiosa precedente: per anni avevano partecipato da pagani ai sacrifici elevati alle molteplici divinità; poi, prima o dopo essersi convertiti al cristianesimo, erano entrati probabilmente in contatto con le credenze giudaiche sugli angeli e i demoni e con i divieti cultuali e alimentari della Legge mosaica. In loro, quindi, albergavano dubbi, domande e confusione. Inoltre, Paolo si accorge che la conoscenza dei sedicenti sapienti potrebbe suggerire soluzioni al problema ineccepibili sul piano teorico, ma controproducenti a livello ecclesiale, non tenendo conto della situazione soggettiva di una parte dei fedeli. Soltanto uno sguardo animato dalla carità è in grado di scorgere le fragilità di questi ultimi. La miopia spirituale, dovuta a una carenza di carità, potrebbe causare danni talvolta irreparabili nella coscienza altrui e favorire tensioni e divisioni capaci di sgretolare il «tempio di Dio» che è la comunità cristiana (3,16-17). Se «la carità edifica» (8,1), le mancanze di carità distruggono persone e comunità! Paolo dunque dà un avvertimento ai fedeli più maturi nella fede, o che tali si credono: la loro libertà nel mangiare carne proveniente dai sacrifici pagani non deve essere motivo di scandalo e di caduta per i cristiani meno maturi (v. 9), per i quali Cristo è morto (v. 11). Paolo è amareggiato per un atteggiamento saccente che non solo non edifica la coscienza dei cristiani più fragili nella fede, ma la scandalizza. Per Paolo il peccato si annida nella “mancanza di carità”: una colpa commessa non solo contro un fratello o una sorella più deboli, ma «contro Cristo» stesso (v. 12).

Per carità, non mangiare la carne sacrificata È la carità, quindi, che impone ai cristiani di rinunciare per sempre, se necessario, a cibarsi di carne proveniente dai sacrifici pagani, anzi (giunge a sostenere Paolo con una punta di esagerazione retorica) a cibarsi di ogni genere di carne, pur di non causare una crisi morale nei cristiani deboli!


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Coniugi cristiani 1Riguardo a ciò che mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non toccare donna, 2ma, a motivo dei casi di immoralità, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. 3Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. 4La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. 5Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza. 6Questo lo dico per condiscendenza, non per comando. 7Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro.

Fedeli non sposati, coniugi cristiani in crisi e coppie miste 8Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; 9ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare. 10Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito – 11e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la moglie. 12Agli altri dico io, non il Signore: se un fratello ha la moglie non credente e questa acconsente a rimanere con lui, non la ripudi; 13e una donna che abbia il marito non credente, se questi acconsente a rimanere con lei, non lo ripudi. 14Il marito non credente, infatti, viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente; altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, ora invece sono santi. 15Ma se il non credente vuole separarsi, si separi; in queste circostanze il fratello o la sorella non sono soggetti a schiavitù: Dio vi ha chiamati a stare in pace! 16E che sai tu, donna, se salverai il marito? O che ne sai tu, uomo, se salverai la moglie?

Indicazione generale di rimanere nel proprio stato di vita 17Fuori di questi casi, ciascuno – come il Signore gli ha assegnato – continui a vivere come era quando Dio lo ha chiamato; così dispongo in tutte le Chiese. 18Qualcuno è stato chiamato quando era circonciso? Non lo nasconda! È stato chiamato quando non era circonciso? Non si faccia circoncidere! 19La circoncisione non conta nulla, e la non circoncisione non conta nulla; conta invece l’osservanza dei comandamenti di Dio. 20Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. 21Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione! 22Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del Signore! Allo stesso modo chi è stato chiamato da libero è schiavo di Cristo. 23Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini! 24Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato.

Vergini, fidanzate e vedove 25Riguardo alle vergini, non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia. 26Penso dunque che sia bene per l’uomo, a causa delle presenti difficoltà, rimanere così com’è. 27Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla. 28Però se ti sposi non fai peccato; e se la giovane prende marito, non fa peccato. Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella loro vita, e io vorrei risparmiarvele. 29Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; 30quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; 31quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo! 32Io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; 33chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, 34e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. 35Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni. 36Se però qualcuno ritiene di non comportarsi in modo conveniente verso la sua vergine, qualora essa abbia passato il fiore dell’età – e conviene che accada così – faccia ciò che vuole: non pecca; si sposino pure! 37Chi invece è fermamente deciso in cuor suo – pur non avendo nessuna necessità, ma essendo arbitro della propria volontà – chi, dunque, ha deliberato in cuor suo di conservare la sua vergine, fa bene. 38In conclusione, colui che dà in sposa la sua vergine fa bene, e chi non la dà in sposa fa meglio. 39La moglie è vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito; ma se il marito muore è libera di sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore. 40Ma se rimane così com’è, a mio parere è meglio; credo infatti di avere anch’io lo Spirito di Dio.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Coniugi cristiani Questa terza parte della lettera non è un trattato sistematico di teologia sul sacramento del matrimonio né un manuale di teologia morale sulla sessualità. Siamo di fronte piuttosto a una casistica che non ha la pretesa di esporre in maniera completa la morale sessuale dei diversi stati di vita dei cristiani. Conseguentemente, il discorso di Paolo non va assolutizzato perché risente pesantemente della situaione problematica della comunità cristiana appena nata di Corinto.

Il celibato volontario di alcune persone, che si mettono completamente a servizio del regno di Dio, viene lodato dall'apostolo nel seguito della lettera (v. 7). Ma questo elogio era stato interpretato probabilmente da alcuni Corinzi alla luce di una svalutazione dualistica della corporeità, e in particolare della sessualità, che si respirava nella cultura greco-ellenistica del tempo. Da qui a considerare anche i rapporti sessuali dei coniugi cristiani come peccaminosi, il passo era breve. Compreso il fraintendimento del proprio insegnamento, l'apostolo inizia a mettere un primo punto fermo sulla positività del matrimonio e anche dei rapporti coniugali (vv. 2-3) e richiama senza mezzi termini i doveri reciproci degli sposi cristiani, ossia la consumazione dell'atto coniugale (v. 3), evitando così fraintendimenti in materia.

Nella raccomandazione paolina si nota però un cenno, ribadito due volte, alla reciprocità tra marito e moglie. Di sicuro Paolo si è formato in una cultura che, sia in ambito giudaico che in quello greco-romano, era profondamente segnata dal maschilismo, come traspare anche da alcuni passi paolini che risentono di questo modo di pensare (cfr., p. es., 1Cor 11,2-16; 14,34-35; anche 1Ts 4,6). Tuttavia, qui l'apostolo riconosce i doveri anche del marito nei confronti della moglie, e non solo della moglie verso il marito.

Influenzati da una concezione del sacro tipica della religiosità giudaica, i puritani di Corinto immaginavano che, per poter pregare in maniera gradita a Dio, si dovessero astenere dai rapporti coniugali. Paolo ridimensiona scrupoli di questo tipo, non confermando affatto la presupposta incompatibilità dei rapporti coniugali con la preghiera. Pur tuttavia, non è del tutto contrario a propositi di momentanea continenza degli sposi, capaci di favorirne la vita spirituale. Tant'è vero che precisa: «Questo lo dico come un consiglio, non come un ordine» (v. 6). Dunque, Paolo non intende dare qui un comando, ma un consiglio spirituale. Per di più, dato che esso risponde a pratiche ascetiche legate alla purità rituale anticotestamentaria, ormai superata da Cristo (cfr. Mt 15,11; Mc 7,15-23; Lc 11,37-41; anche Mt 5,8), tale consiglio può essere accantonato con tranquillità dai coniugi cristiani.

Paolo sostiene che nello stato matrimoniale, come in quello verginale, Dio conceda ai credenti un dono spirituale particolare. Dunque, sarebbe erroneo ritenere che per lui il matrimonio sia semplicemente la condizione comune dei fedeli, priva di un particolare dono spirituale. Senza dubbio, l'apostolo esprime il desiderio che tutti i suoi interlocutori siano celibi come lui, ossia liberi da preoccupazioni matrimoniali per dedicarsi alla proclamazione del Vangelo (cfr. 9,5). Tuttavia riconosce che lo Spirito Santo, nella varietà dei suoi doni dati in vista dell'utilità comune nel corpo ecclesiale di Cristo (cfr. 12,7), effonde anche sui coniugi cristiani un dono specifico. Il loro amore sponsale, che si esprime anche in rapporti sessuali buoni, è primariamente frutto dello Spirito Santo in loro, come lo sono la carità, la gioia, la pace e tutte le altre virtù e comportamenti autenticamente umani (cfr. Gal 5,22). S'intuisce qui un effettivo superamento della visione del matrimonio come rimedio all'incontinenza sessuale. Il «meglio sposarsi che ardere!» di Paolo (v. 9), una volta compreso come una risposta alle erronee tendenze rigoriste di Corinto, appare per lo meno riduttivo. Esige quindi di essere ampiamente completato alla luce di altre pagine di Paolo e più in genere della Bibbia, lette in riferimento a Cristo e al suo amore (cfr. specialmente Ef5,21-33).

Fedeli non sposati, coniugi cristiani in crisi e coppie miste Ai cristiani di entrambi i sessi che non si sono uniti in matrimonio e specialmente alle vedove, Paolo scrive che se si rendessero conto di non essere capaci di astenersi dai rapporti sessuali, sarebbe più conveniente sposarsi. Comunque è chiaro per Paolo che i cristiani si sposano «nel Signore» (7,39), amandosi «come il Cristo amò la Chiesa e consegnò se stesso per lei» (Ef 5,25). Altrimenti il matrimonio cristiano si ridurrebbe a un'ambigua scelta prudenziale.

A riguardo dell'indissolubilità matrimoniale, Paolo si rifà direttamente all'autorevole prescrizione di Gesù che, prese le distanze dalla Legge mosaica sul divorzio (Dt 24,1), si appellò alla stessa volontà originaria del Creatore (cfr. Gen 1,27; 2,24): «Per la vostra durezza di cuore egli [Mosè] ha scritto questa prescrizione [del ripudio]. Ma dal principio della creazione maschio e femmina li creò [...}. Quello dunque che Dio ha unito, l'uomo non lo separi» (Mc 10,5-6.9). Perciò, commette adulterio il coniuge che, dopo essersi separato, si risposa (Mc 10,2-12; cfr. il parallelo Mt 19,3-9); a peccare è anche la persona che sposa un coniuge separato (cfr. Mt 5,32 e Le 16,18). Paolo adatta l'insegnamento del Signore al caso particolare di una separazione già verificatasi tra due sposi cristiani. Se resta il divieto del Signore a non ripudiare la moglie, alla moglie credente non rimangono che due possibilità: riconciliarsi con il marito oppure, se non vi riesce, non accedere a nuove nozze (v. 11). Ma, a ogni buon conto, la riconciliazione di cui parla l'apostolo è ben di più che il semplice ritorno sotto il tetto coniugale.

Paolo si è accorto che a Corinto, e forse anche in altre comunità cristiane, è sorto un problema che non esisteva all'epoca di Gesù: capitava che uno dei due coniugi pagani, validamente sposati, si convertisse alla fede cristiana. L'altro coniuge, invece, rimaneva pagano. Effettivamente, fin dalle origini il cristianesimo non ha vietato il cosiddetto «matrimonio misto», come invece faceva il giudaismo. Per un ebreo il semplice contatto con un pagano era fonte di impurità. Al contrario, per un cristiano, ormai libero dalle prescrizioni sulla purità rituale, il matrimonio misto non era vietato. Per Paolo (vv. 12-14) il coniuge cristiano, formando un solo corpo con il coniuge non cristiano (cfr. 6,16), potrebbe favorire che anche questi venga attratto dal Risorto (cfr. Gv 12,32) e così accompagnarlo sulla via della santità. A conferma di ciò, l'apostolo fa una considerazione sui figli nati in una famiglia in cui soltanto uno dei due coniugi è credente: anche i figli si trovano in una condizione privilegiata per seguire Cristo e diventare santi (v. 14). Quindi, se vige questa atmosfera familiare di amore e di rispetto reciproco degli sposi per le rispettive convinzioni religiose, il coniuge cristiano non deve separarsi da quello pagano (vv. 12b-13).

Paolo però considera anche il caso contrario di conflitti innescatisi nelle coppie miste proprio a motivo della fede cristiana. Che fare, insomma, se il coniuge pagano avesse abbandonato quello cristiano, magari anche con i figli a carico? Oppure se addirittura il marito pagano avesse impedito alla moglie cristiana e forse anche ai figli di vivere la propria fede in Cristo? In questi casi, Paolo giunge a concedere al coniuge cristiano la possibilità di liberarsi da quel vincolo matrimoniale (vv. 15-16) e, come probabilmente sottintende il testo, anche la possibilità di sposarsi di nuovo; ma, questa volta, «nel Signore» (v. 39), ossia con un credente in Cristo. Del resto, per quanto un coniuge cristiano possa impegnarsi per convertire e santificare l'altro, non può essere sicuro di riuscirvi (v. 16). Perciò, per i casi in cui la convivenza coniugale non abbia presumibilmente altro esito che un irrimediabile conflitto, l'apostolo concede una deroga all'indissolubilità matrimoniale, motivabile a partire dal diritto di tutti a vivere in pace (v. 15). È noto che questa direttiva pastorale di Paolo (poi definita «privilegio paolino») rimane valida ancor oggi nella Chiesa cattolica specialmente per i paesi di missione (cfr. Codice di Diritto Canonico, canoni 1055-1165).

Indicazione generale di rimanere nel proprio stato di vita Concessa la deroga del tutto eccezionale all'indissolubilità dei matrimoni misti (vv. 15-16), Paolo dispone che, in tutti gli altri casi e in tutte le comunità cristiane da lui fondate, i fedeli continuino a vivere nella condizione in cui si trovavano quando si convertirono al cristianesimo. Cerchino, quindi, di essere fedeli nella loro situazione concreta alla chiamata alla santità fatta loro da Dio (cfr. 1,26).

Paolo sostiene con risolutezza che, per appartenere alla Chiesa, è sufficiente credere nel Vangelo, ricevere il battesimo e iniziare a vivere all'insegna dell'amore(cfr. 1Cor 13,1-13; 16,14; Gal 5,6), a imitazione di Cristo (cfr. 1Cor 11,1): non ha senso che un cristiano proveniente dal paganesimo si faccia circoncidere! Essere circoncisi o meno non conta nulla (cfr. Rm 2,25-29; Gal5,6; 6,15): un'affermazione tranchant, che non poteva non sbalordire i cristiani provenienti dal giudaismo, ma che fondava l'indicazione iniziale data da Paolo ai cristiani di Corinto a rimanere nella medesima condizione in cui si trovavano quando erano stati chiamati da Dio alla fede (v. 20).

Paolo relativizza, dal punto di vista della conversione cristiana, persino la differenza tra la situazione di uno schiavo e quella di una persona libera. In concreto, giunge a raccomandare agli schiavi convertitisi al cristianesimo di progredire nella vita di fede restando nella loro condizione sociale, senza spendere energie per affiancarsi e diventare persone libere (v. 21 ). Sicuramente, Paolo non auspica l'abolizione della schiavitù, ma neppure i l suo mantenimento, proprio perché si muove a un livello diverso. Va ricordato anzitutto che gli schiavi non erano accolti nella religione giudaica, semplicemente perché non erano liberi di osservare la Legge di Mosè. Come avrebbero potuto obbedire, per esempio, alle puntigliose nonne legate alla purità rituale, al riposo sabbatico e alle altre feste del calendario religioso? Invece Paolo, con affermazioni come queste, spalanca le porte della Chiesa anche alla massa enorme di schiavi presenti non solo nella metropoli dell'Acaia, ma in tutto l'impero romano. Qualche tempo dopo, Paolo mostrò quanto rivoluzionaria fosse la prospettiva cristiana nel minare le radici più profonde della schiavitù, scrivendo un biglietto epistolare a uno dei suoi figli spirituali, di nome Filemone. A questo cristiano benestante raccomandò di riaccogliere con sé lo schiavo Onesimo, che era scappato e che, dunque, era reo di morte. Nel frattempo, costui aveva ricevuto il battesimo da Paolo, il quale giunse a chiedere a Filemone di considerare Onesimo «non più come schiavo», bensì «come fratello carissimo[...] nel Signore» (Fm 16). Perché? Perché in virtù del battesimo in Cristo, «non esiste più Giudeo né Greco, non esiste schiavo né libero, non esiste uomo o donna; tutti» i credenti sono «una sola persona in Cristo Gesù» (Gal 3,28).

Vergini, fidanzate e vedove Ciò che conta è vivere da cristiani la situazione in cui ci si trova (cfr. vv. 17.20.24): con questa prospettiva unitaria di fondo, appena illustrata a livello sia etnico (vv. 18-20) che sociale (vv. 21-24), Paolo considera una seconda serie di casi particolari legati allo stato di vita verginale, matrimoniale e vedovile.

All'inizio Paolo dà un consiglio alle vergini e, più precisamente, alle giovani che non si sono ancora maritate, pur avendo l'età per farlo. Tuttavia immediatamente il discorso paolina pare abbracciare anche i vergini. Difatti l'apostolo dichiara che sia bene «per l'uomo», ossia all'essere umano, uomo o donna che sia) rimanere nello stato di vita in cui si trova (v. 26).

Poi l'apostolo si mette a parlare anche della «tribolazione» che si abbatte sugli sposati. A che cosa allude? Senza dubbio alle preoccupazioni tipiche della vita coniugale (cfr. 7,32-34). Egli vorrebbe evitarle ai giovani, consigliando appunto di rimanere celibi. Ma poi Paolo precisa che a essere colpita da tale tribolazione è la «carne» dei coniugi (v. 28), vale a dire la loro persona ancora inclinata alla concupiscenza. Si sente qui una seconda nota apocalittica (cfr. Mc 13,19), che fa da eco al precedente cenno alla «necessità presente» (v. 26) e introduce il paragrafo successivo (vv. 29-35) segnato da un'intensa attesa del ritorno ormai prossimo di Cristo glorioso. È innegabile che sposarsi implichi l'assunzione di tutta una serie di responsabilità nei confronti del coniuge e dei figli. Ma qui c'è di più: Paolo viveva permanentemente in attesa di quell'«istante», ormai per lui imminente, in cui «in un batter d'occhio, al (suono del)l'ultima tromba, [...] i morti» sarebbero stati «risuscitati incorruttibili» e i cristiani ancora in vita -come lui- sarebbero stati «trasformati» (lCor 15,52; cfr. lTs 4,15). In quel frangente, «il Signore stesso a un segnale, alla voce di un arcangelo e alla tromba divina)) sarebbe disceso «dal cielo» (1Ts 4, 16) e avrebbe portato a compimento la storia. Verosimilmente, Paolo condivideva questa attesa con alcuni fedeli di Corinto (cfr. 1Cor 15,51) e di altre comunità cristiane (cfr. Rm 13,11; 1Ts 4,15). In quest'ottica, prendersi cura del proprio coniuge, e dell'intera famiglia, avrebbe rappresentato un innegabile condizionamento alla libertà di servire con tutto se stesso Cristo negli altri (cfr. Mt 10,40-42; 18,5; 25,31-46). Soprattutto avrebbe costituito un certo impedimento ad annunciare, non solo a parole ma con l'intera vita, il Vangelo di Cristo, prima del suo imminente avvento glorioso.

Per questo motivo, l'apostolo esalta la verginità (vv. 32-35). Non la elogia, però, in quanto stato fisico, come facevano probabilmente i puritani di Corinto, né, tanto meno, sotto il profilo anagrafico. La celebra primariamente come atteggiamento di un cuore del tutto dedicato al Signore. In questo senso, l'insistenza con cui Paolo sollecita i suoi interlocutori a vivere la fede cristiana nella loro situazione attuale e, in particolare, la sua preferenza per la verginità trovano fondamento nella sua concezione della storia. Immaginando una sua fine imminente, l'apostolo dichiara: «Il tempo si è fatto breve [...]. È transitorio l'aspetto esteriore di questo mondo!» (7,29.31). Della vita in questo mondo «rimangono queste tre cose: fede, speranza e carità. Ma la più grande di queste è la carità)) (13,13) perché non verrà mai meno (cfr. 13,8), neppure quando entreremo nella comunione eterna con Cristo risorto.

Da questo punto di vista, l'apostolo è realista e dice il vero: il confronto da lui istituito tra il matrimonio e il celibato (vv. 32-34) porta a riconoscere che chi vive il celibato in vista del regno di Dio (cfr. Mt 19,12) è maggiormente aiutato a trovare l'unità interiore della propria esistenza. Essendo soltanto «di Cristo» (1Cor 3,23), può costantemente dedicarsi al servizio di lui (v. 22) e delle realtà del suo corpo ecclesiale, così da essergli gradito (v. 32). Chi si sposa, invece, pur essendo chiamato alla stessa meta della santità (cfr. 1,26), deve giungere alla comunione con Cristo attraverso l'amore sponsale. Perciò nella misura in cui il proprio coniuge non viva evangelicamente la relazione matrimoniale, da mezzo per giungere a Cristo viene a costituire un ostacolo per perseguire questo scopo. Ciò non toglie che Paolo inviti a superare tale difficoltà, non separandosi dalla persona amata così da cercare di santificarla (cfr. 7,12-14). Ciò detto, si deve puntualizzare che non può essere questa difficoltà la ragione fondamentale per preferire il celibato al matrimonio. Altrimenti il celibato sarebbe una scelta di ripiego, troppo comoda e perfino egoista. In realtà è lo Spirito Santo che, donando carismi diversi ai cristiani celibi e a quelli sposati (cfr. 7,7), misteriosamente li chiama e li abilita alla sequela di Cristo nel rispettivo stato di vita.

Con questo intento l'apostolo torna a considerare di nuovo lo stato di vita dei fidanzati. Già prima li ha rassicurati che sposarsi non è affatto peccaminoso (v. 28), anche se, considerando il ritorno imminente di Cristo glorioso, sarebbe conveniente per loro non farlo (vv. 26-27). A questo punto si sofferma su un caso concreto di astensione dal matrimonio che risulta non così chiaro ai lettori odierni: il riferimento potrebbe essere al caso di fidanzati che, influenzati dalle concezioni puritane di alcuni cristiani rigoristi, avrebbero preso la decisione di porre fine al fidanzamento e al proposito di sposarsi. Paolo lascerebbe libero il giovane di sposare la propria fidanzata perché il matrimonio non è peccaminoso. Se però quel tale volesse vivere da celibe, e per l'apostolo sarebbe meglio, non sarebbe affatto costretto a sposarla.

Al consiglio dato da Paolo alle vergini (vv. 25-26) fa da pendant quest'altro abbastanza simile rivolto alle vedove. Anche costoro non vivono lo stato matrimoniale e come alle vergini l'apostolo aveva consigliato di non sposarsi (v. 26), così alle vedove ribadisce che sarebbe preferibile la scelta di non celebrare un nuovo matrimonio (v. 40a: cfr. 7,8). D'altronde, alle vergini Paolo aveva tenuto a rammentare la propria affidabilità dovuta al fatto che il Signore aveva avuto misericordia di lui (cfr. 7,25b); rivolgendosi ora alle vedove, aggiunge di aver ricevuto in dono lo Spirito di Dio (v. 40b), da cui dipende la sua autorevolezza. Ed è con questa autorevolezza ispirata che egli ripete alle vedove che desiderassero risposarsi di farlo (cfr. 7,9). Il legame matrimoniale permane fin quando il coniuge è vivo (v. 39). Dunque, accedano pure a nuove nozze. Lo facciano però «nel Signore)), ovvero con un cristiano (7,39b), così da fare, grazie alla condivisione dell'unica fede in Cristo, un solo corpo in lui (cfr. 6,15; 12,12).


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Ricorso dei cristiani ai tribunali pagani 1Quando uno di voi è in lite con un altro, osa forse appellarsi al giudizio degli ingiusti anziché dei santi? 2Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se siete voi a giudicare il mondo, siete forse indegni di giudizi di minore importanza? 3Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più le cose di questa vita! 4Se dunque siete in lite per cose di questo mondo, voi prendete a giudici gente che non ha autorità nella Chiesa? 5Lo dico per vostra vergogna! Sicché non vi sarebbe nessuna persona saggia tra voi, che possa fare da arbitro tra fratello e fratello? 6Anzi, un fratello viene chiamato in giudizio dal fratello, e per di più davanti a non credenti!

Incoerenza dei cristiani in lite 7È già per voi una sconfitta avere liti tra voi! Perché non subire piuttosto ingiustizie? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartiene? 8Siete voi invece che commettete ingiustizie e rubate, e questo con i fratelli! 9Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adùlteri, né depravati, né sodomiti, 10né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. 11E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio.

Sessualità e immoralità 12«Tutto mi è lecito!». Sì, ma non tutto giova. «Tutto mi è lecito!». Sì, ma non mi lascerò dominare da nulla. 13«I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!». Dio però distruggerà questo e quelli. Il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. 14Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. 15Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! 16Non sapete che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due – è detto – diventeranno una sola carne. 17Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. 18State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. 19Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. 20Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Ricorso dei cristiani ai tribunali pagani Paolo passa dalla questione spinosa dell'incestuoso a un altro motivo di scandalo, vale a dire la consuetudine dei cristiani di Corinto di ricorrere ai tribunali civili per far dirimere le contese sorte tra di loro (vv. 1-6). L'intento di Paolo, è mettere fine alla consuetudine dei cristiani di Corinto di utilizzare gli organi giudiziari della città, in caso di contrasti interni alla Chiesa. All'apostolo pare per lo meno contraddittorio che i cristiani si sottopongano al giudizio dei non cristiani. Com'è possibile che delle persone «santificate» (6,11; cfr. 1,2) e «giustificate» (ossia perdonate) da Cristo (cfr. 1,30) decidano di farsi giudicare da «ingiusti» (v. 1; cfr. 6,9)? Secondo Paolo non è giusto che ai tribunali civili facciano ricorso delle persone «sante» (vv. 2-3), che, alla fine dei tempi, saranno associate allo stesso Cristo risorto per giudicare tutti gli abitanti della terra (cfr. Mt 19,28; Ap 20,4) e persino gli angeli decaduti (cfr. Gd 5-6; 2Pt 2,4). Come mai, allora, i Corinzi accettano di riconoscere autorità a giudici pagani che, in ambito ecclesiale, non ne hanno affatto (v. 4)? E sì che i Corinzi, ironizza Paolo, pretendono di essere così sapienti (v. 5; cfr. 4,10)! Del resto, anche le comunità giudaiche dell'epoca avevano i propri tribunali, attribuendo loro il compito di dirimere le cause interne e vietando l'appello alla magistratura civile.

Incoerenza dei cristiani in lite L'argomentazione di Paolo si radicalizza, mostrando come tra i credenti in Cristo non dovrebbero nemmeno sorgere dei contrasti tali da spingerli ad appellarsi a tribunali, ecclesiastici o civili che siano. Anzi, Paolo aggiunge che, per evitare questo esito fallimentare della vita comunitaria, sarebbe meglio che i cristiani accettassero di subire ingiustamente la privazione dei propri beni (v. 7). Solo così imiterebbero davvero Cristo, che predicò (cfr. Mt 5,39-42; Lc 6,27-29) e visse la non-violenza, perché «insultato, non restituiva l'insulto, [...] ma si affidava a Colui che giudica con rettamente» (1Pt 2,23). Purtroppo, i cristiani di Corinto non solo non rinunciavano a rivendicare i propri diritti davanti a tribunali pagani, ma addirittura erano loro a commettere ingiustizie a scapito di altri membri della comunità, loro «fratelli» in Cristo (v. 8). Per convincerli a smettere di comportarsi così, Paolo mostra, con un'argomentazione generale su tutti i peccatori renitenti, quale sarà l'esito ultimo della loro caparbia condotta: l'esclusione dal «regno di Dio» (vv. 9-10). Dalla comunione gloriosa con Dio (cfr. 1Cor 15,28) saranno esclusi coloro che in questa vita avranno commesso ingiustizie o altri gravi peccati, che Paolo elenca riecheggiando probabilmente i cosiddetti «cataloghi dei vizi» delle filosofie del tempo, diffusisi a livello popolare (vv. 9c-10a; cfr. 5,10-11). Paolo inizia il suo elenco di vizi associando «fornicatori», «idolatri» e «adulteri» (v. 9). Poi aggiunge all'elenco anche gli «effeminati» e i «sodomiti» (cfr. 1Tm 1,10), designando gli uomini che hanno rapporti omosessuali rispettivamente in senso passivo e attivo. Anche in questa deplorazione dell'omosessualità maschile (per quella femminile cfr. Rm 1,26), Paolo si muove sulla scia della tradizionale polemica del giudaismo contro il paganesimo (cfr. Sap 14,26). Effettivamente, nel mondo pagano di allora, e, tanto più, a Corinto, erano in voga le relazioni omosessuali, spesso sotto forma di pedofilia. A conclusione dell'elenco di vizi, l'apostolo rammenta ai fedeli di Corinto che anch'essi vi erano immersi (v. 11). Non lo dice per umiliarli, quasi rinfacciando loro di essere rimasti peccatori come un tempo. Al contrario, lo fa per aiutarli a giungere a una piena consapevolezza dell'immenso dono ricevuto nel battesimo dal Signore Gesù, diventato per loro «sapienza, giustificazione, santificazione e redenzione» (1,30).

Sessualità e immoralità L'apostolo si è reso conto che alcuni cristiani di Corinto s'illudevano d'essere giunti alla vera sapienza (cfr. 1Cor 1,17-3,4), fraintendendo probabilmente il suo stesso insegnamento sull'essere liberati da Cristo (cfr. Rm 8,2-4; Gal5,1) e illuminati dallo Spirito Santo (cfr. 1Cor 2,13). Costoro finivano probabilmente per abbandonarsi agli sfrenati piaceri sessuali (6,12-13.15-16.18), né più né meno come numerosi loro concittadini pagani o come certi sedicenti filosofi del tempo, che rivendicavano di poter fare ciò che volevano, accampando il pretesto che solo i sapienti saprebbero discernere il bene dal male.

Accortosi della gravità di tale lassismo sessuale, acutizzata dalla sua deviante giustificazione teorica, Paolo reagisce con lucidità e decisione. Il suo intento è dimostrare che la libertà dei figli di Dio non è affatto libertinaggio. Perciò egli mette, in primo luogo, allo scoperto la capacità dei peccati sessuali di frantumare il corpo ecclesiale di Cristo (vv. 12-17) e poi evidenzia gli effetti disastrosi della fornicazione anche sulla persona che la pratica (vv. 18-20).

Anzitutto Paolo, riferendosi al detto sul «ventre», eufemismo per designare l'apparato sessuale, passa ad una concezione più armonica e completa del «corpo» umano e della sua relazione inscindibile con la stessa vita di fede (v. 13c). La sessualità umana non è riducibile a mera istintività o fisicità. Al contrario, essa è una dimensione fondamentale della relazionalità corporea, che rientra a pieno titolo nel rapporto con il Signore. Dopo di che, Paolo si concentra sul rapporto dei cristiani con Cristo. Se la corporeità permette alla persona di entrare in relazione con gli altri, nel caso dei cristiani diventa il modo per mantenersi in rapporto primariamente con il Signore (cfr. 1Cor 3,22-23; Rm 14,8; Gal 2,20).

L'apostolo richiama con forza i Corinzi a rimanere uniti a Cristo, che li ha comprati a caro prezzo, morendo in croce per loro (cfr. 6,20 e 7,23). Ma proprio perché i credenti in Cristo saranno risuscitati come lui, ossia con la loro stessa corporeità, e non solo con la loro anima (cfr. 15,44), essi non devono svilirla in comportamenti viziosi. Al contrario, devono cercare di costruire, per mezzo di essa, relazioni belle, buone e vere, che poi perdureranno, positivamente trasfigurate (cfr. 15,35-57), anche nell'aldilà.

Fin d'ora, grazie al battesimo, essi sono diventati, con i loro stessi corpi, «membra di Cristo» (6,15). In questo modo l'apostolo fonda la trattazione morale della persona – corporeità e sessualità in primis – sull'idea a lui cara di Chiesa come corpo di Cristo (cfr. 12,12-30; anche Rm 12,4-5; Ef 1,22-23; 5,23; Col 1,18-24). Ed è proprio alla luce di questa profonda consapevolezza ecclesiale che Paolo giunge a vietare, senza mezzi termini, che i cristiani abbiano rapporti sessuali con prostitute (vv. 15-16).

La relazione sessuale del cristiano impudico con una prostituta contraddirebbe il suo aver già fatto un tutt'uno con Cristo nel battesimo (cfr. 1Cor 12,12-13.27; Gal 3,27-28). Come potrebbe continuare a rimanere in comunione con Cristo nella celebrazione eucaristica un battezzato che si unisce peccaminosamente con una prostituta? Di certo, l'apostolo distingue l'unione sessuale con la prostituta, cioè il formare «un solo corpo (con lei)» (v. 16), dall'unione spirituale con Cristo (cfr. 2,11), ossia il diventare «un solo spirito (con lui)» (v. 17). Tuttavia, vista l'unitarietà della persona umana, congiungersi sessualmente a una prostituta significa, stando al passo della Genesi citato, diventare «una (sola) carne» (Gen 2,24) con lei. Ma questa unione sessuale illegittima con una donna sarebbe come smembrare il corpo di Cristo (cfr. 1Cor 1, 13), di cui i cristiani sono membra (v. 15).

In quest'ordine d'idee già s'intuisce come un cristiano entri in contraddizione con se stesso: di per sé, in quanto ha ricevuto il battesimo «in Cristo» (Gal 3,27; cfr. Rm 6,3), egli è di Cristo (cfr. 1Cor 3,23). Ma, avendo un rapporto sessuale con una prostituta, egli simultaneamente appartiene anche a lei, che vive in una condizione peccaminosa antitetica a Cristo. Questa specie di schizofrenia nei due rapporti in questione ha ripercussioni nocive non solo sul corpo ecclesiale di Cristo, ma primariamente sulla persona del cristiano peccatore. La profonda intuizione sviluppata qui da Paolo è che un uso distorto della sessualità non costituisca, come avrebbero potuto immaginare i Corinzi nell'orizzonte del dualismo greco-ellenistico, un'attività «al di fuori del suo corpo» (v. 18), bensì un disordine peccaminoso in grado di stravolgere l'intera persona. Perciò chi entra in rapporto sessuale con una prostituta commette un peccato anzitutto contro la propria persona, direttamente e complessivamente coinvolta in quell'atto. Non solo: commette anche un peccato contro lo Spirito Santo che abita in ogni cristiano. Tempio dello Spirito non è soltanto la comunità cristiana (cfr. 3,16-17), ma primariamente ogni cristiano (v. 19) che la costituisce.

Non va dimenticato che, qualche decennio prima dell'evangelizzazione paolina di Corinto, la città era diventata famosa nell'impero per il suo santuario dedicato alla dea Afrodite, nel quale un migliaio di sacerdotesse si dedicavano alla cosiddetta «prostituzione sacra». Unendosi sessualmente con loro, si credeva di entrare in comunione con la divinità dell'amore, dalla quale si riceveva in dono fecondità in famiglia, fertilità dei campi e benessere. Ovviamente, questo risvolto idolatrico rendeva i rapporti sessuali con le prostitute ancora più incompatibili con la fede cristiana.

Nella visione che Paolo ha dell'esistenza cristiana, con il battesimo si verifica come un passaggio di proprietà: i credenti non appartengono più semplicemente a se stessi (v. 19) perché sono stati comprati da Dio (v. 20; cfr. 7,23). Dio ha pagato un prezzo altissimo per riscattare gli uomini dalla loro schiavitù al peccato! (cfr., p. es., Rm 3,9; 6,6.12-14; 7,14). Da qui l'invito rivolto ai Corinzi, quasi fossero liberti del Signore (1Cor 7,22), di glorificare Dio nel loro corpo (v. 20; cfr. l Ts 4,4), evitando soprattutto di scivolare nell'immoralità sessuale, capace di schiavizzarli di nuovo (cfr. 1Cor 6,12).


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Condanna di un incestuoso 1Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di suo padre. 2E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti in modo che venga escluso di mezzo a voi colui che ha compiuto un’azione simile! 3Ebbene, io, assente con il corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato, come se fossi presente, colui che ha compiuto tale azione. 4Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù, 5questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore. 6Non è bello che voi vi vantiate. Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? 7Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! 8Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità. 9Vi ho scritto nella lettera di non mescolarvi con chi vive nell’immoralità. 10Non mi riferivo però agli immorali di questo mondo o agli avari, ai ladri o agli idolatri: altrimenti dovreste uscire dal mondo! 11Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: con questi tali non dovete neanche mangiare insieme. 12Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? 13Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi!

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Condanna di un incestuoso Di fronte alla permanente convivenza di un cristiano di Corinto con la moglie di suo padre, cioè con la sua matrigna (v. 1), Paolo interviene sollecitando la comunità cristiana a procedere con una vera e propria espulsione dell'interessato. Paolo procede con severità, biasimando l'incuranza superficiale e presuntuosa della comunità cristiana. Proprio perché essa non si è dispiaciuta affatto del comportamento di quel tale né, tanto meno, lo ha allontanato da sé, l'apostolo si sente in dovere d'intervenire (v. 2). Lo fa in maniera coerente alle norme essenziali stabilite dall'assemblea di Gerusalemme. Stando alla testimonianza degli Atti, gli apostoli (Paolo incluso) vi avevano confermato, anche per i pagani convertitisi alla fede cristiana, la proibizione dell'immoralità. Quindi, in conformità alla Legge mosaica (cfr. At 15,20-21), avevano vietato i rapporti incestuosi. Quando Paolo dettò la Prima lettera ai Corinzi, si trovava a Efeso (cfr. v. 3a) e non aveva la possibilità di recarsi a breve a Corinto (cfr. 16,8-9). Inoltre, la situazione sembrava essersi incancrenita: è verosimile che a quel punto sarebbe stato inutile rimproverare l'incestuoso, esortandolo a lasciare quella donna. Sta di fatto che Paolo non accenna nemmeno a tale possibilità. «Spiritualmente presente» tra i Corinzi (v. 3b), decreta l'espulsione di quel cristiano dalla Chiesa. E chiede che la sua decisione -di certo sofferta- presa «nel nome del Signore [nostro] Gesù» venga ratificata dalla comunità riunita «con la potenza del Signore nostro Gesù» (v. 4): per un atto così grave nei confronti di un credente, tutta la comunità, Paolo incluso, deve agire strettamente unita al Signore.

Lo scopo pedagogico di questa dura sanzione disciplinare è espresso in termini non immediatamente comprensibili: «questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore» (v. 5). Per capire questa espressione si deve tenere conto della visione antropologica dell'apostolo: per lui, la «carne» degli uomini è il terreno in cui Satana (come il «nemico» che ha seminato zizzania, da cui mise in guardia Gesù, Mt 13,24-30) ha sparso il seme del peccato (cfr. Rm 7,14-25), abbondantemente germinato all'interno dell'umanità. Paolo parla di «opere proprie della carne» che «sono manifeste: sono fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, magia, inimicizie, lite, gelosia, ire, ambizione, discordie, divisioni, invidie, ubriachezze, orge e opere simili a queste» (Gal5,19-21; cfr. Rm 13,13-14). Con questo modo d'intendere la «carne», si comprende che a spingere Paolo a sancire l'espulsione di quel peccatore dalla comunità cristiana è un ultimo filo di speranza: che cioè costui, una volta lasciato dalla Chiesa in balìa di Satana (cfr. Gb 2,6), soffra a causa del suo stesso peccato e giunga così a pentirsene. In altri termini, auspica che quel peccatore, accortosi d'essersi posto con il proprio comportamento immorale al di fuori del circuito vitale della comunione ecclesiale con il Signore, abbia il coraggio di sciogliere la sua convivenza incestuosa.

L'esortazione alla purificazione dal peccato rivolta da Paolo alla Chiesa corinzia prende le mosse da un'antica usanza giudaica: in vista delle celebrazioni pasquali, il pane fermentato veniva del tutto eliminato dalle abitazioni. Paolo interpreta il rituale pasquale ebraico alla luce della morte e della risurrezione di Cristo. Per lui l'antico esodo dalla schiavitù egiziana e la novità di un'esistenza liberata dal Signore trovano compimento nella vita dei credenti in Cristo, non più dominata del peccato (cfr. Rm 3,9; 6,6.12.14), ma animata dalla «sincerità» e dalla «verità» (1Cor 5,8). Da qui l'invito rivolto dall'apostolo ai fedeli di Corinto a essere «pasta nuova», grazie alla redenzione operata da Cristo (cfr. 1,30; 15,3), immolato sulla croce come l'antico agnello pasquale{v. 7; cfr. lPt 1,19). In concreto, l'apostolo li incita a disfarsi del «lievito vecchio» delle malvagità e della corruzione (cfr. Mt 16,6 e paralleli), così da essere come «azzimi» puri (vv. 7-8), ossia da vivere un'esistenza «pasquale» con Cristo risorto.

Allargando il discorso, Paolo precisa la questione delle relazioni che i credenti in Cristo non devono più intrattenere con altri cristiani che vivono in una condizione permanente di peccato. In una lettera precedente a questa, l'apostolo aveva già messo in guardia i fedeli di Corinto dal mescolarsi con chi viveva nell'immoralità sessuale (v. 9). Ora egli puntualizza che in quella missiva non intendeva riferirsi ai peccatori che non credono in Cristo, fossero essi fornicatori piuttosto che avari, predoni, idolatri (v. 10), diffamatori o ubriaconi (v. 11). La concezione paolina di Chiesa non è settaria, quasi che i credenti in Cristo dovessero fuggire dal mondo (v. 10) per poter vivere la propria fede al riparo da ogni contaminazione peccaminosa. Una concezione del genere era pur presente in alcune frange del giudaismo dell'epoca, come, per esempio, nei membri della comunità di Qumran o in alcuni gruppi della diaspora. Paolo, invece, precisa che la sua ammonizione anteriore aveva per oggetto i credenti in Cristo, che si dicono «fratelli», ma che in realtà perseverano in una condotta gravemente peccaminosa: con costoro sarebbe imprudente per i cristiani mantenere rapporti, per esempio, condividendone i pasti (v. 11).

In ogni caso, citando la Legge di Mosè che sanciva l'eliminazione degli idolatri dal popolo d'Israele attraverso la lapidazione (cfr. Dt 17,7), Paolo ammonisce la comunità corinzia a essere risoluta nell'allontanare i propri membri che rifiutano di convertirsi da peccati gravi come quelli qui elencati (v. 13). Specialmente in un contesto d'immoralità dilagante come quello di Corinto, consentire ai credenti in Cristo di tornare a comportarsi peccaminosamente come prima della conversione avrebbe significato condannare la Chiesa all'autodistruzione. Resta così giustificata la pena medicinale dell'espulsione dell'incestuoso dalla comunità cristiana, mentre per quanto riguarda i pagani, con cui i cristiani inevitabilmente entravano in contatto, l'apostolo non si pronuncia affatto.


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Rapporti pastorali autentici dei Corinzi con i ministri 1Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. 2Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele. 3A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, 4perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore! 5Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode. 6Queste cose, fratelli, le ho applicate a modo di esempio a me e ad Apollo per vostro profitto, perché impariate dalle nostre persone a stare a ciò che è scritto, e non vi gonfiate d’orgoglio favorendo uno a scapito di un altro. 7Chi dunque ti dà questo privilegio? Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto? 8Voi siete già sazi, siete già diventati ricchi; senza di noi, siete già diventati re. Magari foste diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi. 9Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. 10Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. 11Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo percossi, andiamo vagando di luogo in luogo, 12ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; 13calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi.

Invito all'imitazione di Paolo 14Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. 15Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo. 16Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!

Visita di Timoteo a Corinto 17Per questo vi ho mandato Timòteo, che è mio figlio carissimo e fedele nel Signore: egli vi richiamerà alla memoria il mio modo di vivere in Cristo, come insegno dappertutto in ogni Chiesa.

Visita di Paolo a Corinto 18Come se io non dovessi venire da voi, alcuni hanno preso a gonfiarsi d’orgoglio. 19Ma da voi verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto non già delle parole di quelli che sono gonfi di orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare. 20Il regno di Dio infatti non consiste in parole, ma in potenza. 21Che cosa volete? Debbo venire da voi con il bastone, o con amore e con dolcezza d’animo?

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Rapporti pastorali autentici dei Corinzi con i ministri Da questo passo della lettera affiora la tensione intercorrente tra lui e i destinatari, ma l'apostolo cerca di ristabilire un buon rapporto con la Chiesa corinzia. Paolo precisa il dovere che scaturisce dal ministero, vale a dire l'affidabilità del servo (4,2), che è l'opposto dell'arbitrarietà del padrone. Considerando che egli sta svolgendo una missione ricevuta proprio da Dio, la comunità dovrebbe già sentirsi inadeguata a giudicare lui o qualche altro autentico ministro di Dio. L'unico che può chiedergli conto del suo operato, come di certo farà, alla fine dei tempi, è il Signore (vv. 4-5). Lui sì che metterà allo scoperto ogni atto, anche quello più nascosto, e ogni intenzione (v. 5). Per accentuare quanto gli prema unicamente il giudizio di Dio, Paolo dichiara di non voler nemmeno giudicare se stesso. L'argomentazione sa quasi d'assurdo; tant'è che l'apostolo tiene ad aggiungere che in coscienza sa di non aver commesso «(colpa) alcuna» (v. 4) contro la comunità. Quindi, i Corinzi non possono sentirsi autorizzati a giudicarlo. Paolo, con il suo ragionamento, tenta di aiutare i Corinzi a superare la tentazione di giudicare gli altri, quasi anticipando il giudizio universale di Dio, che comunque spetta soltanto a lui (cfr. v. 5). L'apostolo non cerca d'evitare subdolamente qualsiasi critica o rimprovero che la comunità cristiana potrebbe legittimamente e utilmente fargli. Pare piuttosto che egli voglia insegnare ai Corinzi a non scivolare in un atteggiamento critico nei suoi confronti, dettato dalla sapienza mondana. Le conseguenze sarebbero deleterie non solo per lui, ma soprattutto per loro.

Paolo tiene a esplicitare che osa scrivere loro certe cose (cfr. 3,4-9) per il loro stesso bene (v. 6). Anzi, per superare i rischi di un'ammonizione astratta o moralistica, l'apostolo si propone loro come modello di vita cristiana. Per mezzo di una serie di domande, Paolo mostra come tutto nella vita, personale ed ecclesiale, è grazia. Non c'è nulla di buono, di bello e di vero che non sia frutto dell'amorevole provvidenza di Dio (cfr. Rm 8,28). Ma se così è, non c'è motivo alcuno perché un credente possa vantarsi quasi che una determinata cosa o persona fosse sua. Da qui sgorga il sarcasmo di Paolo sull'orgoglio che rovina i rapporti intraecclesiali a Corinto e, in particolare, le tensioni con cui una parte della comunità si relaziona con lui. Il grave pericolo che stanno correndo alcuni fedeli è di sentirsi nella vita cristiana come degli «arrivati». Come l'apostolo rinfaccia loro con ironia, essi credono di «essere giunti al regno» di Dio; sono «sazi» (v. 8); pensano di avere la coscienza a posto con il Signore, soltanto perché sono entrati a far parte di una delle fazioni della Chiesa corinzia e possono contare orgogliosamente sull'insegnamento del capo carismatico del proprio gruppo, giudicando gli altri leader (cfr. v. 6). Magari, sembra augurarsi Paolo, fossero entrati nel regno di Dio! Anch'egli ne gioirebbe con loro. Ma l'apostolo qui gioca d'ironia. Come avrebbero potuto i Corinzi accedere al regno di Dio senza di lui, che ancora vive tra le mille difficoltà del ministero (v. 8)?

Con tonalità sempre più sarcastica, Paolo mette a confronto l'atteggiamento presuntuoso dei Corinzi con il proprio comportamento, che poi, visto che egli usa la prima persona plurale, coincide con il comportamento dei veri «servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (4,1). Ciò che vuole confessare è anzitutto l'atteggiamento interiore con cui ha affrontato difficoltà e pericoli nel ministero «a causa di Cristo» (v. 10). Coltivando in sé «lo stesso sentire che fu anche in Cristo Gesù» (Fil 2,5), che ha benedetto chiunque lo insultasse; ha perseverato nella fede nelle persecuzioni; ha ricambiato le calunnie con esortazioni positive e consolazioni (vv. 12-13). Questa scelta di mitezza e di non violenza, anzi di vero e proprio sacrificio spirituale (cfr. Rm 12,1; Fil 2,17) «a causa di Cristo» (v. 1O) e per amore dei suoi figli spirituali di Corinto (cfr. 4,6), consente di comprendere la concezione che Paolo ha del ministero ecclesiale e, quindi, anche dei rapporti di una comunità cristiana con i propri ministri: attraverso una vita che partecipa misteriosamente alla stessa passione di Cristo, costoro sono chiamati in primo luogo a rendere percepibile ai fedeli, nel modo più nitido possibile, il «sentire che fu anche in Cristo Gesù» (Fil 2,5), sintetizzabile in un 'unica parola: «carità» (agape; cfr. 1 Cor 13). Nella misura in cui i Corinzi comprenderanno ciò, riusciranno a superare le rivalità interne alla loro comunità.

Invito all'imitazione di Paolo Con la tenerezza ma anche con la preoccupazione di un padre, invita i propri figli spirituali di Corinto a imitare il suo stile di vita evangelico (v. 16). È convinto che, se imiteranno lui, si troveranno a imitare Cristo. Difatti, l'apostolo stesso cerca sempre d'imitare Cristo (11,1; cfr. 1Ts 1,6), sia pure in maniera creativa, ossia attualizzando in modo originale nella propria vita i valori rivelati dal Maestro, come l'obbedienza a Dio Padre (cfr. Gv 15,10), il servizio degli altri (cfr. Mt 20,28 e il parallelo Mc 10,45; Lc 22,26-27; Gv 13,14-15) e, più in genere, l'amore vicendevole (cfr. Gv 13,34; 15,12). Certamente si rende conto di essere stato severo nel suo richiamo, giunto quasi alla derisione dei suoi interlocutori. Ma non lo ha fatto per umiliarli (v. 14), bensì per farli maturare. Del resto, questo è il compito di un padre che ama i suoi figli. E Paolo, pur essendo al corrente che alcuni cristiani di Corinto non possono sopportarlo, si rivolge comunque a tutti chiamandoli «figli miei amati» (v. 14). Dunque, è lui il loro padre nella fede, a differenza dei missionari giunti in città dopo di lui: a rigor di logica, costoro non possono essere considerati loro padri, perché non li hanno generati alla vita cristiana come ha fatto lui. Al massimo, possono essere ritenuti loro «pedagoghi in Cristo» (4,15; cfr. Gal 3,24-25). In quell'epoca, il pedagogo era lo schiavo di fiducia che aveva specialmente il compito di «condurre» il «figlio» del padrone a scuola, sorvegliandolo e, se necessario, anche obbligandolo ad andarvi: mentre ai pedagoghi bisogna obbedire, un padre va amorevolmente imitato.

Visita di Timoteo a Corinto Del resto, Paolo stesso, per aiutarli a perseverare nella vita cristiana, imitando il suo stile, ha mandato a Corinto un suo fedele collaboratore: Timoteo (cfr. At 19,22); tiene a precisare che Timoteo è per lui ben più di un collaboratore: è un figlio carissimo (v. 17a), che essi già conoscono perché egli prese parte alla prima evangelizzazione di Corinto (cfr. At 18,5). Essendo legato a Paolo da affetto filiale, egli potrà ricordare ai «fratelli» di Corinto come il loro comune padre vivesse evangelicamente; più esattamente: come Paolo vivesse in Cristo (v. 17b), perché Cristo stesso viveva «in» lui (Gal 2,20), per cui per l'apostolo «vivere» era «Cristo» (Fil 1,21 ). Timoteo, paradossalmente, non dovrà far altro. Paolo non gli ha dato un compito preciso. Il rimedio pastorale suggerito discretamente da Paolo a missionari come Apollo è di proporsi come modelli di vita da imitare.

Visita di Paolo a Corinto Paolo sente il desiderio di tornare a Corinto (v. 18a). Ma mentre espone questo progetto pastorale, gli tornano di nuovo in mente alcuni di loro, che non vivono all'insegna dell'umile sapienza salvifica di Cristo crocifisso, bensì di atteggiamenti orgogliosi. Questi tali s'illudevano che Paolo, una volta fondata una Chiesa, non tornasse più a farle visita. Paolo mette in guardia i Corinzi, e in specie quelli che si gonfiavano di superbia, che, alla sua venuta, potrebbe usare anche il «bastone» (v. 21), ossia maniere molto severe, per mettere fine a certi comportamenti. Ma il fatto stesso che questo avvertimento sia una domanda retorica lascia intendere ai suoi interlocutori che dipende da loro avere a che fare con il Paolo severo piuttosto che amorevole, come in realtà egli desidererebbe essere.


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Immaturità dei Corinzi 1Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a esseri spirituali, ma carnali, come a neonati in Cristo. 2Vi ho dato da bere latte, non cibo solido, perché non ne eravate ancora capaci. E neanche ora lo siete, 3perché siete ancora carnali. Dal momento che vi sono tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera umana? 4Quando uno dice: «Io sono di Paolo», e un altro: «Io sono di Apollo», non vi dimostrate semplicemente uomini?

Identità e compiti dei veri ministri 5Ma che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori, attraverso i quali siete venuti alla fede, e ciascuno come il Signore gli ha concesso. 6Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. 7Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. 8Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. 9Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio. 10Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. 11Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. 12E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, 13l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. 14Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. 15Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco. 16Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? 17Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.

La comunità è di Cristo 18Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, 19perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia. 20E ancora: Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani. 21Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: 22Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! 23Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Immaturità dei Corinzi Paolo torna a considerare il problema pastorale di partenza, vale a dire le fazioni che rischiavano di disgregare la Chiesa corinzia. Di per sé i cristiani di Corinto non sono «uomini carnali», dato che hanno ricevuto lo Spirito santo nel battesimo. Ciò nonostante si stanno comportando «come» tali, perché resistono all'influsso positivo esercitato in loro dallo Spirito. Per questo finiscono per cedere a comportamenti «carnali», ossia peccaminosi, quali la gelosia e le liti. Al tempo della prima evangelizzazione della città di Corinto l'apostolo aveva dovuto adeguarsi alla loro immaturità, limitandosi a esporre i rudimenti della dottrina cristiana (cfr. Eb 5,11-12; 1Pt 2,2), senza poter approfondire il discorso sul mistero sapiente di Dio manifestatosi in Cristo (cfr. 1Cor 2,1.7). Forse che a neonati, capaci di bere soltanto latte, si può dar da mangiare cibo solido? Tale era la condizione iniziale dei Corinzi (vv. 1-2a)! Lo si poteva comprendere proprio perché si era agli inizi. Purtroppo, però, i Corinzi non sono ancora maturati (v. 2b), tant'è che Paolo si vede costretto a richiamarli per l'atmosfera d'invidia e di contesa che sta soffocando mortalmente la comunità cristiana. Si tratta di un segno inequivocabile di carnalità, ossia di peccaminosità (v. 3).

Identità e compiti dei veri ministri Per far comprendere anche ai fedeli più semplici di Corinto come vanno considerati i ministri e qual è la loro funzione principale, Paolo ricorre a due immagini, una agricola (vv. 5-9) e l'altra edile (vv. 10-17). Per scuotere i suoi ascoltatori da un attaccamento nocivo ad Apollo e anche a lui stesso, Paolo si rivolge loro con due domande provocatorie: «Che cos'è Apollo? E che cos'è Paolo?». La risposta è lapidaria e lascia emergere tutta l'umiltà di Paolo, che sa di essere soltanto un «servo». L'unico orizzonte in cui comprendere le figure dei ministri nella Chiesa è quella del servizio alla fede della gente (v. 5). In una Chiesa autentica dovrebbe essere il contrario: non dovrebbero essere i fedeli a servire i ministri, ma i ministri a servire i fedeli. E costoro non dovrebbero appartenere né a Paolo né ad Apollo (3,4; cfr. 1,12), ma unicamente a Cristo (cfr. 3,23).

Per quanto semplice, l'immagine agricola è in grado di purificare nei ministri qualsiasi tentazione di protagonismo ecclesiastico: i missionari che annunciano il Vangelo e che fondano le comunità cristiane, ma anche i ministri che poi le dirigono, non devono legare a sé i fedeli, ma devono condurli a Cristo.

Rispetto alla similitudine agricola, quella edile si colora di un aspetto ulteriore perché l'«edificio di Dio» (v. 9) è il suo «tempio» (vv. 16-17). Perciò, in primo luogo, Paolo può ribadire, per mezzo di questa similitudine, la centralità di Cristo nella vita ecclesiale: ogni edificio, sacro o profano che sia, ha delle fondamenta; analogamente, la Chiesa ha come suo unico fondamento Cristo (v. 11). Del resto, si potrebbe ampliare a questo livello ecclesiale quanto Gesù spiegava in termini parabolici sulla possibilità di costruire la propria casa sulla sabbia piuttosto che sulla roccia (cfr. Mt 7,24-27; parallelo a Le 6,47-49). Ma all'interno del paragone edile della comunità cristiana come una specie di cantiere sempre aperto in vista della costruzione di un edificio di Dio nella storia, Paolo focalizza l'attenzione sul compito architettonico dei missionari. Sostiene così che ci sono due tipi di costruttori di comunità cristiane. Il primo, che si comporta come un architetto esperto, fonda la vita di una Chiesa su Cristo (v. 10b). Il secondo tipo di ministro tenta di edificare la Chiesa su un fondamento diverso da Cristo o con materiali scadenti come il fieno o la paglia (v. 12), cioè, fuori dall'immagine, pervertendo il Vangelo e finendo per distruggere la stessa comunità cristiana.

Nel giorno del giudizio finale (v. 13; cfr. 4,3), alla prova del fuoco dell'amore divino apparirà inequivocabilmente il valore dell'operato dei ministri della Chiesa: alcuni riceveranno una ricompensa divina per aver fondato la comunità su Cristo e averla fatta maturare mediante una saggia cura pastorale (v. 14). Per altri, invece, sarà come scampare all'incendio di un edificio (v. 15), perché, pur avendo lavorato per Cristo e per la sua Chiesa, non l'hanno costruita in modo giusto, per cui è crollato tutto.

A questo punto, Paolo rammenta ai Corinzi la loro identità profonda di «tempio di Dio» in cui abita lo Spirito Santo (v. 16). Come l'apostolo spiegherà in seguito, i credenti in Cristo possono vivere fin d'ora in un permanente rapporto «spirituale» con lui. Abbeveratisi al suo Spirito nel battesimo (cfr. 12,13), ora possono rimanere in comunione con il suo corpo grazie all' eucaristia (10, 16-17). Giunge così a compimento per loro la promessa della nuova alleanza fatta da Dio attraverso il profeta Ezechiele: «Metterò il mio spirito dentro di voi, farò sì che osserviate i miei decreti e seguiate le mie norme» (36,27; cfr. 11, 19-20). Mediante questo influsso interiore esercitato dallo Spirito Santo sui cristiani, per suscitare in loro la medesima carità di Cristo (cfr. 1Cor 13; 2Cor 5,14; Fil2,5), la Chiesa è assimilata a Cristo stesso, diventandone il corpo visibile nella storia. Ma se per i cristiani il tempio di Dio non è tanto un edificio materiale, quanto piuttosto il corpo di Cristo crocifisso e risorto (cfr. Mc 14,58; 15,29 e paralleli; Gv 2,19- 21 ), allora la Chiesa, fondata su Cristo, diventa nel modo il luogo stabile della sua presenza, ossia il tempio di Dio. Anzi, per Paolo, lo stesso singolo credente è inabitato dallo Spirito Santo (1Cor 6, 19-20). Questa inabitazione dello Spirito Santo nella comunità cristiana implica, da un lato, una sua consacrazione (v. 17b) e, dall'altro, una grave responsabilità per i membri di questo «santo tempio di Dio» e, in particolare, per i suoi ministri: chiunque operasse per la sua distruzione, oltraggerebbe Dio stesso, compirebbe un sacrilegio; per cui andrebbe incontro alle conseguenze deleterie delle proprie colpe (v. 17a).

La comunità è di Cristo Riprendendo il concetto di «sapienza di questo mondo» (v. 19; cfr. 1,20-21; 2,6), Paolo invita i Corinzi a non lasciarsi irretire da essa. Altrimenti, continuerebbero a impostare rapporti inautentici con i ministri della Chiesa. Ciò che conta, allora, non è essere «di Paolo», «di Apollo» o «di Cefa» (cfr. 1,12; 3,4), ma essere esclusivamente «di Cristo» e, quindi, «di Dio» (v. 23). I ministri della Chiesa, come l'intera creazione, sono a servizio dei credenti perché, a loro volta, essi possano servire Cristo e, mediante lui, possano servire Dio stesso, facendo «tutto per la gloria di Dio» (10,31).


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Debolezza dell'apostolo e potenza di Dio 1Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. 2Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. 3Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. 4La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, 5perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

Sapienza dei “perfetti” 6Tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla. 7Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. 8Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. 9Ma, come sta scritto: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. 10Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio. 11Chi infatti conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. 12Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. 13Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. 14Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito. 15L’uomo mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. 16Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Debolezza dell'apostolo e potenza di Dio La consapevolezza che Dio manifesti la sua potenza salvifica attraverso la debolezza degli apostoli che s'affidano a lui (cfr. 2Cor 12,9-10) era progressivamente maturata in Paolo proprio grazie alle difficoltà da lui affrontate prima di giungere a Corinto. In quel lasso di tempo, aveva già affrontato gravi opposizioni a Filippi, a Tessalonica e a Berea (cfr. At 16,11-17,15). Probabilmente non meno traumatico, dal punto di visto psicologico, era stato per lui lo scontro con lo scetticismo degli Ateniesi (At 17,16-34). Anzi, anche a Efeso; da cui invia la Prima lettera ai Corinzi, sta ancora fronteggiando ostacoli e patimenti non indifferenti. Si comprende perché l'apostolo, senza falsi pudori, ricorda ai Corinzi lo stile dimesso con cui aveva iniziato ad annunciare loro il Vangelo (v. 3). Presumibilmente ferito dalla delusione ateniese (cfr. At 17,32), Paolo aveva smesso di cercare di essere umanamente avvincente (cfr. v. 4). Al contrario, l'annuncio paolino del «mistero di Dio» (v. 1) si concentrò su Cristo crocifisso (cfr. 1,18.23). In fondo la sua predicazione prendeva parte alla debolezza estrema del Crocifisso (cfr. 2Cor 13,4). Eppure, paradossalmente, essa mostrò di possedere una «potenza» salvifica divina (1Cor 1,18.24-25; cfr. 1Ts 1,5) capace di far germogliare dal nulla una comunità cristiana. Così, facendo memoria dell'evangelizzazione di Corinto, l'apostolo riesce a vedervi una nitida «conferma dello Spirito e della sua potenza» (v. 4; cfr. At 1,8). L'apostolo riconosce l'influsso positivo esercitato dallo Spirito Santo sia sugli evangelizzatori che sugli evangelizzati: è fermamente convinto che sia stato proprio lo Spirito a spingere misteriosamente gli uditori a convertirsi, rendendo efficace la sua attività missionaria (cfr. 1Cor 14,25; anche Rm 15,19; 1Ts 1,5).

Sapienza dei “perfetti” L'apostolo ammette che per lo meno tra cristiani «perfetti», cioè maturi nella fede (cfr. 14,20c), si possa parlare di «sapienza». Paolo dichiara ripetutamente di essere depositario anch'egli di una sapienza, che però è quella insegnata ai credenti dallo Spirito di Dio (vv. 4.10.13). Questo genere di sapienza, eterna come Dio (v. 7; cfr. Rm 16,25), è rimasta nascosta ai «governanti di questo mondo» perverso (v. 8; cfr. Gal 1,4), accecati dalla potenza demoniaca di questo stesso mondo (cfr. 2Cor 4,4; anche Gv 12,31; 14,30; 16,11). Ma Dio, tramite Cristo (cfr. Rm 16,26-27), l'ha rivelata ai fedeli «che lo amano» (v. 9; cfr. 8,3), per condurli all'esistenza gloriosa con lui (v. 7; cfr. 15,43). In negativo, l'apostolo esclude che possano accedere a questa sapienza divina i potenti della terra e, in particolare, le autorità giudaiche e romane che misero a morte Cristo. Tant'è vero che, se costoro avessero conosciuto la sapienza divina, rivelata definitivamente da Cristo, non l'avrebbero crocifisso (vv. 7-8).

Paolo al v. 9 fa una silloge di passi dell'Antico Testamento (Is 64,3; 65,16; 52,15 e Sir 1,10), citandoli liberamente alla luce di Ba 3,31.37 e anche di Gb 28,21-23 (LXX). Mostra, così, che Dio dona la sua sapienza alle persone che si predispongono ad accoglierla con amorevole riconoscenza. Chi non ha questo affetto credente per il Crocifisso risorto, che ora vive da «Signore della gloria» (v. 8), non è in grado di comprendere la vera sapienza divina. S'intuisce già che, per Paolo, la condizione per accedere alla sapienza divina e diventare cristiani «perfetti» (v. 6) non è la conoscenza (o «gnosi»), ma l'amore (cfr. 13,2; ma anche Mt 19,21).

Paolo tiene a mettersi tra i cristiani che amano Dio (cfr. v. l0: «noi») e che hanno ricevuto in dono dallo Spirito Santo (cfr. 2,4) la rivelazione della sua misteriosa sapienza. Cercando così di spiegare questo ruolo rivelatore dello Spirito Santo e il suo rapporto con Dio, l'apostolo istituisce un paragone audace tra lo Spirito di Dio e lo spirito umano: come lo spirito umano (che potremmo definire in termini attuali come la coscienza di sé) è in grado di comprendere anche gli aspetti più nascosti della persona, così lo Spirito Santo è a conoscenza da sempre dei segreti più reconditi di Dio (v. 11). Perciò è vero che gli uomini, da soli, non ce la farebbero ad accedere alla sapienza del Dio trascendente. Ma è altrettanto vero che riescono a comprenderne gli aspetti essenziali per salvarsi (cfr. 2,7) grazie all'assistenza dello Spirito di Dio (v. 12; cfr. Gv 16,8-15), tramite il quale Dio stesso la manifesta (cfr. Mt 11,25-27; Le 10,21-22).

Coerentemente, Paolo può a questo punto ribadire d'aver comunicato ai fedeli maturi o «spirituali» di Corinto verità «spirituali», cioè «insegnate» anche a lui dallo stesso Spirito di Dio, e non conquistabili con la «sapienza umana» (v. 13). Difatti, l'«uomo naturale» (in greco «animale»), cioè l'essere umano guidato unicamente dall'«anima», non riesce a cogliere verità di fede come quella del valore salvifico della croce di Cristo. Semplicemente la croce gli appare una stupidaggine (v. 14; cfr. 1,18). Al contrario, l'«uomo spirituale» diventa capace di comprendere anche queste verità spirituali, così misteriose, perché ha accolto in sé lo Spirito di Dio (cfr. Gv 3,5-8). Grazie ai suggerimenti dello Spirito, l'«Uomo spirituale» impara a giudicare ogni realtà, senza essere «giudicato da nessuno» (v. 15); il che non significa che l'«uomo spirituale» (o surrettiziamente Paolo stesso!) sia dotato magicamente dell'infallibilità e neppure che possa permettersi di vivere «al di là del bene e del male», senza rendere conto a nessuno (cfr. 14,29; anche 1Ts 5,22). Vuol dire piuttosto che lo Spirito Santo, come un maestro interiore, lo aiuta in ogni situazione della vita a discernere, alla luce del Vangelo, ciò che è bene da ciò che è male (cfr. Rm 12,2). Perciò, come poi Paolo dirà di sé (cfr. 1Cor 4,3-4), per l'uomo spirituale il criterio ultimo di giudizio sulla realtà è quello che gli è donato dal Signore, ossia la perfezione nella carità (cfr. 13,10).

In sostanza, la vera sapienza divina consiste in questa capacità di discernimento spirituale, lo conferma anche la citazione d'Isaia (40,13) in 2,16. Per questo l'apostolo può concludere: avendo anche lui, con gli altri cristiani, la «mentalità del Signore», ossia lo Spirito Santo «proveniente da Dio» (2,12) ed effuso dal «Signore della gloria» (2,8), ha ricevuto in dono la rivelazione della sapienza divina (cfr. Gal1,15-16), così da poterla condividere con i fedeli maturi di Corinto (1Cor 2,l0.13). Così, rifiutando di atteggiarsi da maestro di retorica, Paolo è stato un autentico maestro della sapienza di Dio.


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Indirizzo e saluto 1Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, 2alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: 3grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!

Preghiera di ringraziamento 4Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, 5perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza. 6La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente 7che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. 8Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. 9Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!

Invito all'unità della Chiesa 10Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. 11Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. 12Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo». 13È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo? 14Ringrazio Dio di non avere battezzato nessuno di voi, eccetto Crispo e Gaio, 15perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome. 16Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefanàs, ma degli altri non so se io abbia battezzato qualcuno. 17Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.

Stoltezza della croce e sapienza del mondo 18La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. 19Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. 20Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? 21Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. 22Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, 23noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; 24ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. 25Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.

Elezione divina dei cristiani di Corinto 26Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. 27Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; 28quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, 29perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. 30Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, 31perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Indirizzo e saluto Paolo ci tiene a presentarsi come «apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio». A differenza della Prima e della Seconda lettera ai Tessalonicesi (cfr 1Ts 1,1; 2Ts 1,1), in cui i mittenti (Paolo, Silvano e Timoteo) sono messi sullo stesso piano, senza alcun titolo, qui Paolo preferisce sottolineare la propria identità apostolica. È verosimile che lo faccia perché nella comunità cristiana di Corinto, come altrove, alcuni missionari cristiani d'origine giudaica (proprio come lui, cfr. 2Cor 11,22-23), gli si oppongono, misconoscendone l'autorità apostolica, di conseguenza, egli tiene a sottolineare l'origine divina della propria vocazione: pur non avendo vissuto con il Gesù terreno, anch'egli lo ha visto risorto (1Cor 9,1; 15,8) sulla via di Damasco (cfr. At 9,1-19; 22,6-21; 26,12-18); Dio stesso ha rivelato «in» lui (Gal 1,15-16), nel suo cuore (2Cor 4,6), il Figlio Gesù, che lo ha inviato in missione.

Per gli Ebrei, professare Gesù Cristo come «Signore» suonava come una bestemmia scandalosa. Lo scandalo dell'attribuzione all'uomo Gesù di Nazareth del «nome» Kyrios («Signore») sta nel fatto che con questo sostantivo era tradotto in greco il tetragramma sacro ebraico (YHWH), ossia lo stesso nome proprio del Dio d'Israele. Eppure, nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo, evocando forse una formula primitiva di professione di fede cristiana, attesta qui (e soprattutto in 8,6) che i cristiani proclamavano così la propria fede in Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, loro «Signore» e loro Dio (cfr. Gv 20,28).

Preghiera di ringraziamento Paolo eleva a Dio, fin dall'inizio, un rendimento di grazie. Per certi aspetti, ricalca così lo stile dei ringraziamenti protocollari tipici degli scritti epistolari dell'epoca. Ma fin dal semplice cenno che Paolo fa all'intimità della preghiera rivolta al «suo» Dio (v. 4; cfr. anche Rm 1,8; Fil 1,3; Fm 4), questo ringraziamento si distanzia da quelli del tutto convenzionali che erano in uso a quell'epoca. Paolo ringrazia Dio perché la comunità dei Corinzi ha raggiunto una certa stabilità (v. 6), che le consente di attendere il ritorno glorioso di Cristo risorto alla fine dei tempi (vv. 7-8; cfr. Fil 3,20; anche Tt 2,13), vivendo fin d'ora in comunione con lui. Dunque, i rimproveri severi e sarcastici che pure Paolo dovrà fare ai Corinzi per i loro comportamenti scandalosi (cfr. 1Cor 4,8-13.21; 5,3-5) s'inquadrano, a ogni modo, in quest'orizzonte di grazia, che segna il passato, il presente e anche il futuro della loro comunità.

Invito all'unità della Chiesa In questa prima sezione Paolo inizia ad affrontare il problema molto preoccupante dei contrasti interni alla comunità, di cui è venuto a sapere da alcuni cristiani provenienti da Corinto (vv. 10-12). La situazione deleteria dovuta alle contese interne alla comunità (v. 11), Paolo lascia trapelare il proprio disappunto per questo scandalo ecclesiale. Dati alla mano, elenca espressamente i gruppuscoli di Corinto e i leader cui essi si appellavano (v. 12) con entusiasmo infantile (cfr. 3, 1-2). Una prima fazione, verosimilmente progressista, si vantava di far parte del gruppo dello stesso Paolo. Un secondo gruppo, probabilmente d'intellettuali, si rifaceva ad Apollo, colto conoscitore della sacra Scrittura e abile predicatore giudeo-cristiano (cfr. At 18,24-28). A differenza di Paolo (cfr. 2Cor 10,10; 11,6), costui avrà esercitato, proprio per la sua capacità oratoria, un notevole fascino sui Corinzi, che nutrivano una stima particolare per i doni della parola (cfr. 1Cor 1,5; 12,8.28; 14,26). Un'altra tendenza, forse più conservatrice e di matrice giudaica, si atteneva fedelmente agli insegnamenti di Cefa, cioè dell'apostolo Pietro (cfr. 1Cor 3,22; 9,5; 15,5), considerato come una delle tre «colonne» della Chiesa madre di Gerusalemme (Gal 2,9). Infine, Paolo ricorda un'ultima parola d'ordine: «Io [sono] di Cristo!» (1Cor 1,12). Forse, però, in questo caso, egli non menziona un'ultima fazione, ancora più integralista di quella petrina; ma esprime la propria posizione personale, smarcandosi con insofferenza dalle precedenti. Potremmo parafrasare così quest'ultimo slogan: «Voi, Corinzi, vi gloriate di appartenere a un gruppo piuttosto che a un altro. A me, invece, basta essere di Cristo!». In ogni caso, il richiamo paolino è chiaro, anche se espresso con un interrogativo retorico: «Cristo è stato diviso?». La risposta che l'apostolo suggerisce ai faziosi di Corinto è che la persona di Cristo non è stata divisa, per cui nemmeno può esserlo la Chiesa, che (come poi spiegherà l'apostolo) è il corpo di Cristo (cfr. 10,17; 12,12-27). Dunque, non è concepibile che il suo corpo ecclesiale sia spezzato in tanti frammenti quanti sono i gruppuscoli di Corinto.

La severità dell'ammonizione di Paolo è dovuta al fatto che egli si è accorto che il culto della personalità di alcuni leader della comunità (magari contro la loro stessa volontà) si radicava in un fraintendimento del battesimo. I missionari che amministravano il battesimo apparivano, agli occhi di alcuni, più importanti di Cristo stesso. Il battesimo è celebrato in nome di Cristo (vv. 13.15; cfr., p. es., At 2,38; 8,16), e non dei pastori che lo amministrano: Paolo, Apollo, Cefa o chiunque altro. Quindi, se Paolo ha battezzato soltanto pochi dei convertiti di Corinto e, a ogni buon conto, non ha battezzato nessuno «in suo nome», significa che dichiarare di «essere di Paolo» è del tutto indebito. In realtà il battesimo è far memoria della morte e della risurrezione di Cristo. Solo lui è morto in croce a favore degli uomini (v. 13). Di conseguenza, la comunità cristiana ha per unico fondamento Cristo, non i suoi ministri.

Stoltezza della croce e sapienza del mondo L'unico fondamento della Chiesa è l'evento pasquale di Cristo, che, nel suo duplice versante di morte e di risurrezione, appare contraddittorio dal punto di vista puramente razionale: dalla morte non potrebbe sgorgare la vita. Ciò nonostante, la morte e la risurrezione di Cristo costituiscono l'avvenimento attraverso cui Dio Padre si è rivelato in maniera definitiva e insuperabile come amore onnipotente (cfr. 2Cor 13,4), facendo sgorgare dalla morte di suo Figlio Gesù vita eterna per lui e per tutti i credenti in lui (cfr. 1Cor 15,22.45; Rm 5,17.21; 8,11). Di conseguenza le persone che si chiudono nella sapienza orgogliosa di questo mondo non solo non hanno riconosciuto il Dio creatore nelle opere sapienti delle sue mani (v. 21b; cfr. Rm 1,19-20, che cita Sap 13,5), ma ora rifiutano persino di credere alla predicazione apostolica della croce, attraverso la quale Dio intende salvare l'umanità (v. 21b). A costoro sembra stupido credervi, per cui s'incamminano verso la perdizione eterna. Chi, invece, accoglie con fede tale annuncio, sperimenta la potenza salvifica di Dio (v. 18; cfr. 2Cor 2,15-16).

Come risulta anche dalla Lettera ai Galati (cfr. 3,13), Paolo si rende conto, dopo un ventennio di predicazione agli Ebrei, come per gran parte di loro la morte in croce di Gesù non possa essere il vertice della manifestazione di Dio, perché la Legge mosaica, rivelata da Dio stesso, sanciva una terribile maledizione divina su chi fosse condannato a quel supplizio capitale (cfr. Dt 21 ,22-23). Quindi la predicazione di Paolo incentrata su un Messia crocifisso provocava scandalo nella maggioranza degli interlocutori ebrei, ossia costituiva una pietra d'inciampo per la loro fede.

Per Paolo, invece, il rifiuto che molti pagani continuavano a opporre alla sua predicazione incentrata su «Cristo crocifisso» era dovuto al fatto che «i Greci cercano la sapienza» di questo mondo (cfr. 2,6; 3,19). Forse Paolo, dettando la Prima lettera ai Corinzi, ricorda i colti abitanti di Atene, che (tranne rare eccezioni, At 17,34) non avevano dato credito al discorso da lui tenuto nell'areopago della città (At 17,32), immediatamente prima di recarsi a Corinto (At 18,1). Ma è più che verosimile che l'apostolo si riferisca soprattutto ai cristiani di Corinto, cui è indirizzata la lettera.

Eppure Paolo è convinto dell'agire paradossalmente salvifico di Dio. Perciò dichiara, con la fierezza dei cristiani («noi»), di continuare a predicare «Cristo crocifisso» (2,2; cfr. 1,23). Ha, infatti, sperimentato l'efficacia salvifica della morte di Cristo non solo nel proprio ministero apostolico (2,1-5), ma anche nella conersione dei Corinzi (1,26-31), che hanno risposto positivamente alla chiamata divina alla salvezza in Cristo (v. 24; cfr. 1,2; 1,26).

Elezione divina dei cristiani di Corinto Fedele alla rivelazione di Cristo sull'amore incondizionato di Dio (cfr. Rm 5,8; anche 2Cor 5,19), Paolo si è sempre scagliato con irruenza contro l'illusione orgogliosa di conquistare la salvezza eterna con le proprie forze (cfr. 1Cor 1,26-29; 2Cor 1,9; Fil 3,3-4), a prescindere dalla grazia di Dio mediata da Cristo e dal suo Spirito (cfr. Rm 2,17-24). Alimentate com'erano dalla brama di scalare il paradiso attraverso gradi progressivi di conoscenza, tutte queste concezioni erano giudicate dall'apostolo come pretese peccaminose. Paolo era convinto che gli uomini non sono capaci di salvarsi con le proprie forze, fossero pure quelle intellettuali. Perciò, nella Prima lettera ai Corinzi, tiene a mettere allo scoperto come queste concezioni orgogliose fossero messe radicalmente in crisi dalla morte in croce di Cristo. In quell'evento Dio si è comportato in maniera contraria a ciò che per logica (ossia seguendo criteri meramente umani o «secondo la carne», cfr. v. 26) ci si sarebbe attesi da una divinità sommamente potente e sapiente. Difatti, per mezzo di Cristo, «potenza» e «sapienza» divine (v. 24), Dio si è mostrato paradossalmente «più sapiente» e «più forte degli uomini» (v. 25). Sulla croce del Figlio è stata inchiodata per sempre ogni forma di sapienza «mondana»: «Dio si è compiaciuto di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» apostolica della croce (1,21), rivolta primariamente a persone non sapienti né potenti né nobili.

Del resto, nella comunità cristiana di Corinto era avvenuto proprio così: non si erano convertiti solo benestanti come Crispo, capo della sinagoga (cfr. At 18,8), o Erasto, il tesoriere della metropoli (cfr. Rm 16,23), ma si erano fatte battezzare specialmente persone dei ceti medio-bassi, schiavi compresi (cfr. 1Cor 7,21). A differenza della religione giudaica che rifiutava la conversione degli schiavi, il cristianesimo li accoglieva, riuscendo così a diffondersi rapidamente nell'impero romano. Questo perché, come dichiara Paolo, è Dio stesso che predilige gli «ultimi» e tutti quelli che, pur con i loro limiti, si affidano a lui. Perciò al cospetto del Signore non ha alcun senso vantarsi (v. 29; cfr. Rm 3,27) o, peggio, porre il proprio vanto in altri uomini, com'era prassi nei gruppuscoli di Corinto nei confronti dei rispettivi leader (1Cor 3,21; cfr. 1,12). Se dunque c'è da inorgoglirsi, non è per i propri meriti esaltati alla luce di una sapienza mondana, ma è unicamente nel Signore Dio (1,31).


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