D͏i͏-s͏p͏e͏n͏s͏a͏

D͏i͏-s͏t͏r͏i͏b͏u͏z͏i͏o͏n͏i͏ D͏i͏-g͏i͏t͏a͏l͏i͏ D͏i͏-v͏e͏r͏s͏i͏f͏i͏c͏a͏t͏i͏

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A sinistra il cromosoma X. A destra l’Y.

Come tutti noi sappiamo, le donne hanno due cromosomi X, gli uomini una X ed una Y e vostro cugino due X e una Y, ma questo non lo sa ancora.

Ora, ogni volta che mostro questa foto, tutte le donne pensano sempre: “Ah, allora noi siamo più intelligenti dell’uomo” e questo solo perché il cromosoma X è molto più grande dell’Y e poi ne hanno due. Due enormi e giganti cromosomi X contro una X e uno scherzo dell’evoluzione. In realtà avere più cromosomi non vuol dire essere più intelligenti, altrimenti sarebbero i granchi – con i loro 200 e rotti cromosomi – a pagare 140 euro per una cena a base di braccia umana e limone. Ma per spiegare meglio questa cosa useremo gli studi di Barr e le intuizioni scientifiche di Lyon, un ricercatore inglese degli anni ‘60.

Ogni essere umano riceve 2 identici cromosomi da mamma e papà. Di solito sono le uniche cose che non vi rinfacciano mai.

Ora, una donna riceverà 2 X, una per parte, mentre l’uomo una X da mamma e una Y da papà. Qua viene il difficile. La donna, a differenza dell’uomo, avrà dei geni doppioni perché ha 2 volte lo stesso cromosoma X. La cosa potrebbe creare dei grossi problemi: esprimere 2 volte lo stesso concetto, crea confusione. Quindi, per evitare ciò, ogni singola cellula del vostro organismo inattiverà uno dei due cromosomi X. L’intuizione di Lyon, infatti, ci dice che dopo 8 giorni dalla fecondazione, ogni cellula, a caso, inattiverà uno dei suoi 2 cromosomi X, applicando quella che si definisce “compensazione del dosaggio.”

Il cromosoma inattivato sarà chiamato corpo di Barr, in onore di Murray Barr, il primo scienziato che  notò questo “corpo condensato”.

Quindi, quando deciderete d’invitarla fuori a cena, tenete a mente che ogni donna avrà sempre e solo 2x, ma solo una sarà attiva e questa sarà stata scelta a caso e per ogni cellula non sarà mai la stessa. (fonte) #Discienza

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Per me è un grande onore essere stato scelto come portavoce dall’Unione Cinghiali Romani, che mi ha affidato una dichiarazione ufficiale. E’ un momento storico, per la prima volta in televisione non parlano solo cani e porci, ma anche i cinghiali.

“Noi cinghiali romani condanniamo con fermezza il comportamento scorretto di una minoranza, che ruba le borse della spesa alle signore anziane. Si tratta di poche mele marce, metafora che usiamo con qualche dubbio perché non avete idea di quanto siano buone le mele marce.

Ma la grande maggioranza dei cinghiali a Roma si comporta con senso civico, dando un contributo decisivo allo smaltimento dei rifiuti. E sopporta con dignità le manifestazioni ostili e discriminatorie degli umani, che ci fotografano e ci filmano, con urla di raccapriccio in sottofondo, come se fossero arrivati gli zombie. Non siamo mostri, siamo maiali selvatici. Avete frequentato troppo i social e troppo poco i boschi, per capire come funziona il mondo. Fino agli anni Novanta in Italia eravamo meno di centomila e vivevamo tranquilli nel bosco e nella macchia. Ogni scrofa partoriva, una sola volta all’anno, tre o quattro porcellini. Poi qualche genio della caccia ebbe l’idea di incrociarci con il maiale domestico e con i nostri cugini dell’Est Europa, specie molto più prolifiche di noi. Adesso, a causa dell’ibridazione, partoriamo due volte all’anno almeno dieci porcellini per volta. Noi non sappiamo far di conto, ma evidentemente neanche voi. Perché il risultato del vostro brillante intervento è che in Italia siamo diventati circa un milione e mezzo.

Poi avete abbandonato i campi. E la selva, che è il nostro habitat, si è estesa. E avete moltiplicato i vostri rifiuti, tonnellate di proteine, carboidrati, zuccheri parcheggiati in mezzo alla strada. Chiedetevi come mai preferiamo Roma a Stoccolma.

Ci chiamate specie infestante. Senti chi parla. Parlate tanto di Intelligenza Artificiale ma non siete neanche capaci di regolare le nascite. Presto sarete dieci miliardi. Per quanto ci riguarda, noi eravamo in quantità ragionevole e stabile, in equilibrio con l’ambiente. Siete voi che avete forzato la natura per avere più prede da impallinare.

Chissà se la pandemia vi ha insegnato qualcosa. Se modificate gli equilibri naturali, con la cecità e la fretta degli ingordi, ne pagherete il prezzo. Se affondate le vostre ruspe nella selva, dalla selva usciranno, in fila indiana, i virus e i piccoli mammiferi che ne sono i vettori. Se moltiplicate per venti gli esemplari di una specie, come avete fatto con noi cinghiali, la peste suina avrà venti volte più possibilità di diffondersi.

Quando ci vedete comparire sbarrate gli occhi, ma selvatico non vuol dire strano, o alieno. Selvatico dire che la vita sulla Terra non obbedisce a voi umani. Obbedisce alle leggi della natura. Nascere e prosperare è la regola, e vale per tutti gli esseri viventi del mondo, dagli infinitamente piccoli, come i virus, agli infinitamente affamati, come noi cinghiali.

Avete presente il grande cerchio della vita? A giudicare dalle vostre facce quando ci vedete comparire, si direbbe che no, non lo avete presente. Eppure è facile: tutto è connesso, la vita e la morte, la città e la foresta, la buccia di anguria che tracima dal cassonetto romano e il cinghiale che va a mangiarla. Solo voi umani, sempre più spesso, ci sembrate sconnessi. #Disociale

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Gli eventi che dominano i media mainstream e di conseguenza i nostri scambi di opinione non sono mai stati quelli che contano davvero. In questo preciso momento storico, malgrado livelli elevatissimi di tecnologia, una vasta fascia della popolazione mondiale è priva dei diritti fondamentali e dell’accesso all’acqua, al cibo, a cure mediche, all’istruzione. Mai come ora, malgrado le vaste conoscenze scientifiche a disposizione, gli esseri umani incidono sull’ambiente in cui essi stessi vivono inquinandolo e depredandolo.
Entrambi gli evidenti fenomeni, determinanti poi numerose altre conseguenze negative, sono esclusivamente determinati dalla volontà di un esiguo numero di esseri umani che, con la violenza fisica, psicologica e verbale, impongono le proprie necessità di profitto sugli 8 miliardi di abitanti del pianeta e sul pianeta stesso.

Un numero sempre minore di persone controlla governi, mezzi di comunicazione e corporazioni finanziarie ed industriali, mentre un numero sempre maggiore di persone vede peggiorate le proprie condizioni di vita.
Da decenni due giganteschi disastri continunano a colpire gli abitanti della Terra: la crisi ambientale, sfociata in diverse tipologie di emergenze, da quella climatica a quella pandemica, e la crisi sociale, arrivata a coinvolgere paesi, settori e profili professionali che fino a questo momento avevano guardato a queste ipotesi solo nei film apocalittici.

E purtroppo anche la finzione cinematografica non è in grado di riprodurre al meglio queste catastrofi perché non abbiamo a che fare con meteoriti capaci di spazzare via molti esseri viventi in alcuni istanti. Siamo invece in presenza di fenomeni drammatici che causano una sofferenza crescente in una lunga e costante agonia.

Nessuno può ritenersi al sicuro. Neanche coloro che stanno determinando questo stato di cose.
Anche loro devono arrendersi all’evidenza della vera essenza della nostra natura.
Come dice Peter Kalmus nel suo saggio ‘Essere il cambiamento: vivi bene e scatena una rivoluzione climatica’, “la nostra società è costruita attorno alla ricerca della ricchezza attraverso il consumo. Ma la felicità duratura non può essere trovata in questo modo.”

Peter ha 47 anni, è uno scienziato, lavora per la NASA, e da anni si occupa proprio dei dati inerenti il cambiamento climatico. Il suo grido disperato si unisce a quello di moltissimi altri scienziati nel mondo che hanno perso ogni speranza in una buona condotta dei governi che sia capace di fermare il riscaldamento della Terra, ormai ad un livello emergenziale impossibile da ignorare.

E proprio questa osservazione genera la madre di tutte le domande che possiamo porci al riguardo: perché, di fronte a questa letale crisi, sociale ed ambientale, e di fronte alle quotidiane evidenze della stessa, non siamo tutti concentrati su di essa, cercando di risolverle e di salvarci?

È vero, è una domanda ardua, e rispondervi non è affatto semplice, ma dobbiamo soffermarci sulle questioni più difficili per ottenere soluzioni efficaci. Come insegna un grande pensatore del nostro tempo, Jeremy Lent, non abbiamo quasi mai le risposte giuste perchè abbiamo smesso di farci le giuste domande.

Una possibile spiegazione è la ferma volontà di pochissimi individui di preservare il proprio stato economico, e di conseguenza il proprio potere all’interno della società, continuando a perseguire i propri interessi ed evitando di farsi distrarre da una situazione potenzialmente pericolosa per il loro egoismo. Un simile atteggiamento viene assunto persino da quei tanti che non hanno economie o poteri da preservare, ma vogliono mantenere lo status quo per non perdere il flusso automatico ed incontrollato delle loro esistenze, di cui invece sarebbero costretti a riprendere il dominio nel caso in cui acquisissero effettiva coscienza di quanto sta accadendo attorno a loro. Sia gli uni che gli altri sono determinati a lasciare inalterato lo stato delle cose per non vedere le proprie illusioni distrutte.

Ecco dunque che la domanda posta sopra è una di quelle domande giuste, contenendo essa stessa la risposta e la soluzione del problema. Non riusciamo a mettere fine a questa crisi, sociale ed ambientale, perché la coscienza di avvertirla in pochi blocca anche quei pochi e impedisce loro di agire in concreto per risolverla. D’altronde “il conformismo – ci dice Noam Chomsky – è la strada più facile, quella che porta al privilegio e al prestigio; la dissidenza ha un costo personale.”

Di fronte a questo crimine planetario la maggioranza, composta da pochissimi autori e moltissimi complici, sembra quindi avere la meglio su un numero comunque importante di esseri umani, completamente innocenti ma coscienti della gravità del reato, che si lasciano sopraffare da quella credenza limitante secondo la quale le cose sono così e non possono essere cambiate. Le cose sono così, invece, proprio perché sono cambiate. L’essere umano parte dell’ecosistema ha cambiato quel sistema ergendosi a sapiens e facendosene prima illeggittimanente padrone e poi illlogicamente sfruttatore. Quel cambio di sistema è la prova del fatto che il sistema può essere cambiato. L’essenza stessa del capitalismo è motivo ispiratore del suo necessario abbattimento: un sistema che nega la priorità del mondo naturale per privilegiare il denaro, artificiale, può e deve essere ribaltato.

Come ci insegna Pepe Mujica, “c’è sempre stata un’opinione tradizionalista e conservatrice che ha paura del cambiamento”, ma essa non deve spaventarci, tutt’altro. Uno dei pochi vantaggi del consumismo che può tornare utile è infatti la facilità con cui possiamo riconoscere chi ne è affetto, e chi se ne vuole o se ne sta allontanando. Il consumismo infatti, travolge e stravolge non solo l’esteriorità degli individui, ma anche, e ancor più, le loro caratteristiche personali, il loro essere. L’uomo moderno ha aggiunto ai propri pesi da portare un nuovo lutto, oltre a quello legato alla perdita delle persone care: il dolore per la perdita della propria capacità di consumare, derivante dall’esaurimento della capacità di produrre. È un tormento inaccettabile di questi tempi e gli esseri umani sono disposti a tutto per evitarlo. Gli impauriti conservatori di questo sistema malato non hanno la facoltà di curarlo: loro per primi non vedono la ferita infetta che è lì davanti ai loro occhi, non ne sentono il fetore, non provano dolore alcuno perché negano il dolore, risorsa primaria e indispensabile di ogni cambiamento. Senza il dolore per quanto sta accadendo non può esservi consapevolezza, e senza consapevolezza non può esservi rimedio.

Il rimedio, già… Quale può essere il rimedio? Anche a questa domanda non dobbiamo rispondere in maniera netta ed indiscutibile. Dobbiamo invece parlarne, dobbiamo confrontarci su di esso, perchè in troppi sembrano avere facili soluzioni a portata di mano, ma far conciliare Giustizia Climatica e Giustizia Sociale è molto complicato. Non tecnologicamente, ma moralmente complicato, così come dimostrato dagli alti costi dell’energia rinnovabile e dallo sfruttamento delle comunità che vivono a ridosso delle miniere di terre rare. La buona notizia è che risulta concretamente possibile, e persino più semplice, rispettare al tempo stesso le esigenze sociali e quelle ambientali riducendo l’impatto delle attività umane sul Pianeta. Non è un’operazione di avanzamento tecnologico quella di cui abbiamo bisogno, ma di indietreggiamento consumistico. Abbiamo bisogno di aver meno bisogni.
In particolar modo quelli indotti, non necessari, superflui, utili solo all’incremento dei profitti di pochi e dannosi per il resto dell’umanità.

Per tale motivo non possiamo più utilizzare i medesimi meccanismi, mentali e relazionali, che ci hanno condotto qui. Non possiamo sostituire un sistema che non funziona con un altro sistema, ma solo con un ecosistema. Abbiamo bisogno di una rivoluzione che rimetta al centro la natura e che riposizioni nuovamente l’essere umano all’interno e non al di sopra di essa. Ma perché sia efficace non possiamo lasciare che tale rivoluzione venga condizionata dalla fretta dettata dagli eventi. Agire subito è infatti una necessità, non una modalità. Agire subito non deve significare agire in qualche modo, in un modo qualsiasi, purché sia subito. La rivoluzione è un cammino che parte con un solo passo. Ed avanza un passo alla volta. La rivoluzione è nei passi, non solo nella meta che raggiungerà. Ad ogni singolo passo dobbiamo riconoscere il merito di portarci là dove vogliamo arrivare. Ai seguenti passi, dunque dobbiamo dare valore, ed essere un giorno grati di averli potuti compiere.

Decolonizzazione di noi stessi

Compiere gesti personali non è sufficiente, certo, ma è indispensabile per acquisire consapevolezza della facilità di cambiamento e risolutezza per la volontà di non vedere sprecati i propri sacrifici. Dobbiamo dunque privare prima di tutto noi stessi di quelle imposizioni del colonialismo capitalista che condizionano le nostre scelte, e farlo per ciò che possiamo, migliorando di giorno in giorno e senza colpevolizzarci per ciò che non riusciamo a fare.

Ascolto delle comunità locali

In prima linea nelle emergenze ci sono sempre le comunità di frontiera, siano esse frontiere geografiche o sociali, le quali subiscono per prime ogni variazione ed ogni imposizione. Esse sono, inoltre, luoghi capaci di farci riscoprire il valore delle culture indigene.

Connessione con la comunità scientifica

Gli scienziati percepiscono, perché le studiano, tutte le variazioni del nostro ecosistema che mettono lo stesso in pericolo. La scienza è importante non solo nella ricerca di soluzioni, ma ancor più, ed ancor prima, nel suonare l’allarme ed evitare di finire nel problema.

Supporto alle lotte che apparentemente non ci appartengono

La compassione è una indispensabile compagna di viaggio per coloro che vogliono arrivare sia lontano che insieme. Comprendere le difficoltà degli altri ed aiutarli nelle sfide che non stiamo vivendo sulla nostra pelle, è amore sociale.

Comunione di lotte che apparentemente diverse tra loro

Le proteste che presentano istanze diverse da quelle di cui noi siamo portatori possono essere fatte nostre e condivise. Ottenere tutto per tutti è più facile che ottenere qualcosa per qualcuno.

Radicalizzazione delle lotte per non cedere ai compromessi

Troppo spesso le rivendicazioni dei movimenti, lucide e puntuali agli albori, si sono ammorbidite a causa del lungo tempo trascorso senza risultati o per una interlocuzione con le istituzioni che si è andata via via trasformando in un inefficace compromesso. Mantenere ferme le posizioni e profonde le richieste è invece il modo in cui esse possono trovare graduale attuazione pratica ed incoraggiare altre persone a prendervi parte.

Istituzionalizzazione delle lotte perché si traducano in leggi

Le richieste di cambiamento, sin dalla loro nascita o anche in un organico percorso di crescita costruttiva, devono trovare espressione in termini di leggi e devono condizionare in modo propositivo la vita stessa delle istituzioni.

Internazionalizzazione delle lotte e dei movimenti

Sono le istanze a doversi fare larghe in modo da contenere le necessità di tutte le popolazioni sparse nel mondo, e la natura internazionale di un movimento non può che agevolare tale processo, così come la sua abilità nel fare rete.

Disponibilità al sacrificio

L’avvio di un percorso di crescita, sia esso individuale o collettivo, implica l’abbandono delle zone di comfort, le sconfitte, le critiche, la resistenza alle reazioni avverse e l’accettazione del dolore, fisico e mentale, che accompagnerà l’intero percorso.

Semplicità di linguaggio

Parlare di ingiustizie e dei metodi per ripararle è quanto di più difficile in quanto l’ascolto sarà sempre condizionato dalla propensione alla distrazione o alla rinuncia. Utilizzare parole e concetti semplici è non solo inclusivo, ma anche efficace.

Coinvolgimento dei media

Gli organi d’informazione possono determinare il successo di una campagna o di una lotta, ma è indispensabile che vengano coinvolti nella interlocuzione di lotta.
Parlare ai governi attraverso di loro non funzionerà perchè il flusso con cui si muovono è opposto, sarebbe come nuotare contro corrente.

Imposizione ai governi

Costrette da movimenti numerosi e determinati, le istituzioni possono cedere alle istanze provenienti dalla popolazione per attuare quei cambiamenti che vengono richiesti e tradurli così in leggi.

Creazione di meccanismi di controllo e monitoraggio

Il raggiungimento degli obiettivi di una campagna o di una lotta non sono mai garanzia nè del mantenimento di quanto ottenuto, né tantomeno della prevenzione da futuri peggioramenti della situazione. È quindi indispensabile che le medesime forze impegnate nel conseguimento dei risultati, si adoperino per la stabilità futura degli stessi e per impedire il ritorno alla condizione precedente.

Buon cammino! Felice rivoluzione!

Fonte: https://www.pressenza.com #Disociale

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dispensa

Cos'è il Fitwalking

E’ la disciplina sportiva lanciata in Italia dai fratelli Damilano, indimenticabili olimpionici della marcia. E’ “l’arte del camminare”, si tratta di una camminata vigorosa e sportiva che rappresenta l’aspetto fitness del camminare. Ma il Fitwalking può diventare una filosofia di vita protesa verso il benessere fisico e mentale. Può essere propedeutico ad altre discipline sportive, in quanto non presenta controindicazioni, o può essere una attività sportiva autonoma.

Il Fitwalking non è un'attività agonistica, ma non va comunque dimenticato che si tratta di una vera attività fisica rivolta allo star bene fisicamente e mentalmente. Le manifestazioni sportive di cammino Fitwalking non hanno una classifica di tipo agonistico classico, ma sono animate dal concetto del ritmo e passo giusto.

Il Fitwalking aiuta a mantenere il fisico attivo e a combattere lo stress quotidiano senza compiere sforzi eccessivi e senza sovraccaricare le nostre strutture muscolari, articolari ed ossee. E' un'attività che apporta grandi vantaggi all'organismo permettendo di riscoprire lo star bene mentale e fisico, senza le controindicazioni che possono invece presentare alcuni sport. Aiuta a scaricare le tensioni mentali accumulate nella vita di tutti i giorni e vi farà scoprire il piacere di vivere in modo nuovo e diverso.

Il Fitwalking trova notevole riscontro nella pratica da parte del sesso femminile, dato che una delle sue caratteristiche è quella di tonificare e modificare l'aspetto di muscoli determinanti anche dal punto di vista estetico (glutei, cosce..). I benefici derivanti dalla pratica del Fitwalking a favore di muscoli e articolazioni permetteranno di farvi acquistare elasticità e mobilità rendendovi più agili e liberi da tensioni muscolari, pronti eventualmente anche per l'inizio di una nuova disciplina sportiva.

Il Fitwalking, con le sue caratteristiche allenanti, rappresenta infatti un ottimo punto di partenza per coloro che intendono avvicinarsi all'attività fisica partendo da una condizione di assoluta sedentarietà o riprendere a fare sport dopo molti anni di inattività, in maniera graduale costituisce la giusta base per affrontare attività più impegnative, senza il rischio di fastidiosi infortuni o di scoraggianti insuccessi. Per le sue caratteristiche si presta ottimamente ad essere uno strumento completo da integrare nel normale allenamento per qualsiasi tipo di sport e può essere praticato da atleti in ripresa dopo infortuni o durante l’infortunio stesso, per evitare di fermarsi completamente.

La pratica costante e crescente in termini di intensità e durata del Fitwalking, associata ad una corretta alimentazione, produce anche effetti positivi sulla perdita di peso corporeo garantendo tuttavia il mantenimento di un buon tono muscolare. Gli effetti prodotti dal Fitwalking e dall’alimentazione sana hanno benefici importanti anche e soprattutto nella prevenzione di malattie cardiovascolari rafforzando la capacità contrattile del cuore e migliorando i processi circolatori in tutto l’organismo. Fitwalking come stile di vita quindi, come attività quotidiana finalizzata allo star bene per trasformare positivamente le nostre abitudini.

A chi è rivolto?

Il fitwalking può essere praticato: Persona che ha bisogno di mantenere il suo fisico attivo, per combattere la vita sedentaria imposta dal proprio lavoro e di cercare di prevenire malattie cardiovascolari; chi desidera compensare, con un'attività alla portata di tutti le situazioni quotidiane di stress che possono provocare danni fisici e psicologici;

chi è soprappeso, con sessanta minuti di fitwalking si possono bruciare circa 300/400 calorie; con la corsa se ne possono consumare in maggiori quantità, ma sicuramente in modo più traumatico per le articolazioni e i tendini;

donne che cercano un'attività fisica capace di sviluppare e tonificare alcune parti anatomiche di rilevante importanza estetica (pettorali e glutei), senza arrivare a sforzi e fatica troppo elevati; coloro che praticano attività aerobiche specifiche, quali ad esempio il trekking, e desiderano mantenersi allenati anche nei periodi in cui si trovano nei loro luoghi di residenza;

da coloro che, dopo anni di inattività, intendono iniziare la pratica di un'attività sportiva di tipo aerobico (la corsa, la mountain bike, il ciclismo l’escursionismo e così via);

coloro che devono ricuperare dopo infortuni muscolari e/o articolari e che hanno piccoli problemi cardiaci o che sono reduci da lievi infarti, esistono a tale proposito diversi studi medici.  

I benefici

È un'attività dimagrante, rigenerante dal punto di vista fisico e psicologico e un ottimo antistress. È considerato una delle migliori attività motorie per la prevenzione di molte malattie, principalmente nei disturbi a carico dell'apparato cardio-circolatorio. favorisce l'acquisizione ed il mantenimento di un ottimo tono muscolare. Aiuta a combattere le dislipidemie (ossia le alterazioni dei tassi nel sangue del colesterolo e di altri grassi), l'osteoporosi, l'alta pressione del sangue ed il diabete. In molti casi aiuta a perdere il vizio del fumo. Sono molti i vantaggi anche dal punto di vista mentale: si scaricano più facilmente le tensioni della vita quotidiana e del lavoro, si riduce la depressione aumentando la resistenza agli stress.

Dove

Naturalmente il fitwalking si può praticare ovunque andando in ufficio, nella pausa pranzo o su un tapis roulant a casa propria, lungo le strade sterrate dei parchi, lungo le distese spiagge.  

Al ritmo giusto

Camminare è un'attività alla portata di tutti e che chiunque può svolgere secondo i propri tempi. Non cosa da poco, in una società che spesso ci costringe a stare al passo con ritmi di lavoro e di vita tremendamente serrati. Il fitwalking, invece, regala la sensazione di una grande libertà, proprio perché può essere praticato dove, come e quando lo si desidera; inoltre aiuta a mantenersi in forma e, di conseguenza, a sentirsi meglio. Tutti fattori che contribuiscono a migliorare l'umore, l'autostima e consentono il raggiungimento di un certo equilibrio psico-fisico. Sembra, infatti, che praticare quest'attività permetta di scaricare più facilmente le tensioni della vita quotidiana, aumenti la resistenza agli stress e riduca persino la depressione.

Una camminata al giorno

Gli effetti positivi più importanti sono quelli sulla salute se praticato con regolarità almeno 2/3 volte alla settimana da 30/40 minuti, il fitwalking aiuta a combattere le alterazioni dei tassi di colesterolo e di altri grassi. Aiuta anche a prevenire alcune malattie dell'apparato cardio-circolatorio, come l'ipertensione. E poi è utile per chi soffre di diabete, combatte l'osteoporosi ed è ottimo per chi deve riprendersi dopo un infortunio.

La tecnica

È semplice, poiché non è altro che una camminata fatta a passo più vigoroso, è un gesto semplice e naturale. Per farlo in maniera corretta bisogna seguire qualche piccola regola. Per esempio, è importante saper utilizzare e sfruttare al meglio la ciclicità del movimento, facendo attenzione alla distribuzione del peso sulle gambe e all'appoggio del piede sul terreno, che non deve essere a martello, ma seguire la successione tallone-pianta (tampone inchiostro). A questo punto basta associare la giusta impostazione di braccia e tronco: le braccia vanno piegate raggiungendo un'angolazione di circa 90° e devono oscillare avanti e indietro con un movimento che tende a spingere la mano verso un immaginario punto posto centralmente al petto. Il busto leggermente inclinato in avanti e rilassato, così come le spalle e il collo devono evitare ogni rigidità. Questa postura facilita la spinta e consente più veloci.

Il ritmo

Oltre alla tecnica anche il ritmo è importante. Cominciare gradualmente, procedendo con costanza e aumentando di volta in volta l'intensità del lavoro. Perché se si sottopone a uno sforzo esagerato, si va inevitabilmente incontro non solo a un affaticamento eccessivo, ma anche a lesioni e ci si preclude la possibilità di migliorare o peggio ancora, si rischia di abbandonare. E' fondamentale, quindi, non solo la gradualità ma anche l'alternanza di sollecitazioni intense a momenti di recupero, così l'organismo può metabolizzare gli stimoli a cui viene sottoposto e migliorare la propria resistenza. È possibile tenere sotto controllo il proprio allenamento con un cardio frequenzimetro, per verificare che le pulsazioni non aumentino troppo. A qualsiasi età, da soli o in compagnia, all'aperto o indoor, il fitwalking è una disciplina così flessibile e modulare suddivisa in tre categorie:

Life Style In questa famiglia si trovano coloro che guardano al fitwalking principalmente come momento di svago a contatto con la natura (vedi CULWALKING di SCOPRINATURA). Sono le persone che amano passeggiare, muoversi a piedi in luoghi e situazioni varie. Non hanno mire particolari sotto l’aspetto prestativo ma sono attratti dalla filosofia di vita legata al camminare.  

Performer Style Il performer style coinvolge invece gli appassionati del fitwalking che aggiungono alle motivazioni del life style un interesse per gli aspetti di fitness. Amano affinare al meglio la tecnica di cammino e praticare il fitwalking quale attività motoria di tipo allenante. Pur in presenza di uno spirito sportivo non sono agonisti ad ogni costo, ma ricercano il miglioramento delle proprie capacità fisiche, dell’efficienza di camminatori veloci e resistenti. Chi pratica il performer style è attento al lato del benessere fitness (forma fisica) dell’attività, con particolare rilevanza verso gli aspetti estetici e fisici (dimagrimento, tonicità muscolare, rilassatezza psicologica, efficienza fisica in genere). Pratica volentieri anche il fitwalking indoor (camminando sul tapis roulant) e ama misurare a volte il proprio grado di preparazione ed efficienza.  

Sport Style Lo Sport Style coinvolge soggetti sportivi. Appassionati che amano il confronto della performance fatta sia in allenamento sia in gara. Si preparano specificatamente, partecipano regolarmente ad eventi o affrontano sfide personali (tipo lunghe camminate con obiettivi di tempo) allenandosi quotidianamente. Sono persone che hanno trovato nel fitwalking un tipo di sport adatto al loro attuale livello fisico, senza dover rinunciare alla voglia di misurarsi con se stessi e con gli altri.

Il fitwalking rappresenta l'aspetto allenante del cammino. E’ l’arte del camminare bene, a passo sostenuto. Si tratta di un esercizio alla portata di tutti perché non è traumatico per le articolazioni quindi è adatto per esempio a chi a problemi alle ginocchia oppure a chi è in soprappeso. Se è vero che si tratta di cammino, è vero anche che per poter camminare bene e a passo svelto bisogna conoscere qualche aspetto tecnico: Giusto uso del piede  -   Azione tonica e dinamica delle gambe   –  Corretto lavoro delle braccia

L'uso del piede deve compiere una “rullata” completa. Si inizia con l’appoggio del tallone, facendo attenzione ad alzare bene la punta in modo che si formi un angolo ben definito tra il tallone appoggiato e il terreno. Si passa poi alla pianta dove inizia gradualmente la fase di spinta che si concluderà solo con l’appoggio e la spinta della punta del piede fino a tutte le dita. Quindi il piede si usa tutto.

Il tallone ha una doppia funzione. E’ lo stabilizzatore del passo, il suo appoggio aiuta ad evitare tutte quelle fastidiose distorsioni che spesso si prendono senza motivo, ed è un aiuto per il sangue che dalle gambe torna al cuore.

Il lavoro del piede e delle gambe la cui muscolatura è tutta coinvolta dalla fase di appoggio, quando è richiesto un maggior impegno del quadricipite, fino a quella di spinta che coinvolge in particolar modo il bicipite femorale, i polpacci e i glutei. Naturalmente questo movimento è fatto tenendo la gamba morbida, non rigida sul ginocchio, e per dare maggiore scioltezza al movimento basta aggiungere un buona mobilità del bacino. Il tutto produrrà un passo armonico, ampio e dinamico.

Il movimento delle braccia contribuisce attivamente a dare azione di spinta dei piedi e delle gambe, forza ritmo necessari per una azione armonica e corretta. Con le braccia piegate, tenerle a 90° ma si possono tenere anche leggermente distese lungo i fianchi, azione meno sportiva ma ugualmente efficace, e con le spalle rilassate, si effettuano oscillazioni energiche con il gomito che raggiunge quasi l’altezza delle scapole e le mani che giungono fino ad una linea immaginaria di fronte allo sterno.

Il fitwalking è un’attività allenante, la muscolatura infatti è ampiamente coinvolta, è modellante, si pratica all’aria aperta e non ha bisogno di un’ attrezzatura tecnica particolarmente dispendiosa. La sua completezza sta nel fatto che camminando, si può riflettere, pensare, concentrarsi su cose che durante il resto della giornata dobbiamo tralasciare, una valvola di sfogo.

Che cos'è

È  l’arte del camminare e fa parte del grande “pianeta WALK-IN”. E’ una forma di praticare il cammino che ne evidenzia tutte le potenzialità e va oltre il semplice camminare. Il termine inglese significa letteralmente “camminare per la forma fisica”; è il denominatore comune per tutte le attività di cammino che escono dalla normale locomozione quotidiana e diventano attività sportiva, per il tempo libero, per il divertimento, per il fitness, per la salute, per il benessere.  

“L’arte del fitwalking” sta proprio nella scoperta che non è sufficiente camminare per fare al meglio la passeggiata, il trekking, lo sport, il tour culturale e turistico o l’attività salutistica, ma è necessario camminare bene, ossia camminare osservando una corretta meccanica del movimento, acquisita conoscendo e praticando la tecnica del fitwalking. Il fitwalking è quindi anche una filosofia che accompagna la vita quotidiana, per renderla più viva, più equilibrata e ritmata. E’ un modo di vivere che permette di entrare nel quotidiano al passo giusto, al ritmo corretto, in equilibrio assoluto tra noi e ciò che ci circonda.

Se si pensa alla frenesia della vita di ogni giorno ben si capisce l’importanza di inserire nella nostra giornata un momento in cui tutto rallenta e dove il rapporto tra tempo e spazio prende una dimensione assolutamente diversa e si conquista un’efficienza fisica nuova e un senso di libertà assoluta. La libertà di muoversi dove si vuole ed alla velocità desiderata, di lasciare vagare i pensieri, di soffermarsi a scrutare l’orizzonte o di tirare dritto con passo deciso e sicuro.

Fare fitwalking con regolarità è un po’ come tornare indietro nel tempo, quando camminare era l’unica vera forma di locomozione che permettesse a tutti di muoversi per lunghi tragitti o di spostarsi per brevi tratti e compiere le normali azioni del vivere quotidiano. Un insieme così vasto di concetti e situazioni ha però bisogno di una sintesi che ne limiti i contorni in modo più chiaro. Il pianeta WALK-IN ha nel fitwalking una specifica situazione che si unisce, ma nello stesso tempo si distingue, dal normale camminare, dal farlo per turismo, per arte, per cultura, ambientalismo o amore per la natura. Ecco perché il fitwalking l suo interno si caratterizza in 3 categorie, o famiglie, che, per comodità, includono tutti i diversi modi di intendere il fitwalking, e nelle quali ognuno potrà individuare la più corrispondente alle sue mire ed esigenze di camminatore.

Le scarpe

Le scarpe rappresentato l'unico vero strumento  per la pratica del Fitwalking. chi inizia utilizza scarpe per correre spesso senza considerare caratteristiche e usura che rappresentano indubbiamente la soluzione ”meno peggio” rispetto a scarpe da palestra, considerando anche che scarpe specifiche da marcia sono quasi introvabili sul mercato, ma laddove si comincia a praticarlo con costanza, è consigliato utilizzare una scarpa con le caratteristiche corrette. È consigliabile una scarpa ben ammortizzata e stabile per sostenere l'arcata del piede e rendere la porzione mediale più rigida alla torsione. Esistono inoltre da qualche tempo sul mercato scarpe dedicate specificatamente al walking.  

Abbigliamento

Deve consentire una certa libertà di movimento. Come inizio, per le donne è sufficiente una t-shirt o canotta ed un paio di fuseaux in caso di basse temperature un’idea può essere di indossare sotto il fuseaux una calzamaglia tagliando la parte dei piedi. Per l’uomo una t-shirt in cotone traforato ed un paio di pantaloni sportivi comodi possono inizialmente andare bene. Il vestiario, sarà sempre comunque in relazione alla stagione: non troppo coperti d’estate ed in primavera, mentre d’inverno converrà vestirsi a strati (a cipolla) di modo che in relazione al clima ed alle giornate ci si potrà alleggerire o coprire meglio, per ripararsi dal vento e/o dal freddo .Esistono ormai in commercio tutta una serie di capi di abbigliamento sportivo in materiale tecnico molto utili e non eccessivamente costosi, freschi, che permettono una adeguata traspirazione.

I tessuti acrilici di nuova generazione, sono difatti studiati proprio per non trattenere il sudore a contatto con la pelle, per riscaldare quando la stagione lo richiede, pur essendo molto leggeri, oppure molto traspiranti per le stagioni calde.  I tessuti naturali, certamente molto buoni per la pelle, (cotone e lana ad esempio) sono ormai considerati poco adeguati in particolare quando si inizia a praticare il FW ad un discreto ritmo in quanto hanno la caratteristica di assorbire molto il sudore che rimane così costantemente a contatto con la pelle, finendo di asciugarsi anche addosso nelle lunghe uscite, o creando problemi in caso di eventuali cambi di clima durante l’uscita. Importante è poi coprire la testa con un cappellino, sopratutto per chi non è abituato ad effettuare attività in inverno per evitare problemi di sinusiti o emicranie e riparare l'atleta dal freddo. D’estate per ripararsi dal sole il cappellino deve essere preferibilmente di colori chiari, in tessuto leggero e non deve essere stretto. Per chi soffre il freddo alle mani d’inverno è possibile utilizzare anche i guanti.  

Calzini

Sono importanti. I modelli consigliati sono quelli da running in quanto di materiale leggero ed elastico, con cuciture non fastidiose nel movimento e provvisti di un leggero elastico centrale che evita la torsione del calzino, evitando l’insorgere di piccole vesciche.

Zainetti

Sconsigliamo l’utilizzo di marsupi ingombranti e dei  classici zainetti da passeggio o da trekking tradizionale, in quanto ingombranti e generalmente non permettono il corretto movimento. Si consiglia l’utilizzo di zainetti specifici che sono stretti, leggeri, di dimensioni ridotte e anche con il movimento restano a diretto contatto con la schiena  permettendo quindi il corretto movimento sia di braccia che di bacino. #Divita

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Un po’ di storia

Autorevoli studiosi sostengono che i vocaboli woin e wain, dai quali sarebbe derivato il greco oinos, siano forme della stessa antichissima parola, anteriore alla suddivisione dei popoli indoeuropei e semitici.

Non si sa però esattamente quale sia la patria d’origine della pianta sacra a Bacco (Vitis vinifera sativa) e nemmeno si sa se discenda dalla vite silvestre, che era selvatica e cresceva in forma selvaggia a dismisura, con tronchi molto robusti e selve di tralci che avevano le dimensioni di veri e propri rami. Solo in un secondo tempo — impossibile fare il calcolo degli anni, se centinaia o millenni — la vite selvatica fu “addomesticata”.

Sicuramente la vite ebbe molta importanza per le abitudini e il ritmo lavorativo dell’uomo e sicuramente costituì un incentivo, come altre colture agricole, per fargli abbandonare la vita nomade, inducendolo a stabilirsi in luoghi collinari ameni per seguire il ciclo che dura tutto l’anno prima che l’uva giunga a maturazione e sia poi pronta ad essere trasformata prima in mosto e poi in bevanda, secondo pratiche enologiche millenarie. Queste operazioni non hanno subito, rispetto all’antichità, grandi trasformazioni o radicali mutamenti.

La leggenda attribuisce l’invenzione del vino a Noè, che sarebbe anche stato il protagonista della prima ubriacatura, suscitando le apprensioni di Sem, Cam e Jafet, suoi figli. Pur non potendosi sostenere a fondo questa tesi, resta a suo favore il fatto che il vino si produce ancora, se non proprio sulle pendici del monte Ararat, almeno in quel grande centro semitico che era allora la Transcaucasia.

Dalla Transcaucasia la vite sarebbe passata nella Tracia settentrionale, trasmigrando poi ancora, pare per opera dei navigatori fenici, dalla Siria alla Grecia, dalla Grecia all’Italia e infine nella Gallia e nell’Europa centrale, fino ai limiti climatici di coltivazione, dopo esservi stata portata dai legionari romani.

Né una parte determinante in questa diffusione della vite domestica può essere negata all’Egitto, dove, nei documenti di scambi commerciali, il vino figura ai primissimi posti. La bevanda era un simbolo di vita e di forza e veniva prodotta in cantine che utilizzavano l’uva raccolta nei giardini del Nilo, disseminati lungo il delta. Gli Egizi — che avevano tra l’altro dimestichezza con la birra — erano già dei maestri in materia.

Pratiche enologiche comuni erano la pigiatura, eseguita con i piedi, come dimostrano numerose tavolette egizie, e le filtrazioni che dovevano essere accurate, conoscendo la precisione di quel popolo nell’eseguire i lavori agricoli e artigianali. A fermentazione conclusa, il vino veniva immesso in giare di varie dimensioni, anche molto capaci, sia per l’incantinamento sia per il trasporto sulle navi vinarie. Il vino, a causa del suo prezzo elevato, era una bevanda riservata ai ricchi.

In Mesopotamia ci sono riferimenti al vino che risalgono a circa 2500 anni prima di Cristo e alcuni documenti scritti testimoniano la presenza di vigneti intorno ai palazzi dei nobili. Il vino più pregiato era riservato alle genti di nobile censo, mentre gli schiavi dovevano accontentarsi di un vino più ordinario.

Più o meno, le stesse usanze le avevano i Greci che, occupando un posto fondamentale nello sviluppo della civiltà mediterranea, erano in primo piano nella produzione vinicola, dopo essersi fatti insegnare un’arte che conoscevano poco, dal momento che erano prevalentemente pastori. Troviamo così il vino al posto d’onore nelle opere di Omero, accanto agli elmi, alle lance, alle spade. Nell’Odissea il Mare Egeo viene paragonato al «vino scuro». In documenti scoperti a Plios e all’isola di Creta, risalenti a quattordici secoli prima di Cristo, il vino viene ampiamente menzionato. Veniamo così a sapere che anche allora si usavano i bottiglioni; le coppe d’oro e d’argento venivano usate non solo dai re, ma anche dai maggiori dignitari.

Il vino veniva sempre miscelato con l’acqua, mentre per il trasporto si adoperavano otri di cuoio. Le grandi giare per la conservazione erano chiamate pìthoi e si procedeva alla loro solenne apertura in occasione delle maggiori feste. Molta importanza era attribuita all’età del vino, che veniva considerato vecchio solo dopo quattro anni. Le donne di alto censo non potevano bere il vino e se erano scoperte subivano severe condanne; ciò non toglie che ricorressero ad artifizi per nascondere il loro vizietto segreto. Oggi le donne possono degustare in pace un buon bicchiere di vino, ma allora correvano persino il rischio di una condanna a morte.

Seguendo usanze provenienti dall’Oriente, si aggiungevano al vino anche mirra ed altre sostanze aromatiche.

La vigna era chiamata oinàs e, pur non ricevendo eccessive cure, dava i suoi frutti con generosità ed abbondanza.

Durante i banchetti spettava al «cerimoniere, di determinare il quantitativo di vino da bere, di miscelarlo correttamente con l’acqua e di dare disposizioni per il brindisi.

II “cin cin o cincin”, allora non si usava, perché questa tradizionale formula è stata presa a prestito piuttosto recentemente dai Cinesi, presso i quali rappresenta un’espressione di saluto interpretata in italiano come voce onomatopeica riproducente il suono di due bicchieri che si urtano.

Per quanto riguarda l’Italia, va ricordato che ancor oggi si usa chiamarla Enotria o Enotria tellus, cioè terra del vino, e questo vuol dire che il complimento era davvero meritato già a quei tempi. Gli Enotri occupavano la parte meridionale della Penisola, pressappoco quella che oggi corrisponde alle regioni della Basilicata e della Calabria.

E fu proprio un pioniere greco, di nome Enotro, a colonizzare quelle terre, impiantandovi le prime barbatelle che provenivano dall’Egeo. Poi, pian piano, la vite si diffuse in Sicilia, in Puglia e in Campania, indi in Toscana e nel Lazio, fino ad arrivare al territorio dell’antica Rezia, una vasta regione che abbracciava il Trentino-Alto Adige, la Valtellina, il Friuli, arrivando al basso Veneto e spingendosi fino alla Valle d’Aosta.

Secondo altre fonti, la vite avrebbe cominciato ad espandersi dalla Sicilia con i colonizzatori di Micene. Poi, con la civiltà villanoviana (mille anni prima di Cristo), sarebbe lentamente risalita a nord, ricevendo un forte impulso dagli Etruschi, colonizzatori dell’entroterra toscano e probabili primi abitatori della zona del Chianti.

Un insigne studioso del vino, Giovanni Dalmasso, ha fornito interessanti notizie sulle origini dei vino in Italia. Per quanto riguarda la Toscana, egli formulò delle ipotesi che proverebbero l’esistenza della vite in queste contrade prima dell’avvento dell’era umana. Quindi non sarebbero stati i navigatori fenici a portare la pianta, che in quelle contrade esisteva già. Ciò sarebbe provato dai reperti di travertino affioranti nella zona di San Vivaldo dove furono ritrovate impronte fossili della Vitis vinifera, cioè l’antenata delle varietà coltivate attualmente che, come già detto, cresceva spontanea.

Addentrarsi nei misteri della preistoria è quasi impossibile, ma non meno incerti sono gli albori della storia. Di certo si sa, ad esempio, che gli Etruschi furono gli antenati di quei vignaioli toscani che fecero conoscere il Chianti in ogni parte del mondo.

Il vino “miele del cuore”, come lo definisce con caratteristica ed efficace immagine il poeta Omero, era bevuto dagli Etruschi nella “patera”, un recipiente di mescita entrato in uso ben sette secoli prima di Cristo. Aveva la forma di una coppa un po’ ovoidale, con due manici allungati a nastro per poterla più agevolmente portare alle labbra, standosene comodamente sul triclinio.

Molto importante è il fatto che furono gli antichi abitatori etruschi ad introdurre l’uso del vino «pretto», cioè naturale, mentre Greci e Romani lo pasticciavano con aggiunta non solo di acqua, ma di infusi vari di erbe, con miele ed altre sostanze dolcificanti. Non dimentichiamo che allora non esisteva lo zucchero e quindi si ricorreva ad assumerlo non solo con le sostanze alcolico-zuccherine contenute nel vino, ma anche con l’aggiunta di sostanze ricche di zuccheri, come il miele. Una terapia inconscia, se vogliamo, ma efficace, poiché l’organismo ha bisogno di una certa quantità di zuccheri per la sua perfetta funzionalità.

I visitatori dei musei etruschi, come quello bellissimo di Volterra, o delle necropoli con le pareti affrescate di Tarquinia e di Cerveteri, per esempio, non mancheranno di notare scene che hanno attinenza con la mescita del vino o con altre cerimonie enoiche. Quasi per dare ragione in anticipo a quanto affermava, lo scrittore latino di agricoltura Lucio Columella, in uno stile chiaro e comprensibile a tutti, asseriva: “Ciò che può piacere per i suoi pregi naturali è certamente superiore a tutto” (e intendeva riferirsi al vino schietto, prodotto con i manipolatori di vini trattati non solo con sostanze vegetali, ma anche minerali.

Dal porto di Rosellae, ancor prima che fosse attivato il porto romano alle foci del Tevere, alle spalle di Grosseto (che allora non esisteva), partivano le barche per il trasporto del vino etrusco verso lidi anche assai lontani. Le anfore venivano ingegnosamente sigillate con stucco e con tamponi imbevuti d’olio. Fatta salva la leggenda di Noè, si può ben dire che il vino etrusco è stato, in realtà, uno dei più antichi del mondo. Una delle prove più certe della familiarità del popolo etrusco con il vino è il coperchio di un’urna volterriana in cui è scolpita la rappresentazione di un banchetto: una mensa riccamente imbandita e da un lato un ampio cyathus (cratere) che può essere considerato un antenato del fiasco toscano.

Durante i banchetti, come riferiscono gli studiosi della materia, gli Etruschi avevano l’usanza di spargere il vino sul pavimento come segno augurale e, per ingraziarsi gli dei, lo versavano sul fuoco delle are.

Tale usanza era definita «libagione», nome rimasto col significato di abbondante bevuta. In quanto al nome Chianti, che venne alcuni secoli dopo, esso deriverebbe dal latino clangor, ossia squillo di tromba o grido festoso di uccelli, cioè relativo ad una contrada che era ricoperta di selve e molto spesso percorsa da bande in arme. Però il primo documento che menziona esplicitamente il vino Chianti è del 1398 e consiste in una registrazione contabile comparsa nei libri della «Compagnia del Banco» di Francesco Datini (l’inventore della cambiale): accanto alla partita di vino Chianti compare il relativo prezzo in fiorini.

All’ epoca dei re di Roma e durante la Repubblica, i Romani non furono estimatori del vino. Essendo di abitudini sobrie, spartane o anche più, conoscevano poco i vini e solo qualcuno li beveva, importandoli dalla Grecia. I pochi vini che si producevano erano decisamente rustici rispetto ai nettari raffinati che volevano rivaleggiare con l’ambrosia bevuta dagli dei dell’Olimpo.

Plinio il Vecchio, il più insigne naturalista dell’antichità, non può non essere citato in una storia del vino, non solo perché se ne occupò a fondo, ma anche perché lo fece in modo critico. Infatti considerava il Falerno, ritenuto il vino con il maggior blasone, troppo aspro e forte prima di dieci anni di invecchiamento. Egli classificò minuziosamente ben 195 vini, citando quelli che avevano raggiunto autentica notorietà, comprendendo non solo i vini italiani, ma anche quelli sparsi in tutti i Paesi dell’impero. Di questi vini, 80 erano considerati di alta qualità e i restanti di tipo meno pregiato. Al commercio romano del vino, non meno importante della produzione, attendevano i mercatores vinarii. All’antico Portus Vinarius, costruito da Traiano alle foci del Tevere, in un vasto bacino interno collegato con il mare, esisteva un apposito scalo, con annesse cantine di smistamento e sale per le contrattazioni. Le navi arrivavano e partivano colme di anfore e orci di tutti i tipi. I Romani, prima ancora della conquista della Gallia, esportavano molto vino nei porti che si affacciavano sul Mediterraneo, valendosi di velieri tondi e piatti, detti corbitae. Molti di questi battelli, anche recentemente, sono stati ritrovati in perfette condizioni sul fondo del mare. Uno di essi, affondato presso la costa della Gallia nel 240 a. C., era, come si è potuto stabilire, di proprietà di un certo Marcus Sextus e trasportava vini greci imbarcati a Delo, ma aveva poi fatto scalo all’attuale Fiumicino per caricare una seconda partita di vini laziali. La nave conteneva un migliaio di anfore e alcune di esse, dopo il recupero del relitto, conservavano ancora un liquido giallastro, ossia i residui di un vino di oltre 2000 anni fa: erano state tappate con somma cura con blocchi di creta e sigillate ancor meglio.

E’ curioso ricordare che anche allora, fra gli scandali dell’Urbe, c’era di mezzo il vino. Gli annali hanno ricordato il clamore suscitato da un’azione di incetta del vino su vasta scala operata da una lega che agiva con metodi scorretti, per non dire brutali, ossia un trust vero e proprio del vino che danneggiava i produttori e i consumatori. Con speciali norme si provvide a tutelarne e a liberalizzarne sia la produzione che il commercio. Per ogni competenza attinente a questa sempre delicata materia c’era il Forum Vinarium, o centro internazionale degli scambi per il vino, come si direbbe adesso.

E comunque attraverso le conquiste dell’Impero che la vite si espande maggiormente e passa nelle Gallie, risale il Rodano fino a Lione, supera la Borgogna e costeggia il Reno, dando la possibilità ai Teutoni di esercitarsi nell’arte appassionante della vinificazione. Ad un certo punto i vini provenienti dal settentrione dettero così fastidio ai produttori ed ai mercanti romani che fu promulgata la Lex Domitiana che proibiva drasticamente la coltivazione della vite nelle province. Fu allora che molti vini dell’Italia settentrionale, in particolare quelli veneti e della Rezia, trovarono facile sbocco a nord, cioè nelle terre colpite dal divieto di produzione. Quando circa 200 anni più tardi, ed esattamente nel 276 d. C., la legge restrittiva venne revocata dall’imperatore Probo (diventato proverbiale anche per la sua equità nel trattare i problemi del vino), la viticoltura riprese nelle valli del Danubio, della Morella e del Reno, così come in Borgogna e nella attuale zona dello Champagne. Quasi tutti i più famosi vini francesi hanno avuto fra i loro lontani “padrini” dei vignaiuoli romani al seguito delle legioni di Cesare.

Non dobbiamo dimenticare che, quando le genti romane erano già molto civilizzate, i Galli erano ancora un popolo di nomadi e non possedevano né la volontà, né il temperamento, né le cognizioni tecniche per dedicarsi alla coltivazione della vite.

In breve, già al III secolo d. C. la vite occupava Io spazio che detiene attualmente, forse anche di più, poiché si estese anche sulle coste meridionali dell’Inghilterra, verso la Cornovaglia e l’isola di Wight, dove ancora adesso esistono alcuni vigneti, sia pure con produzioni minime.

Dopo la caduta dell’Impero romano, la viticoltura non risentì troppo di questo evento così traumatico per tutte le manifestazioni della capacità e dell’ingegno umano e per le libere attività pacifiche. Ad assicurarne la continuazione pensò la Chiesa. Intatti, accanto alle abbazie ed ai principali conventi — basti pensare all’Abbazia di Cluny e a Clos Vougeot in Francia, alla Certosa di Pavia — sorgevano non solo centri di produzione del vino, ma vere e proprie scuole come quella fondata sotto l’egida di Carlo Magno a Rùdesheim sulla riva sinistra del Reno. Come asserisce giustamente Pier Giovanni Garoglio nella sua esauriente Enciclopedia vitivinicola mondiale, la necessità di disporre « per la celebrazione della messa di vino “schietto” oppure “pretto” (come dicevano i Toscani) contribuì largamente all’espansione della viticoltura. Lo dimostra, tra l’altro, anche il fatto che al seguito di missionari che conquistavano nuovi territori alla religione cristiana c’erano degli specialisti per l’impianto di nuovi vigneti che si moltiplicavano per poter avere il vino sul posto».

Parlando di storia del Chianti, mi sembra interessante ricordare al corsista le origini del fiasco: ancor oggi, malgrado sia in crisi, è il contenitore più popolare, specie per quanto riguarda il vino rosso.

La prima documentazione di recipienti di vetro simili al fiasco risale al XII secolo. Il comune di San Gimignano, famoso per le sue torri ma anche per il vino, nel 1275 conferiva ad un artigiano di nome Cheronimo il permesso di aprire una fornace per «l’arte del vetro». Era anche, Cheronimo, uno di quei maestri chiamati «bicchierai» che costruivano non solo bicchieri, ma fiaschi e bottiglie. E il fiasco era destinato a soppiantare assai presto i contenitori di creta smaltata e di terracotta.

Sembra che il rivestimento in paglia del fiasco sia stato inventato nientemeno che da Leonardo da Vinci, per espressa richiesta di un gruppo di vetrai. ll fiasco odierno è lo stesso che si vede accanto al Bacco fanciullo di Guido Reni, nel bellissimo dipinto degli Uffizi di Firenze.

Per evitare le «furbizie» sulle dimensioni e capacità dei fiaschi, che avevano il difetto di essere presentati dai mercanti sempre più piccoli del dovuto, fu emanato a Firenze un decreto che stabiliva la capacità del fiasco in «mezzo quarto», ossia il corrispondente di litri 2,280. Successivamente, le vetrerie ricevettero la disposizione di stampare il bollo, cioè lo stemma del giglio di Firenze, sul collo a garanzia della misura esatta.

Fu con un fiaschetto di Chianti, offerto dal dottor Winger, che il 2 dicembre 1942 si brindò alla scoperta della pila atomica. L’umile contenitore ha assunto l’importanza di un oggetto storico: adesso è conservato al museo dell’energia nucleare di New York. L’inizio dell’epoca atomica è stato siglato dall “umor che dalla vite cola”, come dice Dante Alighieri. Tra le firme degli scienziati presenti, apposte sull’etichetta di quel fiaschetto, c’è anche quella dell’italiano Enrico Fermi.

E’ un peccato che per difficoltà di reperire la manodopera e per i costi elevati dell’operazione di impagliatura (fatta con la «sala», un’erba palustre) il fiasco tenda ad essere sostituito da altri recipienti, più o meno caratteristici, come le «chiantigiane». Per fortuna ci sono ancora diversi artigiani in Toscana che fabbricano fiaschi e «pulcianelle», fiaschetti tipici per il vino umbro. (continua) #Divino

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Le fotografie testimoniano di una scelta umana esercitata in una determinata situazione. Una fotografia è il risultato della decisione presa dal fotografo, per il quale vale la pena registrare che questo particolare evento o questo particolare oggetto è stato visto.

Se tutto quel che esiste fosse di continuo fotografato, nessuna fotografia avrebbe più senso. Una fotografia non celebra né l’evento in sé né la facoltà di vedere in sé. Una fotografia è già un messaggio sull’evento che registra. L’urgenza di tale messaggio non è interamente dipendente dall’urgenza dell’evento, ma non può neppure esserne del tutto indipendente.

Nel più semplice dei casi il messaggio, decodificato, significa: Ho deciso che quel che sto vedendo merita di essere registrato. È altrettanto vero per le foto davvero memorabili e per le istantanee più banali. Quel che distingue le une dalle altre è in che misura la fotografia spiega il messaggio, in che misura la fotografia rende trasparente e comprensibile la decisione del fotografo.

E arriviamo così al paradosso scarsamente compreso della fotografia. La fotografia è la registrazione automatica di un dato evento tramite la mediazione della luce: essa tuttavia usa quel dato evento per spiegare perché lo si registra. La fotografia è il processo attraverso cui l’osservazione diventa consapevole di sé. Dobbiamo sbarazzarci della confusione prodotta dall’insistente confronto tra fotografia e belle arti.

Qualsiasi manuale di fotografia parla di composizione. Una buona fotografia è una fotografia composta bene. Eppure è vero solo se pensiamo che le immagini fotografiche imitino le immagini pittoriche. La pittura è arte del disporre: è dunque sensato pretendere che in ciò che viene disposto vi sia un qualche tipo di ordine. In un dipinto ogni rapporto tra le forme è in una certa misura adattabile alla finalità del pittore.

Ciò non vale per la fotografia. (A meno che non prendiamo in esame quelle assurde opere realizzate in studio nelle quali il fotografo, prima di scattare la foto, organizza nei minimi dettagli il proprio soggetto.) La composizione, nel senso profondo e creativo del termine, non può entrare nella fotografia. L’organizzazione formale di una fotografia non spiega nulla. Gli eventi rappresentati sono di per sé misteriosi o spiegabili in base alla conoscenza che lo spettatore ne ha prima di vedere la fotografia.

Che cosa dunque dà significato alla fotografia in quanto tale? Che cosa fa sì che il suo minuscolo messaggio — Ho deciso che quel che sto vedendo merita di essere registrato — diventi ampio e vibrante? Il vero contenuto di una fotografia è invisibile, poiché deriva da un gioco non con la forma, ma con il tempo. Si potrebbe affermare che la fotografia è prossima alla musica quanto lo è alla pittura.

Ho detto che una fotografia testimonia dell’esercizio di una scelta umana. la scelta non è tra il fotografare x oppure y: bensì tra il fotografare nel momento x oppure nel momento y. Gli oggetti inscritti in una qualsiasi fotografia (dalla più incisiva alla più scontata) hanno all’incirca il medesimo peso, la medesima sicurezza. Quel che varia è l’intensità con cui siamo resi consapevoli dei poli dell’assenza e della presenza. Tra questi due estremi la fotografia trova il suo preciso significato.

John Berger, «Capire una fotografia», ottobre 1968, in Capire una fotografia, Contrasto 2014, pagine 34–36 #Divita

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Presentazione

Bere è una delle necessità essenziali e insopprimibili dell’uomo: si può restare anche più giorni senza cibo, ma non privandosi completamente di bevande. Da ciò, come sempre accade per i momenti fondamentali della vita, la formazione, nel tempo, di quella che si potrebbe definire la «liturgia del bere», che si esprime sia con la scelta delle bevande sia nelle modalità di consumo, individuali e collettive: una serie di norme, più semplici di quelle relative al cibo, ma ugualmente osservate con attenzione e rispetto per certi comportamenti tradizionali, spesso convalidati dalle leggi religiose. La bevanda fondamentale, l’unica in grado di dissetare veramente, è, da sempre, l’acqua. E’ infatti essenziale per le nostre necessità fisiologiche e, se talvolta non viene bevuta allo stato puro, come è consigliabile, la sua percentuale nel vino, nella birra, nella frutta eccetera, è tale da compensare il mancato consumo diretto.

Per il vino, comunque, si può parlare di tradizioni e norme di comportamento che vanno ben oltre il consumo a scopo alimentare o il desiderio di annullare, per breve tempo, le sensazioni e i pensieri sgradevoli, ricorrendo all’alcol (il “bere per dimenticare”). Già presente nella Bibbia come elemento di contatti umani, il vino diviene, con il cristianesimo, simbolo e transustanziazione della divinità, che lo accoglie trionfalmente nell’Eucaristia. Per contro, le altre due maggiori religioni, la musulmana e l’indù, lo mettono al bando, assieme a tutte le altre bevande contenenti alcol.

Lo scopo di questo “Corso…” è quello di far conoscere il vino per poterlo apprezzare pienamente al momento del consumo. Farlo conoscere a fondo in tutti i suoi aspetti, a cominciare dal frutto da cui deriva, ecco perché all’inizio — dopo un indispensabile cenno storico — si prende subito in considerazione l’uva con le sue numerose varietà, cioè i vitigni. La produzione del vino, infatti, incomincia con la coltivazione della vite, nelle sue varie fasi che culminano nella vendemmia.

Le operazioni successive alla raccolta dell’uva, che riguardano la vera e propria lavorazione e produzione del vino, costituiscono anch’esse un argomento trattato nel “Corso…”, che contribuisce a rendere l’informazione il più completa possibile.

Un capitolo a cui si dedicherà un’attenzione particolare é quello riguardante la cantina di casa, quella che ogni appassionato di vini sogna di potersi allestire: il lettore troverà tutte le informazioni pratiche al riguardo, dalle costruzione della cantina ideale alla disposizione dall’interno (scaffalature e attrezzature varie), dall’imbottigliamento casalingo ai consigli per conservare il vino, e via di seguito.

Non potrà mancare poi una guida pratica all’acquisto del vino, fase delicata che richiede oculatezza e una certa conoscenza delle norme legislative di base che regolano la produzione e il commercio vinicolo: in tal modo l’appassionato “Astemio” non correrà il rischio di scelte sbagliate e non sarà bersaglio di qualche rivenditore non troppo onesto…

Molte altre notizie utili costituiscono poi oggetto di successivi capitoli, come quelli che prendono in esame i vari tipi di bottiglie e di bicchieri, la degustazione, il modo di servire il vino.

Il servizio dei vini, al ristorante o in famiglia, é un test per valutare il grado di cultura enogastronomica sia del sommelier sia del padrone di casa.

Vi sono regole di selezione e di comportamento cui ci si affida quasi alla cieca e che, per sfortuna di quanti debbono conoscerle e applicarle, sono tutt’altro che immutabili. Le più rispettate e prese sul serio, oggi, sono quelle dei cosiddetti abbinamenti, di cui si parla ampiamente nel “Corso…”. Derivano da una sorta di «progressiva», parzialmente enunciata da Brillat-Savarin, nella sua Fisiologia del gusto, e impongono di cominciare vini più giovani, freschi e meno alcolici (generalmente bianchi) per passare poi ai rossi di annata, più robusti e ricchi di stoffa e di aromi (per comprendere questo linguaggio «da iniziati» sarà di aiuto al lettore il lessico inserito nel “Corso…”).

Questa «scala» non consente marce indietro: una volta passati dai bianchi ai rossi, un ritorno ai primi é considerato blasfemo. Sono regole, ripeto, recenti (all’inizio del nostro secolo era corretto servire champagne, esclusivamente doux o demi-sec e quindi prevalentemente dolce, anche con il roast beef e i grandi arrosti). Tali norme possono variare (i maitres francesi hanno ‘scoperto’ i vini rossi leggeri per accompagnare le ostriche) con il mutare dei gusti, ma in linea di massima bisogna rispettarle.

Quando si attendono ospiti, spetta al padrone di casa predisporre in anticipo la scelta dei vini idonei ad accompagnare la lista delle vivande. Tale scelta può essere agevolata quando si segua una norma considerata fondamentale: i piatti regionali si abbinano, di solito, con i vini della stessa zona. Norma facile da seguire quando si tratta di regioni essenzialmente vinicole (Piemonte, Veneto. Trentino, Puglia, Sicilia), ma che può proporre quesiti interessanti anche per le zone meno ricche sotto il profilo enologico: certe ricette napoletane di spaghetti trovano il loro vino giusto nell’Asprino, raro ma non introvabile vinello leggero e ‘divertente”.

A proposito di gastronomia, non poteva mancare nel “Corso…” una nutrita esemplificazione di ricette in cui il vino entra come componente vera e propria; infine, qualche nota dietetica esamina il vino anche da un punto di vista medico.

Per agevolare l’appassionato enologo “corsista” nella scelta e nella ricerca viene data inoltre un’ampia panoramica dei principali vini prodotti nel mondo: ci si può così orientare non solo fra i vini italiani e francesi — quelli cui si darà spazio maggiore — ma anche fra la produzione vinicola dei vari Paesi, in modo da essere in grado di conoscere le caratteristiche di un Tokaji ungherese o di un Mantinìa greco.

Capitolo a sé meritano i vini fuori tavola, spesso messi da parte in favore dei distillati: per secoli il vino è stato anche aperitivo e bibita nelle ore più disparate (se ne trova valida testimonianza nelle “ombre”, ossia i bicchieri isolati che si servono nelle osterie venete dal mattino in poi) e nulla vieta di ritornare anche anche in casa a questa usanza, rispettata del resto nell’ambiente rurale, dove stappare la bottiglia in onore dell’ospite è considerato più corretto che aprire la credenza per trarne la bottiglia di amaro o di liquore, un tempo fatto in casa. Una volta queste offerte prescrivevano un piccolo cerimoniale: vassoio, “centrini” ricamati sotto ai bicchieri, biscotti o altro per accompagnamento, specie se si proponevano marsala o vini dolci e liquorosi. Oggi è tutto più sbrigativo: bastano bottiglia e bicchieri. Naturalmente il vino dovrà avere caratteristiche particolari: di massima sarà più aromatico e di grado alcolico superiore a quello dei vini da pasto; oppure — offerta sempre ben accetta — si tratterà di uno spumante, brut o demi-sec.

Accanto ai due elementi fondamentali, il vino e la birra, vi sono poi i distillati, puri o rielaborati come liquori, e per i quali vigono norme ancora diverse, sia per quanto concerne la preparazione “nel bicchiere” (che dà origine, fra l’altro, alle bevande allungate con acqua o miscelate — i diversi cocktails, long drinks e simili) sia per il significato che l’offerta può assumere. Presentare un whisky e soda alle 19 é, anche dal punto di vista delle relazioni umane, ben diverso dall’offerta di un cognac molto vecchio, servito nel bicchiere ballon, due o tre ore più tardi. Si passa da una bibita da bere alla svelta a un piacere che va prolungato nel tempo e sempre rinnovato da ogni piccolo sorso di alcol. Anche a questo argomento sarà dedicato un ampio capitolo in cui, fra l’altro, si possono trovare le ricetta di molti fra i più noti cocktails e long drinks. Infine va sottolineata l’iconografia di questo “Corso…”: improntata a un fine essenzialmente pratico e didascalico, contribuisce a rendere ancora più esauriente la trattazione dell’argomento. (continua) #Divino

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Dispensa

Lascia andare le persone che non sono pronte ad amarti. Questa è la cosa più difficile che dovrai fare nella tua vita e sarà anche la cosa più importante. Smettila di fare conversazioni difficili con persone che non vogliono cambiare.

Se sei cancellato, insultato, dimenticato o ignorato dalle persone a cui dai il tuo tempo, non fai un favore continuando a offrire la tua energia e la tua vita. La verità è che non sei per tutti e non tutti sono per te.

Questo è ciò che rende così speciale quando incontri persone con cui hai amicizia o amore corrisposto. Saprai quanto è prezioso perché hai provato ciò che non è.

Più tempo passi cercando di farti amare da qualcuno che non è capace, più tempo perdi privandoti della possibilità di questa connessione con qualcun altro.

Ci sono miliardi di persone su questo pianeta e molte di loro ti incontreranno al tuo livello di interesse e impegno.

Più resti coinvolto con persone che ti usano come cuscino, un’opzione di secondo piano o un terapista per la guarigione emotiva, più tempo ti allontani dalla comunità che desideri.

Forse se smetti di apparire, non sei ricercato. Forse se smetti di provare, la relazione finisce. Forse se smetti di inviare messaggi, il tuo telefono rimarrà buio per settimane.

Questo non significa che hai rovinato la relazione, significa che l’unica cosa che trattenevi era l’energia che solo tu davi per mantenerla.

Questo non è amore, è attaccamento. È voler dare una possibilità a chi non lo merita! Ti meriti molto, ci sono persone che non devono essere nella tua vita, ti accorgerai.

La cosa più preziosa che hai nella tua vita è il tuo tempo ed energia, poiché entrambi sono limitati. Quando dai il tuo tempo e la tua energia, definirai la tua esistenza.

Quando te ne accorgi, inizi a capire perché sei così ansioso quando passi del tempo con persone, in attività, luoghi o situazioni che non ti conviene e non devono starti vicino, ti viene rubato in energia.

Inizierai a renderti conto che la cosa più importante che puoi fare per te stesso e per tutti coloro che lo circondano è proteggere la tua energia più ferocemente di qualsiasi altra cosa.

Fai della tua vita un rifugio sicuro, in cui sono ammesse solo persone “compatibili” con te.

Non sei responsabile di salvare nessuno. Non sei responsabile di convincerli a migliorare. Non è il tuo lavoro esistere per le persone e dar loro la vita!

Perché se ti senti male, se ti senti in dovere, sarai la radice di tutti i tuoi problemi per la tua insistenza, temendo che non ti restituiscano i favori che hai concesso. È il tuo unico obbligo capire che sei il padrone del tuo destino e accettare l’amore che pensi di meritare.

Decidi che meriti una vera amicizia, un vero impegno e un amore completo con persone sane e prospere.

Quindi aspetta e vedi quanto tutto inizia a cambiare e cambierà, questo è certo, con persone positive e di buona energia, non perdere tempo con gente che non ne vale la pena, il cambiamento ti darà l’amore, la stima, la felicità e la protezione che meriti.

(Anthony Hopkins) #Divita

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Dispensa

Non è facile invecchiare con garbo. Bisogna accertarsi della nuova carne, di nuova pelle, di nuovi solchi, di nuovi nei. Bisogna lasciarla andare via, la giovinezza, senza mortificarla in una nuova età che non le appartiene, occorre far la pace con il respiro più corto, con la lentezza della rimessa in sesto dopo gli stravizi, con le giunture, con le arterie, coi capelli bianchi all’improvviso, che prendono il posto dei grilli per la testa. Bisogna farsi nuovi ed amarsi in una nuova era, reinventarsi, continuare ad essere curiosi, ridere e spazzolarsi i denti per farli brillare come minuscole cariche di polvere da sparo. Bisogna coltivare l’ironia, ricordarsi di sbagliare strada, scegliere con cura gli altri umani, allontanarsi dal sé, ritornarci, cantare, maledire i guru, canzonare i paurosi, stare nudi con fierezza. Invecchiare come si fosse vino, profumando e facendo godere il palato, senza abituarlo agli sbadigli. Bisogna camminare dritti, saper portare le catene, parlare in altre lingue, detestarsi con parsimonia. Non è facile invecchiare, ma l’alternativa sarebbe stata di morire ed io ho ancora tante cose da imparare.

Cecilia Resio #Divita

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Chiunque abbia a cuore il futuro della Terra e delle prossime generazioni non può che essere preoccupato per il declino della biodiversità, le estinzioni di massa, la crisi climatica e altre situazioni di forte criticità innescate dall’uomo.

Ma il punto è che quasi sicuramente non siamo preoccupati abbastanza per trasformare quell’intermittente inquietudine in una spinta immediata all’agire, come se la nostra casa fosse in fiamme. (…)

Circa un milione di specie di piante e animali sono minacciate di estinzione e gli insetti stanno rapidamente scomparendo da molte regioni della Terra. In tre secoli abbiamo perso l’85% delle paludi, mentre il 65% degli oceani subisce in qualche misura l’influenza delle attività umane. Le foreste di alghe kelp e posidonie (importantissimi ecosistemi oceanici) si sono assottigliate, la quantità di coralli vivi nei reef si è dimezzata negli ultimi 200 anni, e i grandi predatori marini sono il 30% in meno di un secolo fa.

La popolazione umana è raddoppiata rispetto agli anni Settanta e conta ora i 7,8 miliardi di unità. Nel 2050 saremo in 10 miliardi, un aumento che si tradurrà in una maggiore insicurezza alimentare, un più estensivo utilizzo del suolo, più inquinamento da plastica, un rischio aumentato di pandemie, disoccupazione, fragilità abitative, insurrezioni, guerre. Tutto questo, in un contesto in cui stiamo usando ben più delle risorse naturali che la Terra abbia la capacità di rinnovare, e con il riscaldamento globale lanciato per superare il grado e mezzo dall’era pre-industriale tra il 2030 e il 2052.

Anche se tutti i contraenti degli Accordi di Parigi osservassero i loro impegni, il global warming si attesterebbe tra i 2,6 e i 3,1 °C entro il 2100. L’avanzata di leader populisti con agende avverse alla crescita sostenibile favorisce movimenti d’opinione e campagne di disinformazione che attribuiscono all’impegno ambientale colori politici, anziché vedere nell’attivismo climatico una volontà di preservare la specie umana.

Come superare l’immobilismo e trasformare la paura in energia di cambiamento? Lo studio suggerisce alcune azioni indispensabili, come abolire l’obiettivo di una crescita economica perpetua; rivelare il vero costo dei prodotti che utilizziamo e delle attività che svolgiamo, obbligando i responsabili di danni ambientali ad assumersene economicamente i costi (per esempio tassando le aziende per i gas serra che emettono); abbandonare progressivamente e in modo rapido i combustibili fossili; limitando i monopoli e l’influenza indebita delle aziende sulla politica; garantire alle donne istruzione, lavoro e libertà nelle scelte di pianificazione familiare.

Elisabetta Intini per Focus #Diambiente

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