REGOLA DI SAN BENEDETTO – 28

Capitolo XXVIII – La procedura nei confronti degli ostinati

1 Se un monaco, già ripreso più volte per una qualsiasi colpa, non si correggerà neppure dopo la scomunica, si ricorra a una punizione ancor più severa e cioè al castigo corporale. 2 Ma se neppure così si emenderà o – non sia mai! – montato in superbia pretenderà persino di difendere il suo operato, l’abate si regoli come un medico provetto, 3 ossia, dopo aver usato i linimenti e gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle Scritture divine e, infine, la cauterizzazione della scomunica e le piaghe delle verghe, 4 vedendo che la sua opera non serve a nulla, si affidi al rimedio più efficace e cioè alla preghiera sua e di tutta la comunità 5 per ottenere dal Signore che tutto può la salvezza del fratello. 6 Se, però, nemmeno questo tentativo servirà a guarirlo, l’abate, metta mano al ferro del chirurgo, secondo quanto dice l’apostolo: «Togliete di mezzo a voi quel malvagio» 7 e ancora: «Se l’infedele vuole andarsene, vada pure», perché una pecora infetta non debba contagiare tutto il gregge.

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Approfondimenti

Provvedimenti per i recidivi Il c. 27 presentava il caso dei fratelli scomunicati; il c. 28 presenta il “secondo atto” – diciamo così – del dramma: i recidivi, mentre nel c. 29 avremo il “terzo atto”: gli apostati.

Ci possono essere dunque dei monaci recidivi: li si corregge, li si scomunica. Se non si ottiene nulla, si venga a severi colpi di verga: il castigo corporale difatti si riserva per i duri di testa o di cuore, a cui non giovano le pene spirituali (cf. RB 23,5; 30,2). E..., se nonostante questo, non si correggono, ma anzi volessero difendere la loro condotta?

Ritorna qui l'immagine dell'abate come medico, immagine che viene più sviluppata: ha applicato i lenitivi (unguenti) delle esortazioni, i farmaci della S. Scrittura, il ferro rovente della scomunica e delle frustate (v.3). Tutto è stato vano. Allora viene suggerito “un rimedio ancora più efficace”: chiedere un particolare aiuto della grazia di Dio mediante la preghiera dell'abate e di tutta la comunità (vv. 4-5).

Esauriti tutti i mezzi naturali e soprannaturali, il medico si trasforma in chirurgo: “l'abate ricorra ormai al ferro dell'amputazione” e, per giustificare questa estrema e sgradita decisione, ricorre a due testi di S. Paolo: il primo (1Cor 5,13) si riferisce all'incestuoso di Corinto ed è ben applicato; il secondo (1Cor 7,15) non calza troppo bene, è in un senso molto accomodatizio: là S. Paolo parla del matrimonio tra un cristiano e un non cristiano e dice che, se il coniuge non credente (pagano) si vuole separare, si separi pure. SB gioca sulla parola “infidelis” che lì significa “non credente” e la applica nel senso di “non fedele” alla sua professione monastica.

Si noti la radice profonda di questa drastica decisione: “perché una pecora infetta non contagi il gregge intero” (v. 8). Il concetto è comune nei Padri: cf. Cipriano (Epistola 59,15); S. Agostino (Epistola 211,11; Regula Orientalis 35); spesso in S. Girolamo (Epistola 2,1; 16,1; 130,19). SB non caccia dal monastero per castigare l'orgoglio e l'ostinazione; in tutto il codice penale la sua preoccupazione è curare; le pene sono sempre medicinali. Qui però si sente frustrato e impotente in quanto la cura a oltranza dell'ostinato comporta dei rischi per la salvezza di tutti gli altri. Nel c. 27 si trattava di salvare una pecora smarrita, nel c.28 si tratta di salvare l'intero gregge; l'obiettivo distingue i due capitoli, però lo spirito, l'ispirazione, le immagini, la costruzione letteraria e lo stesso vocabolario sono identici.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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