Seconda lettera di Giovanni

Indirizzo e saluto 1Io, il Presbìtero, alla Signora eletta da Dio e ai suoi figli, che amo nella verità, e non io soltanto, ma tutti quelli che hanno conosciuto la verità, 2a causa della verità che rimane in noi e sarà con noi in eterno: 3grazia, misericordia e pace saranno con noi da parte di Dio Padre e da parte di Gesù Cristo, Figlio del Padre, nella verità e nell’amore.

Camminare nella verità dell'amore 4Mi sono molto rallegrato di aver trovato alcuni tuoi figli che camminano nella verità, secondo il comandamento che abbiamo ricevuto dal Padre. 5E ora prego te, o Signora, non per darti un comandamento nuovo, ma quello che abbiamo avuto da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. 6Questo è l’amore: camminare secondo i suoi comandamenti. Il comandamento che avete appreso da principio è questo: camminate nell’amore.

Dimorare nell'insegnamento di Cristo 7Sono apparsi infatti nel mondo molti seduttori, che non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo! 8Fate attenzione a voi stessi per non rovinare quello che abbiamo costruito e per ricevere una ricompensa piena. 9Chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio. 10Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo, 11perché chi lo saluta partecipa alle sue opere malvagie.

Conclusione e saluti finali 12Molte cose avrei da scrivervi, ma non ho voluto farlo con carta e inchiostro; spero tuttavia di venire da voi e di poter parlare a viva voce, perché la nostra gioia sia piena. 13Ti salutano i figli della tua sorella, l’eletta.

Approfondimenti

(cf LETTERE DI GIOVANNI – introduzione, traduzione e commento di MATTEO FOSSATI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

Indirizzo e saluto All'inizio di questo scritto si trovano termini e motivi caratteristici della produzione giovannea: l'amore, la verità, la conoscenza, la grazia, il dimorare, nonché i chiari riferimenti a Dio come Padre e a Gesù Cristo come Figlio del Padre. Non deve nemmeno sfuggire l'abile arte dell'autore, che incornicia questa formula d'apertura con una ripetizione chiastica di due concetti fondamentali per il successivo sviluppo della lettera, l'amore e la verità: «amo nella verità» (v. 1), «nella verità e nell'amore» (v. 3). Per quanto concerne il mittente, la Seconda e la Terza lettera di Giovanni riportano solo un titolo «il presbitero», senza alcun nome, mantenendo così attorno alla figura dello scrivente i l medesimo alone di mistero creato nel vangelo mediante l'uso della locuzione «il discepolo amato» (cfr. Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,20). Il mittente delle tre lettere di Giovanni era una delle voci di spicco della comunità giovannea, una delle guide che si ponevano come garanti della custodia e della trasmissione del dato fondante conservato nella predicazione del Discepolo amato. Egli entra a pieno titolo nel gruppo del «noi» che troviamo alla base della scrittura delle opere giovannee (Gv 21,24; 1Gv 1,1-4; 5,18-20). Spostando l'attenzione sul destinatario della lettera, dobbiamo ugualmente arrenderci all'impossibilità di giungere a un'identificazione certa, poiché nel testo non viene specificata la località geografica in cui si trova la comunità alla quale è rivolto il messaggio, c'è solo un allusione a una chiesa particolare che dobbiamo ipotizzare distinta da quella a cui era indirizzata 1Giovanni, comunità in cui invece il presbitero svolgeva il proprio ministero (cfr. 2Gv 13). Quanto alla formula usata per il saluto si può notare come alla più tradizionale coppia di termini «grazia» e «pace» l'autore aggiunga il sostantivo «misericordia»: l'autore non sta augurando ai suoi lettori di sperimentare grazia, misericordia e pace; li sta piuttosto confermando nella certezza che tali doni riempiranno la loro vita. I cristiani possono godere i doni di Dio solo finché rimangono nella vera fede e nel vero amore cristiani. Chi scrive sta affermando che quanti dimorano in Cristo godranno di quella grazia, di quella misericordia e di quella pace che caratterizzano il tempo messianico della salvezza, già descritto dal salmista come occasione unica di incontro tra «misericordia e verità» (Sal 84,11).

*Camminare nella verità dell'amore Il corpo della lettera è chiaramente diviso in due brani (vv. 4-6; 7-11), dedicati rispet- tivamente ai temi dell'amore e della fede. Il sintagma «camminare nella verità», che si incontra anche in 3Gv 3, è di sapore semitico (cfr. Sal 86,11) e comunque molto caratteristico, poiché obbliga il lettore contemporaneo a staccarsi dalla concezione formale di verità, comune nel pensiero occidentale, per entrare in quella semitica, che considera la verità una realtà viva, che invade la sfera dell'agire concreto: un qualcosa da «fare» (Gv 3,21; 1Gv 1,6), insomma, e non semplicemente da «dire», tanto più che nell'opera giovannea, come già evidenziato, la verità ultima alla quale ogni cristiano si deve conformare è il Cristo stesso (Gv 14,6). Un'ulteriore specificazione: in che senso «camminare nella verità» è il comandamento affidato dal Padre ai cristiani? Nel senso evidenziato da 1Gv 3,23: ciò che Dio chiede agli uomini è di credere in Gesù Cristo e di amarsi come Egli li ha amati; camminare nella verità significa quindi seguire la retta fede che porta a vivere il vero amore. Le guide delle comunità giovannee si trovarono a dover difendere l'autenticità dell'insegnamento tradizionale – risalente in prima battuta al Cristo e riportato poi fedelmente dal Discepolo amato – dagli attacchi delle nuove dottrine senza fondamento diffuse dai falsi maestri, i quali, allontanatisi dalla parola ricevuta «da principio» (1Gv 2,24), sostenevano di non avere peccato (1Gv 1,8), si rifiutavano di confessare che Gesù è il Cristo (1Gv 2,22; 4,3), non credevano nella realtà dell'incarnazione (1Gv 4,2-3) né alle parole di Dio Padre (1Gv 5,10). Questi errori dottrinali avevano conseguenze disastrose in ambito morale, poiché questi secessionisti – «anticristi» (1Gv 2,18; cfr. 4,3; 2Gv 7) e «falsi profeti» (1Gv 4,1) – erano accusati dalle guide della comunità giovannea di camminare «nella tenebra» (1Gv 1,6; 2,11), di ignorare i comandamenti (1Gv 2,4), di peccare (1Gv 3,6.8), di non vivere la dimensione dell'amore vicendevole (1Gv 4,8), anzi, di essere ingiusti (1Gv 3,10) e ciechi nei confronti dei fratelli (1Gv 3,17), nonché di odiarli (1Gv 2,9; 3,14-15; 4,20). È quindi significativo trovare anche in 2Giovanni un legame forte tra il richiamo all'insegnamento ricevuto originariamente da Gesù (e dal Discepolo amato) e l'imperativo dell'amore vicendevole. In questo brano l'autore vuole dunque riaffermare con forza che per un cristiano è assolutamente necessario eliminare dalla propria vita qualsiasi contraddizione tra ciò che professa e ciò che opera. L'amore di Gesù che dona la vita per salvare i propri amici è la verità fondamentale del cristianesimo, la sorgente di ogni scelta di vita profondamente cristiana e lo specchio in cui esaminare la coerenza del proprio agire. Un cristiano non può amare solo a parole: lo deve fare con la vita (cfr. 1Gv 3, 18). E questo è possibile solo se dimora nella verità, ossia in Cristo.

Dimorare nell'insegnamento di Cristo Se il brano precedente partiva dalla constatazione positiva della buona condotta di alcuni cristiani della comunità a cui è rivolta la lettera, il presente prende l'avvio da una constatazione negativa: la presenza nel mondo di molti ingannatori che non professano la fede nell'incarnazione del Cristo. Il termine «ingannatori» richiama il vocabolario usato dalla 1Giovanni per indicare l'opera dei secessionisti, usciti dalle fila della comunità giovannea e ormai avversari della tradizione apostolica del Discepolo amato (cfr. 1Gv 2,19.26; 3,7; 4,6). Siccome il loro inganno riguarda la persona stessa di Gesù Cristo, del quale negano la realtà dell'incarnazione, essi vengono associati alla più ampia azione mistificatrice dell'anticristo. L'esortazione prende così la forma di una messa in guardia dal pericolo di farsi traviare da tali falsi maestri, eventualità che porterebbe i cristiani a vanificare il frutto del lavoro apostolico del presbitero e delle guide delle comunità giovannee, che li avevano condotti alla fede e alla salvezza (v. 8). Nella chiusura del corpo della lettera l'autore passa a usare un linguaggio netto e duro: preoccupato per la fede dei fratelli più deboli, egli vieta ai cristiani di accogliere nelle loro case quanti dovessero presentarsi con dottrine nuove e fallaci. Questi ingannatori e anticristi devono essere tenuti a distanza, per evitare che facciano cadere nell'errore altri fratelli. Dal confronto tra questa lettera e l Giovanni si può dedurre che il presbitero, dopo aver visto i falsi maestri all'opera nella principale comunità giovannea (quella in cui egli stesso risiede), voglia preparare i fedeli di una comunità più giovane all'imminente arrivo di tali predicatori avversari, che potrebbero gettare anche quella Chiesa locale nello scompiglio. Da qui la necessità di non accoglierli in casa e di non rivolgere loro il saluto cristiano, il quale, spesso accompagnato dal «bacio santo» (1Cor 16,20; 2Cor 13,12; 1Ts 5,26), era un'antica forma di benedizione (cfr. Fil 4,21-23; Tt 3,15; Eb 13,24-25) che voleva significare vera fratellanza e profonda comunione. E qualsiasi forma di comunanza tra i cristiani e gli operatori di iniquità o di malvagità è fuori discussione!

Conclusione e saluti finali Dopo aver terminato le raccomandazioni più urgenti – mettere in pratica il comandamento dell'amore vicendevole (v. 5), non lasciarsi traviare dalle idee progressiste dei secessionisti (vv. 7-8) e non accoglierli per nessuna ragione nelle proprie case (vv. 10-11) –,il presbitero si accinge a concludere la sua lettera con una formula piuttosto tradizionale, che, nella candida ammissione dell'inadeguatezza o, quanto meno, dell'insufficienza del mezzo cartaceo per trasmettere la sovrabbondante grazia comunicata da Gesù ai suoi, ricorda sia la prima, sia la seconda conclusione del quarto vangelo: «Gesù in presenza dei discepoli fece ancora molti altri segni, che non sono stati scritti in questo libro» (Gv 20,30); «Ci sono anche molte altre cose che Gesù fece: se si scrivessero a una a una, penso che non basterebbe il mondo intero a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25). Con il saluto finale, che non è personale da parte dello scrivente ma collettivo, proveniente dalla comunità cristiana nella quale il presbitero risiede e opera, l'autore incornicia tutta la lettera in una bella inclusione, attribuendo alla propria Chiesa il medesimo appellativo, «eletta», riservato in apertura alla «signora» cui è destinato lo scritto: «all'eletta signora e ai suoi figli» (v. 1); «i figli della tua sorella, l'eletta» (v. 13). Le due Chiese sono tra l'altro definite sorelle, elemento che ribadisce il profondo legame esistente tra le diverse comunità giovannee: alla più comune definizione dei cristiani come fratelli dobbiamo quindi aggiungere questa, che ci insegna a considerare le varie comunità locali come sorelle e a valorizzare l'aspetto della comunionalità nella nostra ecclesiologia.


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