REGOLA BOLLATA DI SAN FRANCESCO – 10

CAPITOLO X – DELL’AMMONIZIONE E DELLA CORREZIONE DEI FRATI

1 I frati, che sono ministri e servi degli altri frati, visitino ed ammoniscano i loro frati e li correggano con umiltà e carità, non comandando ad essi niente che sia contro alla loro anima e alla nostra Regola. 2 I frati, poi, che sono sudditi, si ricordino che per Dio hanno rinnegato la propria volontà. 3 Perciò comando loro fermamente di obbedire ai loro ministri in tutte quelle cose che promisero al Signore di osservare e non sono contrarie all’anima e alla nostra Regola. 4 E dovunque vi siano dei frati che si rendono conto e riconoscano di non poter osservare spiritualmente la Regola, debbano e possono ricorrere ai loro ministri. 5 I ministri, poi, li accolgano con carità e benevolenza e li trattino con tale familiarità che quelli possano parlare e fare con essi così come parlano e fanno i padroni con i loro servi; 6 infatti, così deve essere, che i ministri siano i servi di tutti i frati. 7 Ammonisco, poi, ed esorto nel Signore Gesù Cristo, che si guardino i frati da ogni superbia, vana gloria, invidia, avarizia, cure o preoccupazioni di questo mondo, dalla detrazione e dalla mormorazione. 8 E coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle, ma facciano attenzione che ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, 9 di pregarlo sempre con cuore puro e di avere umiltà, pazienza nella persecuzione e nella infermità, 10 e di amare quelli che ci perseguitano e ci riprendono e ci calunniano, poiché dice il Signore: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano; 11 beati quelli che sopportano persecuzione a causa della giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli. 12 E chi persevererà fino alla fine, questi sarà salvo».

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Approfondimenti

Questo testo è il risultato di una rielaborazione di più passaggi della Regola non bollata. L’operazione effettuata dal redattore è abbastanza chiara: riunire in un unico testo i passaggi riguardanti la vita fraterna dispersi nella Regola precedente. L’elaborazione è guidata da una sostanziale conferma del materiale precedente, rispetto al quale è presente solo qualche aggiunta che non cambia, ma ribadisce e amplia il precedente dettato. Nel nostro testo si evidenziano chiaramente due parti: la prima (vv. 1-6) è il risultato dell’unione di Rnb IV e VI, nei quali erano già state trattate le questioni relative alla vita fraterna. La seconda parte (vv. 7-12) organizzata invece su due livelli, assumendo così la struttura binaria della Rnb XVII, dove si contrapponeva lo spirito della carne e lo spirito del Signore. In sintesi possiamo affermare che per realizzare i rapporti fraterni richiesti nella prima parte occorre che i singoli frati, indipendentemente dal ruolo svolto, siano uomini evangelici, liberi da certi vizi e forti di certe virtù.

Tre sono gli elementi che emergono dal testo riguardo ai ministri: la loro qualifica: I frati che sono ministri e servi degli altri frati; il loro compito: visitino ed ammoniscano i loro fratelli e li correggano con umiltà e carità; i limiti della loro azione di autorità: non comandando ad essi niente che sia contro la loro anima e la nostra Regola.

Sia per il primo che per il secondo gruppo della fraternità, l’accento è posto sulla qualifica identitaria di frati, cui poi si aggiunge la diversificazione dei ruoli: ministri-servi e sudditi. L’elemento guida della formulazione del testo è la parità tra i due gruppi, essenzialmente accomunati da una stessa natura di fratelli, anche se caratterizzati da una diversità funzionale. Interessante è la fedeltà del linguaggio impiegato dal Santo nei testi legislativi: termini quali abate, priore, prelato, superiore, non solo sono sempre assenti, ma persino vietati. Al contrario, i due termini ministri e servi rappresentano le uniche e costanti qualifiche utilizzate da Francesco per i frati posti in posizione d’autorità sugli altri.

La richiesta fatta ai ministri di visitare i frati, determina la natura del loro servizio e inverte tutta la cultura feudale, dove era il servo che doveva muoversi e non il padrone. Infatti, suggerisce il Santo, chi è servo ha l’obbligo di scomodarsi mettendosi in cammino verso colui che è tenuto a servire. In queste visite i ministri ammoniscano e correggano i frati, ma questo sia fatto con umiltà e carità. A seguire si specificano i confini del potere di intervento del ministro: non comandando ad essi niente che sia contro la loro anima e la nostra Regola. Il comandare e l’ubbidire dovevano essere esercitati nell’ambito degli stessi parametri validi sia per i ministri che per i sudditi, cioè all’interno dell’elemento oggettivo che è la Regola, con le sue specifiche richieste, e dell’elemento soggettivo, rappresentato dall’anima del singolo. Le scelte che non sono contro l’anima non implicano sempre una scelta tra il bene e il male, ma anche tra fedeltà e infedeltà alla propria vocazione minoritica. La proposta del Santo si fonda su una visione antropologica per cui l’altro non è un sottoposto, ma un pari grado, secondo la quale il ministro non sarà mai un padrone, ma sempre un fratello il quale, prima di richiedere l’obbedienza, dovrà avere rispetto dei suoi compagni, ascoltando con attenzione e sottomissione i bisogni oggettivi della situazione e quelli dei suoi fratelli, sempre nel rispetto delle diversità e unicità della loro anima.

L’affermazione “comando loro fermamente di obbedire”, formulata in prima persona da Francesco, può essere accolta e realizzata solo se i frati si ricordano la loro fondamentale scelta, quella che per Dio hanno rinnegato la propria volontà. L’obbedienza al ministro non è assoluta e indiscriminata, ma è richiesta solo riguardo alle cose di Dio, cioè agli ambiti in cui si realizza la propria consegna al Signore. Nel fare l’obbedienza, il suddito deve chiedersi se la richiesta del ministro rientri tra le cose che egli aveva promesso a Dio e che non si oppongono alla sua anima e alla Regola. Insomma, il frate deve restare vigile e responsabile nell’obbedire, deve cioè essere capace di ascoltare la Regola e la propria anima in una modalità che lo porterà ad esiti diversi, eppure tutti manifestazioni dello stesso desiderio di fare la volontà di Dio in obbedienza ai fratelli.

La visione della Regola sull’obbedienza è essenzialmente dialettica e circolare, dove l’uno è servo, l’altro suddito, e reciprocamente sono disposti a lavarsi i piedi. Tale struttura circolare delle relazioni fraterne, tese ad un’obbedienza reciproca per il mutuo servizio, ha la sua verifica o la sua occasione per essere praticata quando insorgono difficoltà: se il frate si trova nella difficoltà di non poter osservare la Regola secondo lo Spirito ricorra al ministro.

L’espressione secondo lo Spirito sarà da intendere: osservare la Regola secondo lo Spirito che la traduce in vita, attuando il programma di umiltà e povertà, preghiera ininterrotta, pazienza e carità evangelica esposto nella seconda parte del capitolo. Si può ritenere che la lettura spirituale della Regola e la sua osservanza implichi il coinvolgimento del singolo in una relazione con il testo fatta di responsabilità e ascolto, nella quale la sua identità vocazionale trovi il riferimento oggettivo per poter rispondere a Dio e farne la sua volontà.

Il dover e poter ricorrere al ministro quando il frate percepisce di non poter vivere spiritualmente la Regola indica e implica indubbiamente uno stato di confidenza e di reciprocità tra i due. La libertà da parte del frate di potersi rivolgere al suo ministro per renderlo partecipe delle sue difficoltà, ha in quest’ultimo il soggetto fondamentale per compiere un simile processo di affidamento. Francesco esorta il ministro a mostrarsi familiare con i frati in difficoltà, ribaltando la logica dominante del servo e del padrone: i padroni sono i frati in difficoltà, i servi son invece i loro ministri. Di fatto, si abolisce ogni logica di potere istituzionale per innescarne una nuova, fondata sul vangelo: il primo sia il servo di tutti.

Ma perché questa visione circolare dei rapporti, preferita a quella piramidale medievale, possa essere realizzata, si stabiliscono le qualità dei singoli frati, elencando una serie di vizi da evitare e di virtù da custodire. Ogni compito giuridico assegnato ai singoli sarebbe del tutto inutile e vano se ciascun frate non fuggisse una serie di vizi legati all’esteriorità dell’apparire e non coltivasse, invece, l’autenticità del cuore. Il progetto evangelico della fraternità è importante, ma senza la qualità altrettanto evangelica dei singoli tutto sarebbe impossibile e senza verità.

Il Santo esorta i suoi frati a evitare una serie di vizi, i quali girano attorno al centro nucleare dello spirito della carne. L’uomo che vive nella carne è guidato da un unico criterio: fare della propria persona il centro del mondo. L’uomo, che vive dell’esteriorità, nel desiderio spasmodico di essere riconosciuto e onorato, sarà superbo e vanaglorioso se otterrà quanto cercato o invece invidioso se vedrà nelle mani degli altri quanto agogna; quell’uomo sarà roso da una grande avarizia nel condividere i beni o costantemente preoccupato dalle cose del mondo e vivrà sicuramente rapporti difficili con gli altri, con i quali si relazionerà secondo un atteggiamento improntato alla mormorazione e detrazione. Quest’uomo non solo vive la propria vita senza Dio, ma anche nella solitudine, cioè senza la possibilità di godere di rapporti autentici di fraternità.

È chiaro, allora, che un frate animato dallo spirito della carne non potrà mai realizzare il progetto evangelico di una fraternità in cui regni la responsabilità e il rispetto tra i fratelli. Quell’uomo vivrà il mandato di ministro come potere personale, accumulando per sé un tesoro fraudolento a pericolo della sua anima o vivrà la sua vocazione minoritica nell’incapacità di donare la propria persona agli altri vagando sempre fuori dall’obbedienza.

La richiesta del Santo di non preoccuparsi di imparare a coloro che non sanno leggere, si presenta come una specificazione particolare del pericolo di esteriorità e di ricerca di successo che corrono i frati. Lo studio era divenuto ormai una scelta strategica e necessaria che, per quanto importante, costituiva al tempo stesso un rischio e un pericolo per l’anima minoritica: la scienza come modo di apparire agli occhi degli altri e su di essi dominare. La richiesta di Francesco rivolta a coloro che non sanno leggere non costituiva indubbiamente un rifiuto o una proibizione degli studi, come se essi fossero assolutamente contrari allo spirito minoritico. Tuttavia, con il richiamo agli illetterati di non preoccuparsi di imparare a leggere, egli ricordava implicitamente l’elemento caratteristico dell’iniziale ispirazione dei primi frati ad essere illetterati e sottomessi a tutti. Se da una parte gli studi erano uno strumento necessario e buono, dall’altra il loro utilizzo era però anche rischioso e pericoloso. Il Santo era convinto che per colui che non sapeva leggere sarebbe stato più facile restare un frate minore libero dal desiderio di potere e teso verso il servizio umile degli altri. Lo sforzo supremo e unico a cui deve tendere il frate minore è quello di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione: questo significa poter riattuare in sé quegli stessi sentimenti di Cristo, quando ha assunto la condizione di servo ponendosi a servizio di tutti coloro che erano diventati suoi nemici. Solo guardando a Dio e al suo modo di agire il frate minore potrà avere dei sentimenti adeguati e fraterni verso coloro che sembrerebbero non essere fratelli.

In tal senso, il pregare sempre costituisce non tanto un’azione religiosa-rituale di tipo ininterrotto, quanto un atteggiamento di riferimento costante e continuato a Cristo a cui conformare la propria vita. Il cuore puro è la condizione preliminare per vedere e accogliere questa logica divina manifestata da Dio in Cristo: solo i puri di cuore potranno vedere e adorare lo Spirito del Signore e compiere la sua santa operazione. A di fuori da questa logica, ogni atto religioso-cultuale di preghiera non solo è inutile, ma anche menzognero.

Inoltre c’è un chiaro invito ad amare i nemici: nei testi di Francesco i persecutori e gli avversari non sono mai i cattivi di fuori, ma sempre i frati stessi, le cui relazioni interne possono diventare a volte difficili e contraddittorie, al punto da farne dei nemici. È solo guardando a Cristo che si potrà continuare ad essere fratello nella pazienza e nell’umiltà.

L’uomo evangelico che si rivolge a Cristo, aderendo al suo Spirito che genera relazioni fraterne, è colui che non pretende nulla e dona tutto, che non mantiene nulla per sé e restituisce tutto. Quest’uomo soltanto potrà essere costruttore di una vera fraternità, perché innanzitutto la costruisce e realizza in sé, mantenendo la sua identità di frate in una situazione che sembra altrimenti negarla; inoltre, è cosciente che essa costituisce l’unica possibilità per ricreare rapporti nuovamente fraterni.

La conclusione del capitolo X, caratterizzata da una serie di testi biblici, rappresenta un’eccezione nella rielaborazione giuridica del testo, eppure era necessaria se si voleva dare consistenza giuridica a quanto in precedenza Francesco esortava a fare ai suoi frati, spingendoli a vivere la pazienza e l’umiltà nei confronti dei persecutori e ad amare i loro nemici. Solo l’accoglienza assoluta della parola di Cristo può permettere di entrare nel suo Spirito e rendere un uomo frate minore, cioè forte di una logica nuova che produce un’operazione santa nei confronti degli altri fratelli trasformatisi in nemici.

Il primo testo invita ad amare i nemici e pregare per coloro che ci perseguitano. Il comando ha la sua forza e validità soltanto in base alla parola di Cristo, il quale non dà altra spiegazione che la sua persona: “ma io vi dico”. Si entra così al centro della novità evangelica fondata su di una legge che è anzitutto una persona, la cui sequela permette di abbracciare uno stile di vita nuovo e originale.

I secondi due testi sottolineano come non si tratta di seguire Gesù per la morte, ma per la vita: chi avrà sopportato la persecuzione per la giustizia avrà il Regno di Dio e chi persevererà otterrà la salvezza. E la via della vita passa attraverso il dono completo di sé, unica possibilità per ribaltare la logica della violenza e dell’ingiustizia fonte di morte. Solo un uomo evangelico, che si pone alla sequela di Cristo, può essere un uomo fraterno. Non si tratta dunque di far funzionare dei meccanismi relazionali fondati sulla giustizia e sull’equa distribuzione, ma di avere il coraggio personale di restare fratelli di coloro che smettono di esserlo e assumono una logica di sopraffazione e rivalità. Solo in quel momento, quando si viene traditi nel progetto abbracciato comunitariamente, il singolo può effettivamente verificare e proclamare di essere un vero frate minore che muore per i suoi fratelli, realizzando così in sé uno spazio vitale offerto agli altri per una possibile rinascita delle relazioni evangeliche.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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