REGOLA DI SANTA CHIARA – 2
CAPITOLO II
COME DEBBONO ESSERE ACCETTATE LE POSTULANTI
1 Se qualcuna, per ispirazione divina, verrà da noi per abbracciare questa norma di vita, l’abbadessa sia tenuta a richiedere il consenso di tutte le suore; 2 se la maggioranza acconsentirà, avuta la licenza del signor cardinale nostro protettore*, possa accettarla. 3 Se vedrà che debba essere accettata, la esamini diligentemente, oppure la faccia esaminare circa la fede cattolica e i sacramenti della Chiesa. 4 Se crederà tutte queste cose e vorrà con fedeltà crederle e osservarle sino alla fine, 5 né avrà marito o, se l’avesse, che egli sia già entrato in religione, con l’autorizzazione del vescovo diocesano, dopo aver emesso il voto di continenza; 6 ed anche se non vi sia impedimento per l’età troppo avanzata né debolezza per l’osservanza di questo genere di vita; 7 allora le si esponga con diligenza il tenore della vita nostra.
8 Se sarà ritenuta idonea, le si dicano le parole del Vangelo: «vada, venda» i suoi averi e s’impegni a distribuirli «ai poveri» (cf Mt 19,21). 9 Se non potrà farlo, basterà la buona volontà. 10 Si guardi bene l’abbadessa e le suore di agognare le sue sostanze temporali, perché liberamente possa disporne come il Signore l’ispirerà. 11 Se poi chiedesse consiglio, l’inviino a persone giudiziose e «timorate di Dio» (cf At 13,16), con il consiglio delle quali i suoi beni siano distribuiti ai poveri. 12 Tosata in tondo e deposte le vesti secolari, le siano date tre tonache ed il mantello. 13 D’allora in poi, non le sarà più lecito uscire dal monastero, senza una ragione utile, ragionevole, manifesta e probabile**. 14 Terminato poi l’anno della prova, sia ricevuta alla obbedienza, promettendo di osservare per sempre questa vita e forma della nostra povertà.
15 Nessuna sia velata durante l’anno di prova. 16 Le suore possano avere le mantellette per sollievo ed onestà di servizio e di lavoro. 17 Ma l’abbadessa le provveda con discrezione dei vestiti, secondo la qualità delle persone, i luoghi, i tempi, il freddo delle regioni, come vedrà convenire alla necessità. 18 Le giovinette ricevute in monastero prima del tempo d’età permessa, siano tosate in tondo; 19 e, deposto l’abito secolare, siano vestite dell’abito religioso, come parrà all’abbadessa. 20 Raggiunta l’età legale, rivestite come le altre, emettano la professione. 21 L’abbadessa provveda ad esse e alle altre novizie con sollecitudine una maestra, 22 che le istruisca nella santa conversazione e nell’onestà dei costumi, secondo la forma della nostra professione.
23 Nell’esame e nella recezione delle sorelle inservienti fuori del monastero, si osservi la forma predetta; e possano portare i calzamenti. 24 Nessuna possa con noi risiedere in monastero, se non ricevuta a norma della nostra professione. 25 E per amore del santissimo e dilettissimo bambino, «reclinato nel presepio, avvolto in poveri pannicelli» (cf Lc 2,7.12), e della sua santissima madre, ammonisco, supplico ed esorto le mie suore di vestirsi sempre di panni vili.
___________________ Note al CAP. II *Il cardinale protettore è una presenza determinante negli eventi e nella vita di Chiara e dell’Ordine.
**Chiara interpreta il significato della clausura in modo diverso dal card. Ugolino. Per lei è un modo per facilitare e proteggere la vita contemplativa, per garantire l’intimità con Dio e il dialogo orante delle sorelle. Si tratta di un’esigenza d’amore che vuole intrattenersi, senza distrazioni, davanti all’Eterno sommamente amato. È necessaria la libertà della mente dagli strepiti distrattivi, la libertà del cuore dagli affetti parentali e mondani, la libertà del corpo dalle futili esigenze fisiche (LCla 23,2-5: FC 520). La virtù teologale che vi soggiace è la carità dialogante con lo Sposo. Per il cardinale Ugolino, invece, l’attenzione si sposta su un piano diverso. Egli crea delle norme affinché le religiose siano salvaguardate da un punto di vista morale, in particolare in campo affettivo e nell’ambito della castità. La virtù di base è la prudenza, accompagnata dalla carità. Entrambe devono esistere e operare insieme, evitando gli inconvenienti negativi che l’una o l’altra potrebbero creare.
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Approfondimenti
Passando agli elementi che denotano il carattere penitenziale della forma di vita delle Sorelle povere, notiamo subito il risalto che la Regola dà all’atto di ingresso in monastero consistente nella tonsura, nella deposizione degli abiti secolari e nella consegna dell’abito di penitenza: tre tonache e il mantello. Non sembra prevista una differenza tra l’abito delle novizie e quello delle professe, come accade invece in Rb 2,9 in cui si parla espressamente di pannos probationis: le tonache dei novizi si differenziano da quelle dei professi perché senza cappuccio. Nulla di preciso si dice riguardo al velo, a cui invece la Regola di Innocenzo come poi quella di Urbano IV dedicano un certo spazio, precisando anche che le novizie lo devono portare bianco: per l’essenzialità che caratterizza tutto il testo clariano non ci si sofferma sugli usi comuni ai monasteri del tempo. La prescrizione Nulla infra tempus probationis veletur (2,15: «Nessuna sia velata durante il tempo di prova»), non indica la proibizione di avere il capo velato – era disdicevole che una donna tonsurata andasse a capo scoperto – ma, a nostro parere, formalizza il divieto di ricevere la consacrazione delle vergini durante il noviziato, analogamente alle costituzioni delle Domenicane di Montargis del 1250. In ambito monastico l’uso di dare l’abito ai novizi, ad eccezione della cocolla, era relativamente recente, poiché la Regola di Benedetto, come già quella del Maestro, concedeva l’abito religioso solo al termine del noviziato, al momento della professione. Mentre i primi Cisterciensi, fedeli alla stretta osservanza della Regola benedettina, continuavano a dare l’abito al termine dell’anno di prova, le Consuetudini cluniacensi diffusero l’uso di fare la tonsura e la vestizione all’inizio del noviziato. Nella Forma vitae di Chiara i gesti simbolici del taglio dei capelli e dell’assunzione dell’abito religioso posti subito dopo l’ingresso in monastero – notiamo che i passi paralleli di Ugolino e Innocenzo parlano solo del mutamento di abito, mentre alla tonsura si accenna solo nell’ambito degli usi della vita quotidiana – più che alle consuetudini recenti dei monasteri benedettini sono da collegare a quel contesto penitenziale femminile in cui si erano sviluppati nel corso dei secoli. Tonsura e assunzione dell’abito di penitenza segnano l’ingresso in quella categoria di “servi Dei”, di penitenti alla quale, da parte dell’autorità ecclesiastica, erano concessi taluni privilegi e, in particolare, difesa da possibili vessazioni di parenti o di autorità civili. Non meraviglia che, per una sorta di assimilazione al sentire comune, nei monasteri femminili medievali la tonsura, intesa come gesto di penitenza e di abbandono del mondo, ma anche come rito di iniziazione e di messa in tutela, si sia imposta già nell’alto Medio Evo. Chiara stessa nel corso del testo indica la sua scelta religiosa con i termini inequivocabili di «fare penitenza», come Francesco nel suo Testamento. Dunque per Chiara l’ingresso in monastero è già un radicale abbandono del mondo per porsi definitivamente al servizio di Cristo, benché il legame giuridico con la comunità si attui solo al momento della ricezione all’obbedienza. E chiaramente penitenziale è la qualità delle vesti, che la santa raccomanda con toni accorati in uno dei passaggi della Regola in cui la sua sensibilità spirituale emerge con toni del tutto personali. Siamo alla fine dello stesso capitolo 2. Dopo aver trattato dell’accoglienza e ricezione all’obbedienza delle sorelle che prestano servizio fuori del monastero e precisato la professione della forma di vita come condizione per risiedere in monastero, senza neppure spezzare la frase, esce in questa bellissima esortazione: _«E per amore del santissimo e dilettissimo bambino, «reclinato nel presepio, avvolto in poveri pannicelli» (cf Lc 2,7.12), e della sua santissima madre, ammonisco, supplico ed esorto le mie suore di vestirsi sempre di panni vili» (RCla 2,25). Fin dai primi secoli penitenti, chierici e monaci si distinguevano dai secolari per l’abito di qualità comune e il colore grigio o nero, bandendo vesti colorate, ornamenti vari e tutto ciò che poteva dare adito a lusso o vanità223. Chiara raccomanda quindi alle sorelle di mantenersi sempre, anche con l’aspetto esteriore, nella condizione di chi ha scelto la vita di penitenza, indossando indumenti di poco prezzo, vilibus, per quanto riguarda il tipo di stoffa e il colore. Notiamo una significativa differenza col testo parallelo di Francesco: anche il capitolo 2 della Rb si conclude con la stessa raccomandazione ai frati, ma cambia completamente la prospettiva. Nella RCLa non c’è il confronto con i ricchi di questo mondo che vestono sfarzosamente – pure fuori luogo per delle donne rinchiuse – e neppure la preoccupazione del disprezzo di se stessi, a cui esorta Francesco. In Chiara lo sguardo è solo rivolto al Bambino, santissimo e dilettissimo, avvolto in pannicelli poverelli (quanta tenerezza verso Gesù bambino esprimono i superlativi e diminutivi) e reclinato nella mangiatoia: per amore suo e della sua santissima Madre, che per prima ha condiviso la povertà del Figlio, vuole che le sorelle si vestano poveramente. Chiara non teme neppure di raddrizzare la rotta spirituale di Francesco, per mettere ancora una volta al centro della sua scelta penitenziale la contemplazione, amorosa e stupita, dell’incarnazione del Figlio di Dio.
Se l’abito è segno esterno della vita di penitenza evangelica, questo non impedisce che ogni sorella abbia le vesti di cui ha bisogno, secondo le caratteristiche di ciascuna, i luoghi e le stagioni: la Forma vitae 2,17 si ispira in questo alla Regola bollata e alla Regola benedettina, dove il discernimento attento e premuroso nel vestire i singoli monaci è uno dei compiti dell’abate. Proprio questo senso di discrezione e di attenzione alla persona, con le sue necessità e fragilità, porta Chiara a prevedere l’uso di mantellette per il servizio e il lavoro. La possibilità di usare un abito più agevole per il lavoro era già stata prevista sia da Benedetto, sia da Ugolino e Innocenzo: tutte e tre le regole prevedono in questo caso gli scapularia. Dai testi papali pare comunque che anche lo scapolare non fosse pratico da portare (grave et molestum dice Ugolino), per cui Chiara, con la sua grande discrezione e senso pratico, non lo adotta prevedendo al suo posto le mantellulas. Il mantello corto non è un’invenzione di Chiara, ma quanta sensibilità e premura materna possiamo cogliere in quel desiderio di alleviare alle sorelle il peso della fatica!
«D’allora in poi, non le sarà più lecito uscire dal monastero, senza una ragione utile, ragionevole, manifesta e probabile» (RCla 2,13) Chi entra tra le Sorelle povere e vi riceve i segni della penitenza, abbraccia fin dall’inizio anche l’impegno a vivere nella stretta reclusione. Con la sobrietà che la caratterizza, Chiara riassume in soli quattro aggettivi le motivazioni che possono giustificare un’eventuale uscita dal monastero: nelle Regole di Ugolino e di Innocenzo IV i casi vengono esplicitati più diffusamente e con una sottolineatura maggiore della severità della norma claustrale. È un motivo da discernere volta per volta, e anche in queste scelte emerge l’atteggiamento di fondo che è in Chiara, quello della fiducia nella capacità che le abbadesse e le sorelle, presenti e future, sapranno operare questo discernimento, a partire dal loro amore per ciò che è essenziale. Un discernimento che si appoggia per lei su questa libertà dell’amore e nell’amore.
Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita