REGOLA DI SAN BENEDETTO – 46
Capitolo XLVI – La riparazione per le altre mancanze
1 Se, mentre è impegnato in un qualsiasi lavoro in cucina, in dispensa, nel proprio servizio, nel forno, nell’orto, in qualche attività o si trova in un altro luogo qualunque, un monaco commette uno sbaglio, 2 rompe o perde un oggetto o incorre comunque in una mancanza 3 e non si presenta subito all’abate e alla comunità per riparare spontaneamente e confessare la propria colpa, 4 sarà sottoposto a una punizione più severa, quando il fatto verrà reso noto da altri. 5 Ma se il movente segreto del peccato fosse nascosto nell’intimo della coscienza, lo manifesti solo all’abate o a qualche monaco anziano, 6 che sappia curare le miserie proprie e altrui senza svelarle e renderle di pubblico dominio.
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Approfondimenti
1-4: Colpe esterne in qualunque luogo del monastero Quest'ultimo capitolo della sezione disciplinare considera tutte le altre colpe e negligenze che possano commettersi in qualunque parte del monastero. Il castigo per i falli esterni qui previsti – rompere qualche oggetto o perderlo – non costituisce nessuna novità per la legislazione monastica: Pacomio (Reg. 13-17,131) e Cassiano Inst. 4,16) lo menzionano. Ciò che è nuovo è l'esigenza di spontaneità e l'immediatezza della soddisfazione (non previste in Cassiano e in RM). SB prevede due gradi: il primo è la soddisfazione immediata; il secondo, nel caso della non soddisfazione, è la scomunica. SB si ispira a S. Agostino (Epistola 211,11) che prevede, per il monaco che riceve regali di nascosto, tutti e due i casi: se lo confessa spontaneamente, verrà perdonato; se si viene a sapere da altri (per esempio da un decano o da qualche altro fratello, sarà punito più severamente. Tuttavia, mentre Agostino parla di una colpa abbastanza grave (doni ricevuti di nascosto da una donna), SB applica la norma a casi più banali ed estende il suo campo di applicazione. Ricordiamo che nella vita del S. Patriarca, abbiamo un esempio di ambedue i casi: la confessione spontanea del buon goto, che venne subito confortato da SN (II Dial. 6) e il monaco che aveva ricevuto dei fazzoletti e non disse nulla e ne ebbe una solenne lavata di capo (II Dial. 19).
5-6: Colpe interne o peccati occulti Il monaco deve dunque confessare spontaneamente le proprie mancanze, anche le più materiali, e soddisfare per esse. Se invece si tratta di “peccati occulti” commessi nel segreto della propria coscienza, non devono essere pubblicati. Bisogna, sì, confessarli, ma solo all'abate o ai “padri spirituali”. Non è facile stabilire precisamente ciò che si intende per “peccati occulti”. Si può fare riferimento a RM. 15 (pensieri cattivi) e a Cassiano (Coll. 2,11.13: furto, pensieri impuri). In RM la confessione si fa all'abate, ed è preparata dai preposti (decani); in RB si fa all'abate e ai “seniori spirituali”: questi possono essere i decani, ma non solo loro. “Anziani spirituali” nella tradizione monastica (trasmessa soprattutto da Cassiano), sono quei monaci molto avanti nella vita spirituale, alla fine del cammino della scala dell'umiltà , quindi oggetto di una particolare ispirazione dello Spirito Santo. Non si tratta dei sacerdoti del monastero (RB. 62), né si parla qui della confessione sacramentale, ma di vera direzione spirituale che, secondo la Regola, non è solo monopolio dell'abate. La manifestazione dei pensieri cattivi e dei peccati occulti è ricordata altre volte nella RB: in uno strumento delle buone opere (RB 4,50) e nel 5° gradino dell'umiltà (RB 7,44-45).
Tutta questa finale del c. 46 si ispira in qualche modo a RM. 15 (e a S. Agostino, soprattutto per la spontaneità dell'accusa), ma è originale nella distinzione netta tra la confessione pubblica per le mancanze esterne e la confessione privata per i peccati interni. Quando SB dice: “sappia curare le piaghe proprie e altrui”, include in tale scienza la nozione della Scrittura (come RM), ma soprattutto la capacità di tacere sulla confessione ricevuta, e in più ricorda all'abate e al “seniore spirituale” la propria fragilità : anche loro sono peccatori come gli altri.
CONCLUSIONE SUL CODICE PENITENZIALE (RB23-30 e 43-46) Concludendo, richiamiamo alcuni valori fondamentali del codice penitenziale benedettino:
Importanza della persona. Più volte nel codice penale – come anche nel capitolo sull'abate (cf. RB 2,23-25.27.28-31) – SB ritorna sul fatto che la punizione deve essere adeguata all'indole di ciascuno, proprio perché non si tratta di vendetta, ma di un modo per aiutare e curare il fratello che sbaglia. Perciò SB, a malincuore e dopo numerosi tentativi, si decide ad espellere il monaco colpevole e solo per timore che altri si perdano a causa sua (RB 28,6-8); e in seguito, se quegli si pente, è disposto a riprenderlo in comunità anche più volte. (RB 29,1-3).
Dimensione comunitaria. Un fatto emerge dal codice penitenziale, al di là delle forme e delle consuetudini dovute alla società del tempo: ogni trasgressione alla Regola, ogni mancanza grande o piccola commessa in monastero, è un attentato alla vita della comunità e come tale deve essere corretta e riparata; è sulle condizioni e sui modi di appartenenza alla comunità che scatta la scomunica, la cui pena è proprio l'esclusione dalla vita di comunione nei suoi gesti principali: preghiera e mensa.
Che cosa rimane oggi? Che cosa possiamo e dobbiamo ritenere oggi di tutto il codice penitenziale della RB? Certo, la presenza stessa di un codice penale nella Regola può risultare sgradevole alla nostra mentalità odierna; e di fatto l'accentuazione dell'aspetto giuridico e casuistico ha portato ad immagini di monastero troppo distanti dallo spirito del Vangelo e del monachesimo: monasteri quasi caserme o scuole nel senso peggiore (la storia ce ne fornisce degli esempi) e non comunità di volontari, aggregazione libera per seguire Cristo.
Tuttavia ci sono alcuni valori nel codice penitenziale che non dovrebbero andare perduti. Poniamo delle riflessioni in forma di questioni:
La pratica della scomunica implicava delle regole molto strette e precise di appartenenza alla comunità . Il fatto di aver abolito ogni penalità non potrebbe indicare che questi criteri di appartenenza sono divenuti molto labili? che, cioè, si tende a vivere in modo individualistico?
Con le punizioni e le penitenze, la Regola intende dare soprattutto un aiuto al monaco perché egli possa prendere coscienza dei propri difetti e correggersi (aspetto medicinale della pena). Abbiamo trovato, oggi, altri modi concreti di aiuto? O ciascuno è lasciato “libero” (cioè solo) con i propri limiti e il desiderio di superarli?
Nella RB pena e penitenza hanno un carattere pubblico, come detto sopra. Abolite, per la mentalità dei tempi, tutte le pratiche della Regola, non c'è pericolo che vi sia una mancanza di sensibilità riguardo al confronto e alla correzione fraterna? O, peggio, dato che ci si conosce molto bene, non ci riduciamo forse soltanto a fare mormorazione e critica “privata”? Dobbiamo – credo – educarci di più al senso della responsabilità reciproca: la comunità intera come organismo deve salvare i suoi membri deboli e infermi, non con un malinteso senso di pietà o peggio con una colpevole solidarietà con i vizi, ma con una carità genuina che comprende la correzione fraterna – la “verità nella carità ”, cf. Ef 4,15) – con una preghiera insistente e con un supplemento di santità . Dio ci ha riuniti insieme perché lo cerchiamo nella preghiera, nel lavoro, nella vita comune. Ognuno deve sentirsi ormai inseparabile dai suoi confratelli e solidale con essi per sempre. Bisogna dunque che egli lavori, preghi, si sacrifichi non solo per raggiungere la propria santificazione personale, ma anche per aiutare quella degli altri.
Possiamo ritenere almeno queste riflessioni dall'esame dei dodici capitoli del codice penitenziale della RB.
Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.
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