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Con i primi due album, in cui l’influenza “situazionista” di Robert Wyatt era determinante, la formazione era giunta a rappresentare il movimento “underground” inglese alla pari con i Pink Floyd di Syd Barrett.

Nelle uscite successive, sotto la guida del tastierista Mike Ratledge, la musica viaggerà con decisione sempre maggiore verso lidi jazz-rock, sino a che il gruppo perderà ogni contatto con le proprie origini.

“Third” è dunque l’attimo in cui le due anime della formazione, quella improvvisativa e psichedelica di Wyatt e quella da partiture scritte da Ratledge riescono per l’ultima volta a convincere.

Al trio formato da Wyatt, Ratledge e dal bassista Hugh Hopper, genio dello strumento, si uniscono il sassofonista Elton Dean, i fiati di Lyn Dobson, Nick Evans e Jimmy Hastings ed il violino elettrico di Rab Spall.

La struttura dell’album, che usci doppio (vinile), è molto semplice: un brano per facciata.

“Facelit” di Hopper è un “collage” di nastri da varie esecuzioni dal vivo dello stesso brano, ed è un’ottima introduzione al clima dilatato ed ipnotico dell’incisione.

“Slightly all the time” di Ratledge è un gioiello. Uno scorrevole tema jazzato viene esposto, ripreso, rallentato, accelerato in un gioco senza fine. Nella sezione centrale, il piano elettrico crea un “pattern” ripetitivo su cui i fiati tessono meraviglie, ed il finale guidato dal saxello di Dean è lirico sino allo spasimo.

“The moon in June” è la facciata di Robert Wyatt. Suonato, cantato (unico brano cantato del disco) ed inciso in quasi completa solitudine, con un piccolo aiuto da Hugh Hopper al basso e da Ratledge per un assolo di organo. L’elemento ribelle ed anarchico del gruppo qui sfodera una composizione notturna, ubriaca e profondissima, in cui il canto raggiunge vette sublimi. Per molti “The moon…” rappresenta il momento più alto non solo dei Soft, ma dell’intero movimento di Canterbury.

“Out-bloody-rageous” di Ratledge, giocata sull’intervallarsi di “loops” rileyani di organo e di serrati episodi strumentali, dà invece chiari indizi della direzione che il gruppo prenderà dopo il licenziamento in tronco di Wyatt.

L’incrocio tra il clima “naif” degli esordi e l’attrazione di Ratledge per i lidi del “Miles Davis elettrico” produce un frutto strano e delizioso, da portare sulla classica isola deserta subito dopo lo spazzolino da denti.

Third è un messaggio al cielo.

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Doveva essere il suo primo disco solista, ma qualcosa ha fatto cambiare idea a quel genio di Steve Winwood, rimise la denominazione “Traffic” e cambiò il nome del disco che originariamente doveva chiamarsi “Mad Shadows”.

I Traffic altri non sono che un trio, uno dei migliori che la scuola del rock abbia mai sfornato: Chris Wood ai fiati, Jim Capaldi alla batteria e il polistrumentista, cantante e compositore Steve Winwood. Ad onor di cronaca è utile ricordare che Steve all’età di quindici anni, si 15! creò la fortuna degli “Spencer Davis Group”.

Questo trio di folk-pop tra i più interessanti, stimolanti e creativi degli anni Settanta, segnano con questo disco uno dei capolavori del pop-rock, un viaggio introspettivo ai confini tra il vecchio e un nuovo “ritmo sonoro”.

Ad un certo punto l’enfant prodige del rock britannico, Winwood, rimane folgorato dalla leggenda di John Barleycorn, un buffo omino dalla fisionomia variabile che nella tradizione popolare viene celebrato come la personificazione simbolica del Whisky e della Birra. E’ così che nasce “John Barleycorn Must Die”, capolavoro di semplicità e raffinatezza che alterna ipnosi ritmica a intensità lirica.

Questo progetto viene offerto al pubblico in un periodo che è travolto dai furori di fine anni sessanta, i fiati tenui, la composta ritmica, l’atmosfera vocale, riescono ad ammaliare e a ipnotizzare i fan. Fu proprio questa compattezza a rendere “John Barleycorn” un‘avventura tanto provocatoria quanto originale, quasi il frutto di un’operazione chirurgica a cuore aperto.

Alcuni di voi si ricorderanno della sigla radiofonica di “Per voi giovani”, il brano era Glad, il riff ipnotico rimane ancora nella memoria di molti, come il disco del resto, che col passare degli anni venne considerato una delle pietre miliari del nascente “Progressive Rock”.

La spiegazione di tanta originalità è ancora oggi probabilmente da ricercarsi nella presenza del genio bambino, primattore ma antidivo, grande vocalist e virtuoso pluristrumentista Steve Winwood.

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“Il folk” dissero un giorno Bert Jansch e John Renbourn “non ha bisogno degli amplificatori e l’unica elettricità che serve è quella che passa dalla terra ai piedi dei danzatori dei balli tradizionali”.

Cruel Sister fu una decisione sofferta ma inevitabile, rischiosa ma attraente, per questo disco i Pentangle portarono in studio delle chitarre elettriche, un’assoluta novità. Punta di diamante del folk revival inglese, alternativi e al tempo stesso complementari ai Fairport Convention e agli Steeleye Span, i Pentangle si formano nel 1967.

Il quintetto (apposta chiamati Pentangle) di stampo classico, furono sin dall’inizio “condizionati” dalle diverse personalità dei vari componenti: i due citati chitarristi, Jansch e Renbourn, Danny Thompson, Terry Cox e la cantante Jacqui McShee… un impasto eterogeneo di forte impatto.

I Pentangle realizzarono diversi lavori cruciali, tutti frutto di una saggia e spontanea forma di contaminazione, dove l’istinto ha il sopravvento sul calcolo. Cruel Sister, (tra gli ultimi fuochi della miglior stagione del folk revival inglese), ha il fascino del rigore della tradizione popolare, i brani sono tutti pescati nel repertorio tradizionale, la ricerca, la perizia musicale, la freschezza vocale ci regalano un capolavoro di grande valore.

Pur avvalendosi di forti innovazioni, il disco riesce a mantenere la forza di penetrazione dei dischi precedenti: “Sweet Child” o “Basket of Light” ma con un qualcosa in più. Tutti i musicisti sono al loro massimo e la ricerca e l’innovazione sono portate all’estremo. Il culmine si raggiunge con Jack Orion, 18 minuti di durata, (che occupa tutto il secondo lato del disco originale in vinile).

Tutto il materiale è arrangiato con maestria, i brani sono interpretati con sopraffina duttilità strumentale. L’intreccio delle chitarre acustiche ed elettriche, la voce soave della McShee, creano un flusso sonoro e una scorrevolezza che rende questo”Cruel Sister” un disco unico.

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immagine Tutti i critici reagirono entusiasticamente ad Astral Weeks. La rivista Rolling Stones lo nominò album dell’anno. Tutte belle parole, intanto Van era costretto a chiedere i soldi in prestito per mangiare. Infatti le vendite erano di appena 15.000 copie ed i discografici, forti di contratti capestro, bloccavano i pagamenti dei suoi diritti. Ancora oggi Van aspetta le sue royalties di “Brown Eyed Girl”!

Passarono due anni prima che arrivasse il disco successivo. Van era pieno di dubbi e diffidava del mondo dell’industria discografica. Scoprì che, se le sue canzoni fossero state trasmesse per radio, avrebbe ricevuto le royalties direttamente dalla BMI (l’equivalente della nostra SIAE). Abbandonò le sperimentazioni e decise di fare della semplice musica soul, dove le canzoni avrebbero mantenuto la canonica forma strofa-ritornello. La svolta sarà sbalorditiva, ma non si può dire che Van si svende. Non è il tipo di fare qualcosa che non senta suo o qualcosa di cui si possa in seguito vergognare. Decise di fare a meno di un produttore, perchè non si fidava più di nessuno. Aveva inoltre bisogno di una band stabile con cui poter sia incidere che esibirsi.

Scelse Jeff Labes al piano, John Platania alla chitarra, Garry Malabar alle percussioni Jack Schrorer a guidare i fiati. Come è troppo facile notare, quest’ultimo doveva ancora imparare a suonare. Questi quattro musicisti suoneranno con lui, ad intermittenza, per i successivi 4–5 anni. Il suono di Moondance, rispetto al contemporaneo soul di Aretha Franlin e Otis Redding, è molto più morbido e rilassato. Van si ispirava al soul gentile del defunto Sam Cooke, comunque in maniera del tutto originale. Il suo potrebbe essere chiamato “soul celtico”, ma la definizione non aiuterebbe a capire. In confronto ad Astral Weeks tutto è più levigato, pulito, meno emozionale. Gli arrangiamenti dei fiati sono mosci e noiosi, a volte irritanti.

Le composizioni abbracciano più stili. Il pezzo che dà il titolo al disco è puro jazz, come composizione e come esecuzione. “And It Stoned Me” sembra uscita del disco precedente. “Crazy Love” è una tenera nenia sussurrata in falsetto. “Brand New Day” è un gospel appassionante, con piano e coriste in primo piano e sassofonisti in castigo (per fortuna!). “Caravan” e “These Dreams of You”, registrate dal vivo tre anni dopo, saranno perfette, ma qui sono troppo fredde. “Into the Mystic” è una sognante ballata rovinata, come al solito, da un breve intermezzo dei sassofoni. Nulla di personale, credetemi.

La colpa io non la dò a Jack Schrorer, io la dò al suo insegnante! Gli ultimi due pezzi son puri riempitivi di nessun valore. I testi sono brevi ed ottimistici: Van era da poco felicemente sposato. Moondance è l’album più sopravvalutato della carriera di Van Morrison. In realtà egli stava ancora imparando a produrre un disco. Comunque sia, dopo questo disco i suoi problemi di sussistenza furono risolti.

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