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Una colonna sonora scarna e spesso struggente, enigmatica nel suo protendersi oltre i confini dell’emotività e incredibilmente magnetica nella sua tensione sottile, quasi surreale. Una stanza spoglia, un uomo con le sue tastiere, essenzialmente pianoforte e organo, qualche sporadico intervento di chitarra e percussioni, una voce carismatica nel suo incedere ai limiti del recitativo. Questo, e molto altro ancora, è Music For A New Society, capolavoro solista dell’ex-mente creativa dei Velvet Underground.

Non un album rock, come Cale ne ha realizzati pure di ottimi, ma un album che vive di poetica rock filtrata attraverso una lente intimista, la stessa di Tim Buckley, di Nick Drake, dell’inarrivabile Springsteen di Nebraska: Music For A New Society è il lucidissimo delirio del cuore di un artista schivo e inimitabile, di uno stratega dell’eclettismo e della sensibilità, di un straordinario “mago” di suoni che trascendono l’esperienza comune per rivelarsi in tutta la loro intensità di contenuti, la loro sobrietà di forme, il loro fascino austero eppure passionale.

Strappa lacrime a applausi Music For A New Society, un disco che solo il cinismo e la desolante mercificazione dei nostri tempi possono aver subito condannato all’onta dei “dimenticati”. Ma, si sa, i geni sono spesso incompresi.

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Big Science è il suo manifesto sonoro. Musica d’avanguardia, apparentemente priva di potenzialità commerciali, che scala fino ai vertici le classifiche commerciali di vendita americane: Big Science, conciso riassunto della ben più imponente performance multimediale United States I-IV, è un caso pressoché unico nella storia pur concitata e ricca di colpi di scena del suono dei nostri tempi.

Giochi di voci filtrate, tastiere solenni ma mai invadenti, imprevedibili soluzioni di arrangiamenti e ritmi appena accennati, con il sostanziale contributo del “tape-bow violin” — uno strumento inventato dalla stessa artista naturalizzata newyorkese, un violino in cui l’archetto è un nastro pre-inciso e le corde una testina magnetica — interagiscono nella creazione di un sound “caldo” a dispetto della sua ostentata glacialità, comunicativo pur nella sua minimale freddezza, pienamente godibile all’ascolto nonostante il suo impatto decisamente ostico: una novità assoluta per il mondo fatuo delle charts.

Influenzato dal rock nello spirito, e non certo nella forma, Big Science è la trasposizione in “musica” ipnotico-allucinata del nostro vivere in una società tecnologica, senza gli eccessi dissonanti che sovente accompagnano le sperimantazioni ma con la luce-guida di un approccio creativo sempre profondamente “umano” nel suo uso del media elettronico.

In bilico fra avanguardia, classica e “pop”, fra essenzialità strutturale e ridondanza di contenuti e “messaggio”, Big Science è il perfetto matrimonio fra arte e intelletto, fra istinto e ragione, fra l’uno e il tutto.

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Nei primi anni ottanta la musica era pesantemente plastificata ed anche Van non fu immune dalla moda del momento. Ciononostante riuscì a sfornare un capolavoro che non è affatto invecchiato a oltre quarant’anni di distanza. Il suono è diverso da qualsiasi cosa egli abbia fatto prima, nonché personalissimo. C’è la rinuncia all’intero bagaglio di trucchi vocali, eppure la voce rimane espressiva, bella ed emozionante come sempre. I sintetizzatori dominano fra gli strumenti, con apprezzabili contributi di fiati e, soprattutto, chitarra elettrica. Il giovane Mark Isham passa sempre più dalla tromba al sintetizzatore ed acquista un ruolo di primo piano, anche come arrangiatore e, verosimilmente, come contagiatore nei confronti del leader. Il brano “Scandinavia”, in coda all’album, è il primo pezzo strumentale della carriera di Van, che nell’occasione si cimenta al pianoforte. I testi sono estremamente semplici, con descrizioni di scale che salgono in paradiso ed illuminazioni simili. La copertina rende bene l’idea. Nelle note dell’album è spiegato che un paio di liriche sono state ispirate da un racconto di Alice Bailey e ben tre sono state scritte in collaborazione con un vecchio amico di nome Hugh Murphy. Le cose saranno ancora più chiare sulla copertina dell’album successivo, che recherà una dedica al fondatore di Scientology, Ron Hubbard. Le composizioni su “Beautiful Vision” sono fra le migliori dell’ intero repertorio morrisoniano ed intonate al sound del disco. Un paio di esse raffigurano con efficacia i ricordi dell’infanzia a Belfast. Nell’allegra “Cleaning Windows” si racconta di uno dei pochi mestieri che Van ha fatto al di fuori dell’ambito musicale.

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Il vegano Declan Patrick McManus in arte Elvis Costello è senza dubbio il personaggio chiave del pop britannico. Colui che ha restaurato la melodia a colpi di elettricità.

Imperial Bedroom è l’album che più di altri sintetizza la peculiarità della sua scrittura. La sua camera da letto mentale è quanto di meglio il pop costelliano possa offrire. Le canzoni sono complesse, situate in atmosfere easy-jazz, tra pianto e ironia in un scenario avvolgente, non casuale, dove i brani sono un concentrato di dettagli sonori.

L’album è zeppo di punte di diamante che definisce nitidamente il suo sforzo creativo e la sua volontà di riconsegnare alla melodia una dignità spesso e volentieri calpestata da regole di mercato. I testi sono tutto meno che banali e consolatori. Costello è uno dei pochi che si rendono conto che il pop non è un fenomeno limitato e introduce delle innovazioni di tipo strutturale e melodico. D’altronde il suo impeccabile gusto estetico ed emotivo non è altro che la regola dei corsi e ricorsi storici. E’ il rincorrersi di una musica tanto mutevole da formare, alla fine, una regola per lo sviluppo storico musicale del pop stesso.

Il disco, va ricordato, venne accolto dalla critica in maniera entusiastica mentre a livello commerciale si rivelò un flop ma poco contò per Elvis più attento alla forma d’arte che alle vendite. Grande songwriter.

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