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Ci sono dei dischi che più di altri rimangono nella mente perché legati a forti emozioni. Questo è uno di quelli, un disco legato soprattutto a ricordi… pensate; vent’anni e un nuovo amore… ho detto tutto, no?

Restiamo negli anniversari con questo disco oltre quarantenne (portati bene) Reggatta de Blanc, probabilmente il loro capolavoro uscito nel ’79 dopo “Outlandos d’amour” del ’77.

All’inizio c’è il punk, anche se per sottrazione: ”Il punk mi interessa come fatto di costume, la musica invece mi fa veramente schifo”, osserva Sting mentre sfrutta lo stesso circuito di club utilizzato da Clash, Stranglers e Sex Pistol. E’ il 1977, e il fenomeno Police esplode in Inghilterra. Sting avverte che è giunto il momento per esprimere cose originali, per superare il guado in cui s’è cacciato il movimento punk, cui per altro non appartiene. Sente di avere un mucchio di cose nuove da dire. Ci crede, e con lui Stewart Copeland. Ha anche dato un calcio alla sua carriera di insegnante per dedicarsi alla musica. Scrive di getto una ventina di pezzi in vista prima dell’esordio e di questo “Raggae dei Bianchi” poi.

Sono stati definiti gli inventori del Reggae rock; il chitarrista Andy Summers, con il suo ricamo sonoro, fatto di fraseggi e accordi di ampio respiro, il bassista Gordon Sumner, in arte Sting sostenitore implacabile nonché voce principale e il batterista Stewart Copeland, con le sue alterne e geniali rullate trascinatore brano per brano.

E così, Message in a bottle, Reggatta de blanc, Deathwish, It’s al right for you, Bring on the night e Walking on the moon, solo per citare le principali e più riuscite canzoni del disco, firmano un’opera che verrà venduta e ascoltata in tutta europa e nel mondo. La caratteristica principale dell’album è la sincronicità, i brani pur andando a tempo prendono vie di fuga diverse e sempre nuove per poi fare ritorno alla base principale, alla melodia iniziale. Si è parlato di reggae perché è elemento fondamentale di tutto il disco, in tutti i brani riecheggia il sound caraibico, che diverrà il loro marchio di fabbrica in barba a tutte le contaminazioni che all’epoca venivano criticate.

I Police dovettero giustificarsi in una conferenza stampa dall’accusa di aver rubato le idee agli artisti reggae. “Sì, abbiamo preso energia dal reggae, ma gliene abbiamo anche data”, dissero.

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La leggenda narra che due rockettari, Bernard Sumner (chitarra) e Peter Hook (basso) si incontrino a Manchester, la loro città, il 4 giugno del 1976. Spinti da una performance (che è anche il loro primo concerto) dei Sex Pistols, decidono di formare loro stessi una band.

Sull’onda di una totale e radicale rifondazione musicale, cercano e incontrano l’aspirante poeta Ian Curtis. Partono facendosi chiamare Warsaw in onore della canzone “Warszawa” di David Bowie, per poi cambiarlo in Joy Division nome usato nei campi di concentramento nazisti dove venivano internate le donne destinate a soddisfare il sinistro piacere degli ufficiali con la croce uncinata. Nell’Inghilterra dei fine anni ’70 travolta dal punk la provocazione era diventata norma, persino abitudine.

Circolavano voci strane su di loro e sul loro cantante, Ian Curtis, quello che nelle foto guardava da un’altra parte. Si muoveva in modo stranissimo e si diceva che sul palco simulasse crisi epilettiche. Si seppe poi, che epilettico lo fosse davvero.

Quest’album d’esordio aveva un che di realmente inquietante, non era teatro, non era provocazione, era pura disperazione. La copertina nera (firmata Peter Saville) ne è l’esempio. Le canzoni sono un muro sonoro avvolgente e incalzante insieme. Sono melodie introspettive, cariche di commozione e timore. Sono canzoni “maledette”, spettrali e sofferte.

Il geniale produttore Martin Hannett riesce ad impossessarsi del gruppo fino a cambiarlo radicalmente, e anche merito suo, l’esser riuscito a scovare dalle viscere dei musicisti, quel suono oscuro, nero, a volte spaventoso, a volte straziante… Curtis canta (come Jim Morrison, che venera) testi che parlano di nevrosi, alienazione, malattia, Hannett rallenta i pezzi fino a renderli ipnotici, perversi. La batteria è signora assoluta del suono, basso e chitarra sono al suo servizio.

In poco tempo i J.D. si fanno conoscere e alimentano un vero culto. La fama cresce, e non solo in Gran Bretagna, ma il suicidio di Curtis (nel maggio 1980, a ventiquattro anni) alla vigilia dell’uscita del secondo album e del primo tour americano, mette fine alla band e la fa entrare nella leggenda nera del rock’n’roll.

Cominciano gli anni Ottanta, i Joy Division non ci saranno più, e al rock mancherà qualcosa di importante.

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Con lo stesso titolo era uscita nel 1975 una biografia dell’artista. Il titolo giusto per l’album sarebbe stato “Into the Music Again”, perché esso segna il ritorno della voglia di far musica dopo la pausa triennale e due tentativi poco felici.

La voglia di cantare è anche il ritorno a vivere, come indicano i titoli di alcune canzoni: “Bright Side of the Road”, “You Make Me Feel So Free” e “And the Healing Has Begun”, in cui ad essere malato era lo spirito e la medicina è, naturalmente, la musica.

La voglia di vivere emerge dalla forza della performance canora, mai così convinta e trascinante (“Divertiamoci mentre possiamo/ Non vuoi aiutarmi a cantare questa canzone/ Dal limite scuro della via/ Al lato luminoso della strada”).

Per produrre questo disco non si badò tanto alle spese, e possiamo ascoltare ottimi musicisti, fra ospiti e membri della nuova band. Innanzitutto arriva, dal giro di James Brown, il sassofonista Pee Wee Ellis, cui il precedente Schrorer non era degno neanche di lustrare le scarpe. Alla tromba il giovane Mark Isham, che negli anni successivi toccherà anche le tastiere.

A suonare il violino e la viola c’è la splendida italiana Toni Marcus, il vero solista in questa occasione, che purtroppo non verrà più richiamata per gli album successivi. Si può notare come la batteria sia mixata ad un volume molto più alto che, per esempio, in Tupelo Honey: neanche Van è immune dalle mode. Gli elementi nuovi, che rimarrano a lungo, sono la musica celtica, in “Rolling Hills”, e la religione, in “Full Force Gale” (“Sono stato risollevato dal Signore”).

Con una prima facciata di canzoni veloci ed una seconda di canzoni lente, le nove canzoni (più una coda) mostrano praticamente tutte le facce, gli stili, gli atteggiamenti mentali, i trucchi ed il talento del cantante e dell’autore. Descrivere questa goduria di disco è inutile: va acquistato ad occhi chiusi.

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La storica “cinque giorni” di New York contro il nucleare, tenutasi nel settembre del ’79, divenne un triplo album live con straordinarie esibizioni.

La festa al Madison Square Garden dal 19 al 23 settembre, fu una festa di suoni di canzoni senza frontiere, di jam sessions e di speranza per un futuro in cui, come disse Stephen Stills, “sia possibile costruire un’industria sulla forza benefica del sole. E per far questo partiamo da una chitarra”. La cinque giorni di No Nukes fu una Woodstock “per una causa”, per l’altra generazione, quella dell’impegno degli anni Settanta, meno ottimista, ma altrettanto carica di motivazioni.

La organizzarono quelli del Muse (Musicians United for Safe Energy), un gruppo di musicisti animati dal sano desiderio di cambiare prima l’America e poi il mondo. Capeggiati da Jackson Browne e Graham Nash, allestirono la più grande festa musicale dei nostri anni (e anche l’ultima di tale portata).

La canzone guida fu “Power” di John Hall, che venne eseguita a più voci, nel pieno di un tormento emotivo che è, ancora adesso, perfettamente “raggiungibile” con l’entrata di James Taylor che intona “I know that…”. Sono brividi che hanno oltre quarant'anni che allora centrarono l’obiettivo di scatenare nei giovani (solo nei giovani?) una nuova passione, a metà tra l’ideale e la politica di tutti i giorni.

No Nukes fu anche il disco di “Crow on the cradle” cantata da Jackson Browne e Graham Nash, della “Stay” divisa fra lo stesso Jackson e Bruce Springsteen, e poi di James Taylor, Carly Simon, Ry Cooder, Chaka Khan, Doobie Brothers, Poco, Crosby Stills & Nash, Gil Scott-Heron, Bonnie Raitt, Raydio, Tom Petty, Sweet Honey in the Rock, Jesse Colin Young e John Hall maestro di cerimonie.


Ascolta il disco: https://i.devol.it/watch?v=TXTy4YVS7Ok


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