Prima lettera ai Corinzi – Capitolo 5

Condanna di un incestuoso 1Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di suo padre. 2E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti in modo che venga escluso di mezzo a voi colui che ha compiuto un’azione simile! 3Ebbene, io, assente con il corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato, come se fossi presente, colui che ha compiuto tale azione. 4Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù, 5questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore. 6Non è bello che voi vi vantiate. Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? 7Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! 8Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità. 9Vi ho scritto nella lettera di non mescolarvi con chi vive nell’immoralità. 10Non mi riferivo però agli immorali di questo mondo o agli avari, ai ladri o agli idolatri: altrimenti dovreste uscire dal mondo! 11Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: con questi tali non dovete neanche mangiare insieme. 12Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? 13Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi!

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Condanna di un incestuoso Di fronte alla permanente convivenza di un cristiano di Corinto con la moglie di suo padre, cioè con la sua matrigna (v. 1), Paolo interviene sollecitando la comunità cristiana a procedere con una vera e propria espulsione dell'interessato. Paolo procede con severità, biasimando l'incuranza superficiale e presuntuosa della comunità cristiana. Proprio perché essa non si è dispiaciuta affatto del comportamento di quel tale né, tanto meno, lo ha allontanato da sé, l'apostolo si sente in dovere d'intervenire (v. 2). Lo fa in maniera coerente alle norme essenziali stabilite dall'assemblea di Gerusalemme. Stando alla testimonianza degli Atti, gli apostoli (Paolo incluso) vi avevano confermato, anche per i pagani convertitisi alla fede cristiana, la proibizione dell'immoralità. Quindi, in conformità alla Legge mosaica (cfr. At 15,20-21), avevano vietato i rapporti incestuosi. Quando Paolo dettò la Prima lettera ai Corinzi, si trovava a Efeso (cfr. v. 3a) e non aveva la possibilità di recarsi a breve a Corinto (cfr. 16,8-9). Inoltre, la situazione sembrava essersi incancrenita: è verosimile che a quel punto sarebbe stato inutile rimproverare l'incestuoso, esortandolo a lasciare quella donna. Sta di fatto che Paolo non accenna nemmeno a tale possibilità. «Spiritualmente presente» tra i Corinzi (v. 3b), decreta l'espulsione di quel cristiano dalla Chiesa. E chiede che la sua decisione -di certo sofferta- presa «nel nome del Signore [nostro] Gesù» venga ratificata dalla comunità riunita «con la potenza del Signore nostro Gesù» (v. 4): per un atto così grave nei confronti di un credente, tutta la comunità, Paolo incluso, deve agire strettamente unita al Signore.

Lo scopo pedagogico di questa dura sanzione disciplinare è espresso in termini non immediatamente comprensibili: «questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore» (v. 5). Per capire questa espressione si deve tenere conto della visione antropologica dell'apostolo: per lui, la «carne» degli uomini è il terreno in cui Satana (come il «nemico» che ha seminato zizzania, da cui mise in guardia Gesù, Mt 13,24-30) ha sparso il seme del peccato (cfr. Rm 7,14-25), abbondantemente germinato all'interno dell'umanità. Paolo parla di «opere proprie della carne» che «sono manifeste: sono fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, magia, inimicizie, lite, gelosia, ire, ambizione, discordie, divisioni, invidie, ubriachezze, orge e opere simili a queste» (Gal5,19-21; cfr. Rm 13,13-14). Con questo modo d'intendere la «carne», si comprende che a spingere Paolo a sancire l'espulsione di quel peccatore dalla comunità cristiana è un ultimo filo di speranza: che cioè costui, una volta lasciato dalla Chiesa in balìa di Satana (cfr. Gb 2,6), soffra a causa del suo stesso peccato e giunga così a pentirsene. In altri termini, auspica che quel peccatore, accortosi d'essersi posto con il proprio comportamento immorale al di fuori del circuito vitale della comunione ecclesiale con il Signore, abbia il coraggio di sciogliere la sua convivenza incestuosa.

L'esortazione alla purificazione dal peccato rivolta da Paolo alla Chiesa corinzia prende le mosse da un'antica usanza giudaica: in vista delle celebrazioni pasquali, il pane fermentato veniva del tutto eliminato dalle abitazioni. Paolo interpreta il rituale pasquale ebraico alla luce della morte e della risurrezione di Cristo. Per lui l'antico esodo dalla schiavitù egiziana e la novità di un'esistenza liberata dal Signore trovano compimento nella vita dei credenti in Cristo, non più dominata del peccato (cfr. Rm 3,9; 6,6.12.14), ma animata dalla «sincerità» e dalla «verità» (1Cor 5,8). Da qui l'invito rivolto dall'apostolo ai fedeli di Corinto a essere «pasta nuova», grazie alla redenzione operata da Cristo (cfr. 1,30; 15,3), immolato sulla croce come l'antico agnello pasquale{v. 7; cfr. lPt 1,19). In concreto, l'apostolo li incita a disfarsi del «lievito vecchio» delle malvagità e della corruzione (cfr. Mt 16,6 e paralleli), così da essere come «azzimi» puri (vv. 7-8), ossia da vivere un'esistenza «pasquale» con Cristo risorto.

Allargando il discorso, Paolo precisa la questione delle relazioni che i credenti in Cristo non devono più intrattenere con altri cristiani che vivono in una condizione permanente di peccato. In una lettera precedente a questa, l'apostolo aveva già messo in guardia i fedeli di Corinto dal mescolarsi con chi viveva nell'immoralità sessuale (v. 9). Ora egli puntualizza che in quella missiva non intendeva riferirsi ai peccatori che non credono in Cristo, fossero essi fornicatori piuttosto che avari, predoni, idolatri (v. 10), diffamatori o ubriaconi (v. 11). La concezione paolina di Chiesa non è settaria, quasi che i credenti in Cristo dovessero fuggire dal mondo (v. 10) per poter vivere la propria fede al riparo da ogni contaminazione peccaminosa. Una concezione del genere era pur presente in alcune frange del giudaismo dell'epoca, come, per esempio, nei membri della comunità di Qumran o in alcuni gruppi della diaspora. Paolo, invece, precisa che la sua ammonizione anteriore aveva per oggetto i credenti in Cristo, che si dicono «fratelli», ma che in realtà perseverano in una condotta gravemente peccaminosa: con costoro sarebbe imprudente per i cristiani mantenere rapporti, per esempio, condividendone i pasti (v. 11).

In ogni caso, citando la Legge di Mosè che sanciva l'eliminazione degli idolatri dal popolo d'Israele attraverso la lapidazione (cfr. Dt 17,7), Paolo ammonisce la comunità corinzia a essere risoluta nell'allontanare i propri membri che rifiutano di convertirsi da peccati gravi come quelli qui elencati (v. 13). Specialmente in un contesto d'immoralità dilagante come quello di Corinto, consentire ai credenti in Cristo di tornare a comportarsi peccaminosamente come prima della conversione avrebbe significato condannare la Chiesa all'autodistruzione. Resta così giustificata la pena medicinale dell'espulsione dell'incestuoso dalla comunità cristiana, mentre per quanto riguarda i pagani, con cui i cristiani inevitabilmente entravano in contatto, l'apostolo non si pronuncia affatto.


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