D͏i͏-s͏p͏e͏n͏s͏a͏

D͏i͏-s͏t͏r͏i͏b͏u͏z͏i͏o͏n͏i͏ D͏i͏-g͏i͏t͏a͏l͏i͏ D͏i͏-v͏e͏r͏s͏i͏f͏i͏c͏a͏t͏i͏

Dispensa

Immaginate di essere di fianco a una leva di scambio ferroviario. E immaginate di vedere arrivare un vagone senza conducente che sta per dirigersi verso cinque persone legate ai binari. Se non fate qualcosa il vagone ucciderà le cinque persone. Non potete fermare il vagone immolandovi. L’unica cosa che potete fare è tirare la leva di scambio e dirottare il vagone verso un binario laterale in cui è legata una persona. L’unico modo per salvare le cinque persone è sacrificarne un’altra che, senza il vostro intervento, sarebbe rimasta incolume.

Questo esperimento mentale è noto a tutti coloro che abbiano fatto un corso introduttivo alla filosofia morale e non solo. Si chiama il trolley problem (“dilemma del carrello” in italiano) e serve per stimolare il ragionamento degli studenti forzandoli a lavorare sulle intuizioni nei casi difficili. Gli studenti perplessi solitamente protestano che non ha senso fare questi ragionamenti perché nella vita reale non si pongono situazioni così fittizie. Ma anche costoro, solitamente, ammettono che, in quella situazione, si dovrebbe tirare la leva anche se non se la sentirebbero o lo farebbero (giustamente) a malincuore.

Cosa risponderebbero al trolley problem alcuni pacifisti italiani (ad esempio, quelli visti di recente a Pace proibita di Santoro)? Se prendiamo per buone le ragioni che adducono nei loro discorsi pubblici, dovremmo rispondere che loro non tirerebbero la leva, perché la vita è sacra e non si salvano le persone uccidendone altre. Il succo del discorso è che la violenza è un male incondizionato e che chiunque ci caschi commette un male morale, anche se serve per salvare più vite. Quindi sembra che, secondo loro, lo scopo primario, e forse unico, sia mantenere la propria purezza morale, costi quel che costi.

Qual è l’insegnamento di esperimenti mentali come il trolley problem? Non è che il fine giustifica i mezzi o che, in casi del genere, non dovremmo sentirci in difficoltà a sacrificare una persona per salvarne cinque. Nella situazione reale probabilmente poche persone sarebbero capaci di agire come razionalmente (quasi) tutti sostengono si debba fare. L’insegnamento da trarre, invece, è che bisogna sempre considerare le conseguenze delle azioni anche quando sono in gioco quelli che giustamente consideriamo i valori supremi (come la vita umana). Situazioni come il trolley problem vengono usate per mettere in difficoltà prospettive assolutiste sui diritti (come l’etica kantiana) che, in interpretazioni un po’ letterali e sciocche, non sembrano capaci di giustificare il tirare la leva.

Ragionare su casi come il trolley problem serve anche per capire che i valori assoluti non sono sempre assoluti e che, anzi, possono e devono essere pesati e confrontati con altri valori o con le conseguenze delle azioni. Molti dei pacifisti più visibili nel dibattito pubblico, invece, intendono alcune nozioni (pace, guerra, violenza, armi, intervento) come degli assoluti positivi o negativi. Questo è un problema perché, senza presumere che ci siano i santi e i diavoli, nelle situazioni concrete bisogna distinguere chi è l’aggredito e chi l’aggressore, chi ha maggiori responsabilità e chi minori, chi propone una soluzione accettabile e chi invece vuole soltanto imporsi sugli altri.

La difficoltà di molti pacifisti con questo tipo di ragionamenti deriva dall’incapacità di ragionare sui termini morali (e su altri concetti) come nozioni da confrontare con altre. Abituati a pensare solo in termini di assoluti, trattano i problemi posti dalle situazioni reali come dei casi indicibili, rispetto ai quali non si può letteralmente andare avanti nel ragionamento.

Con ciò non sto dicendo che l’invio di armi non ponga dei problemi (morali, politici, strategici, economici). E nemmeno sto dicendo che tutti dovremmo saltare sul carro entusiasta dell’armamento, senza porre dei dubbi o delle perplessità. Al contrario, dobbiamo porre dubbi e perplessità. Il problema è che nel dibattito pubblico la posizione critica è stata sequestrata dal parlare per (presunti) assoluti, che sono trattati come termini incomparabili con ogni altra cosa. Questioni su cui, letteralmente, non si può ragionare.

Molto più onesto è, invece, chi sostiene che (giustamente) dovremmo essere molto cauti perché dobbiamo avere paura della situazione. Paura dell’escalation. Anche senza mettere sullo stesso piano le due parti, è legittimo esitare ed avere paura proprio perché non è impossibile che si arrivi a un punto in cui il conflitto diventa incontenibile. Paradossalmente, è anche onesto (spudorato?) chi ammette espressamente che non si dovrebbe armare l’Ucraina perché non ce lo possiamo permettere dal punto di vista economico.

La paura e l’interesse economico possono essere delle ragioni poco convincenti o in fondo non definitive. Ma sono plausibili perché si possono confrontare con altre considerazioni. I valori intesi come assoluti no. Per definizione non possono confrontarsi con nient’altro. Ma questioni come la pace, la violenza e la guerra non devono essere intese come assoluti perché ogni situazione è diversa dalle altre per responsabilità delle parti, gravità e possibilità di soluzione. È accettabile la pace del dittatore, ovvero non opporre resistenza se si è certi di dover rinunciare alle proprie libertà democratiche? È permissibile inviare (alcuni tipi di) armi per sostenere questa causa o considerazioni di prudenza e timore di escalation lo sconsigliano? Sono queste le domande a cui dovrebbe dare risposta un pacifista in buona fede. Invece, intendere le questioni come assoluti oscura le differenze, mette tutti sullo stesso piano e in definitiva serve a lavare le coscienze degli assolutisti senza offrire una soluzione né, tanto meno, un contributo al dibattito.

La cosa curiosa del pacifismo assolutista è che sgorga da ambienti intellettuali post-marxisti e cattolici, due aree culturali e filosofiche che invece in passato hanno saputo ragionare su violenza e guerra. La dottrina della guerra giusta è notoriamente di origine cattolica, così come la guerra di liberazione è parte dell’armamentario marxista. Sarebbe bello capire perché il caso attuale, pur con tutti i distinguo, non ricade in queste due fattispecie.

Le ragioni di questa débâcle intellettuale possono essere molte. Tra queste vi è certamente il problema del posizionamento storico e geopolitico. Le cattive interpretazioni del crollo del comunismo sovietico hanno preso malamente sul serio la formula giornalistica della fine della storia, e di conseguenza non ne hanno saputo accettare le conseguenze politiche e morali: ovvero il dovere di saper valutare le questioni politiche in maniera propriamente morale. Il contesto di riferimento comune sia ai post-marxisti sia ai cattolici pacifisti è la mancanza di un chiaro ordinamento storico-politico che stabilisca a priori dove sono i buoni e da che parte collocarsi.

Il problema è che l’attuale guerra in Ucraina non può essere interpretata né come una riedizione in ritardo di un conflitto da guerra fredda, né come l’ennesima guerra imperialistica americana. Non è un conflitto da guerra fredda perché manca lo scontro tra blocchi, dato che il contesto ante-guerra era di gran lunga più integrato materialmente e ideologicamente di quanto lo fosse fino a trent’anni fa. Anche senza metterli sullo stesso piano, i due blocchi ideologici non se la passano tanto bene: la Russia attuale può solo offrire un vergognoso nazionalismo plutocratico, e gli Stati Uniti fanno fatica a presentarsi, come una volta, quali campioni di democrazia e libertà.

Ma non è nemmeno una guerra ascrivibile all’imperialismo americano più recente (come le disastrose avventure in Iraq e Afghanistan) perché il sostegno americano all’Ucraina sta avvenendo in risposta a un’invasione reale e non a seguito di pretesti fabbricati ad arte. Ovviamente ora la creazione del nemico ideologico e l’opposizione dei due blocchi si sta pienamente dispiegando come naturale evoluzione di una situazione di conflitto, senza però che la causa scatenante sia stata creata dall’azione americana. Non possiamo, infatti, credere alla favola dell’attivismo Nato come provocazione che ha legittimato l’intervento russo: se lo facessimo dovremmo accettare che valgono sempre due pesi e due misure e che l’ipersensibilità russa è legittima anche quando è pretestuosa.

Dire che la situazione attuale è diversa da Iraq e Afghanistan, così come è diversa dai conflitti della guerra fredda, non deve far pensare che si condoni qualsiasi azione all’azione statunitense. Ma il rimanere vigili di fronte ad eventuali abusi da parte occidentale è un dovere che si può esercitare solo se l’atteggiamento critico non si pone pretestuosamente come tale.

Quindi l’attuale parata pacifista è il lontano risultato di una storia lunga e complessa. Ma il rifiuto di saper adeguare il proprio armamentario concettuale e morale ha prodotto il peggior esito: l’assolutismo moralista di due prospettive (post-marxismo e cattolicesimo) che invece avevano nella propria storia la capacità di mediare rivendicazioni di principio con l’analisi concreta della storia. Invece gli intellettuali che giocano questo ruolo prendono solo la posa delle proprie tradizioni di riferimento senza prenderne la sostanza. I risultati sono un atteggiamento critico senza presa sul reale e un’opposizione di principio che vuole essere disarmata solo per mostrarsi superiore.

Il trolley problem sarà anche un artificio filosofico, un esperimento accademico troppo facile da pensare e impossibile da realizzare. Ma ci costringe a prendere una posizione difficile, dato che sacrificare una vita non è mai facile. Astenersi dal prendere una posizione non lava la coscienza nel trolley problem e neanche nella vita reale.

di Federico Zuolo per https://www.valigiablu.it#Disociale

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Dispensa

In questi giorni tesi e plumbei, preludio di altri giorni, mesi e anni difficili, per i contraccolpi che la guerra inevitabilmente avrà – sta già avendo – sulla vita di milioni di persone anche al di là dei luoghi in cui oggi si combatte (la crisi alimentare in Africa, la recessione in Europa, l’intensificarsi dei flussi di profughi e migranti economici), mi sono venute in mente alcune riflessioni di Miguel Benasayag, contenute in un’intervista intitolata Resistere in un’epoca oscura (pubblicata come appendice al Discorso della servitù volontaria, a cura di E. Donaggio, Feltrinelli, 2014).

Benasayag è uno psicoanalista e filosofo che ha vissuto la prima parte della propria vita in Argentina, sotto la dittatura. Ha partecipato alla guerriglia, è stato catturato, torturato, ha scontato diversi anni di carcere. Quando parla di “epoca oscura” non pensa però a quel periodo della sua vita, ma a quello successivo. Alla Francia, dove approda dopo essere stato liberato grazie a uno scambio di prigionieri, all’Europa democratica dei nostri anni. Vivere sotto una dittatura – ci dice – significa trovarsi di fronte a scelte drammatiche, ma tutto sommato chiare. “Facili” (con tutte le virgolette del caso). Le epoche oscure sono, invece, quelle in cui la linea di demarcazione tra il bene e il male sfuma, il “nemico” non è nettamente individuabile, la tentazione al conformismo è forte. Paradossalmente – ci dice Benasayag – rimanere fermi nelle proprie convinzioni in queste condizioni è più difficile che opporsi al fascismo conclamato. Pensiamo alla difficoltà di resistere alle logiche della società capitalistica, mortifere, ma al tempo stesso avvolgenti, seduttive, affascinanti. Da cui è facile essere attratti, e di cui è (quasi) fatale ritrovarsi complici. Se pensiamo alla nostra vita di ieri, alla “normalità” pre-covid e pre-guerra in Ucraina, possiamo senz’altro dire che ci trovavamo, più o meno (s)comodamente, immersi in un’epoca oscura: senza montagne da scalare, senza rivoluzioni all’orizzonte, senza (quasi) prospettive. In cui la domanda “che fare?”, in chi ancora nutriva qualche velleità di emancipazione politica, non poteva che dar luogo a mesti ragionamenti sul seminare oggi per raccogliere chissà quando…

Poi il mondo è cambiato. La Storia – di cui era stata decretata la fine – ha subito un’accelerazione, si è messa a correre e a prendere una piega (brutta) che mai avremmo immaginato. E, se non altro, tutto sembra più chiaro: i buoni e i cattivi, il bianco e il nero, la parte con cui schierarsi. In una guerra “giusta”, in difesa della democrazia e contro il dispotismo. Oppure nella lotta contro tutte le guerre e l’economia di guerra, in un contesto che aprirebbe spazi inediti alla “sinistra non omologata”, candidata a farsi interprete della diffusa aspirazione alla pace dei popoli. L’inizio di una nuova epoca luminosa, dunque? Che nel linguaggio di Benasayag non significa meno drammatica o meno pericolosa (anzi!), ma più leggibile nelle sue alternative di fondo, più chiara, più aperta al cambiamento… Dalle parole di Benasayag, in realtà, emergono anche i pericoli che portano con sé le epoche luminose. Primo fra tutti, l’accecamento: «Nell’epoca luminosa non puoi evitare di diventare idiota: tutto sembra talmente semplice! Un organismo sociale, nella sua storia, ha bisogno di entrambe le cose, dunque anche di epoche oscure, perché non sono tempi di pura negatività. Sono epoche di elaborazione profonda. Dopo, quando tornerà un’epoca luminosa, sappiamo bene quello che accadrà: settembre 1944, tutti contenti, tutti partigiani e resistenti – e ci si dimenticherà di noi. Ma non ce ne preoccupiamo troppo. Il nostro lavoro è resistere in un’epoca oscura» (p. 88).

Lungi da me la pretesa di fornire un’interpretazione in chiave “epocale” dei giorni che stiamo vivendo. Due sole osservazioni a margine di questo testo. La prima: quello che sicuramente serve oggi, nel chiaro-scuro in cui siamo immersi, è resistere alla tentazione della semplificazione, della superficialità, dell’“arruolamento delle parole” a servizio dell’uno o dell’altro fronte. Ciò che Bobbio scriveva quasi settant’anni fa sul dovere dell’intellettuale di «seminare dubbi», anziché «raccogliere certezze», di «valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva» conserva – mi sembra – tutto il suo valore (Politica e cultura, Einaudi, p. 15).

Seconda osservazione: se è vero che i sondaggi oggi certificano l’esistenza di una maggioranza di italiani contraria alla guerra (o meglio, contraria all’invio di armi pesanti all’Ucraina), ciò non si sta traducendo in una mobilitazione diffusa per la costruzione di un’alternativa. Le assemblee, i presidi, le manifestazioni che alcuni di noi stanno contribuendo a organizzare e animare, affollate due mesi fa, non vedono oggi la partecipazione delle masse. Alcuni mondi prima scarsamente comunicanti si mescolano e può accadere che all’iniziativa promossa da un gruppo religioso si incontrino il militante di Rifondazione comunista e gli scout. Ma, alla fine, a muoversi sono coloro che già prima erano attenti, informati, disponibili a una qualche forma di impegno. Nulla di nuovo, né di inspiegabile. Ma ciò ci dice della necessità di quel lavoro lungo e faticoso di elaborazione, costruzione di pratiche, intreccio di relazioni, che è compito precipuo delle “epoche oscure”.

di: Valentina Pazé per https://volerelaluna.it – (10/05/2022) #Disociale

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Dispensa

Liberi come farfalle, come il vento, come un pensiero. È così grande il desiderio di sentirsi liberi da essere a volte addirittura paragonato alla felicità o da diventare un obiettivo, un ideale o persino un mito.

Intesa come possibilità di agire e di scegliere senza costrizioni né condizionamenti o come mancanza di vincoli e confini estesa all’infinito, per alcuni la massima affermazione della propria volontà e della individualità, la libertà è sempre stato uno dei principi universali a cui tendono tutti gli esseri umani. Tutti vogliono sentirsi liberi: liberi di fare ciò che si vuole, liberi dalle preoccupazioni, dai ruoli sociali, dalla sofferenza, liberi di non faticare, di avere ogni cosa, di andare dove si vuole, di poter dire tutto ciò che passa per la testa. Uno dei più grandi paradossi, tuttavia, è quello di legare la libertà all’avverarsi di specifici obiettivi o alla realizzazione di determinate condizioni.

Pensare, ad esempio, di essere liberi quando non si dovranno più pagare le tasse, non ci renderebbe forse schiavi del denaro che vorremmo poter tenere per noi? O concepire la libertà come la mancanza di orari e di regole, non ci priverebbe inesorabilmente della possibilità di organizzare e di coordinare la nostra vita all’interno di una comunità? Sembra paradossale ma la ricerca della libertà può rischiare di diventare una schiavitù. Cercare di togliere barriere e limitazioni, ci obbliga a porre in atto dei meccanismi di eliminazione che ci legano al loro esito, incatenandoci all’oggetto che ci impedisce di sentirci liberi. Affermare la propria libertà all’interno di una comunità, come il mondo in cui viviamo, è inevitabilmente legato alla scelta di mettere liberamente in condivisione con gli altri una parte della propria libertà per poter costruire la libertà collettiva. Per questo sono nate le regole, gli accordi e addirittura le società, luoghi dove lo spazio di incontro tra diverse libertà individuali diventa un arricchimento reciproco trasformandosi in quella che viene chiamata collettività.

Siamo nati liberi, come frutto di una emanazione libera di amore della vita, incontenibile e potente e ogni volta che nasce una persona, il mondo si trova ad affrontare il modo di creare nuovo spazio, costruire una nuova libertà, all’interno delle libertà già esistenti. Tutto è connesso e si espande grazie all’arbitrio che liberamente agisce allargando le possibilità e la condivisione sociale, mettendo in connessione tante libertà e diverse capacità, costruendo così nuove opportunità liberanti. Essere liberi non vuol dire volare come un uccello, una possibilità che non fa parte del patrimonio umano, ma significa poter cercare il modo di elevarsi in cielo grazie alla libertà di ingegnarsi e di utilizzare gli strumenti offerti dall’ambiente e dal mutuo concorso nella ricerca di modi diversi per volare. La libertà è definibile solo all’interno delle nostre possibilità, oltre queste si tratta di capacità che possiamo acquisire con l’impegno e la collaborazione di cui siamo liberi di disporre. Non è la fantasia a stabilire i limiti alla nostra libertà ma la capacità, e siccome le capacità sono presenti sotto forma di doti, di apprendimento o di condivisione, la libertà è uno stato che tutti possediamo ma in maniera diversa e che si può ampliare soprattutto all’interno di una dimensione collettiva.

L’errore più grave che si possa fare è di confondere la libertà con il desiderio. Il desiderio slegato dalla possibilità diventa illusione, schiavitù e aspettativa, presupposti dell’infelicità. La vera libertà che tutti abbiamo è quella di poter partecipare alla costruzione della libertà del mondo, del nostro cerchio di vita, del nostro vicino, una libertà che ci permette di elevare il nostro ruolo nella storia, come costruttori sempre più liberi e liberatori di compiere atti gratuiti e vivificanti, dopo aver riconosciuto in ognuno di noi la libertà di prendere parte alla costruzione del cammino del mondo.

Non possiamo camminare sull’acqua ma siamo liberi di costruire una barca per farlo. Non sappiamo parlare tutte le lingue del mondo ma abbiamo la libertà di impararle. Non possiamo cambiare il futuro ma possiamo decidere come viverlo. La libertà è un punto di partenza, non di arrivo. Dal momento in cui ci sentiamo liberi apriamo il nostro mondo ad un’infinità di possibilità e ci liberiamo dai condizionamenti che vorrebbero imporre dei modelli di libertà che invece rischiano di diventare catene. Liberi di avere ogni cosa, di non avere regole, di fare ciò che ci va, di non soffrire: non sono queste libertà ma dipendenze ad una idea di felicità che non esiste. La libertà non è che una possibilità di essere migliori, un’autonomia di pensiero che ci permette di non desiderare ciò che non ci è possibile avere, una consapevole presa di coscienza dell’infinita essenza del nostro essere e delle sue potenzialità. Essere liberi ha molto di più a che fare con uno stato mentale che con delle condizioni o dei compromessi.

Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada nella vita: questo è il richiamo della libertà. Ogni atto compiuto liberamente si incastra nel mosaico che costruisce l’armonia universale.

Assaporiamo una parte minuscola di questa vita ma sappiamo che c’è molto di più: è ciò che ci lasciamo sfuggire a determinare la nostra capacità di sentirci liberi. La libertà non è il volo della farfalla, è la farfalla.

Luca Streri #Divita

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Dispensa

Questo è il testo della lettera che il cosmonauta russo Yuri Gagarin scrisse alla moglie Valentina ed alle sue due figlie, alla vigilia del primo viaggio dell’uomo nello spazio. Sapeva che stava per affrontare una prova molto rischiosa.

«Salve, mie care ed amatissime Valečka, Lenočka e Galočka! () Ho deciso di scrivervi qualche riga, per condividere con voi la gioia e la felicità che ho provato oggi. Oggi la commissione governativa ha deciso che sarò io il primo uomo ad andare nello spazio. Sapessi, cara Valjuša (), come ne sono felice, e vorrei che anche voi lo foste insieme con me. Hanno affidato ad una persona comune come me un compito di così grande importanza per il nostro Paese: tracciare la prima strada nello spazio! Si può sognare qualcosa di più grande? Questo rappresenta una nuova era!

Devo partire tra un giorno. Durante questo periodo voi starete facendo le vostre cose di sempre. Ho un grosso fardello sulle spalle. Avrei voluto restare prima un po’ con voi, parlare un po’ con te, ma ahimè è tardi. Tuttavia, io vi sento sempre vicini, qui con me. Ho piena fiducia nella tecnica: la navetta è ben collaudata, sicuramente non succederà nulla. Però capita a volte che l’uomo scivoli su una strada liscia e si rompa l’osso del collo. Può essere che anche nel mio caso possa accadermi qualcosa, ma io non credo che succederà. Se però dovesse accadere, vi chiedo, e soprattutto lo chiedo a te, Valjuša, di non farvi sopraffare dal dolore. Fa parte della vita, e nessuno può essere sicuro che domani non sarà investito per strada da una macchina. Prenditi cura delle nostre bambine, amale come le amo io. Educale in modo che non diventino delle scansafatiche o delle viziate, ma delle persone vere che non abbiano paura di affrontare i momenti duri della vita. Fai di loro delle persone degne di questo nuovo sistema sociale, il comunismo. In questo ti aiuterà lo Stato. Vivi la tua vita secondo coscienza, ed agisci come riterrai opportuno fare.

Non ti lascio alcun obbligo, e non ho il diritto di farlo. La lettera sta assumendo un tono un po’ troppo triste, quasi da lutto… ma no, dai, non andrà così. Spero che non vedrai mai questa lettera, e che mi vergognerò con me stesso per questo momento di debolezza passeggera. Ma se dovesse succedermi qualcosa, tu devi sapere tutto, fino alla fine. Ho vissuto la mia vita onestamente, sono sempre stato sincero ed ho fatto del bene alle persone, anche se non è stato tanto. Una volta, da piccolo, lessi le parole di V. P. Čkalov: “Se devo esserci, devo essere il primo”. Ecco, cercherò di pensarla come lui, e lo farò fino alla fine. Valečka, voglio dedicare questo volo a tutte le persone che fanno parte di questo nuovo sistema sociale, il comunismo, a cui noi abbiamo già aderito, e voglio dedicarlo anche alla nostra grande Patria ed alla nostra scienza. Spero che tra qualche giorno saremo ancora insieme e saremo felici.

Valečka, non dimenticare i miei genitori; se ne avrai la possibilità, aiutali. Manda loro un grande saluto da parte mia. Che mi perdonino per il fatto che non sanno di tutto questo, non ho potuto farglielo sapere. Beh, è tutto. Arrivederci, miei cari. Vi abbraccio forte forte e vi mando un bacio.

Un caro saluto. Il vostro papà, Yura» 10/04/1961

Valentina Ivanovna lesse questa lettera solo 7 anni dopo, alla scomparsa del marito avvenuta nell’incidente aereo del 27 marzo 1968.

(*) Valečka, Lenočka e Galočka sono dei diminutivi dei nomi russi Valentina, Elena e Galina. Valjuša è un altro diminutivo di Valentina. Yura è il diminuitivo di Yuri (N.d.T.)

Traduzione di Marco Massacesi #Divita

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Dispensa In Colorado c’è un uomo che è a dir poco infastidito dal rumore degli aerei che arrivano e partono dall’aeroporto di Denver, a una cinquantina di chilometri da casa sua. Fino a che punto lo irritano, esattamente? Secondo un recente studio, nel 2015 ha mandato 3.555 dei 4.870 reclami ricevuti dall’aeroporto. E non è un caso unico. Cinque persone hanno mandato il 61 per cento dei reclami all’aeroporto di Portland, e a Washington “due persone che abitano nella stessa casa” in un anno hanno inviato 6.852 lettere di protesta all’aeroporto nazionale Ronald Reagan (a proposito del rumore, intendo. Lo studio non fa parola di quanti si sono lamentati perché è stato dedicato a Reagan).

Essendo io stesso un habitué dei reclami ufficiali, confesso di provare una certa ammirazione per queste persone. Sì, lo so che una delle caratteristiche fondamentali della follia è ripetere sempre la stessa cosa aspettandosi un risultato diverso. Però rispetto la loro sfida cosmica. Il mondo è assurdo e irritante, ma almeno qualcuno ha abbastanza rispetto per se stesso per continuare a protestare contro questa realtà.

Non che questo lo renda più felice. I risultati della ricerca dimostrano che l’irritazione e le lamentele si autoalimentano. Obiettare a qualcosa che non possiamo controllare provoca una momentanea sensazione di catarsi, ma in genere peggiora le cose, aumentando l’attenzione che dedichiamo a quel problema, il che lo rende ancora più invadente. Finiamo per avere una percezione più acuta del rumore successivo e per irritarci ancora di più quando arriva.

La vita può essere meravigliosa, orribile o una via di mezzo, ma in sottofondo c’è sempre qualcosa che non va

Siamo stressati anche quando il rumore non c’è, perché rimaniamo in tensione, aspettando che il silenzio sia interrotto. A quel punto è comprensibile che i reclami diventino centinaia: lamentarsi alimenta l’irritazione. È più facile rendercene conto se pensiamo a questi piccoli fastidi come difficoltà che incontriamo in un rapporto, in questo caso si tratta del nostro rapporto con l’ambiente. Inveire contro queste cose è come disamorarsi del proprio partner e continuare a litigare senza scopo. È mai servito a qualcosa?

Come al solito, i buddisti l’hanno capito prima di noi. La “prima nobile verità” del buddismo spesso è resa con l’espressione “la vita è sofferenza”, ma questa traduzione è un po’ troppo melodrammatica, fa pensare a una continua agonia, mentre in realtà per la maggior parte di noi, grazie al cielo, non è sempre così. La parola usata nella lingua originale, dukka, significa qualcosa che si avvicina di più a “non appagamento”. La vita può essere meravigliosa, orribile o una via di mezzo, ma in sottofondo c’è sempre qualcosa che non va: o quello che sta succedendo è spiacevole oppure è piacevole ma sappiamo che prima o poi finirà. Quelli che si lamentano del rumore degli aerei sono immersi fino al collo nel dukka, sono infelici quando passa un aereo e infelici quando non passa, perché sanno che quel silenzio non durerà.

Una delle grandi intuizioni del buddismo è che l’insoddisfazione non deriva dalle situazioni stesse, ma dal modo in cui pensiamo di raggiungere la felicità: cercando le situazioni giuste e sperando che durino per sempre. È una ricerca destinata a fallire, perché niente dura per sempre. Gli aerei vanno e vengono, e si può essere felici solo non facendoci caso. Anche se penso che Budda deve aver fatto un’eccezione per “l’allegro cinguettio” della suoneria del Samsung. Quello è veramente insopportabile.

di Oliver Burkeman, The Guardian, Regno Unito – (Traduzione di Bruna Tortorella) #Divita

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Dispensa Corsi e ricorsi storici. Ecco per dire…

  1. Principio della semplificazione e del nemico unico. E’ necessario adottare una sola idea, un unico simbolo. E, soprattutto, identificare l’avversario in un nemico, nell’unico responsabile di tutti i mali.

  2. Principio del metodo del contagio. Riunire diversi avversari in una sola categoria o in un solo individuo.

  3. Principio della trasposizione. Caricare sull’avversario i propri errori e difetti, rispondendo all’attacco con l’attacco. Se non puoi negare le cattive notizie, inventane di nuove per distrarre.

  4. Principio dell’esagerazione e del travisamento. Trasformare qualunque aneddoto, per piccolo che sia, in minaccia grave.

  5. Principio della volgarizzazione. Tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta. Quanto più è grande la massa da convincere, più piccolo deve essere lo sforzo mentale da realizzare. La capacità ricettiva delle masse è limitata e la loro comprensione media scarsa, così come la loro memoria.

  6. Principio di orchestrazione. La propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente, presentarle sempre sotto diverse prospettive, ma convergendo sempre sullo stesso concetto. Senza dubbi o incertezze. Da qui proviene anche la frase: “Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità”.

  7. Principio del continuo rinnovamento. Occorre emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi (anche non strettamente pertinenti) a un tale ritmo che, quando l’avversario risponda, il pubblico sia già interessato ad altre cose. Le risposte dell’avversario non devono mai avere la possibilità di fermare il livello crescente delle accuse.

  8. Principio della verosimiglianza. Costruire argomenti fittizi a partire da fonti diverse, attraverso i cosiddetti palloni sonda, o attraverso informazioni frammentarie.

  9. Principio del silenziamento. Passare sotto silenzio le domande sulle quali non ci sono argomenti e dissimulare le notizie che favoriscono l’avversario.

  10. Principio della trasfusione. Come regola generale, la propaganda opera sempre a partire da un substrato precedente, si tratti di una mitologia nazionale o un complesso di odi e pregiudizi tradizionali. Si tratta di diffondere argomenti che possano mettere le radici in atteggiamenti primitivi.

  11. Principio dell’unanimità. Portare la gente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti, creando una falsa impressione di unanimità.

Fonte: https://www.lasinistraquotidiana.it/ #Disociale

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Dispensa “Se non possiamo cambiare il mondo, possiamo far sì che la nostra condotta umana possa navigare oltre l’egoismo, riservando un pezzo di felicità. Non è un’utopia inarrivabile, ma una cosa possibile”. Jose ‘Pepe’ Mujica, presidente emerito dell’Uruguay torna in Italia per promuovere il libro “Una pecora nera arriva al potere” e incanta tutti con il suo discorso da “rivoluzionario tranquillo”.

“Non sprecate la vita nel consumismo, trovate il tempo di vivere per essere felici. Si è liberi quando si fa qualcosa che piace e che dà soddisfazione”, ha detto agli studenti che l’hanno incontrato a Roma nei giorni scorsi.

Ottantuno anni, personalità apprezzata in tutto il mondo anche per aver rinunciato all’epoca della presidenza, al 90% del suo stipendio continuando a vivere nella sua fattoria, da anni viene definito come il teorico della felicità che ha cambiato il paese uruguayano.

Un lungo discorso sul capitalismo, sulla cultura e sulla libertà ma non “un’apologia della povertà o del vivere sotto una capanna, ma un monito al non essere così stupidi da trasformare il tempo della nostra vita in un inutile mercatino e a riservarci lo spazio per la disperata lotta per la felicità umana”.

#Divita

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dispensa Uno studio dell’Università di Bath, in Inghilterra, ha dimostrato che limitare o “abbandonare” i social network per una settimana ha effetti positivi su ansia e depressione

Avete mai provato a stare senza social network per una settimana? I ricercatori dell’Università di Bath, una città nota per le sue sorgenti calde naturali nella zona meridionale del Regno Unito, ci hanno pensato. Hanno privato più di un centinaio di persone di Facebook, Instagram, Twitter e TikTok e hanno cercato di comprenderne gli effetti. Spoiler: ansia e depressione sono diminuiti. Il team ha pubblicato i risultati su Cyberpsychology, Behavior and Social Networking, la rivista che raccoglie ricerche autorevoli sulla comprensione dell’impatto sociale, comportamentale e psicologico delle pratiche di social networking, inclusi giochi e commercio su Internet.

Secondo alcuni studi, ad aprile 2022 ci sono circa 4,65 miliardi di utenti di social media in tutto il mondo, ovvero il 58,7% della popolazione globale. Negli ultimi 12 mesi c’è stata una crescita di 326 milioni di nuovi arrivi, con ben 9 su 10 che utilizzano i social ogni mese: la crescita equivale a 10 persone nuove ogni secondo. I social che superano i 2 miliardi di utenti attivi mensili sono Facebook (con quasi 3 miliardi) e Whatsapp, seguiti da TikTok (1 miliardo). Come spiegano gli autori della ricerca, per alcuni dei 154 partecipanti tra i 18 e i 72 anni questo stop dai social ha significato liberare circa nove ore della loro settimana che solitamente spendevano scorrendo le foto di Instagram, i post di Facebook, i cinguettii di Twitter e i video di TikTok. È bastata una settimana di assenza dai social network per migliorare il livello generale di benessere di questi individui, oltre a ridurre i sintomi di ansia e depressione.

Sono stati assegnati a due gruppi: in uno dovevano limitare l’uso dei social a 21 minuti complessivi in 7 giorni, nell’altro dovevano utilizzarli con una media di 8 ore a settimana. All’inizio e alla fine dello studio sono stati registrati dei punteggi relativi ad ansia, depressione e benessere. Sulla scala del benessere mentale di Warwick-Edinburgh, il punteggio di chi aveva limitato e quasi tolgo i social è salito da una media di 46 a 55,93. I livelli di depressione, poi, sono scesi da 7,46 a 4,84 nel Patient Health Questionnaire-8. Il ricercatore capo del Dipartimento per la salute di Bath, il dottor Jeffrey Lambert, ha spiegato che «scorrere i social media è così automatico che molti di noi lo fanno quasi senza pensare, dal momento in cui ci svegliamo a quando chiudiamo gli occhi di notte».

Lambert e i suoi colleghi volevano capire se una semplice settimana avrebbe potuto fare la differenza, e «molti dei nostri partecipanti hanno riportato effetti positivi dalla pausa dai social media con un miglioramento dell’umore e meno ansia in generale. Questo suggerisce che anche solo un piccolo stop può avere un impatto». Potrebbe essere un passo avanti nello studio del rapporto tra social media e salute mentale: i ricercatori ora vorrebbero seguire le persone per più di una settimana, per vedere se i benefici durano nel tempo. Se così fosse, in futuro questo approccio potrebbe essere utilizzato per aiutare a gestire clinicamente ansia e depressione.

Fonte: https://www.lasvolta.it #Diconnessione

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Di-spensa Questa legge di continuità, nota come “Scala Naturae”, risaliva già ai tempi di Aristotele, secondo cui gli esseri viventi potevano essere disposti gerarchicamente secondo un ordine di perfezione crescente, dove l’inferiore si poteva spiegare per mezzo del superiore, la pianta per mezzo degli animali, gli animali per mezzo dell’uomo: ecco allora che in cima a tutto c’era Brigitte Bardot, poi a scendere l’uomo, la scimmia tra uomo e animali, il pipistrello tra gli uccelli e gli animali che camminano, il nerd tra gli animali che socializzano e il divano, le piante tra gli animali e i sassi e infine lo struzzo, che ha caratteristiche comuni agli uccelli e ai quadrupedi. Lo struzzo, per Aristotele, resterà il più grande mistero della natura dato che non capirà mai se cucinarlo come pollame o come cacciagione.

Nel Medioevo e nel Rinascimento, Ramón Llull e Charles de Boulles diedero un ulteriore tocco teologico a questa teoria: Dio aveva creato il Mondo senza vuoti nella creazione. Ogni essere vivente era stato creato così come lo conoscevamo noi e come il Festival di Sanremo, era immutabile nel tempo. Con Wotton, Gesner e Cesalpino si arrivò poi a credere all’esistenza di zoofiti, esseri intermedi tra il vegetale e l’animale. A metà del 1600 Leibniz rincarò la dose della catena ininterrotta di animali e al Corriere della Sera dichiarò: “gli esseri naturali formano un’unica catena, nella quale le varie classi, come anelli, sono legate le une alle altre. Soprattutto la domenica sera di ritorno dal mare dove è impossibile per i sensi e l’immaginazione fissare il punto preciso in cui una comincia e l’altra finisce.” In pratica, come affermò di nuovo nel 1704, “la natura non fa mai salti”.

Quest’idea di un trenino naturale senza soste piacque tantissimo a Charles Bonnet, svizzero con passaporto brasiliano, al punto da (ri)affermare il concetto di Leibniz: “nella Natura non ci sono salti: tutto è graduato, sfumato”. Tra il 1745 e il 1764 abbozzerà allora diverse teorie della “scala” fino ad arrivare al famoso “scalone”: l’uomo viene sempre messo in cima alla scala, ma questa volta sarà raffigurato con la testa tra le nuvole, suggerendo la transizione con Dio. Ora voi ci ridete, a meno che non stiate prendendo appunti per il prossimo video complottista da far girare prima che lo censurino, ma gente come Kant, Diderot e Rousseau presero molto sul serio la teoria dello scalone.

Quattro anni dopo, nel 1768, Jean-Baptiste Robinet, del Front National, ne realizzerà una versione più radicale con lo scopo di stabilire la superiorità della razza bianca nella specie umana. I famosi nazisti del Île-de-France. Chi si oppose a questa “scala”, inizialmente, fu Voltaire, ridicolizzandola apertamente e, successivamente, Joseph Oehme, naturalista tedesco che nel 1772 divise la natura in due grandi insieme, l’inorganico e l’organico, escludendo poi qualsiasi tipo di transizione tra il regno animale e quello vegetale ad eccezione di Michael Jackson e un paio di miliardari di Beverly Hills.

Nel 1744, per nostra fortuna, comunque, nacque Jean-Baptiste Pierre Antoine de Monet cavaliere di Lamarck, meglio noto a tutti come Zico (a cui dedicherò poi un post tutto suo). Lamarck si convincerà subito che tra corpi inorganici e viventi c’è un’abisso di separazione. Inoltre, a partire dal 1785, capisce pure che regno vegetale e animale sono due cose distinte e separate, ridefinendo i zoofiti “una stronzata galattica buona giusto per Halloween”. Alla fine del 1700 la scala sarà completamente abbandonata a favore di nuove visioni, tra cui la “mappa”e “l’albero”.

(Fonte: https://ilcorpodibarr.wordpress.com) #Discienza

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