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Recensioni musicali di Silvano Bottaro

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La canadese Mary Margaret O’Hara è stata una meteora, è apparsa, ha illuminato il pianeta musica, ed è sparita.

Questo purtroppo è l’unico disco da lei inciso. Una delle più grandi cantautrici di tutti i tempi, non ha conosciuto il “bene commerciale”. La sua musica di difficile collocazione contiene un cocktail di folk, jazz, blues e country, tutta condita da un’estrema personalità. Su tutto risalta la sua interiorità, meditata e pura, non costruita ne artefatta.

Altra qualità che la distingue è l’uso della voce, che lei usa in maniera estremamente articolata, creando armonie uniche, sensibili, intelligenti e profonde. Le undici canzoni che compongono il disco, non essendo estremamente facili, hanno bisogno di essere ascoltate lentamente, ed è proprio per questo che ascolto dopo ascolto ti rimangono inchiodate nella mente.

Ricordo che all’epoca il termine che fu coniato a semplificare il disco è stato: elementare ma difficile.

La prima parte (lato A per il vinile) è superbo, denso ed intimista, la voce è energica la strumentazione essenziale e potente. La seconda parte è più difficile e meno strumentale, la voce è soffusa e triste, ma resta comunque sempre splendida.

Ci troviamo davanti ad un disco eccellente per non dire un capolavoro. Undici quadri d’autore con delle perle assolute: “Body’s in trouble”- “A new day” — “Keeping you in mind”. La O’Hara ha un talento smisurato, una voce unica che la fa brillare nella costellazione musicale. Non a caso la critica internazionale lo dichiarerà tra i cento album principali del ventesimo secolo. Un disco quindi che bisognerebbe avere, dico bisognerebbe perché è un disco di difficile reperibilità.

#millenovecentoottantotto

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Grinderman è un progetto, e come tale ha una sua precisa identità.

I brani che compongono l’album hanno la peculiarità di essere “essenziali”, scarni, meno arrangiati del Cave che conosciamo degli ultimi anni, infatti ci riportano il “nostro” agli esordi, anche se in forma più morbida.

I Grinderman, oltre a Cave alla voce, chitarra e piano sono: Warren Ellis al violino e chitarra acustica, Jim Sclavunos batteria e percussioni, Martyn Casey al basso.

I disco spazia in tre momenti particolari; quello della TENSIONE ELETTRICA come la rabbiosa Get it on, la stridente Honey bee, la potente Love bomb, la essenziale Title track, per finire con la nevrotica e punk No pussy blues.

Quello del BUIO TORMENTO come la psicadelica Elettric Alice, dell’oscura Don’t set me free, della seducente Decoration day, della decadente Go tell the women.

Quello DOLCE RILASSATO come la lirica Rise, la poetica Man on the moon solo voce e piano, la superbaVortex, per finire con l’eccezionale e romantica Chain of flowers.

L’ultimo quartetto sopra citato è quello che più mi affascina dell’intero album. Brani e ballate cariche di intensità che porta Cave nella via di mezzo, i Grinderman sono la parte più dolce e tranquilla del primo N.C. (punk) e la parte più diretta e semplice dell’ultimo N.C. (arrangiatore).

#dumeilasette

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Doveva essere il suo primo disco solista, ma qualcosa ha fatto cambiare idea a quel genio di Steve Winwood, rimise la denominazione “Traffic” e cambiò il nome del disco che originariamente doveva chiamarsi “Mad Shadows”.

I Traffic altri non sono che un trio, uno dei migliori che la scuola del rock abbia mai sfornato: Chris Wood ai fiati, Jim Capaldi alla batteria e il polistrumentista, cantante e compositore Steve Winwood. Ad onor di cronaca è utile ricordare che Steve all’età di quindici anni, si 15! creò la fortuna degli “Spencer Davis Group”.

Questo trio di folk-pop tra i più interessanti, stimolanti e creativi degli anni Settanta, segnano con questo disco uno dei capolavori del pop-rock, un viaggio introspettivo ai confini tra il vecchio e un nuovo “ritmo sonoro”.

Ad un certo punto l’enfant prodige del rock britannico, Winwood, rimane folgorato dalla leggenda di John Barleycorn, un buffo omino dalla fisionomia variabile che nella tradizione popolare viene celebrato come la personificazione simbolica del Whisky e della Birra. E’ così che nasce “John Barleycorn Must Die”, capolavoro di semplicità e raffinatezza che alterna ipnosi ritmica a intensità lirica.

Questo progetto viene offerto al pubblico in un periodo che è travolto dai furori di fine anni sessanta, i fiati tenui, la composta ritmica, l’atmosfera vocale, riescono ad ammaliare e a ipnotizzare i fan. Fu proprio questa compattezza a rendere “John Barleycorn” un‘avventura tanto provocatoria quanto originale, quasi il frutto di un’operazione chirurgica a cuore aperto.

Alcuni di voi si ricorderanno della sigla radiofonica di “Per voi giovani”, il brano era Glad, il riff ipnotico rimane ancora nella memoria di molti, come il disco del resto, che col passare degli anni venne considerato una delle pietre miliari del nascente “Progressive Rock”.

La spiegazione di tanta originalità è ancora oggi probabilmente da ricercarsi nella presenza del genio bambino, primattore ma antidivo, grande vocalist e virtuoso pluristrumentista Steve Winwood.

#millenovecentosettanta

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Tornato in Irlanda nel 1973 e suggestionato nel rivedere i luoghi della propria adolescenza, Van trova l’ispirazione per un album concept estremamente personale.

Non vi sono note di copertina o interviste a spiegarlo, ma si capisce che le varie canzoni sono in un ordine preciso, con frasi che si ripetono da un brano al successivo, in modo da formare la storia di un ragazzo che dapprima sogna una vita fantastica, popolata da eroi e da poeti, poi parte deciso incontro alla vita reale come se andasse incontro ad una avventura (la ricerca di un immaginario vello di Veedon).

Seguono le esperienze e le disillusioni. Alla fine c’è il ritorno al paese natio ed un amore che curerà le ferite.

Ad accompagnare il cantante c’è una versione snellita della Caledonia Soul Orchestra. Il suono è curato, ma rarefatto, ricordando un po’ tutti gli album precedenti. Infatti per ogni canzone c’è uno stile diverso, eppure l’opera conserva un carattere fortemente unitario.

Rispetto ad Astral Weeks, cui quest’opera è stata paragonata, essa è molto più sfaccettata, più costruita e meno originale. L’accompagnamento strumentale è infatti semplice e tradizionalista, più ancora che nei due album in studio precedenti. I testi e le parti vocali sono estremamente personali. E’ un disco che, pur non essendo musicalmente difficile, richiede un ascolto raccolto, al buio, per essere penetrato.

Prima che Veedon Fleece arrivasse nei negozi, era stato già ultimato ed annunciato il suo successore, dal nome “Mechanical Bliss” e dal tono opposto, gaio e spensierato. L’album non fu mai pubblicato.

#millenovecentosettantaquattro

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Non riesco ad immaginare quanto sarebbe vuota la mia vita senza i miei dischi, soprattutto certi dischi, a cui sono particolarmente affezionato. Raramente ho avuto dei “colpi di fulmine” ed ho imparato a conoscere le opere molto lentamente, anche dopo mesi di ascolti. Con Disintegration è stato diverso, mi è piaciuto sin dal primo ascolto.

A mio parere, e di molti, questo è il miglior album dei Cure, per alcuni, di ogni tempo. Con ogni probabilità lo si può inserire nella miglior trilogia insieme a Pornography (1982) e Bloodflowers (2000). Ancora una volta Robert Smith e la sua band riescono a sorprendere. Disintegration è un’opera decadente, un manifesto dark, un disco che se lo avesse inciso Baudelaire lo avrebbe chiamato “I fiori del male”.

I dodici brani di Disintegration producono 71 minuti di suoni ammalianti, carichi di forti sentimenti, con un sound inquietante, triste, a volte spettrale. Sembra proprio che questo sia l’ultimo disco di Smith, come sempre viene annunciato, ma non sarà cosi. Robert ha trent’anni, e ha ancora parecchie cose da scrivere, sono i fumi dell’alcol, a fargli dire questo, in realtà è il potere della musica a salvarlo sempre, da ogni situazione. In ogni album Smith butta fuori tutte le sue angosce, tutte le sue paure, ogni disco è per lui terapeutico, è una liberazione, è una serie di sedute dallo psicoanalista, è una salvezza, ma è un pugno allo stomaco per noi, per noi che lo ascoltiamo.

La leggenda parla di devastanti effetti fisici all’ascolto di “Lullaby” e “Pictures of you”, di pianti a dirotto con “Lovesong” e “Closedown”, e non costa fatica crederci. Le malinconie di “Homesick” e “The Same Deep Water as You”, le tristezze di “Prayers for Rain” e “Untitled”, le ritmate, “Disintegration” e “Fascination Street”, le suggestive “Last Dance” e “Prayers for Rain”, sono brani carichi di emozioni, dolci e splendidi e fanno di questo disco un capolavoro della fine degli anni ottanta. Disintegration è un disco molto suonato, con molta musica, dei dodici brani del disco metà superano i sei minuti, un’eternità, per un gruppo pop.

Con Disintegration, Smith e la sua band, raggiungono il massimo della maturazione, sia nel lirismo dei testi e sia nella composizione sonora.

#millenovecentoottantanove

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Esiste una teoria secondo cui gli anni Ottanta britannici hanno prodotto solo due nomi da salvare: Smiths e Japan. Gruppi presuntuosi quanto si vuole ma almeno capaci di musica vera. Eppure all’epoca soprattutto gli Smiths lasciavano qualche dubbio. Sono bravi, bravissimi nei pochi minuti di un 45 giri — si diceva di loro — meno quando si tratta di reggere i tre quarti d’ora di un album, niente vero per quel che mi riguarda.

Sì, in “The Smiths” e in “Meat is murder” ci sono dei vistosi cali di tensione ma, in “The Queen is Dead” no, è perfetto dall’inizio alla fine come non era accaduto prima e non sarebbe accaduto poi.

“The Queen is Dead” è stato il punto più alto della carriera degli Smiths e può essere considerato il ritratto dell’Inghilterra del ‘900 secondo Morrissey che, al di là del suo ostentato egocentrismo è riuscito a regalarci canzoni uniche, immediate e nello stesso tempo con una presa lirica inimitabile.

Gli elementi dei testi sono: l’amore, la morte e soprattutto un grande senso dell’umor. Le parole sono sottili e genialmente ambigue. Morrissey fruga nella letteratura (Oscar Wilde) e nella cinematografia (le loro copertine hanno sempre riferimenti cinematografici) ma riesce ad imprimere sempre il suo marcato senso autoironico. Ma, bisogna ricordare che, le parole di Morrissey non sarebbero così efficaci senza le melodie perfette del chittarista Johnny Marr, che all’epoca seppe far canticchiare chissà quanti loro fans.

Queste due anime del gruppo, hanno creato un marchio di fabbrica inimitabile, quella di Morrissey, decadente, tormentata e sentimentale, sempre in bilico tra genialità e auto-flagellazione, tra sguardo crudo sul mondo e sfrenato intimismo, e quella del chitarrista Johnny Marr, tutta fatta di strepitose intuizioni musicali.

Fu un “matrimonio” perfetto che raggiunse l’apice proprio i quegli anni Ottanta, senza essere superati nel futuro da nessuno, nemmeno dalle loro singole prove.

#millenovecentoottantasei

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Quando l’artista nord-irlandese pubblica questo album è il 1978 e ha già alle spalle un decennio abbondante di buona musica, costruita soprattutto attorno ai suoni del rythm and blues.

Wavelenght (lunghezza d’onda) è un singolo che dà il nome a un album che ridà energia e slancio a George Ivan Morrison (Belfast, 1945) anche sul versante commerciale. Ma non troppo.

Wavelength è la prova che un fuoriclasse riesce a esserlo anche dopo tantissimi capolavori. Morrison ha saputo interpretare la musica nera: forse perché non si è mai dimenticato di quel luogo comune secondo il quale gli irlandesi siano considerati i “neri” delle isole britanniche.

Wavelength nasce soprattutto negli Stati Uniti, ed è infatti negli Usa che ottiene un successo, arrivando ai confini del ventesimo posto. Di religione protestante e figlio di genitori amanti del jazz, Morrison scrive e canta e suona chitarra, sax e armonica.

Nella sua storia è stata straordinaria l’uscita dai blocchi: la leggendaria Gloria incisa con il gruppo dei Them, rifatta dai grandi del rock, dai Doors a Hendrix dai Grateful Dead ai Rem.

#millenovecentosettantotto

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Con “This is the sea” del 1985, lo scozzese Mike Scott, realizzò il sogno della sua vita. Per questo disse: “Dopo un disco così, non posso che andare da un’altra parte”. Lo fece in tutti i sensi, anche geograficamente; lasciò Londra per l’Irlanda e passo anni a tessere una nuova tela di suoni, inserendo fili di quella gloriosa tradizione nel suo mondo già ricco di Dylan, Van Morrison e Patti Smith, di country, gospel e cajun.

Fisherman’s Blues è il loro quarto album, chiamato anche “disco verde”, è stato registrato nella contea di Galway, e si sente. La svolta è decisamente “Irish”, il violino virtuoso di Steve Wickham recita il ruolo del protagonista e il mandolino di Anthony Thistlewaite non è da meno.

Ed è ancora musica fresca, un viaggio folk rock, un dolce blues celtico, un ritorno ai valori della tradizione in opposizione al futurismo del rock ’80. Le ballate tradizionali e i suoni ricercati fanno di questo disco un meraviglioso tributo all’Isola Verde.

E’ un grande album “Fisherman’s Blues” è tale rimarrà, perché, probabilmente stressati da quel lungo “sogno”, i Waterboys si perderanno senza riuscire più ad avvicinare quelle vette.

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Era la fine degli anni Ottanta e non si pensi, musicalmente parlando, che le cose andassero male, tutt’altro. “Come on Pilgrim”, il mini album d’esordio del 1987, aveva fatto scalpore e più impressione ancora aveva suscitato il seguito, “Surfer Rosa” (1988) votato miglior disco dell’anno dai critici del settimanale Melody Maker.

Ma, i Pixies scrissero il loro capolavoro con “Doolittle”, salutato dai fans e dai critici come un sublime artefatto di post punk. L’album è il risultato di varie influenze, un misto di note sonore inizialmente riprese da gruppi come gli Husker Du, Violent Femmes, Jesus and Mary Chain, e i Pere Ubu.

Questo disco dalla musica incontenibile possiede, infatti, una freschezza ed una vitalità praticamente inesauribili. I Pixies con “Doolittle” hanno creato un disco meno devastante dei precedenti, più estroso, sottile.

Doolittle è una sorta di enciclopedia del rock americano in versione, naturalmente, molto riveduta e poco “corretta”. Ogni brano apre e chiude una porta. Un arcobaleno sonoro, un variopinto “mondo rock” dove si spazia tra varie epoche e stili.

Dalla ballata nevrotica alla canzoncina, dalla canzone psicotica al brano “garage”. La gamma di umori musicali che attraversa il lavoro è, infatti, praticamente infinita: punk, hard, rock, country, avanguardia, vengono triturati e compattati per dar vita ad una miscela realmente esplosiva, caustica e deviante, ma con tutte le carte in regola per piacere proprio a tutti, anche ai più tradizionalisti.

I Pixies hanno idee a bizzeffe, ascoltare per credere.

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Con lo stesso titolo era uscita nel 1975 una biografia dell’artista. Il titolo giusto per l’album sarebbe stato “Into the Music Again”, perché esso segna il ritorno della voglia di far musica dopo la pausa triennale e due tentativi poco felici.

La voglia di cantare è anche il ritorno a vivere, come indicano i titoli di alcune canzoni: “Bright Side of the Road”, “You Make Me Feel So Free” e “And the Healing Has Begun”, in cui ad essere malato era lo spirito e la medicina è, naturalmente, la musica.

La voglia di vivere emerge dalla forza della performance canora, mai così convinta e trascinante (“Divertiamoci mentre possiamo/ Non vuoi aiutarmi a cantare questa canzone/ Dal limite scuro della via/ Al lato luminoso della strada”).

Per produrre questo disco non si badò tanto alle spese, e possiamo ascoltare ottimi musicisti, fra ospiti e membri della nuova band. Innanzitutto arriva, dal giro di James Brown, il sassofonista Pee Wee Ellis, cui il precedente Schrorer non era degno neanche di lustrare le scarpe. Alla tromba il giovane Mark Isham, che negli anni successivi toccherà anche le tastiere.

A suonare il violino e la viola c’è la splendida italiana Toni Marcus, il vero solista in questa occasione, che purtroppo non verrà più richiamata per gli album successivi. Si può notare come la batteria sia mixata ad un volume molto più alto che, per esempio, in Tupelo Honey: neanche Van è immune dalle mode. Gli elementi nuovi, che rimarrano a lungo, sono la musica celtica, in “Rolling Hills”, e la religione, in “Full Force Gale” (“Sono stato risollevato dal Signore”).

Con una prima facciata di canzoni veloci ed una seconda di canzoni lente, le nove canzoni (più una coda) mostrano praticamente tutte le facce, gli stili, gli atteggiamenti mentali, i trucchi ed il talento del cantante e dell’autore. Descrivere questa goduria di disco è inutile: va acquistato ad occhi chiusi.

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