REGOLA DI SAN BENEDETTO – 72

Capitolo LXXII – Il buon zelo dei monaci

1 Come c’è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all’inferno, 2 così ce n’è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna. 3 Ed è proprio in quest’ultimo che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità 4 e cioè: si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore; 5 sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali; 6 gareggino nell’obbedirsi scambievolmente; 7 nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica utile per gli altri; 8 si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo; 9 temano filialmente Dio; 10 amino il loro abate con sincera e umile carità; 11 non antepongano assolutamente nulla a Cristo, 12 che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

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Approfondimenti

Il TESTAMENTO SPIRITUALE di S.Benedetto Con ragione il c. 72 è stato considerato sempre come una delle pagine più preziose della Regola. È certamente il capitolo più soave del codice monastico, sintesi del suo contenuto, compendio della perfezione monastica. Chiudendo la Regola il S. Patriarca non sa meglio sintetizzare il suo insegnamento se non nella parola con cui Gesù compendia e corona la sua dottrina: la CARITÀ.

RB 72 è stato chiamato il “testamento spirituale” di S. Benedetto. Si presenta in effetti con le caratteristiche di un capitolo conclusivo: esortazione, sentenze spirituali, frase finale in forma di augurio e di preghiera; veramente appare chiaro che ci troviamo di fronte alle “ultime parole” ultima verba del Santo Padre. D'altronde è abbastanza evidente che il c. 73 era stato composto prima e si trovava subito dopo il c. 66, e fu posto dopo il c. 72 nella redazione definitiva della Regola, a guisa di epilogo, quale è in realtà.

Quindi le ultime frasi che uscirono dalla penna di SB possiamo ritenerle queste sullo “zelo buono”. È stato scritto: “La cosa più importante di questo capitolo è il fatto di offrire la prospettiva in cui si deve leggere la Regola. Appare come SB, dopo essere vissuto per lungo tempo con i suoi monaci in una vita di preghiera e di osservanze monastiche, sia giunto a questa convinzione: la dimensione della carità, lo zelo buono; che ne è il segno e il risultato, è la cosa più importante per il monaco” (J. E. Bamberger).

Il testamento spirituale di SB costituisce la canonizzazione – per così dire – delle relazioni interpersonali: i fratelli che vivono in uno stesso monastero e formano una sola famiglia spirituale, debbono stimare sopra ogni altra cosa e coltivare con zelo queste relazioni interpersonali. Questa pagina così densa e soave, non può essere frutto solo di teoria, di letture, di fonti che possono avere influito; si tratta soprattutto dell'esperienza personale di SB, uomo di Dio e padre spirituale: veramente egli parla “ex abundantia cordis” (dalla sovrabbondanza del cuore). Tuttavia possiamo notare in generale l'influsso di Agostino e reminiscenze soprattutto di S. Paolo, nonché della meravigliosa Collazione 16 di Cassiano sulla “amicizia spirituale”.

Schema del capitolo Come altri legislatori, SB stende il suo testamento spirituale in forma concisa, con massime brevi e precise. Definisce prima lo “zelo buono” (vv. 1-2); esorta ad esercitarlo (v. 3); enumera otto massime in cui esso deve manifestarsi (vv. 4-11); conclude con un augurio e una preghiera (v. 12).

1-2: Lo zelo buono La parola “ZELO” viene dal greco, da una radice che significa “essere caldo”, in ebollizione; quindi si tratta di una “passione”, e comprende ira, invidia, gelosia, ecc. In latino “zelum” significa gelosia, sentimenti di rivalità, che opera da agente disgregatore della comunità, S. Paolo lo include tra le opere delle tenebre (Gal 5,20-21; cf Gc 3,14 “zelum amarum”). Anche SB usa il termine nel senso di invidia, gelosia: RB 4,66; 65,22. Tutto questo è uno zelo cattivo, amaro (v. 1). Ma la Scrittura conosce un altro genere di gelosia, quella che si applica a Dio, quando dice che “JHWH si chiama Geloso; egli è un Dio Geloso” (Es 34,14), che non tollera rivali nell'onore e nell'amore a Lui dovuti. Da questa gelosia divina deriva lo zelo che animava gli uomini di Dio; “lo zelo della tua casa mi divora” (Sal 68,10) venne in mente agli apostoli quando videro Gesù scacciare i venditori dal tempio (Gv 2,17); nello stesso senso S. Paolo scriveva ai Corinzi: “Io sono geloso di voi, della gelosia di Dio, avendovi promesso a un unico sposo per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2Cor 11,2). È questo lo “zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna” (v. 2).

In questo senso la parola ha il significato di ardore, fervore, come in RB 64,6; anche a proposito del portinaio si parla di fervor caritatis (fervore di carità, RB 66,4). Il doppio zelo richiama la dottrina delle due vie, come spesso nell'AT e nel discorso della montagna, Mt 7,13-14. È interessante notare che questo zelo buono che conduce a Dio e alla vita eterna si esplicita, come vedremo subito, nelle manifestazioni della carità fraterna; cioè: quella purificazione dei vizi e raggiungimento della vita eterna che SB aveva prima attribuito a tutto il cammino dell'umiltà (RB 7,67-70), qui è attribuito all'amore fraterno, quindi l'unione dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo.

Ha scritto DeVogué: “(...) l'ascetismo monastico (...) si arricchisce qui di una nuova dimensione. L'itinerario del monaco, dal timor di Dio fino alla carità perfetta, attraverso l'obbedienza, la pazienza, l'apertura della propria coscienza, l'umiltà, il silenzio, la compunzione – per non citare che le prime tappe –, nelle quali il discepolo camminava sempre solo dietro le orme del suo maestro, si allarga e completa con un nuovo tracciato, finora poco indicato. All'ascetismo individuale praticato sotto la direzione di un superiore, si aggiunge un elemento nuovo: le relazioni fraterne”.

3-11: Le massime dello zelo buono SB raccomanda dunque che “a questo zelo buono debbono darsi i monaci”, cioé agire ferventissimo amore (con ardore di carità, con intenso amore, v. 3). E passa ad enunciare alcune manifestazioni. Le otto massime, concise, sono enunziate quasi tutte col medesimo schema: all'inizio il termine principale, alla fine il verbo in forma esortativa. Le prime cinque massime si riferiscono all'amore fraterno, con varie modalità; le ultime tre all'amore a Dio, all'abate, a Cristo. Sono una specie di apoftegmi meravigliosamente espressivi.

1. (v.4) È il testo di S. Paolo (Rm 12,10) già citato in RB 63,17; però qui non si allude affatto all'ordine di precedenza, si onora il fratello senza guardare se è superiore o un inferiore: il fervore di carità non fa caso a queste distinzioni. 2. (v.5) Norma quanto mai necessaria per una vera convivenza nella carità. Chi è così perfetto da non avere qualcosa da far sopportare al vicino? In ogni comunità la massima è di costante applicazione. (L'espressione ricorda Cassiano, Coll. 19,9). 3 (v.6) Su questo tema dell'obbedienza reciproca SB ha parlato nel c. 71. Ma qui non si allude all'ordine di precedenza; e c'è anche l'avverbio “certatim” (a gara), cioé si deve proprio sentire il gusto, il compiacimento di obbedirsi a vicenda. 4. È di chiaro sapore paolino: cf 1Cor 10,24.33; 13,5; Fil 2,4. Si tratta della sollecitudine dettata dalla vera carità, e nel monastero ci sono tante occasioni di sacrificare i propri interessi, riposo, piccole comodità, ritagli di tempo, ecc. Tale pratica costante richiede una continua abnegazione e può significare spesso un vero eroismo, nascosto, ma genuino. 5. (v.8) Anche questa è ispirata a S. Paolo: cf Rm 12,10; 1Tess 4,9; cf. anche Eb 13,1 e 1Pt 1,22. L'avverbio “caste” (con amore puro, castamente), significa l'amore soprannaturale, gratuito, disinteressato, non cioé l'affetto sensibile e naturale. I monaci devono sapersi voler bene di quell'amore che scaturisce dall'amore di Cristo. Come commento ai vv. 7-8, si legga tutto il brano di S. Paolo ai Filippesi 2,1-5 (prima dell'inno cristologico sulla “kenosis” di Gesù). 6. (v.9) Da questo versetto di lascia un po' la dimensione orizzontale per elevarsi, da questa piattaforma dell'amore fraterno, verso l'alto, all'amore di Dio, dell'abate, di Cristo. “Temeranno Dio con amore”: comunemente amore e timore si interpretano come due termini antitetici. Gli antichi la pensavano diversamente (nella Scrittura il “timore di Dio” è una realtà molto complessa che significa tutto il fenomeno religioso, tutta l'esperienza di Dio, fino all'amore). S. Cipriano ha “amore e timore” nella stessa frase (preghiera del Signore, 15); nel Sacramentario Leoniano (XXX,1104) abbiamo la medesima espressione di SB: amore te timeant (ti temano con amore); secondo Cassiano, il timore amoroso di Dio, “timore di amore”, è il grado più alto e sublime a cui possono arrivare i perfetti (Coll. 11,15). 7. (v.10) È un precetto formale, anche se non del tutto nuovo; SB ha parlato dell'amore per l'abate per amore di Cristo (RB 63,13); all'abate raccomanda di farsi più amare che temere (RB 64,15); l'abate deve amare tutti i fratelli (RB 2,17). Ora chiaramente si dice che i fratelli devono amare l'abate con sincerità. Nella RM questa idea manca del tutto, lo schema è molto più verticale: per il loro maestro i discepoli non possono nutrire se non fede e obbedienza. La RB pone l'amore reciproco tra monaci e abate, nella stessa corrente di carità verso Dio: “misura del cenobitismo à la relazione mutua che unisce i fratelli all'abate in Cristo” (DeVogué). 8. (v.11) Il nome di Cristo non era ancora apparso nel testamento spirituale di SB; è stato lasciato alla fine come coronamento. L'espressione è presa da S. Cipriano: “Non antepongano assolutamente nulla a Cristo, perché Egli non antepose nulla a noi” (La Preghiera del Signore, 15); anche S. Agostino ha: “Nihil praeponant Christo” (Espos. sul Salmo 29,9). SB ha già posto una simile massima tra gli strumenti delle buone opere: “Niente anteporre all'amore di Cristo” (RB 4,91). Qui la rafforza con un energico “omnino” . Il monaco ha posto l'amore di Cristo al di sopra di ogni altro amore; “Christo omnino nihil praeponant” è l'anima e l'anelito di tutta la Regola come di tutta la vita di S. Benedetto.

12: Orazione conclusiva La frase che esprime un desiderio, un augurio, un voto, una speranza, non solo chiude il capitolo, ma, nella mente del legislatore, tutta l'appendice (cc. 67-72) e quindi tutta la Regola. SB ha parlato di tante cose, ha dato tante disposizioni, consigli, esortazioni: certo, tutto si deve cercare di fare, e il monaco può attraversare tanti momenti di scoraggiamento, può sperimentare la difficoltà del cammino. E allora il S. Padre termina con una orazione breve, intensa, significativa, in prospettiva escatologica. Si tratta di arrivare alla “vita eterna”, alla patria celeste tante volte intravista e sospirata nel corso della Regola (cf Prol. 17,41; RB 4,46; 5,3.10; 7,11; 72,2): a Cristo e solo a Cristo il monaco affida la capacità di poter trionfare definitivamente nella sua “ricerca di Dio” (RB 58,7); ed Egli solo ci potrà condurre alla vita eterna, “pariter” (tutti insieme). E notiamo questo “tutti insieme”: non si tratta di un'impresa solitaria, di un cammino desertico, ma insieme: i cenobiti camminano alla pari, formando una carovana con Cristo in testa che guida e ci conduce alla vita eterna.

Conclusione Tale è il testamento spirituale di SB; un capitolo in cui scompaiono – diciamo così – le precedenze, la disciplina regolare, le difficoltà del cammino ascetico; un capitolo ridondante tutto di amore, amore a Dio, a Cristo, all'abate, in particolare dell'amore reciproco tra i fratelli: una nuova dimensione che completa, arricchisce, e in un certo senso modifica l'ascetismo monastico descritto nei primi capitoli della Regola. SB ha scoperto (nella linea di Agostino) tutto il valore umano e cristiano della comunità; è giunto alla ferma convinzione che i monaci cenobiti non vivono insieme in monastero solo per essere discepoli di uno stesso maestro, l'abate, ma che la stessa vita di comunità, la comunione di spirito costituisce un fine in sé, nello stesso tempo che è il mezzo proprio di questo genere di monaci, per correre verso la vita eterna. Perciò al termine della Regola SB dà tanta importanza alle relazioni interpersonali, alla comunione dei fratelli tra loro, con l'abate e con Cristo in Dio. Ecco allora lo zelo buono, la “gelosia” buona: “una emulazione per amore nelle diverse manifestazioni dell'amore” (DeVogué).

Concludiamo con una citazione del grande maestro della vita comune, il “Dottore della carità”, S. Agostino. Parlando delle comunità di Roma e di Milano, egli scrive: “Vi si osserva principalmente la carità. Alla carità si ispira e si adatta il loro cibo, la loro conversazione, il loro vestito, il loro ambiente. Tutto è indirizzato e coordinato verso la carità. Sanno che Cristo e gli Apostoli la raccomandarono tanto che, se essa manca, nulla conta, e, se essa è presente, tutto acquista la sua pienezza”. (De Moribus Ecclesiae Catholicae 33,73). Non ci sono parole più belle per esprimere l'ideale comunitario di S. Benedetto.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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