REGOLA BOLLATA DI SAN FRANCESCO – 6
CAPITOLO VI – CHE I FRATI DI NIENTE SI APPROPRINO, E DEL CHIEDERE L’ELEMOSINA E DEI FRATI INFERMI
1 I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. 2 E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. 3 Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. 4 Questa è la sublimità dell’altissima povertà quella che ha costituito voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del regno dei cieli, vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. 5 Questa sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi. 6 E, aderendo totalmente a questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo. 7 E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro reciprocamente. 8 E ciascuno manifesti con fiducia all’altro le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale? 9 E se uno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi.
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Approfondimenti
La sequela della vita povera condivisa con Gesù dalla sua santissima madre, la Vergine Maria, appartiene al carisma originario di Francesco, che lo ripropone anche all’intera comunità ecclesiale: «Lui, che era ricco sopra ogni cosa, volle scegliere in questo mondo, insieme alla beatissima Vergine, sua madre, la povertà» (2Lf 5: FF 182). L’annientamento di Cristo nell’umiltà della natura umana e il mistero della sua passione e morte, non potevano non richiamare alla memoria di Francesco la suprema kenosi del figlio di Dio nel sacrificio eucaristico. Per il Santo la celebrazione eucaristica non è un semplice ricordo del sacrificio di Cristo, ma un memoriale nel senso ebraico di un evento che, pur avvenuto in passato, si rende presente sull’altare nelle mani del sacerdote, vale a dire, attraverso i segni liturgici posti dal sacerdote, il quale nel pane e vino consacrati offre ai nostri occhi di credenti il santissimo corpo e sangue vivo e vero di Cristo (cf Am I, 16-21: FF 144).
Non basta espropriarsi dei beni di famiglia. Entrando a far parte della fraternità francescana, oltre ai beni posseduti nel secolo è necessario non appropriarsi dei beni posti al servizio comune dei frati: «I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo né alcuna cosa». Dovendo andare per il mondo, i frati non potevano disporre di una dimora stabile perché dovevano vivere nel mondo «come pellegrini e forestieri» (cf 1Pt 2,11).
Non solo Francesco e i suoi frati, ma tutti gli uomini, essendo chiamati a partecipare al futuro di Dio, non devono avere in questo mondo fissa dimora né attaccarsi alle cose terrene e caduche. Per il sostentamento dei suoi frati, Francesco pone il lavoro al primo posto, ma in ordine alla sussistenza dei frati non esclude il ricorso all’elemosina con fiducia. Attraverso l’elemosina, intesa come «mensa del Signore» (2Test 22: FF 120), il Santo mette in evidenza il motivo ascetico di questa attività, in quanto permette ai frati di conformarsi a Cristo il quale, assieme alla vergine Maria e a suoi discepoli, sarebbe vissuto di elemosine. È stato notato che qui il serafico padre si allontana dai testi sacri, perché non risulta dai vangeli che Cristo andasse a chiedere l’elemosina o che inviasse i suoi discepoli a questo scopo, anzi è certo che, dalla cassa custodita da Giuda Iscariota, essi prelevavano il denaro per comperare i viveri e distribuirne in elemosina ai poveri. Oltre che esercizio delle virtù evangeliche dell’umiltà, della mansuetudine e della mortificazione, fare la questua per il sostentamento della propria comunità è, secondo Francesco, un diritto acquistato da Cristo povero per i suoi seguaci (Rnb IX, 7-9: FF 31).
Il programma di «altissima povertà» e di servizio vicendevole, modellato sull’esempio di Cristo, lascia trasparire un concetto ricorrente nei pensieri e nei detti di Francesco: la fiducia dei figli di Dio deve radicarsi non nel possesso delle cose, ma nell’amore provvidente del Padre e nell’amore “materno” – cioè oblativo, gratuito, concreto – scambiato all’interno della fraternità. Francesco d’Assisi, uomo della fratellanza universale, che chiamava fratelli e sorelle tutte le cose, nelle quali vedeva risplendere la bontà di Dio e la sua eterna bellezza, volle che i suoi seguaci si chiamassero fratelli o frati, denominazione che era certamente una novità. Il Figlio di Dio con la sua incarnazione e il suo sacrificio ha reso fratelli tutti gli uomini. È a questa unione tra fratelli, non più carnale o sociale, ma spirituale, che il serafico padre allude nei suoi Scritti. Essa consiste nell’accettare Dio come padre e l’uomo come fratello, da amare con la tenerezza di una madre.
Francesco viveva una reale maternità nei confronti dei frati (li amava con la tenerezza di una madre), un’affezione profonda e volta ad affermare il vero bene del fratello. Nella Lettera a frate Leone – giunta a noi autografa e conservata a Spoleto – si coglie bene questa tensione: «Frate Leone, il tuo frate Francesco ti augura salute e pace. Così dico a te, figlio mio, come madre». Francesco sottolinea come il vero amore fraterno contiene in sé la delicatezza confidente e la concretezza generosa dell’amore materno. La maternità è intesa da Francesco come il suo servizio, il suo vero ministero nei confronti dei fratelli e di tutti gli uomini.
Questo tipo di amore, delicato e cordiale, egli l’ha voluto lasciare in eredità ai propri frati, come leggiamo nel Testamento di Siena: «in segno e memoria della mia benedizione e del mio testamento, sempre [i frati] si amino gli uni gli altri».
Se Francesco era duro con se stesso, al contrario era tenero con i fratelli. Se veniva a conoscenza di frati che strapazzavano il proprio corpo praticando aspri digiuni, rinunciando a dormire o a ripararsi dal freddo, interveniva esortandoli alla prudenza e alla moderazione. Nel caso specifico delle malattie, il Santo chiede ai frati sani di essere particolarmente solleciti nell’apprestare le cure adeguate ai confratelli infermi, ma nello stesso tempo ammonisce questi ultimi a sopportare pazientemente i disagi della malattia e a non essere troppo esigenti nel chiedere «con insistenza medicine, desiderando troppo di liberare la carne che presto dovrà morire, e che è nemica dell’anima». Egli prega perciò «il frate infermo di rendere grazie di tutto al Creatore; e quale lo vuole il Signore, tale desideri di essere, sia sano che malato, poiché tutti coloro che Dio ha preordinato alla vita eterna, li educa con i richiami stimolanti dei flagelli e delle infermità e con lo spirito di compunzione» (Rnb X, 3: FF 35).
Si noti anche l’insistenza del santo sul servire così come vorrebbero essere serviti essi stessi: c’è un chiaro invito a piegare l’amore che ognuno attende per sé a diventare misura e strumento del servizio verso il fratello.
Oltre che all’espropriazione dai beni materiali, è frequente negli Scritti di Francesco il concetto di restituzione al Signore dei propri talenti, perché Dio è il datore di ogni bene e se ogni cosa appartiene a Dio, deve essergli restituito tutto quello che da lui abbiamo ricevuto; secondo il Santo, è infatti necessario che si giunga alla completa espropriazione di sé, nulla riservando a se stessi, ma donando tutto in un totale atto di amore. Questo tipo di restituzione o espropriazione conserva la sua validità spirituale ancora oggi: tutto ciò di cui l’uomo dispone, lo ha ricevuto da Dio. «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,7) La via sicura da seguire per spogliarsi di tutto, cioè non attaccare il cuore alle cose terrene, persino alle proprie doti morali. È l’atteggiamento che, secondo l’insegnamento del serafico padre, deve tenere il religioso e chiunque voglia vivere in profondità la vita cristiana.
Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata