REGOLA DI SAN BENEDETTO – 33

Capitolo XXXIII – Il «vizio» della proprietà

1 Nel monastero questo vizio dev’essere assolutamente stroncato fin dalle radici, 2 sicché nessuno si azzardi a dare o ricevere qualche cosa senza il permesso dell’abate, 3 né pensi di avere nulla di proprio, assolutamente nulla, né un libro, né un quaderno o un foglio di carta e neppure una matita, 4 dal momento che ai monaci non è più concesso di disporre liberamente neanche del proprio corpo e della propria volontà, 5 ma bisogna sperare tutto il necessario dal padre del monastero e non si può tenere presso di sé alcuna cosa che l’abate che l’abate non abbia dato o permesso. 6 «Tutto sia comune a tutti», come dice la Scrittura, e «nessuno dica o consideri propria qualsiasi cosa». 7 Se poi si scoprisse qualcuno che si compiace in questo pessimo vizio, bisognerà rimproverarlo una prima e una seconda volta 8 e, nel caso che non si corregga, infliggergli il dovuto castigo.

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Approfondimenti

1-4: Il vizio della proprietà È uno dei capitoli più duri della Regola, una pagina energica, radicale, in cui SB porta a conseguenze estreme l'insegnamento di Cassiano: il monaco non deve possedere nulla di proprio, ed è in totale dipendenza dalla volontà dell'abate. Senza mezze misure SB esordisce all'inizio del capitolo con una frase secca: «Nel monastero bisogna soprattutto strappare fin dalle radici questo vizio» (v. 1). Già la tradizione monastica anteriore riconosceva concordemente la povertà come elemento essenziale dello stato monastico; e la condanna della proprietà privata è uno dei temi più comuni nelle Regole monastiche e nei trattati di spiritualità: così Pacomio, Basilio, Agostino, Cassiano. Però le espressioni così forti di SB hanno un parallelo solo in alcune frasi virulente di S.Girolamo. Notiamo in questo capitolo: «nessuno ardisca» (v. 2); «nulla nel modo più assoluto; nulla insomma» (v. 3). La ragione di ciò è detta nel v. 4: poiché il monaco si è dato integralmente a Dio, ormai a lui non appartengono più né la sua volontà né il suo corpo, tanto meno quindi i beni esterni e materiali. Nel testo originale latino c'è un gioco di parole (forse un po' troppo sottile); letteralmente sarebbe: «perché i monaci non hanno sotto la loro volontà né i propri corpi, né le proprie volontà» (cioè i propri desideri).

5-6: Il vero senso della povertà monastica La povertà monastica si esprime in termini di dipendenza dall'abate. Si notino le due espressioni del v. 5: «tutto sperare» «dal padre del monastero» (= l'abate; però non è fuori luogo ricordare in questo contesto che anche del cellerario viene detto: “sia come un padre per tutta la comunità”, RB 31,2). L'altro aspetto della povertà: ciò che si ha, reputarlo come bene comune del monastero, non come proprio (v. 6); e viene citato l'ideale della comunione dei beni della Chiesa di Gerusalemme (At 4,32: la citazione è con qualche adattamento).

7-8: Penalità per i trasgressori Un capitolo così deciso e radicale non poteva non terminare con le sanzioni contro chi «va dietro a questo pessimo vizio» (vv. 7-8).

Oggi si deve intendere che il monaco abbia molte cose a suo uso personale con il permesso implicito del superiore; cioè anche se il superiore non ha dato direttamente un libro o un capo di vestiario o il computer portatile, si suppone il suo benestare e la sua benedizione per un certo spazio in cui il monaco responsabilmente usa le sue cose.

I monaci cristiani oggi dovrebbero interrogarsi:

Nonostante tutti i cambiamenti dei tempi, lo spirito del voto di povertà rimane sempre lo stesso: il distacco reale e sincero da tutti i beni temporali ed esterni, anche minimi, per avere libero il cuore ed aderire esclusivamente a Dio.

Oggi, i monaci sono chiamati, molto più che una volta, a dare una testimonianza anche collettiva di povertà. A questo, il mondo di oggi è molto sensibile (fanno problema le grandi proprietà e le vistose costruzioni dei seminari e degli istituti religiosi...). È bene che non solo il singolo monaco nella semplicità della sua stanza, nel vestito, negli oggetti di suo uso, ma anche tutta la comunità dia conventualmente testimonianza dello spirito e della pratica della povertà, tenendo conto del luogo in cui è situato il monastero. Così è bene che superiori, singoli monaci, comunità tengano in considerazione che due terzi dell'umanità non hanno di che procurarsi il necessario sostentamento, anzi vivono in condizioni sub-umane; di fronte alla povertà, non sono che inezie che dovrebbero diventare motivo – per dirla con SB, c. 40,8 – «di benedire Dio e non mormorare», perché danno modo ai monaci, in forza del Corpo Mistico, di condividere più intimamente le sofferenze dei fratelli più poveri.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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