REGOLA BOLLATA DI SAN FRANCESCO – 7

CAPITOLO VII – DELLA PENITENZA DA IMPORRE AI FRATI CHE PECCANO

1 Se dei frati, per istigazione del nemico, avranno mortalmente peccato, per quei peccati per i quali sarà stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali, i predetti frati siano tenuti a ricorrere ad essi, quanto prima potranno senza indugio. 2 I ministri, poi, se sono sacerdoti, loro stessi impongano con misericordia ad essi la penitenza; se invece non sono sacerdoti, la facciano imporre da altri sacerdoti dell’Ordine, così come sembrerà ad essi più opportuno, secondo Dio. 3 E devono guardarsi dall’adirarsi e turbarsi per il peccato di qualcuno, perché l’ira ed il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri.

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Approfondimenti

Il testo di questo capitolo, piuttosto breve, vuole dare indicazioni su come regolarsi nei casi di gravi colpe pubbliche dei frati: si rivolge anzitutto ai frati che hanno peccato, invitandoli a ricorrere ai ministri; e in secondo luogo dà indicazioni ai ministri sul comportamento da tenere con questi fratelli.

Tra le parole significative del nostro testo, merita attenzione l’espressione “per istigazione del nemico”, perché il riferimento al “nemico” tentatore ritorna anche altrove negli Scritti di Francesco, sia con l’identica espressione usata nella Lettera a un ministro, sia parlando di “istigazione del diavolo” (Rnb XIII, 1: FF 39), sia parlando ripetutamente della sua instancabile attività (Am XXVII, 5: FF 177; Rnb V, 7: FF 18; VII, 10: FF 25; VIII, 4: FF 28; XXII, 13: FF 58). Nemico può essere anche “il corpo, per mezzo del quale pecchiamo”, al quale vengono subito accostati “altri nemici visibili e invisibili” (Am 10, 2.4: FF 159), e nemici dell’uomo posso essere anche “la carne, il mondo e il diavolo” (1Lf II, 11: FF 178/5; 2Lf 69: FF 204).

Per tre volte, nei suoi Scritti, il Santo parla dei “peccati mortali” (Cant 29: FF 263; 1Lf II, 15: FF 178/6; 2Lf 82: FF 205), mostrando una acuta coscienza della loro gravità, e moltissime volte parla di peccati: ricordiamo soltanto quella volta in cui all’inizio del Testamento usa la concisa espressione “essere nei peccati” per indicare la propria condizione, prima dell’incontro con i lebbrosi che gli cambiò la vita. Emerge in lui una profonda consapevolezza della umana condizione di peccatori, a fronte della chiara percezione della bontà di Dio, che è il solo bene; ma quella che potrebbe essere una negativa percezione dell’uomo è invece una cristiana intuizione, per cui ci si vede come peccatori salvati, redenti dalla bontà di Dio. È la fede profonda nell’azione di salvezza di Dio che permette di riconoscere con tanta chiarezza la condizione di peccato da cui l’uomo è stato salvato. L’aggiunta dell’aggettivo “mortale” o dell’avverbio “mortalmente”, come nel nostro caso, esplicita quel legame tra peccato e morte che viene già annunciato nei primi capitoli della Genesi e che è una ferma convinzione della fede cristiana, che proclama in Gesù il salvatore dal peccato e dalla morte.

Merita attenzione l’espressione «quei peccati per i quali è stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali»: di che peccati si tratta? Gregorio IX nella bolla Quo Elongati chiarisce che si tratta solo di peccati pubblici e manifesti (Bolla “Quo elongati” di Gregorio IX: FF 2735). Le Costituzioni Narbonensi, la prima raccolta organica di quelle norme attuative della Regola chiamate Costituzioni, danno un contenuto a questi peccati pubblici, citando espressamente cinque casi: «per il delitto di lussuria, di disobbedienza contumace, di accettazione del denaro contro la Regola, di per se stessi o per mezzo di un’altra persona, di grave furto e di violenta percossa di un altro». Comprendiamo come con il passare degli anni si rende sempre più necessario ricorrere a delle norme esplicative, quali le Costituzioni, per attuare e fornire indicazioni più specifiche al dettato della Regola, unitamente a cercare di applicare ai diversi tempi e alle diverse situazioni le indicazioni della stessa.

Il nostro testo, parlando del ricorso ai ministri, prevede che essi possano essere o non essere sacerdoti. Si fa qui riferimento alla situazione degli inizi e dei primi decenni dell’Ordine, quando le cariche di governo potevano essere ricoperte da qualsiasi frate, sacerdote o laico che fosse. Nel nostro testo, se i ministri non sono sacerdoti, sono invitati a far imporre la penitenza “dai sacerdoti dell’Ordine”: si può dunque dedurre che nel 1223, quando viene stesa la norma della Regola, i frati sacerdoti erano già presenti in numero sufficiente da permettere che ad essi si potesse fare normalmente ricorso. Con questa prescrizione la Regola viene incontro alla disposizione del Concilio Lateranense IV che invitava i fedeli a confessare almeno una volta all’anno, al proprio parroco, i loro peccati, mentre se per giusto motivo volevano rivolgersi ad un altro sacerdote dovevano ottenere licenza dal proprio parroco. Si comprende il riferimento esplicito nel nostro testo ai “sacerdoti dell’Ordine”.

L’amministrazione della penitenza è regolata dalle espressioni “con misericordia e secondo Dio”, che caratterizzano in senso tipicamente francescano la correzione fraterna. Non è importante sapere soltanto che cosa fare con i fratelli che peccano, ma è altrettanto importante sapere come comportarsi con loro. “Misericordia” è una parola importante nel vocabolario francescano. Essa è la caratteristica di Dio, ma diventa anche il tratto che caratterizza i suoi fedeli, in particolare quando si tratta della misericordia da avere verso i fratelli, nel contesto di relazioni difficoltose. In questi contesti la misericordia rimane l’unica vera indicazione importante, che manifesta nel comportamento del discepolo le qualità del maestro. Mentre per comprendere meglio l’espressione “secondo Dio”, potremmo confrontarla con le molte volte in cui Francesco dice di comportarsi “secondo il Vangelo” o “secondo la forma del santo Vangelo”, o anche “secondo quel che dice il Signore”. Il dato che emerge da queste espressioni è la volontà di conformarsi a una forma che non ci diamo da noi stessi ma che accogliamo da Dio, attraverso le vie che egli ha scelto per rivelarsi a noi.

La frase finale del nostro capitolo mette in guardia dall’ira e dal turbamento nei confronti del peccato del fratello, atteggiamenti da evitare perché contrastano radicalmente con quello che deve essere il criterio fondamentale: la carità. Va segnalato che la coppia “ira e turbamento” ricorre altrove negli Scritti del Santo (Rb VII, 3: FF 95; Rnb V, 7: FF 18; Rnb X, 4: FF 35) e normalmente segnala un peccato che potrebbe definirsi di appropriazione: si tratta di un atteggiamento che spesso scatta di fronte al peccato altrui e che è l’esatto contrario di quello che Francesco chiama “il vivere senza nulla di proprio” (Cfr. Am XI: FF 160), che consiste nel riconoscere e assecondare l’azione del Signore nel bene che facciamo, senza appropriarcene indebitamente, pensando di possedere il bene che facciamo. Oltre che dei beni che appartengono al Signore, ci si può appropriare anche del male che è nel fratello: forma triste di appropriazione, alla quale il povero evangelico si oppone con la forza della carità.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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