REGOLA DI SANTA CHIARA – 8
CAPITOLO VIII
LE SUORE NON SI APPROPRINO DI NULLA; VENGA CHIESTA L’ELEMOSINA; LE SUORE INFERME
1 Le suore non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né cosa alcuna; 2 e «come pellegrine e forestiere» (Sal 38,13; 1Pt 2,11; Eb 11,13) in questo mondo, servendo al Signore in povertà e umiltà , mandino con confidenza per l’elemosina; 3 né debbono vergognarsene, poiché il Signore si fece per noi «povero» (2Cor 8,9) in questo mondo. 4 Questo è quel vertice di «povertà altissima» (2Cor 8,2), che rese voi, mie carissime sorelle, eredi e regine del «regno dei cieli» (Mt 5,3; Lc 6,20), vi ha rese povere di sostanze, ma vi ha sublimato di virtù. 5 Questa sia la vostra «porzione» che conduce alla «terra dei viventi (cf. Sal 141,6), 6 a cui, dilettissime sorelle, restando totalmente unite, nient’altro cercate sotto il cielo per sempre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e della sua Madre santissima. 7 Non sia lecito a nessuna suora d’inviare lettere, o ricevere qualcosa, o darla fuori del monastero, senza permesso dell’abbadessa. 8 Né sia lecito ritenere qualcosa che l’abbadessa non abbia dato o permesso. 9 Se dai parenti o da altri sia dato qualcosa a qualcuna, glielo faccia dare l’abbadessa. 10 Se ne avrà bisogno l’interessata lo possa usare, altrimenti sia dato caritatevolmente a qualche altra suora che ne ha bisogno. 11 Se le fosse inviata un’offerta pecuniaria, l’abbadessa la faccia provvedere nelle cose di cui ha bisogno, con il consiglio delle discrete. 12 L’abbadessa sia fermamente obbligata sollecitamente di persona e per altre a provvedere, nei consigli, nei cibi e in quanto altro servisse nell’infermità alle suore malate, 13 e a provvedere caritatevolmente e con misericordia secondo le possibilità del luogo. 14 Poiché tutte sono tenute a provvedere e servire alle proprie sorelle inferme, come vorrebbero essere servite esse stesse nell’infermità . 15 Con fiducia l’una manifesti all’altra la propria necessità . 16 E se una madre ama e nutre la propria figlia carnale, con quanto maggiore diligenza una suora deve amare e nutrire la propria sorella spirituale! 17 Le inferme riposino su sacconi di paglia ed abbiano dei cuscini di piume; 18 e chi ne ha bisogno possa usare pantofole e calze di lana. 19 Le suddette malate, quando sono visitate da chi visita il monastero, possano ognuna rispondere brevemente qualche buona parola a chi le interroga. 20 Le altre suore non abbiano il permesso di parlare a coloro che entrano in monastero, se non presenti e ascoltanti due suore discrete, assegnate dall’abbadessa o dalla vicaria. 21 Questo sistema di parlare sia obbligatorio anche per l’abbadessa e la vicaria. _________________ Note al CAP. VIII 8,2-3: Mandino per l’elemosina è un’espressione ripresa dalla Regola bollata di Francesco, in cui il santo prescrive di andare per l’elemosina (vadant); qui, però, Chiara utilizza il termine mandino (mittant). Si tratta di due verbi diversi che fanno comprendere la diversità di stile nella comune vocazione: i frati seguono il Signore andando per il mondo (ReBu 3,1.11), le sorelle stanno con il Signore mandando per l’elemosina, perchè sono sedentarie come Maria di Betania.
8,7-11: I dettagli di queste norme di povertà e di distacco – tenendo presente la psicologia femminile – sono veramente eroici.
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Approfondimenti
Il capitolo 8 è l’altro passaggio/forza della Forma vitae in cui Chiara – continuando ad affiancare i temi della Regola bollata – traduce l’intuizione di Francesco sull’espropriazione, cuore della Christi vivendi forma, nello stile di vita della sua comunità penitenziale-claustrale. E come in Rb 6, al sine proprio segue, strettamente legato, il tema della fraternità , della cura vicendevole a cui le sorelle sono chiamate, con quella predilezione verso le sorelle inferme che potremmo dire parallela a quella di Francesco per i fratelli lebbrosi: è la forma di vita delle «sorelle povere», veramente, dove povertà e carità sono l’una sorgente dell’altra.
Mentre Rb 6 continua congiungendo con un et la santa povertà al suo frutto primo che è la carità , la familiarità tra i frati, fino a concludere con l’esortazione ad amare e servire i frati infermi, Chiara passa ora a un altro aspetto del sine proprio, quello personale. Per i versetti 8,7-11 la fonte principale di riferimento è qui la Regola di Benedetto, a cui la santa attinge i concetti di fondo cambiandone però i termini con grande libertà e talora distanziandosene decisamente. Si tratta del mandare lettere all’esterno o del ricevere qualcosa in dono: ed emerge, dalle operazioni che Chiara fa sul testo parallelo della Regola di Benedetto, ciò che per lei conta veramente:
- il sine proprio che si traduce in trasparenza e stretto legame di obbedienza, per cui nessuna può ritenere “proprio” qualcosa e farne ciò che vuole. L’accento sembra posto non tanto sul ricevere quanto sul mandare, e il problema di fondo, confermato da tutto il contesto del capitolo, è più quello della povertà che non quello di una limitazione nelle relazioni epistolari. Scrivere una lettera era un avvenimento straordinario, per la difficoltà che comportava ed anche per il suo costo;
- il senso di responsabilità ed il respiro della carità vicendevole all’interno della comunità : nel v. 9, in cui si tratta dei doni ricevuti da una singola sorella, Chiara si distanzia dal metodo benedettino, mettendo in secondo piano il principio ascetico – «E se l’abate glielo consente, sarà poi in sua facoltà decidere a chi destinare la cosa. Il fratello cui il dono era inviato, in tal caso non si rattristi, per non dare occasione al diavolo» (RBen 54,3-4) – per fermarsi sul senso di responsabilità della sorella che può giudicare da sola l’opportunità o meno di tenere il dono ricevuto, il suo reale bisogno, la sua distanza dal bisogno; e soprattutto lo sguardo di Chiara si allarga a desiderare che la sorella sia attenta alle altre, si accorga del possibile bisogno di un’altra: è il suo primo desiderio che l’amore sia il cuore delle relazioni tra le sue figlie e sorelle.
Il v.11, tutto scritto dalla mano di Chiara, in brevi parole affronta un tema molto problematico in un’epoca storica di grandi cambiamenti come la prima metà del Duecento, quello del rapporto col denaro. Francesco l’aveva rifiutato categoricamente in ogni sua forma: per lui, da ex-mercante, denaro era sinonimo di accumulo, reinvestimento, tesaurizzazione, potere. La Forma vitae prevede invece che ad una sorella possa essere inviato un dono in pecunia (ovvero: non denaro ma qualsiasi cosa che viene accettata in una compravendita che avviene col “baratto”). Chiara, che aveva alle spalle l’esperienza di una famiglia nobile, vedeva nell’avidità dei possedimenti terrieri il pericolo di venir meno alla stretta povertà , non certo in una piccola elemosina in denaro, che poteva essere utilizzata per le necessità di una singola sorella, senza con questo diventare fonte di sicurezza e di sostentamento per la comunità . Neppure lei tuttavia tratta questo argomento come cosa facile e scontata: il fatto che qui chieda all’abbadessa di ricorrere al consiglio delle discrete dimostra che lo considera un avvenimento rilevante e di delicato discernimento. Ciò che conta anche in questo caso è la discrezione e la provvidenza della madre verso la necessità di ogni sorella: di fronte a questo anche la paura di toccare e ricevere denaro sembra sbiadire.
Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi â—Ź La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita
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