REGOLA DI SANTA CHIARA – 3

CAPITOLO III

UFFICIO DIVINO, DIGIUNO, CONFESSIONE E COMUNIONE

1 Le suore che sanno leggere recitino l’ufficio divino secondo l’usanza dei frati minori, dal momento in cui potranno avere i breviari, senza canto*. 2 Coloro che per cause ragionevoli non potessero recitare le ore canoniche, dicano, come le altre suore, i Pater noster (cf Mt 6,9-13).

3 Quelle che non sanno leggere dicano ventiquattro Pater noster per il mattutino, cinque per le lodi, 4 per prima, terza, sesta e nona, sette per ciascun’ora; dodici per il vespro, sette per compieta. 5 Per i defunti dicano sette Pater noster con il Requiem aeternam, dodici a mattutino, 6 essendo le suore che sanno leggere tenute a recitare l’ufficio dei morti. 7 Quando poi morirà qualche suora del nostro monastero, recitino cinquanta Pater noster.

8 Le suore digiunino sempre. 9 Per il Natale del Signore, però, in qualunque giorno cada, possano mangiare due volte. 10 Per le giovinette deboli e per le inservienti fuori monastero, l’abbadessa con misericordia dia dispense. 11 In tempo di necessità manifesta, le suore non siano tenute al digiuno corporale.

12 Con il permesso dell’abbadessa, si confessino almeno dodici volte l’anno. 13 In quest’occasione, si guardino dall’aggiungere altri discorsi estranei alla confessione e alla salvezza dell’anima. 14 Si comunichino sette volte, cioè: per Natale, Giovedì santo, Pasqua, Pentecoste, Assunzione della beata Vergine, festa di san Francesco, Ognissanti. 15 Per comunicare le suore sane e quelle malate, al cappellano sarà permesso celebrare in clausura.

___________________ Note al CAP. III *In conformità alle disposizioni di recitare l’Ufficio secondo l’uso e i tempi dei Frati minori; interessante la proibizione di cantare, proprio in segno di distinzione dalle «coriste benedettine», in nome della povertà e della semplicità.

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Approfondimenti

I Frati minori avevano scelto di adottare non un rito locale qualsiasi o di un Ordine monastico, ma l’Ufficio celebrato dalla Curia papale, per significare lo stretto vincolo che univa la nuova fraternitas al papa e alla Sede apostolica, oltre che per un’esigenza di uniformità liturgica all’interno dell’Ordine. Il rito della Curia papale era poco diffuso fuori Roma. Era stato adottato anche dall’Ordine ospedaliero di Santo Spirito in Saxia sotto il pontificato di Innocenzo III. Per le Sorelle povere si tratta piuttosto di esprimere con l’unità liturgica l’appartenenza alla famiglia minoritica, nella direzione in cui già era andata la regola di Innocenzo IV del 1247. L’Ufficio adottato dalle Sorelle povere è quindi quello corrente nell’Ordine dei Frati minori, come si trova in Ordo breviarii e Ordo missalis fratrum minorum secundum consuetudinem romanae curiae frutto dell’adattamento operato dal ministro generale Aimone di Faversham nel 1243-44.

La distinzione chierici/laici per una comunità femminile ovviamente non può essere recepita se non come distinzione tra chi sa leggere e chi non sa leggere, già presente nella Rnb 2, dove si distingue tra chierici, laici che sanno leggere e laici che non sanno leggere, distinzione assente nella Rb, che fa differenza solo tra chierici e laici. La differenziazione tra sorelle che sanno leggere e quelle che non sanno leggere c’è anche nei testi di Ugolino e Innocenzo, dove si specifica pure la possibilità che le monache oltre che leggere sappiano anche cantare (per Ugolino è possibilità, per Innocenzo è dato di fatto).

La peculiarità della Forma vitae di San Damiano rispetto alla Regola bollata e alle due regole papali appare nella precisazione legendo sine cantu. In questa panoramica sulla Regola di Chiara non possiamo addentrarci nei particolari della problematica, che andrebbe approfondita in modo accurato. Ci pare tuttavia che sia in gioco qualcosa di importante, tanto più che in due versetti viene ripetuto per due volte il gerundio legendo. Mettiamo a confronto i due passi paralleli della Regola bollata e della Forma vitae clariana: «Clerici faciant divinum officium secundum ordinem sanctae romanae Ecclesiae excepto psalterio, ex quo habere poterunt breviaria»; «Sorores litteratae faciant divinum officium secundum consuetudinem fratrum minorum, ex quo habere poterunt breviaria, legendo sine cantu». Quattro elementi:

  1. la prescrizione della recita dell’Ufficio divino;
  2. il rito adottato;
  3. i libri liturgici;
  4. un’eccezione al rito stesso adottato:

Al sine cantu si sono date varie interpretazioni più o meno ampie, ma esaminando altri testi normativi medievali vediamo che in essi significa solo e semplicemente “senza canto”, in opposizione a in cantu o cum cantu.

L’esclusione del canto per le Sorelle povere le distingue dal monachesimo tradizionale di cui anche l’ordo sancti Damiani alla fine degli anni ’40 era ormai per molti aspetti un’espressione: basta guardare la rilevanza che nei testi paralleli di Ugolino e Innocenzo ha il canto come elemento della lode di Dio e strumento di edificazione per coloro che ascoltano. Ma segna pure una differenza con l’Ordine francescano stesso, per il quale il canto era diventato parte integrante della propria liturgia, mentre l’itineranza della prima fraternitas si stava tramutando in stabilità monastica. L’Ufficio curiale era diurno e notturno, cantato in chiesa e recitato fuori di essa; per la celebrazione pubblica e corale si usava un breviario dal testo diffuso e completo, mentre per la recita privata fuori del coro i cappellani della Curia papale come poi i frati minori potevano usare un breviario ridotto – le letture del mattutino erano notevolmente abbreviate – e senza annotazioni musicali: testimonianza significativa è il Breviario di san Francesco. Chiara non adotta la liturgia corale, quella celebrata in canto nei conventi, che richiedeva libri costosi e un’accurata preparazione, ma la recita senza canto dei cappellani della curia papale o dei frati itineranti: una scelta di essenzialità, di sobrietà, di nudità della parola, di povertà anche nella forma di preghiera. È probabile che anche la modalità di celebrazione liturgica delle sorelle di San Damiano abbia avuto un’evoluzione, analogamente a quella della fraternità minoritica e di altre comunità femminili penitenziali le quali, in un progressivo processo di strutturazione monastica, da una preghiera prolungata consistente dalla recita di un determinato numero di Pater noster e prostrazioni, passavano alla celebrazione dell’Ufficio liturgico: pur nell’adozione dell’Ufficio regolare, che avvenne almeno fin dalla professione della forma vivendi di Ugolino e nel Processo di canonizzazione è testimoniata già prima del 1224, la modalità sine cantu è rimasta nella Regola definitiva quale segno e rimando alle origini penitenziali della comunità di San Damiano. Una rilettura dunque della propria identità, ancora una volta, in chiave evangelico-penitenziale più che monastica.

Significativa per il nostro sguardo al contesto penitenziale, oltre che altamente espressiva della libertà spirituale della nostra autrice sempre attenta più alla persona che ha davanti che alla norma in se stessa, è la possibilità data alle sorelle che ne fossero per giusto motivo impedite di sostituire la recita dell’Ufficio divino con un certo numero di Pater noster, analogamente alle sorelle che non sanno leggere. Nelle consuetudini monastiche, come nella Regola bollata, tale sostituzione era propria dei laici o degli illetterati che non partecipavano all’Ufficio corale, così pure in alcune regole laicali come il Memoriale propositi dell’ordine laicale dei Penitenti o quelle degli ordini cavallereschi dei Templari, approvata dal Concilio di Troyes del 1128, e dei cavalieri di Santiago. Una prescrizione simile a quella di Chiara si trova nella versione del 6 giugno 1252 della Quoniam frequenter del cardinale Rainaldo: qui però la possibilità è ristretta a coloro che si trovano fuori clausura per motivi relativi al bene del monastero. Anche in questo caso dunque Chiara non inventa nulla, ma adotta ciò che già esiste e le sembra opportuno. La sua originalità, il suo tocco personale, diremmo, è lo spirito con cui anima la norma. Si limita a dire: «per un ragionevole impedimento». L’aggettivo rationabilis, usato anche per le uscite dalla clausura e per gli ingressi in monastero, è un termine che indica ragionevolezza, realismo, capacità di distinguere l’essenziale dall’accidentale. È proprio uno dei fili conduttori della Regola quello di lasciare all’abbadessa e alle singole sorelle un ampio spazio di discernimento del bene nelle diverse situazioni, appellandosi alla libertà e responsabilità di ciascuna: il che è molto più esigente rispetto a delle norme rigide e inflessibili, uguali sempre e per tutte.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


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