Un po’ di storia
Autorevoli studiosi sostengono che i vocaboli woin e wain, dai quali sarebbe derivato il greco oinos, siano forme della stessa antichissima parola, anteriore alla suddivisione dei popoli indoeuropei e semitici.
Non si sa però esattamente quale sia la patria d’origine della pianta sacra a Bacco (Vitis vinifera sativa) e nemmeno si sa se discenda dalla vite silvestre, che era selvatica e cresceva in forma selvaggia a dismisura, con tronchi molto robusti e selve di tralci che avevano le dimensioni di veri e propri rami. Solo in un secondo tempo — impossibile fare il calcolo degli anni, se centinaia o millenni — la vite selvatica fu “addomesticata”.
Sicuramente la vite ebbe molta importanza per le abitudini e il ritmo lavorativo dell’uomo e sicuramente costituì un incentivo, come altre colture agricole, per fargli abbandonare la vita nomade, inducendolo a stabilirsi in luoghi collinari ameni per seguire il ciclo che dura tutto l’anno prima che l’uva giunga a maturazione e sia poi pronta ad essere trasformata prima in mosto e poi in bevanda, secondo pratiche enologiche millenarie. Queste operazioni non hanno subito, rispetto all’antichità, grandi trasformazioni o radicali mutamenti.
La leggenda attribuisce l’invenzione del vino a Noè, che sarebbe anche stato il protagonista della prima ubriacatura, suscitando le apprensioni di Sem, Cam e Jafet, suoi figli. Pur non potendosi sostenere a fondo questa tesi, resta a suo favore il fatto che il vino si produce ancora, se non proprio sulle pendici del monte Ararat, almeno in quel grande centro semitico che era allora la Transcaucasia.
Dalla Transcaucasia la vite sarebbe passata nella Tracia settentrionale, trasmigrando poi ancora, pare per opera dei navigatori fenici, dalla Siria alla Grecia, dalla Grecia all’Italia e infine nella Gallia e nell’Europa centrale, fino ai limiti climatici di coltivazione, dopo esservi stata portata dai legionari romani.
Né una parte determinante in questa diffusione della vite domestica può essere negata all’Egitto, dove, nei documenti di scambi commerciali, il vino figura ai primissimi posti. La bevanda era un simbolo di vita e di forza e veniva prodotta in cantine che utilizzavano l’uva raccolta nei giardini del Nilo, disseminati lungo il delta. Gli Egizi — che avevano tra l’altro dimestichezza con la birra — erano già dei maestri in materia.
Pratiche enologiche comuni erano la pigiatura, eseguita con i piedi, come dimostrano numerose tavolette egizie, e le filtrazioni che dovevano essere accurate, conoscendo la precisione di quel popolo nell’eseguire i lavori agricoli e artigianali. A fermentazione conclusa, il vino veniva immesso in giare di varie dimensioni, anche molto capaci, sia per l’incantinamento sia per il trasporto sulle navi vinarie. Il vino, a causa del suo prezzo elevato, era una bevanda riservata ai ricchi.
In Mesopotamia ci sono riferimenti al vino che risalgono a circa 2500 anni prima di Cristo e alcuni documenti scritti testimoniano la presenza di vigneti intorno ai palazzi dei nobili. Il vino più pregiato era riservato alle genti di nobile censo, mentre gli schiavi dovevano accontentarsi di un vino più ordinario.
Più o meno, le stesse usanze le avevano i Greci che, occupando un posto fondamentale nello sviluppo della civiltà mediterranea, erano in primo piano nella produzione vinicola, dopo essersi fatti insegnare un’arte che conoscevano poco, dal momento che erano prevalentemente pastori. Troviamo così il vino al posto d’onore nelle opere di Omero, accanto agli elmi, alle lance, alle spade. Nell’Odissea il Mare Egeo viene paragonato al «vino scuro». In documenti scoperti a Plios e all’isola di Creta, risalenti a quattordici secoli prima di Cristo, il vino viene ampiamente menzionato. Veniamo così a sapere che anche allora si usavano i bottiglioni; le coppe d’oro e d’argento venivano usate non solo dai re, ma anche dai maggiori dignitari.
Il vino veniva sempre miscelato con l’acqua, mentre per il trasporto si adoperavano otri di cuoio. Le grandi giare per la conservazione erano chiamate pìthoi e si procedeva alla loro solenne apertura in occasione delle maggiori feste. Molta importanza era attribuita all’età del vino, che veniva considerato vecchio solo dopo quattro anni. Le donne di alto censo non potevano bere il vino e se erano scoperte subivano severe condanne; ciò non toglie che ricorressero ad artifizi per nascondere il loro vizietto segreto. Oggi le donne possono degustare in pace un buon bicchiere di vino, ma allora correvano persino il rischio di una condanna a morte.
Seguendo usanze provenienti dall’Oriente, si aggiungevano al vino anche mirra ed altre sostanze aromatiche.
La vigna era chiamata oinàs e, pur non ricevendo eccessive cure, dava i suoi frutti con generosità ed abbondanza.
Durante i banchetti spettava al «cerimoniere, di determinare il quantitativo di vino da bere, di miscelarlo correttamente con l’acqua e di dare disposizioni per il brindisi.
II “cin cin o cincin”, allora non si usava, perché questa tradizionale formula è stata presa a prestito piuttosto recentemente dai Cinesi, presso i quali rappresenta un’espressione di saluto interpretata in italiano come voce onomatopeica riproducente il suono di due bicchieri che si urtano.
Per quanto riguarda l’Italia, va ricordato che ancor oggi si usa chiamarla Enotria o Enotria tellus, cioè terra del vino, e questo vuol dire che il complimento era davvero meritato già a quei tempi. Gli Enotri occupavano la parte meridionale della Penisola, pressappoco quella che oggi corrisponde alle regioni della Basilicata e della Calabria.
E fu proprio un pioniere greco, di nome Enotro, a colonizzare quelle terre, impiantandovi le prime barbatelle che provenivano dall’Egeo. Poi, pian piano, la vite si diffuse in Sicilia, in Puglia e in Campania, indi in Toscana e nel Lazio, fino ad arrivare al territorio dell’antica Rezia, una vasta regione che abbracciava il Trentino-Alto Adige, la Valtellina, il Friuli, arrivando al basso Veneto e spingendosi fino alla Valle d’Aosta.
Secondo altre fonti, la vite avrebbe cominciato ad espandersi dalla Sicilia con i colonizzatori di Micene. Poi, con la civiltà villanoviana (mille anni prima di Cristo), sarebbe lentamente risalita a nord, ricevendo un forte impulso dagli Etruschi, colonizzatori dell’entroterra toscano e probabili primi abitatori della zona del Chianti.
Un insigne studioso del vino, Giovanni Dalmasso, ha fornito interessanti notizie sulle origini dei vino in Italia. Per quanto riguarda la Toscana, egli formulò delle ipotesi che proverebbero l’esistenza della vite in queste contrade prima dell’avvento dell’era umana. Quindi non sarebbero stati i navigatori fenici a portare la pianta, che in quelle contrade esisteva già. Ciò sarebbe provato dai reperti di travertino affioranti nella zona di San Vivaldo dove furono ritrovate impronte fossili della Vitis vinifera, cioè l’antenata delle varietà coltivate attualmente che, come già detto, cresceva spontanea.
Addentrarsi nei misteri della preistoria è quasi impossibile, ma non meno incerti sono gli albori della storia. Di certo si sa, ad esempio, che gli Etruschi furono gli antenati di quei vignaioli toscani che fecero conoscere il Chianti in ogni parte del mondo.
Il vino “miele del cuore”, come lo definisce con caratteristica ed efficace immagine il poeta Omero, era bevuto dagli Etruschi nella “patera”, un recipiente di mescita entrato in uso ben sette secoli prima di Cristo. Aveva la forma di una coppa un po’ ovoidale, con due manici allungati a nastro per poterla più agevolmente portare alle labbra, standosene comodamente sul triclinio.
Molto importante è il fatto che furono gli antichi abitatori etruschi ad introdurre l’uso del vino «pretto», cioè naturale, mentre Greci e Romani lo pasticciavano con aggiunta non solo di acqua, ma di infusi vari di erbe, con miele ed altre sostanze dolcificanti. Non dimentichiamo che allora non esisteva lo zucchero e quindi si ricorreva ad assumerlo non solo con le sostanze alcolico-zuccherine contenute nel vino, ma anche con l’aggiunta di sostanze ricche di zuccheri, come il miele. Una terapia inconscia, se vogliamo, ma efficace, poiché l’organismo ha bisogno di una certa quantità di zuccheri per la sua perfetta funzionalità.
I visitatori dei musei etruschi, come quello bellissimo di Volterra, o delle necropoli con le pareti affrescate di Tarquinia e di Cerveteri, per esempio, non mancheranno di notare scene che hanno attinenza con la mescita del vino o con altre cerimonie enoiche. Quasi per dare ragione in anticipo a quanto affermava, lo scrittore latino di agricoltura Lucio Columella, in uno stile chiaro e comprensibile a tutti, asseriva: “Ciò che può piacere per i suoi pregi naturali è certamente superiore a tutto” (e intendeva riferirsi al vino schietto, prodotto con i manipolatori di vini trattati non solo con sostanze vegetali, ma anche minerali.
Dal porto di Rosellae, ancor prima che fosse attivato il porto romano alle foci del Tevere, alle spalle di Grosseto (che allora non esisteva), partivano le barche per il trasporto del vino etrusco verso lidi anche assai lontani. Le anfore venivano ingegnosamente sigillate con stucco e con tamponi imbevuti d’olio. Fatta salva la leggenda di Noè, si può ben dire che il vino etrusco è stato, in realtà, uno dei più antichi del mondo. Una delle prove più certe della familiarità del popolo etrusco con il vino è il coperchio di un’urna volterriana in cui è scolpita la rappresentazione di un banchetto: una mensa riccamente imbandita e da un lato un ampio cyathus (cratere) che può essere considerato un antenato del fiasco toscano.
Durante i banchetti, come riferiscono gli studiosi della materia, gli Etruschi avevano l’usanza di spargere il vino sul pavimento come segno augurale e, per ingraziarsi gli dei, lo versavano sul fuoco delle are.
Tale usanza era definita «libagione», nome rimasto col significato di abbondante bevuta. In quanto al nome Chianti, che venne alcuni secoli dopo, esso deriverebbe dal latino clangor, ossia squillo di tromba o grido festoso di uccelli, cioè relativo ad una contrada che era ricoperta di selve e molto spesso percorsa da bande in arme. Però il primo documento che menziona esplicitamente il vino Chianti è del 1398 e consiste in una registrazione contabile comparsa nei libri della «Compagnia del Banco» di Francesco Datini (l’inventore della cambiale): accanto alla partita di vino Chianti compare il relativo prezzo in fiorini.
All’ epoca dei re di Roma e durante la Repubblica, i Romani non furono estimatori del vino. Essendo di abitudini sobrie, spartane o anche più, conoscevano poco i vini e solo qualcuno li beveva, importandoli dalla Grecia. I pochi vini che si producevano erano decisamente rustici rispetto ai nettari raffinati che volevano rivaleggiare con l’ambrosia bevuta dagli dei dell’Olimpo.
Plinio il Vecchio, il più insigne naturalista dell’antichità, non può non essere citato in una storia del vino, non solo perché se ne occupò a fondo, ma anche perché lo fece in modo critico. Infatti considerava il Falerno, ritenuto il vino con il maggior blasone, troppo aspro e forte prima di dieci anni di invecchiamento. Egli classificò minuziosamente ben 195 vini, citando quelli che avevano raggiunto autentica notorietà, comprendendo non solo i vini italiani, ma anche quelli sparsi in tutti i Paesi dell’impero. Di questi vini, 80 erano considerati di alta qualità e i restanti di tipo meno pregiato. Al commercio romano del vino, non meno importante della produzione, attendevano i mercatores vinarii. All’antico Portus Vinarius, costruito da Traiano alle foci del Tevere, in un vasto bacino interno collegato con il mare, esisteva un apposito scalo, con annesse cantine di smistamento e sale per le contrattazioni. Le navi arrivavano e partivano colme di anfore e orci di tutti i tipi. I Romani, prima ancora della conquista della Gallia, esportavano molto vino nei porti che si affacciavano sul Mediterraneo, valendosi di velieri tondi e piatti, detti corbitae. Molti di questi battelli, anche recentemente, sono stati ritrovati in perfette condizioni sul fondo del mare. Uno di essi, affondato presso la costa della Gallia nel 240 a. C., era, come si è potuto stabilire, di proprietà di un certo Marcus Sextus e trasportava vini greci imbarcati a Delo, ma aveva poi fatto scalo all’attuale Fiumicino per caricare una seconda partita di vini laziali. La nave conteneva un migliaio di anfore e alcune di esse, dopo il recupero del relitto, conservavano ancora un liquido giallastro, ossia i residui di un vino di oltre 2000 anni fa: erano state tappate con somma cura con blocchi di creta e sigillate ancor meglio.
E’ curioso ricordare che anche allora, fra gli scandali dell’Urbe, c’era di mezzo il vino. Gli annali hanno ricordato il clamore suscitato da un’azione di incetta del vino su vasta scala operata da una lega che agiva con metodi scorretti, per non dire brutali, ossia un trust vero e proprio del vino che danneggiava i produttori e i consumatori. Con speciali norme si provvide a tutelarne e a liberalizzarne sia la produzione che il commercio. Per ogni competenza attinente a questa sempre delicata materia c’era il Forum Vinarium, o centro internazionale degli scambi per il vino, come si direbbe adesso.
E comunque attraverso le conquiste dell’Impero che la vite si espande maggiormente e passa nelle Gallie, risale il Rodano fino a Lione, supera la Borgogna e costeggia il Reno, dando la possibilità ai Teutoni di esercitarsi nell’arte appassionante della vinificazione. Ad un certo punto i vini provenienti dal settentrione dettero così fastidio ai produttori ed ai mercanti romani che fu promulgata la Lex Domitiana che proibiva drasticamente la coltivazione della vite nelle province. Fu allora che molti vini dell’Italia settentrionale, in particolare quelli veneti e della Rezia, trovarono facile sbocco a nord, cioè nelle terre colpite dal divieto di produzione. Quando circa 200 anni più tardi, ed esattamente nel 276 d. C., la legge restrittiva venne revocata dall’imperatore Probo (diventato proverbiale anche per la sua equità nel trattare i problemi del vino), la viticoltura riprese nelle valli del Danubio, della Morella e del Reno, così come in Borgogna e nella attuale zona dello Champagne. Quasi tutti i più famosi vini francesi hanno avuto fra i loro lontani “padrini” dei vignaiuoli romani al seguito delle legioni di Cesare.
Non dobbiamo dimenticare che, quando le genti romane erano già molto civilizzate, i Galli erano ancora un popolo di nomadi e non possedevano né la volontà, né il temperamento, né le cognizioni tecniche per dedicarsi alla coltivazione della vite.
In breve, già al III secolo d. C. la vite occupava Io spazio che detiene attualmente, forse anche di più, poiché si estese anche sulle coste meridionali dell’Inghilterra, verso la Cornovaglia e l’isola di Wight, dove ancora adesso esistono alcuni vigneti, sia pure con produzioni minime.
Dopo la caduta dell’Impero romano, la viticoltura non risentì troppo di questo evento così traumatico per tutte le manifestazioni della capacità e dell’ingegno umano e per le libere attività pacifiche. Ad assicurarne la continuazione pensò la Chiesa. Intatti, accanto alle abbazie ed ai principali conventi — basti pensare all’Abbazia di Cluny e a Clos Vougeot in Francia, alla Certosa di Pavia — sorgevano non solo centri di produzione del vino, ma vere e proprie scuole come quella fondata sotto l’egida di Carlo Magno a Rùdesheim sulla riva sinistra del Reno. Come asserisce giustamente Pier Giovanni Garoglio nella sua esauriente Enciclopedia vitivinicola mondiale, la necessità di disporre « per la celebrazione della messa di vino “schietto” oppure “pretto” (come dicevano i Toscani) contribuì largamente all’espansione della viticoltura. Lo dimostra, tra l’altro, anche il fatto che al seguito di missionari che conquistavano nuovi territori alla religione cristiana c’erano degli specialisti per l’impianto di nuovi vigneti che si moltiplicavano per poter avere il vino sul posto».
Parlando di storia del Chianti, mi sembra interessante ricordare al corsista le origini del fiasco: ancor oggi, malgrado sia in crisi, è il contenitore più popolare, specie per quanto riguarda il vino rosso.
La prima documentazione di recipienti di vetro simili al fiasco risale al XII secolo. Il comune di San Gimignano, famoso per le sue torri ma anche per il vino, nel 1275 conferiva ad un artigiano di nome Cheronimo il permesso di aprire una fornace per «l’arte del vetro». Era anche, Cheronimo, uno di quei maestri chiamati «bicchierai» che costruivano non solo bicchieri, ma fiaschi e bottiglie. E il fiasco era destinato a soppiantare assai presto i contenitori di creta smaltata e di terracotta.
Sembra che il rivestimento in paglia del fiasco sia stato inventato nientemeno che da Leonardo da Vinci, per espressa richiesta di un gruppo di vetrai. ll fiasco odierno è lo stesso che si vede accanto al Bacco fanciullo di Guido Reni, nel bellissimo dipinto degli Uffizi di Firenze.
Per evitare le «furbizie» sulle dimensioni e capacità dei fiaschi, che avevano il difetto di essere presentati dai mercanti sempre più piccoli del dovuto, fu emanato a Firenze un decreto che stabiliva la capacità del fiasco in «mezzo quarto», ossia il corrispondente di litri 2,280. Successivamente, le vetrerie ricevettero la disposizione di stampare il bollo, cioè lo stemma del giglio di Firenze, sul collo a garanzia della misura esatta.
Fu con un fiaschetto di Chianti, offerto dal dottor Winger, che il 2 dicembre 1942 si brindò alla scoperta della pila atomica. L’umile contenitore ha assunto l’importanza di un oggetto storico: adesso è conservato al museo dell’energia nucleare di New York. L’inizio dell’epoca atomica è stato siglato dall “umor che dalla vite cola”, come dice Dante Alighieri. Tra le firme degli scienziati presenti, apposte sull’etichetta di quel fiaschetto, c’è anche quella dell’italiano Enrico Fermi.
E’ un peccato che per difficoltà di reperire la manodopera e per i costi elevati dell’operazione di impagliatura (fatta con la «sala», un’erba palustre) il fiasco tenda ad essere sostituito da altri recipienti, più o meno caratteristici, come le «chiantigiane». Per fortuna ci sono ancora diversi artigiani in Toscana che fabbricano fiaschi e «pulcianelle», fiaschetti tipici per il vino umbro. (continua) #Divino
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