cronache dalla scuola

[cronache dalla scuola]

Stiamo facendo questo laboratorio settimanale dove un'ora è gestita dai ragazzi che devono organizzare in classe un telegiornale che affronta di volta in volta un tema specifico: Europa, Stati Uniti, Medio Oriente, Tecnologia e Scienza, Liguria. Siamo già al terzo appuntamento.

In quinta i ragazzi non erano abituati. I primi telegiornali erano simili a ricerche scolastiche, muri di testo letti con voce mono-tono, scarso apporto di immagini o video. Ogni volta io le la docente di sostegno abbiamo dato un feedback, consigli, in modo che potessero migliorare, essere più sicuri, comunicare meglio, saper attirare l'attenzione.

Quando venerdì scorso un gruppo ha messo sul mega-schermo che abbiamo in classe la via della città rumena dove ha sede TikTok, usando Google Maps, e uno studente si è messo davanti all'immagine fingendo di essere in Romania e un altro studente ha finto di essere un passante, un lavoratore di TikTok che stava smontando dal lavoro e il primo ha iniziato a intervistare il secondo chiedendo cosa ne pensasse delle accuse di disinformazione rivolte a TikTok dopo le recenti elezioni politiche, ecco, in quel momento mi sono reso conto che quel lavoro che stavamo facendo in classe serviva davvero a qualcosa.

[cronache dalla scuola]

#1

— professor Venerandi, volevamo dirle una cosa — sì? — le apre un sacco di laboratori, belli eh, adesso abbiamo quello su Shakespeare, quello dei telegiornali sul mondo, quello su Don Chischiotte fatto con i video di intelligenza artificiale, quello di storia con Sutori, quello del gioco di ruolo sulla rivoluzione francese... — sì — e non ne chiude mai nessuno — ah — non riusciamo a portarli avanti tutti contemporaneamente — capisco — bisognerebbe un po' ridurli, capisce, abbiamo anche le materie di indirizzo da studiare — capisco

#2

— professor Venerandi — sì? — ho un problema con il laboratorio su Cervantes — ah — dico, la lotta contro i mulini a vento fatta con l'intelligenza artificiale. Non potrei fare una animazione al posto dell'intelligenza artificiale? — non riesci a trovare una piattaforma per generarle? Posso consigliarti... — no, non è quello. È un problema etico — ah — io sono contro l'intelligenza artificiale generativa, perché è stata addestrata sul lavoro di grafici a loro insaputa — capisco — e quindi non voglio usarla perché penso che l'addestramento fatto in questa maniera non sia etico e rispettoso del lavoro degli altri — capisco — potrei fare una animazione al posto dell'AI? — guarda, con queste premesse ne sarei felice — oh, bene — però quando poi la presenti spieghi perché non hai voluto usare l'AI, così facciamo nascere un po' di dibattito in classe. Ok? — ok

[cronache dalla scuola]

Aggiungo solo due cose a margine dell'affaire Raimo (docente sospeso per tre mesi dall'insegnamento e con stipendi dimezzato per aver criticato pubblicamente il ministro Valditara), ed è quello legato all'informazione giornalistica. La quasi totalità dei giornali riporta che Raimo avrebbe definito Valditara come “cialtrone, lurido, repressivo e pericoloso”. Le virgolette non sono mie, sono dei giornali che ho preso online. E – aggiungono – Raimo avrebbe detto che “Valditara va colpito come si colpisce la morte nera”. Più o meno tutti i giornali riportano così la notizia.

Ora, entrambe le citazioni sono false.

Gli aggettivi citati sono simili a quelli usati da Raimo, vero, ma mai riferiti alla persona di Valditara quanto alla sua ideologia politica, alle sue esternazioni e al suo linguaggio. Raimo non dice mai che Valditara sia un “cialtrone, lurido, repressivo e pericoloso”. Dice che la sua ideologia politica è repressiva e che quello che dice è arrogante, cialtrone e lurido. Quando parla di colpire Valditara come la morte nera, dice che va colpito politicamente, e poi spiega anche come: con una manifestazione di piazza dei partiti di sinistra.

La parola politicamente sparisce dai citati dei giornali, l'idea della manifestazione non è riportata da nessuno e nemmeno le motivazioni dell'impianto di Raimo: dalle “patriottiche” linee guida per l'educazione civica di Valditara alla sua “didattica dell'umiliazione”. Tutto è stato sbianchettato tranne cinque termini che sono stati copincollati e ridistribuiti ad hoc.

Insomma, si può essere o non essere d'accordo su quello che Raimo ha detto, sul linguaggio usato, ma i virgolettati che girano e su cui sono costruiti poi molti post o molti commenti in rete, sono palemente adulterati dai media per attirare click rapidi.

E questo imho è un altro problema tossico della comunicazione in rete: anche i media tradizionali vivono di copia e incolla con scarsissimo controllo delle fonti e contribuiscono a creare un clima divisivo, superficiale e che lavora sullo stomaco e non sul cervello.

Altra cosa, ultima giuro, sul fatto che sia aberrante che esista una regolamentazione che impedisca ai docenti di poter raccontare la scuola e criticare la gestione della stessa.

Diverse persone in rete, ho letto, commentavano che in una normale azienda privata se critichi la dirigenza vieni licenziato in tronco. Perché invece nel pubblico un dipendente dovrebbe poter criticare la propria dirigenza? La ragione non è tanto che l'azienda privata ha come scopo il profitto, mentre il pubblico – ad esempio la scuola – no. Ma piuttosto perché – banalmente – il pubblico è pubblico.

Gli americani non hanno eletto Steve Jobs come CEO Apple. Nessun dipendente di una azienda privata elegge il proprio datore di lavoro. Io – come docente – sì.

Ogni cinque anni voto, assieme al resto degli italiani, una serie di persone che andranno direttamente a governare il ministero della pubblica istruzione, o che sceglieranno una persona per farlo, una persona che agirà coerentemente con l'ideologia, gli interessi e i programmi dello schieramento che avrà vinto le elezioni.

In quest'ottica è essenziale che io – che lavoro nella scuola – abbia la possibilità di comunicare quello che la scuola è a chi nella scuola non ci entra. Raccontare quello che succede, indicare le buone prassi ma anche le manomissioni, gli errori e i pericoli di queste o quelle norme, linee guida, circolari.

Impedire ai docenti di poter fare questa opera di comunicazione, anche critica, è fare un danno alla scuola stessa. Significa anche che il docente non viene considerato come un intellettuale, ma come un semplice dipendente statale che non può esprimere il proprio “uso pubblico della ragione”, nemmeno al di fuori della scuola, ragionando e condividendo il suo giudizio su quello che fa.

Se chi lavora nella scuola non può parlare della scuola, il dibattito sulla scuola del futuro, quella dei nostri figli, sarà in mano a gente che non sa di cosa si sta parlando, che non ha mai messo piede in una classe e che agiterà una comunicazione sporca e superficiale, magari sfruttando qualche episodio di cronaca, per i propri interessi personali.

[cronache dalla scuola] In pratica ieri e oggi c'erano state tensioni in una quinta, scazzi, studenti che trattavano in maniera tossica altri studenti, esplosioni di nervosismo e alla fine delle mie due ore non me la sono sentita di fare il solito mazzo generale o di andarmene facendo finta di niente con qualche nota disciplinare o andando dalla coordinatrice per dirle “che la classe non va bene”, o – ancora peggio – di parlare con loro in corridoio, tra un'ora e l'altra, in piedi senza nessuna privacy, così ho chiesto alla docente successiva se mi prestava quattro studenti, quelli che avevano avuto i momenti di scontro più forte, e me li sono presi.

Sono andato nella classe dove avrei dovuto far lezione, c'era una docente di sostegno a cui non ho avuto nemmeno il tempo di spiegare niente e ho detto ai ragazzi che avrebbero potuto cazzeggiare con il telefonino finché non tornavo perché dovevo avere un momento con i loro compagni.

Sono andato in una aula vuota, mi sono seduto con i quattro ragazzi che mi guardavano meravigliati e un po' preoccupati e abbiamo parlato per venti minuti. Gli ho detto quello che mi sembrava che non stesse funzionando, le cose di cui ero rimasto deluso e le mie preoccupazioni, e loro mi hanno risposto, mi hanno raccontato il loro punto di vista, alcuni hanno chiesto scusa, altri hanno puntualizzato, altri mi hanno detto cose che non sapevo e che mi saranno utili in futuro per capire meglio. Niente di incredibile, un confronto in cui è emerso qualcosa, anche piccolo, che in classe, nei corridoio, nella fretta non sarebbe uscito.

Torno a casa e vedo che uno dei quattro ragazzi mi ha scritto una mail lunghissima, mi racconta altre cose che dal vivo non era riuscito a dire, ammette alcuni errori, promette alcune cose, ringrazia ma su altre resta sulle sue posizioni e racconta ancora di sé e del rapporto con i compagni.

Ecco, è una cosa che ripeto da tanto tempo: è stato liberatorio. Per venti minuti mi sono sentito di aver fatto il mio lavoro. Oltre a quello che già faccio, in maniera più completa e – per alcuni aspetti – più utile. Poi domani verrò deluso, poi mi ricrederò, poi emergeranno certamente i limiti di questa cosa, ma è chiaro che questo dovrebbe esser lo standard di una docenza.

Non dico il mio “fare qualcosa in più”, dico lo standard: il docente dovrebbe avere in maniera formale ore in cui fare “ricevimento studenti”, in cui potere parlare davvero a gruppi minimi della didattica, dei loro problemi, delle loro prospettive future. Il docente dovrebbe vivere la scuola per fare tante cose di cui una, importante eh, è l'insegnamento. Invece oggi il docente a scuola entra per chiudersi in classe e spiegare, verificare, uscire – esausto, distrutto, spompato – il più velocemente possibile. E quando non fa questo è impelagato in qualche attività burocratica fine a se stessa.

So di essere un illuso ma penso che sia importante continuare a immaginare una scuola impossibile e provare a farne qualche pezzetto, sapendo che tutto, tutto, tutto attorno è costruito perché il sistema di questa scuola continui a sopravvivere con modalità e riti a cui molti intimamente non credono più.

Ho preso a leggere i volumi grigi del Materiale e l'immaginario, sicuramente l'edizione più coraggiosa e ricca del progetto di Ceserani e De Federicis (l'edizione dell'anno scorso che ogni tanto provo a leggere, mi pare una pallida ombra al confronto). Ad un certo punto c'è una citazione da Mothé, “Gli operai, gli O.S.)”, inizio anni settanta che riporto:

Che dire del condizionamento della televisione che a lui si rivolge non più come ad un operaio non qualificato, né come ad un cittadino, ma come a un superman? Lo si persuade che egli può eguagliare gli eroi dei romanzi d'appendice, può andare alla loro stessa velocità su una vettura comperata a rate, può beneficiare degli appartamenti più belli, può sedurre le donne e scalare l'Himalaya. Se nella fabbrica si fa di tutto per convincerlo che è un imbecille, nel suo appartamento, al contrario, l'apparecchio si rivolge a lui come a un adulto.

Ecco, leggendo questo passo non posso non pensare a come meccanismi simili avvengano oggi con gli studenti e la rete. Mentre nella scuola “si fa di tutto per convincerlo che è un imbecille” la rete propone allo studente modelli che sono incompatibili con la scuola e con le proposte che la scuola fa. Anzi, più la scuola si pone come unico tramite ad un mondo adulto, anche sul piano economico e lavorativo, più la rete mostra modelli vincenti, appaganti e rapidi per il raggiungimento del benessere: youtuber, influencer, trapper sono le punte di un iceberg che dimostra ai ragazzi che esiste un mercato del lavoro dinamico, osteggiato da quello dei boomer e attraverso il quale si possono avere guadagni rapidi e indipendenti dal mondo scuola.

Quello che rende questi modelli alternativi appetibili, è che danno immediatamente gratificazione. È possibile provare subito, con costi contenuti, ed ottenere immediatamente un appagamento, magari non economico, ma sociale ed egotico attraverso like, condivisioni, nuove relazioni.

Lo studente vive in una realtà schizofrenica nella quale la scuola è un punto fermo, certo, ma con la quale ha difficoltà ad empatizzare e nella quale non riesce a essere coinvolto perché tutto quello che è fuori della scuola, specie nel mondo della rete, tende a valorizzarlo, ad appagarlo, trattandolo da protagonista e adulto, più di quanto la scuola possa strutturalmente fare.

la maturità è anche una maturità per il docente: ho di fronte i ragazzi che parlano di quello che ho fatto con loro nel corso dell'anno e vedo emergere cose che non pensavo, mi rendo conto di errori miei che cascano su di loro, di attività che sono risultate poi velleitarie o superficiali

e di cose che invece hanno funzionato meglio e che i ragazzi – a volte con coraggio a volte con anche un certo affetto – si porteranno dietro.

uno studente che parla davanti a me e altri sconosciuti di Democrazia Cristiana e di arrivo di Berlusconi, di neoavanguardie, gruppo '63, Balestrini, Pagliarani, l'asemic writing e l'uncreative writing di Goldsmith

è lui che parla ma mi sento il peso di avergli dato io quelle cose da dire.

e sentire citare dagli studenti in sede d'esame alcune cose che ho organizzato e che avrei potuto non fare, e che gli studenti raccontano come cose che li hanno interessati: il risiko riscritto alla luce della prima guerra mondiale, lo studio del contratto di affitto o l'attività nella realtà virtuale, ecco

fa capire che sei responsabile tu prima di tutti gli altri di quello che si dice o di quello che si tace

[cronache dalla scuola]

In pratica sono le ultime due ore del venerdì e in terza ho preparato questo esperimento: siccome la settimana prossima sono in pcto e quindi mi era saltata la verifica finale di storia, ho pensato di fare questa cosa.

Li porto tutti nell'aula cooperative learning, gli chiedo di posare i cellulari sulla cattedra e di dividersi in gruppi di cinque persone. E poi gli dico che facciamo una verifica sulla riforma protestante. Che noi, in classe, non abbiamo mai fatto.

Gli do un foglio con una ventina di domande piuttosto complesse sulla riforma protestante e una serie di fonti. Una mappa logica della riforma protestante, una pagina di un libro di storia internazionale che cita la riforma protestante (Una storia globale dell'umanità), quattro pagine A4 di un libro di storia generalista (Storia del mondo) e altre nove A4 fitti fitti di un testo di storia universitario (Storia moderna), sempre sulla riforma protestante.

“Avete due ore” gli dico. “Le risposte alle domande che vi ho fatto sono nei fogli che vi ho dato”. Possono lavorare collettivamente con i compagni del tavolo che gli è stato assegnato, non degli altri, possono usare tutti i fogli che gli ho dato. Alla fine darò una valutazione al singolo compito che mi viene restituito.

E qua succede la cosa che mi cambia la giornata. Ci stanno. Si mettono lì e per due ore, le ultime due ore del venerdì, non fanno altro. In alcuni gruppi si dividono i fogli da leggere, in altri uno legge ad alta voce per gli altri, confrontano le diverse fonti, escludono i fogli in cui non ci sono informazioni utili per le domande finali, si autocorreggono nelle risposte, si danno consigli, segnalano gli errori di grammatica dei compagni.

Io giro tra i banchi, osservo quello che fanno, come piano piano compongano le risposte, come tutti aiutino uno a scriverle e poi quell'uno le detti agli altri. Alla fine suona la campanella che alcuni stanno ancora copiando le risposte. Due ore di lavoro ininterrotto.

E io in quel momento sento che è successa quella fortunata alchimia, di quando proponi qualcosa che potrebbe essere un disastro e che invece viene presa bene, è stata ben calibrata: funziona.

E a me della riforma protestante, onestamente, non frega più di tanto: quello che vedo brillare è la capacità dei singoli gruppi di elaborare le strategie per arrivare a un fine, di trovare risorse che prima non c'erano, di riuscire ad aiutarsi l'un l'altro per il raggiungimento di un obiettivo comune.

Mentre io non faccio altro che controllare, dare qualche spiegazione dei termini più complessi quando mi chiamano, godermi lo spettacolo.

Insomma, tutto pur di non lavorare.

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Giornata particolare: per motivi di calendarizzazione facciamo scuola il sabato mattina, giorno in cui in genere non c'è scuola. Decido di organizzare una giornata leggera in cui non procedere con la “normale programmazione didattica”, ma di fare qualcosa di alternativo che faccia magari emergere qualche idea o competenza alternativa.

Nello specifico faccio vedere Wargames nelle due classi che ho del tecnico informatici, perché penso sia interessante soprattutto per loro vedere l'idea di intelligenza artificiale che c'era agli inizi degli anni ottanta, la nascita delle prime reti, il modem, videogiochi e nerd.

Invece nella quarta scientifico porto Trivia Pursuit. La mia idea, avevo anche già preparato un database per fare la stampa in serie, era quella di sostituire le brutte domande del Trivia con domande ad hoc delle materie che hanno a scuola, ma non ero riuscito a farle in tempo. Ho comunque deciso di farli giocare con le domande standard per vedere le dinamiche di classe che si sarebbero create e per – di nuovo – vedere come avrebbero affrontato campi del sapere molto diversi dai miei.

E – in parte – ha funzionato. Tempi più larghi, lasciare momenti morti, chiacchierare con loro alla fine del film in piccoli gruppi in modo da fare parlare anche chi in genere sta in silenzio, vederli imbarazzati davanti alle domande assurde di Trivia o guardami con sguardi assassini davanti alle mie ignoranze davanti alle carte di storia o letteratura.

Due flash: rivedere Wargames per la ennesima volta e scoprire ancora piccoli particolari a cui non avevo mai fatto caso. Pur essendo un film commerciale, anche un po' grossolano in alcuni punti, è davvero un prodotto fatto con tanta tanta cura. E – a quarant'anni di distanza – funziona ancora bene con dei ragazzi di diciassette anni.

In alcune cose lungimirante: quando parla di intelligenza artificiale e mostra le allucinazioni dell'intelligenza artificiale, in alcuni punti sembrava una sessione con chatgpt.

Il secondo flash: dopo aver fatto vedere Wargames in quinta, sto seguendo la partita di Trivia in quarta e arriva uno studente di quinta per farmi vedere un programma che sta facendo con un suo compagno, una rete neurale che hanno fatto in java addestrata sui dati dei cancri. Vogliamo capire se è possibile usarla come “capolavoro” in sede d'esame e presentarla alla commissione come punto di partenza della loro parte di orale.

E mentre lo studente mi racconta di come il programma funzioni a partire dalla segnalazione degli “sbagli” che ha fatto, imparando in un certo senso dai propri errori, io ridacchio pensando che è qualcosa collegabile al film appena visto e quindi poi alla guerra fredda. E lo studente è anche fiero di questo software fatto in due, che – mi dice – le reti neurali è roba che si fa all'università nella magistrale e invece loro due studenti di secondaria stanno già provando a farla ora, e io dico ma infatti, i miei complimenti.

E poi lo saluto, dico che ne parlerò con gli altri docenti: lui torna nella sua classe e io a seguire la partita di Trivia e mentre sono lì uno studente mi prende da parte e mi dice che ha ascoltato cosa diceva quello di quinta e – beh – tanta roba eh prof.

E ho ancora questa impressione che la scuola funzionerebbe meglio se – di tanto in tanto – si riuscissero ad abbattere le pareti su cui ancora oggi per buona parte si appoggia: le pareti tra materia e materia, quelle tra classe e classe, quelle tra anno e anno, tra ora di lezione e ora di lezione. E – spesso – tra studente e studente e tra docente e docente.

[cronache dalla scuola]

In pratica – a sorpresa – somministro agli studenti di una quarta questo gioco logico, un meta-questionario molto complesso a risposta multipla le cui risposte sono all'interno del questionario stesso. In inglese. In realtà sono entrato in classe e ho detto, volete fare una lezione tradizionale o un test logico, e loro dopo averne un po' dibattuto, dopo essersi assicurati che non c'era valutazione negativa, hanno scelto di fare il test.

Il test è fondamentalmente di logica, ma ci sono anche competenza di inglese e di comprensione del testo, quindi mi è sembrato un buon modo per fare due ore di didattica orientativa. Ma – ho scoperto poi – si è rivelato estremamente interessante per indagare le dinamiche di gruppo.

Ho ritirato i cellulari, isolati i banchi, come se fosse un compito in classe tradizionalissimo, dicendo loro che la prima ora avrebbero dovuto lavorare da soli, dalla seconda in poi si sarebbero potuti scegliere un partner e continuare in coppia.

Consegnati i fogli ho cominciato ad osservarli.

Inizialmente hanno lavorato singolarmente, ma quasi subito, di fronte alla straordinarietà del compito hanno naturalmente cercato di parlare con i compagni per confrontarsi e cercare conforto. E qui c'è stata una prima divisione tra almeno tre tipologie di lavoro scelto:

  • alcuni lavoravano da soli, senza nessuna interazione esterna, nemmeno con me;
  • altri cercavano continue strategie per risolverlo, cercando il mio aiuto o quello dei compagni;
  • altri, di fronte alla complessità della prova, dopo un certo periodo di tempo si arrendevano aspettando eventualmente aiuto nel partner della seconda ora.

Allo scoccare della seconda ora i ragazzi che erano nella prima tipologia di gruppo continuavano sostanzialmente a lavorare da soli, quelli della seconda tipologia di gruppo si mettevano subito assieme con altri al loro stesso livello per confrontare i risultati e arrivare alla fine, il terzo gruppo sceglieva un partner, ma con un atteggiamento molto dimesso.

Più o meno poco dopo la prima ora uno studente che aveva lavorato singolarmente viene da me dicendo di aver finito. Guardo il foglio e il compito è perfetto. Perfetto. Gli stringo la mano, gli faccio i miei complimenti e gli dico di uscire dalla classe e di andarsi a prendere un caffè.

A questo punto un'altra persona che aveva lavorato singolarmente dice che basta, rinuncia. Probabilmente, per lui, il fatto che il compito fosse già stato risolto ha fatto perdere del tutto l'interesse di quella che era stata vissuta come una sfida competitiva. Chi aveva usato la seconda e terza tipologia di lavoro invece non viene toccato dal fatto che qualcuno ce l'abbia già fatta.

Senza che io lo avessi detto i gruppi diventano più informali, specie di quelli della seconda tipologia di lavoro: le coppie diventano gruppi da quattro e i ragazzi naturalmente girano per trovare indizi e di tanto in tanto vengono da me per sottopormi la loro risposta. Quelli che facevano parte della terza tipologia di lavoro, una minoranza, cedono, perdono interesse nel compito che ritengono al di sopra delle proprie capacità. Quelli della prima tipologia, a questo punto molto pochi, continuano, testardamente da soli.

Ad un certo punto uno studente della prima tipologia, che aveva lavorato per un'ora e un quarto da solo con aria svogliata e distratta ed ero convinto fosse completamente fuori strada, viene da me mi dà il compito: c'è solo un errore. Il secondo miglior risultato. Gli faccio i miei complimenti.

Alla fine del periodo di tempo che avevo stabilito con loro (un'ora e mezza) do la soluzione. Tutti sono abbastanza soddisfatti. Spiego brevemente che è un test interessante per capire come hanno lavorato, ma anche per loro per rendersi conto di cose che “naturalmente” sanno fare meglio di altre. C'è chi di fronte all'inglese prova confusione, chi ha difficoltà ad astrarre e chi invece si trova a suo agio. Sono caratteristiche che ognuno di noi ha e potrebbero essere utile per capire come muoversi anche dopo la scuola.

Primo finale Tirando le fila:

  • gli unici due risultati positivi sono venuti da chi ha lavorato da solo;
  • ...ma il loro lavoro non ha aiutato il resto della classe;
  • i gruppi che si erano creati autonomamente sarebbero andati avanti per ore arrivando (forse) alla soluzione;
  • ...ma il lavoro di problem solving e la discussione che facevano fra di loro era didatticamente e formativamente più utile che il risultato effettivo del compito stesso;
  • chi aveva vissuto il compito in maniera competitiva aveva perso interesse nel compito appena si era reso conto di non poter vincere.

Secondo finale Alla fine, durante l'intervallo, riprendo tutti i fogli, mi cade l'occhio su quello dell'unico studente che aveva dato la risposta giusta. Lo guardo meglio. È perfetto. Letteralmente perfetto. Guardo quelli degli altri compiti, sono pieni di segni, ipotesi, cancellazioni. Il suo no, solo le risposte giuste. Dico cazzo, no: ha copiato. Mi cade il cielo addosso. Ha chiaramente copiato da qualche parte in rete, non ci sono tutti i naturali appunti a mano che una persona farebbe nel fare quel compito. Che deficiente che sono stato.

Poi, l'agnizione. Vado al suo banco, guardo i fogli che ci sono sopra: c'è la brutta, piena dei segni e delle ipotesi. L'aveva poi ricopiata in bella.

“Grazie grazie grazie” sospiro in una specie di rantolo e di preghiera assieme. Anche questa è fatta.

[cronache dalla scuola]

Quando è metà mattinata arrivano tre miei ex studenti del tecnico informatico, mi sorridono, mi avevano avvertito via Instagram che sarebbero passati.

Ci salutiamo, gli stringo la mano, sono gli stessi che avevo portato a teatro di sera, fuori dal mio orario di lavoro, alcuni per la prima volta, gli stessi a cui avevo letto Strindberg e fatto vedere – analizzandolo scena per scena – Othello di Orson Welles in classe.

Scendiamo al bar e mi raccontano di quello che fanno, la scuola di recitazione e doppiaggio, del loro canale Tiktok dove doppiano pezzi, i sogni, i casini, le gratificazioni e le difficoltà, i lavori con cui guadagnano e quelli con cui pensano prima o poi di farlo, chi sul palco chi dietro un microfono.

E io li ascolto e sono contento per loro e anche un po' fiero che alcune cose che ho fatto in classe li stiano accompagnando. Ma so anche che quel sogno è nato prima di me e finirà dopo di me. Che io non c'entro niente. Lo avrebbero seguito anche senza di me.

Però mi sono trovato in mezzo e ho partecipato a un pezzo del loro percorso e ora a sentire che recitano Strindberg e che al loro docente di teatro che gli chiedeva se conoscevano la storia di Otello hanno risposto che – certo – avevano anche visto tutto il film di Welles; e anche quando mi chiedono che ne penso dei loro doppiaggi, ecco

sospiro un po'.