QOELET – Capitolo 7

LA SAPIENZA UMANA E IL SUO FALLIMENTO (7,1-12,8)

Ciò che è meglio per l’uomo 1Un buon nome è preferibile all'unguento profumato e il giorno della morte al giorno della nascita. 2È meglio visitare una casa dove c'è lutto che visitare una casa dove si banchetta, perché quella è la fine d'ogni uomo e chi vive ci deve riflettere. 3È preferibile la mestizia al riso, perché con un volto triste il cuore diventa migliore. 4Il cuore dei saggi è in una casa in lutto e il cuore degli stolti in una casa in festa. 5Meglio ascoltare il rimprovero di un saggio che ascoltare la lode degli stolti: 6perché quale il crepitìo dei pruni sotto la pentola tale è il riso degli stolti. Ma anche questo è vanità. 7L'estorsione rende stolto il saggio e i regali corrompono il cuore. 8Meglio la fine di una cosa che il suo principio; è meglio un uomo paziente che uno presuntuoso. 9Non essere facile a irritarti in cuor tuo, perché la collera dimora in seno agli stolti. 10Non dire: “Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?”, perché una domanda simile non è ispirata a saggezza. 11Buona cosa è la saggezza unita a un patrimonio ed è utile per coloro che vedono il sole. 12Perché si sta all'ombra della saggezza come si sta all'ombra del denaro; ma vale di più il sapere, perché la saggezza fa vivere chi la possiede. 13Osserva l'opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo? 14Nel giorno lieto sta' allegro e nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto tanto l'uno quanto l'altro, cosicché l'uomo non riesce a scoprire ciò che verrà dopo di lui.

Sapienza e moderazione 15Nei miei giorni vani ho visto di tutto: un giusto che va in rovina nonostante la sua giustizia, un malvagio che vive a lungo nonostante la sua iniquità. 16Non essere troppo giusto e non mostrarti saggio oltre misura: perché vuoi rovinarti? 17Non essere troppo malvagio e non essere stolto. Perché vuoi morire prima del tempo? 18È bene che tu prenda una cosa senza lasciare l'altra: in verità chi teme Dio riesce bene in tutto. 19La sapienza rende il saggio più forte di dieci potenti che sono nella città. 20Non c'è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai. 21Ancora: non fare attenzione a tutte le dicerie che si fanno, così non sentirai che il tuo servo ha detto male di te; 22infatti il tuo cuore sa che anche tu tante volte hai detto male degli altri.

La sapienza è introvabile nell’uomo e nella donna 23Tutto questo io ho esaminato con sapienza e ho detto: “Voglio diventare saggio!”, ma la sapienza resta lontana da me! 24Rimane lontano ciò che accade: profondo, profondo! Chi può comprenderlo? 25Mi sono applicato a conoscere e indagare e cercare la sapienza e giungere a una conclusione, e a riconoscere che la malvagità è stoltezza e la stoltezza è follia. 26Trovo che amara più della morte è la donna: essa è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta preso. 27Vedi, questo ho scoperto, dice Qoèlet, confrontando a una a una le cose, per arrivare a una conclusione certa. 28Quello che io ancora sto cercando e non ho trovato è questo: un uomo fra mille l'ho trovato, ma una donna fra tutte non l'ho trovata. 29Vedi, solo questo ho trovato: Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni.

_________________ Note

7,1-12,8 In questa seconda sezione il filo conduttore è la riflessione sulla condizione dell’uomo e della donna, sul mistero del destino dell’uomo e dell’agire di Dio.

7,1-14 Alcuni proverbi mettono in evidenza il contrasto tra il pensiero del Qoèlet e le idee comunemente accettate.

7,26 La donna vista come tentatrice e più temibile della morte è uno stereotipo proprio del suo ambiente, che il Qoèlet condivide ma corregge: saggezza e stoltezza appartengono a tutti gli esseri umani (v. 29).

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Approfondimenti

vv. 1-5. I vv. 1-5 formano una struttura concentrica. Evidenziamo gli elementi simmetrici. La buona fama (v. 1) è più importante dei piaceri della vita (simbolizzati nell'unguento profumato), perché la vita che inizia è un'incognita, mentre la morte palesa la verità di un uomo e ne fissa il ricordo per i posteri; si può ottenere buona fama prestando orecchio al rimprovero del saggio più che alla lode degli stolti (v. 5). Se in 2a si consiglia di tendere al lutto piuttosto che alla festa, nel v. 4 si afferma qualcosa riguardo al «cuore», cioè al centro unificatore profondo della persona: l'interiorità dei saggi «è» nel lutto, mentre l'interiorità degli stolti «è» nella letizia. Il “ricordati che morirai” (v. 2b) deve diventare l'orizzonte della vita umana, deve segnare il volto dell'uomo, perché il cuore ne sia trasfigurato (v. 3b). Il nucleo centrale, 3b, propone qualcosa che necessita di una particolare attenzione da parte del lettore, in quanto è la chiave di volta della struttura, ciò che unifica tutte le altre esortazioni alla serietà. Vengono messi in opposizione due modi fondamentali di affrontare l'esistenza umana, espressi nei simboli antropologici del corruccio e del riso, quasi due maschere di una tragedia che dall'assunzione consapevole della morte spera la catarsi.

v. 6. Il giudizio di assurdità che conclude 7,6 trova la sua funzione logica se viene riferito all'insieme dei vv. 1-6a, i quali sono tutti tacciati di assurdità. Tutta quella sapienza corrucciata, quel preferire ciò che sa di morte all'allegria e alla vita, è un'assurdità, tant'è vero che quel sapiente serioso e accigliato si liquefà davanti a una minaccia o a una bustarella (7), e, come rompe il suo grave silenzio, se ne esce in insulsaggini (10). Ecco allora che il rapporto tra le parti di 7,1-10 si qualifica come ironia.

vv. 7-10. Anche la parte 7,7-10 è costruita in modo concentrico. Il v. 7 afferma la poca solidità del saggio, poiché basta una pressione per farlo ammattire, ed esclude che un cedimento esteriore (una “bustarella”) possa lasciare intatta l'interiorità del saggio, la sua opzione fondamentale per la saggezza. Al centro del chiasmo (v. 9), cuore della riflessione e suo fondamento, troviamo un'esortazione alla pazienza.

vv. 11-12. La struttura attira l'attenzione sul problema della sapienza e delle condizioni alle quali questa possa essere un vantaggio per l'uomo. 11a afferma che la sapienza è un bene quando è accompagnata dal denaro, e 12a spiega tale affermazione: sapienza e denaro costituiscono una doppia protezione dalle difficoltà della vita.

vv. 13-14. Esortano a considerare l'agire di Dio. Da notare che il v. 14 contestualizza con grande finezza psicologica l'invito alla riflessione nel giorno triste, sciagurato: il giorno felice è fatto per essere goduto, non per riflettere (cfr. 5,19); è invece quando gli eventi prendono una direzione sgradita che ci si chiede tanti perché. Opposta all'agire di Dio, abbiamo l'impotenza umana a raddrizzare qualcosa la cui stortura dipende dalla volontà divina. Sullo stesso piano troviamo l'incapacità umana di comprendere, anch'essa dipendente dalla volontà divina. Di fatto 7,14 introduce le sequenze che vanno fino alla fine del c. 8, tutte imperniate sull'inconcludenza della conoscenza umana. Dio stesso è il responsabile di tale incompetenza, poiché con il suo agire incomprensibile mantiene l'uomo nei suoi limiti creaturali (e questo per l'uomo è una delusione, ma al tempo stesso è la sua unica possibilità di esistere, cfr. Gn 2-3).

vv. 15-18. Lo sviluppo logico dei vv. 15-18 prende le mosse da un dato d'esperienza che rivela l'inadeguatezza delle categorie tradizionali di giustizia e malvagità e della correlativa retribuzione (v. 15). Da tale riflessione può derivare un senso di frustrazione conoscitiva, di incomprensibilità, di assurdità, che motiva l'esortazione a evitare gli eccessi unilaterali (v. 16-17). La conclusione (v. 18) è che la condizione umana è di immergersi nelle contraddizioni per uscirne bene grazie al timor di Dio. Nel Talmud esiste un termine speciale per designare colui che è troppo puntiglioso: hasid sôteh, un «pio imbecille». L'esempio classico di una pietà esagerata ci è dato dallo stesso Talmud: è colui che, vedendo una donna che sta annegando, dice: «Non sta bene guardare una donna! Non la posso salvare». E con la sua grande pietà la lascia annegare (Sota 21b, cit. in Scherman – Zlotowitz, 143). La dialettica giusto/malvagio non è che un esempio delle innumerevoli contraddizioni della vita (il v. 15 conferma tale idea: «Ho visto di tutto...: [ad esempio] c'è il giusto che perisce...»). Nella stessa linea viene allora a trovarsi il v.14: l'alternarsi di giorni felici e di giorni sciagurati diventa esempio di quella complessità contraddittoria insita nella realtà, che non può che risalire a Dio, e davanti alla quale l'uomo deve confessare la sua incapacità di comprendere, conscio che tale è la sua condizione di creatura.

vv. 19-22. Questi versetti proseguono il ragionamento di 7,15-18, polarizzato sulle antitesi saggezza/stoltezza e giustizia/ingiustizia. Il v. 19 è un proverbio che paragona la saggezza alla potenza di un decemvirato. Qoelet non nega la verità di tale detto tradizionale, ma la ridimensiona con uno sguardo disilluso sull'uomo concreto, prima con un argomento generale (v. 20) e poi con un argomento ad hominem: la coscienza che ognuno ha di essere stato sovente tutt'altro che giusto e saggio (vv. 21-22).

vv. 23-24. A mo di conclusione provvisoria del ragionare precedente, in 7,23-24, la sapienza è presentata come un ideale inarrivabile, eccedente le limitate possibilità dell'essere umano. Il sapiente vorrebbe comprendere tutto ciò che esiste, ma l'esistente gli sfugge in profondità irraggiungibili dove nessun uomo può andare a ritrovarlo.

vv. 25-29. Il verbo principale del v. 26 «trovo» (ûmôsẻ' ăm) è in ebraico un participio; questo induce a intendere quanto segue come dato di partenza, e non conclusione, probabile citazione di sapienza tradizionale da valutare. Possiamo tradurre: «Sentivo dire che...». Il referente di tutto il versetto 26 è la «donna» (ha'issa), a cui si riferiscono i pronomi femminili del pezzo in esame; constatiamo inoltre la presenza di termini che appartengono tutti al campo semantico della trappola (reti a strascico, rete, lacci, sfuggire, restare intrappolato): la donna è paragonata a una trappola. Il secondo stico del v. 27 e il primo del v. 28 formano una unità che funziona secondo la dinamica dei verbi cercare/capire; abbiamo infatti uno sforzo conoscitivo, il cui esito è peraltro fallimentare. Ciò che Qoelet non è riuscito a capire, pur avendone conosciute più di una, è la donna, mentre l'uomo (l'antitesi fa capire che qui si tratta del maschio), almeno un caso su mille, è riuscito a capirlo. Non è difficile intravvedere un riferimento a Gn 2,20: Adamo non aveva trovato in nessun animale qualcuno con cui condividere l'esistenza, ma davanti alla donna aveva cantato la sua gioia, poiché finalmente aveva trovato. Qoelet-pseudo-Salomone invece aveva avuto mille donne, ma non ne aveva capita nessuna, e così non aveva trovato tra di loro nessun «aiuto simile a sé», nessuno con cui condividere l'esistenza. In 6,10 Qoelet aveva affermato di sapere che cos'è «uomo», l'essere umano, per lo meno in rapporto a Dio, e in 7,29 sostiene di aver capito una cosa sola a proposito dell'uomo: che Dio lo ha fatto «semplice», «diritto», ma essi hanno cercato troppi concetti. Tutto il discorso si muove tra il tentativo di trovare una sapienza teoretica e il fallimento di questa ricerca. L'oggetto concreto che funge da pretesto per esemplificare questo fallimento è il concetto tradizionale di donna, pesantemente gravato dalle paure ancestrali del maschio che, davanti al mondo di passioni che la femminilità catalizza, perde la sua abituale e superficiale posizione di forza e trova facile rifugiarsi nei luoghi comuni della cultura maschilista, che lo rassicurano colpevolizzando la donna. Qoelet demistifica i termini esagerati di questa concezione tradizionale in base alla sua esperienza, che è ancora una volta un'esperienza non sporadica né parziale, ma totale, così da garantire il risultato. E il risultato non prende nemmeno in esame una possibile colpevolezza della donna, ma ammette il fallimento e il limite della comprensione umana, che si arresta davanti all'ennesimo mistero. Se c'è una colpa, non è della donna, ma dell'umanità intera, che con l'arroganza della sua ragione vuole raggiungere una conoscenza che Dio non le ha concesso. Risulta in questo modo più chiaro che l'atteggiamento di Qoelet verso la donna non è affatto di misoginia, e questo è confermato dal v. 9,9, in cui la donna amata è il conforto di una vita che presto svanisce.

Interpretazione della sequenza 7,13-29. Notiamo innanzitutto che i vv. 13-14 costituivano in qualche modo il “tema” che viene sviluppato nel seguito. Infatti in 13-14 si affermava: «osserva l'opera di Dio... Dio fa una cosa e il suo contrario affinché l'uomo non possa capire nulla di più». Ecco che il tema dei contrari viene sviluppato nei vv. 15-18: lo scambio delle sorti del giusto e del malvagio e la conseguente esortazione a non esagerare in nessun verso, ma a prendere in mano le contraddizioni per uscirne bene con il timor di Dio. Il discorso intorno al giusto e al malvagio partiva da una constatazione per giungere a un'indicazione di comportamento, e questo è l'iter proprio della sapienza, di una sapienza pratica che aiuta a vivere (v. 19). Tale sapienza pratica, aderente alla realtà, è pure disincantata e ironica: non solo le sorti del giusto e del malvagio si possono invertire, ma un giusto che non sbagli mai non esiste sulla terra, motivo per cui non è il caso di scandalizzarsi per i peccati altrui, sapendo di non esserne immuni (vv. 20-22). A questo punto sembra rendersi accessibile una sapienza più generale, che capisca il senso globale delle cose (v. 23). Eppure la realtà che si vorrebbe indagare in questo modo sfugge in profondità lontane, inaccessibili, così che nessuno può dire più di capirci qualcosa (24). Ecco che l'incapacità di capire sperimentata dal sapiente (v. 24) conferma la tesi annunciata al v. 14: Dio fa una cosa e il suo contrario affinché l'uomo non possa capire. Il v. 25 rilancia l'impresa sapienziale connotandola dal punto di vista etico e religioso: meditare sapienza, cercare concetti, significa pure individuare il nesso tra empietà e stupidità, tra la stupidaggine e la pazzia, per cui la ribellione a Dio coincide con la rovina dell'uomo (v. 26b). C'è una sapienza tradizionale che scarica la responsabilità di questa rovina dell'uomo sulla donna (v. 26a). Qoelet, che si era passato per Salomone, con le sue settecento mogli e trecento concubine (1Re 11,3), e dunque di donne poteva parlare per esperienza (v. 27), afferma che un uomo, uno su mille, poteva dire di averlo capito, ma una donna tra tutte quelle (le sue mille, per l'appunto), non era riuscito a capirla (v. 28). Qui Qoelet oppone i due atteggiamenti possibili rispetto alla diversità, all'alterità: c'è chi getta sul diverso la colpa dei propri limiti e c'è chi invece davanti all'alterità riconosce la sua incapacità di penetrare il mistero dell'altro, e questo gli fa percepire con chiarezza il proprio limite creaturale. Di fatto al v. 29 è proprio rievocato il momento della creazione per ritrovare la radice della situazione presente, e così si trae la conclusione che conferma la tesi del v. 14: che Dio ha fatto l'essere umano semplice, ed essi invece hanno cercato troppi concetti. E proprio in questa ribellione al progetto di Dio che si manifesta quel nesso tra empietà e stupidità, tra stupidaggine e pazzia che aveva iniziato questa parte (v. 25).

(cf. PAOLO PAPONE, Qoelet – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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