REGOLA DI SANTA CHIARA – 7
CAPITOLO VII
MODO DI LAVORARE
1 Le suore alle quali il Signore ha dato la grazia di lavorare, dopo l’ora di terza lavorino, in un lavoro onesto e di utilità comune, con fedeltà e devozione, 2 in modo che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, «non spengano lo spirito» (1Ts 5,19) della santa orazione e di devozione, a cui tutte le altre cose temporali devono servire. 3 E l’abbadessa o la sua vicaria sia tenuta ad assegnare in capitolo davanti a tutte ciò che ognuna dovrà fare con le sue mani. 4 Altrettanto si faccia se fosse inviata da qualcuno qualche elemosina per necessità delle suore, perché in comune ne venga fatta memoria. 5 E queste cose siano distribuite dall’abbadessa o dalla vicaria per utilità comune, con il consiglio delle discrete.
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Approfondimenti
Lavorare con le proprie mani, manibus suis, ha nella forma di vita clariana una dimensione vocazionale, nel contesto di quella “conversione alla povertà” anche dal punto di vista sociale che caratterizzò il movimento evangelico nei secoli XII-XIV. Il lavoro manuale, anche quello più faticoso nei campi e nei boschi, era il sostentamento dei primi monasteri femminili affiliati all’Ordine cisterciense, ed è ben noto che il rapporto povertà-lavoro caratterizzò fin dagli inizi il movimento degli Umiliati. Questo tema è centrale nello svolgimento della Forma vitae e non a caso segue direttamente il capitolo 6, poiché della scelta di povertà il lavoro manuale è conseguenza diretta e importante. Una tematica difficile, al centro di gravi controversie nella vita dell’Ordine francescano mentre questo testo viene redatto: lavorare «con le proprie mani» era una parola di Francesco, uno dei distintivi delle origini, ed era per tutti i frati, senza distinzione. «E quelli che non sanno, imparino»: le parole del Testamento sono eco di un travaglio in atto e di una volontà precisa di Francesco. Con la Quo elongati di Gregorio IX, di fatto il Testamento veniva dichiarato non vincolante per i Frati minori e ritenuto un ostacolo alla crescita dell’Ordine. Ebbene, in questo clima, quando deve dire la sua parola sul lavoro, Chiara riprende quasi del tutto il testo parallelo della Regola bollata, ma nei punti più decisivi inserisce proprio le parole del Testamento. Dalla Regola bollata riprende la definizione del lavoro come “grazia”, che apre un orizzonte più vasto rispetto alla concezione tradizionale che vedeva il lavoro solo quale mezzo di sostentamento o impegno ascetico; a questo Chiara aggiunge l’orario del tempo di lavoro, necessario in una struttura monastica come la sua: post horam tertiae, dopo l’ora di terza. La fonte con cui è d’obbligo un confronto è il capitolo 48 della Regola di Benedetto: la Forma vitae clariana tralascia le numerose specificazioni dell’ora della fine del lavoro, dei vari tempi dell’anno liturgico in cui gli orari dei monaci cambiavano, e si distingue per l’assenza completa del tempo dedicato alla lectio divina, così importante nel testo benedettino. L’impressione è che Chiara si appoggi sulla struttura monastica esistente per costruirvi la sua forma, la lineare forma della sua vita povera. Ciò su cui si ferma con molta precisione è invece la descrizione della qualità, del modo di lavorare: il lavoro è grazia, prima di tutto, capacità, forza e salute sono dono gratuito di Dio.
Coscienza della grazia, honestas, comune utilità, fedeltà e devozione: questi gli atteggiamenti che Chiara ritiene importanti nell’andare incontro al quotidiano impegno del lavoro. E tra questi, emerge la sua tenacia nell’affermare che anche in questo campo lei è d’accordo con la posizione di Francesco: già dal tempo della composizione della Regola non bollata esistevano nell’Ordine tre categorie di frati, predicatores, laboratores, oratores, che via via porterà alla distinzione più netta tra chierici e laici, e il lavoro manuale non era più per tutti, dato che i frati stavano cominciando ad affrontare le esigenze della pastorale determinate dal Concilio Lateranense IV. Nel ribadire, nel Testamento, l’esigenza del lavoro manuale per tutti Francesco si mostrava contrario alla strada presa dai suoi frati, e Chiara, che con molta facilità poteva riconoscersi – all’interno della tripartizione della società medioevale in oratores, bellatores e laboratores – nella categoria degli oratores, con questo appropriarsi dell’espressione del Testamento si mette decisamente in linea col gruppo delle origini, in quelle intuizioni radicali. Non si tratta di nostalgia, ma di una scelta ben concreta di identità: lei sta dalla parte della minorità, questo è al cuore della sua vocazione e non ci sono motivi o mutamenti storici che possano farla deviare da essa, perché così era per Francesco, per il quale tutto ciò che allontanava da questa condizione di minori, soggetti ad ogni creatura (il guadagno, i ruoli, gli incarichi), non era conforme alla vocazione ricevuta. Importante anche l’aggiunta communem, communem utilitatem: nessuna sorella operi come fosse da sola, né per se stessa, ma all’interno del corpo della comunità e per la sua edificazione. È una parola fondante, che scorrendo il testo della Regola riemerge continuamente: l’appartenenza reciproca e quindi la responsabilità di ognuna nei confronti della comunità.
A San Damiano si praticava il lavoro della filatura, il più comune per le donne dell’epoca, largamente impiegate nell’industria tessile, e anche quello della tessitura, per lo più riservato alla manodopera maschile. Una piccola produzione artigianale finalizzata in parte alla carità verso le chiese povere, in parte – lo possiamo pensare – al sostentamento della comunità, che veniva completato dalla coltivazione dell’orto e dalle elemosine spontanee dei benefattori e di chi si affidava alla preghiera delle sorelle. Una scelta, quella del lavoro manuale, che le immetteva nella realtà quotidiana di tanta gente, di tante donne povere “involontarie”, la cui vita quotidiana ben conosceva sia la fatica di un lavoro scarsamente retribuito, sia l’umiliazione della mendicità. Tutto questo senza che le sorelle entrassero in quella forma di commercio in cui si trovarono coinvolti gli Umiliati e, in campo agricolo, i Cisterciensi, o in quella specializzazione che rese famosi i tessuti confezionati dalle beghine delle Fiandre. Il fine era sostentarsi, da povere, guardandosi da ogni forma di guadagno o di accumulo di beni: una scelta controcorrente sia nei confronti della nobiltà, a cui la gran parte delle sorelle di San Damiano proveniva, sia nei confronti della borghesia in crescente ascesa, per la quale l’economia era sempre più in funzione del massimo guadagno e dell’accumulo illimitato di denaro.
Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita