D͏i͏-s͏p͏e͏n͏s͏a͏

Divita

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Che succederebbe se un giorno risvegliandoci scoprissimo di essere in maggioranza?

Che succederebbe se all’improvviso un’ingiustizia, una qualsiasi, venisse ripudiata da tutti, da tutti noi, da tutti non da alcuni, da pochi, ma da tutti?

Che succederebbe se invece di essere così divisi ci moltiplicassimo, sommandoci tra noi sottraendoci al nemico che ci sbarra la strada.

Che accadrebbe se ci organizzassimo e allo stesso tempo affrontassimo senz’armi, in silenzio in moltitudini, in milioni di sguardi, la faccia degli oppressori, senza lodi né plausi, né sorrisi, senza pacche sulle spalle, senza sigle di partito, senza slogan?

Che succederebbe se io chiedessi di te che sei lontano, e tu di me che sono lontano, e entrambi degli altri che sono molto ma molto lontani e gli altri di noi anche se siamo lontani?

Che succederebbe se il grido di un continente fosse il grido di tutti i continenti?

Che accadrebbe se abbattessimo le frontiere e marciassimo e marciassimo e marciassimo e continuassimo a marciare?

Che accadrebbe se bruciassimo tutte le bandiere per conservare soltanto una, la nostra, quella di tutti, o meglio nessuna perché non ne sentiamo il bisogno?

Che accadrebbe se per un istante smettessimo di essere patrioti per diventare esseri umani?

[Mario Benedetti (Paso de los Toros, 14 settembre 1920 – Montevideo, 17 maggio 2009)]

(Trad. Milton Fernandez) #Divita

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Come ti chiami? Mi chiamo essere e dicono che io sia umano, ma di umano ho ormai ben poco. Un tempo il mio nome era apprezzato e condiviso dalla comunità alla quale appartenevo, adesso ognuno di noi è sconosciuto all’altro, invisibile ai suoi occhi, messo da parte, scartato se inservibile.

Ma di quale comunità parli? Dove si trova? Si trova sul pianeta chiamato Terra che in molti hanno distrutto, nel corso del tempo, trasformandolo nella Terra di nessuno. Una Terra senza più futuro, a causa dell’egoismo, dell’ingordigia di quanti si sono arricchiti a dismisura, spesso in modo fraudolento, affamando, portando alla disperazione milioni di altri esseri umani inermi, costretti a fuggire dai loro paesi d’origine.

Non avete chi vi possa sostenere, supportare, guidare? Esiste qualcosa di simile, la chiamano politica. I suoi esponenti dovrebbero agire per il bene della collettività, anteponendo i loro interessi personali a quelli degli esseri umani che rappresentano. Un tempo era così. Adesso urlano, urlano, urlano, e se non urlano non agiscono, celandosi dietro ad un indefinito, ambiguo, atteggiamento di “attesa” di qualcosa che non si potrà mai concretizzare davvero senza un intervento fattivo nei confronti di tutti quegli altri esseri umani che soffrono, si disperano, subiscono. Non capisco…

Quali sono questi interessi da salvaguardare? Vedi, sulla Terra occorre mangiare per poter sopravvivere. Servirebbe, quindi, che a tutti fosse offerta la possibilità di poterlo fare, distribuendo le risorse in modo equo ed offrendo a tutti il lavoro. Servirebbe, anche, che l’accesso all’istruzione fosse garantito in modo equanime.

E poi…garantire una buona sanità pubblica, dare il giusto peso alla scuola, alla ricerca, proteggere l’ambiente, riconoscere i diritti più elementari, senza discriminazioni di sorta nei confronti di chi abbia un orientamento sessuale, religioso diverso dagli altri.

Beh, forse ti ho confuso con tutte le mie ciance ma, vedi, qui da noi siamo davvero ridotti al lumicino e penso che, se continueremo così, saremo senz’altro destinati all’estinzione. Dici che posso espatriare sul tuo pianeta? Il mio fa ormai acqua da tutte le parti e credo, ahimè, che il countdown finale sia già in atto…

-3 -2 -1… Ci vediamo su Marte!

Anna Neri #Divita

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I cani non muoiono. Non sono capaci. Si sentono stanchi e vecchi, ma non muoiono. Se così non fosse, non vorrebbero sempre andare a spasso, anche quando le loro vecchie ossa dicono “No, no, non è una buona idea. Non andiamo a spasso”. Macché, i cani vogliono sempre andare a spasso. Sono fatti così, loro.

Una passeggiata con te è tutto per loro. Hanno bisogno di te e della cacofonica sinfonia dei profumi del mondo. Le cacche dei gatti, gli odori lasciati dagli altri cani, un osso di pollo dimenticato e… te. Tutto questo rende il loro mondo perfetto e in un mondo perfetto non c’è posto per la morte.

La verità è che i cani ogni giorno hanno più sonno.

Anche se hai studiato in una famosa università dove ti hanno insegnato che cosa sono i quark, i gluoni e il keinesianismo, è tutto inutile. L’umanità crede di sapere tutto, ma sembra ignorare che i cani non muoiono mai.

Se pensi che il tuo cane sia morto, non è vero, si è semplicemente addormentato nel tuo cuore. Quando si sveglia dice: ”Grazie, per questa cuccia calda proprio vicino al tuo cuore, il posto migliore del mondo” e scodinzola come un pazzo, per questo senti un dolore al petto e piangi continuamente.

Per tutta la vita lui è stato un Buon Cane, questo lo sapete tutt’e due. E’ faticoso essere sempre un buon cane, soprattutto quando diventa vecchio e le ossa gli fanno male e si ritrova a sbattere il muso per terra e non vorrebbe più uscire nemmeno a fare pipì, magari perché piove, ma lo fa lo stesso perché è un buon cane.

Capisci, una volta che il cane si è addormentato nel tuo cuore, inizierà a dormire sempre più a lungo. Ma non abbatterti! Non è “morto”. Dorme nel tuo cuore e di solito si sveglia quando meno te lo aspetti. I cani sono fatti così.

Mi dispiace per le persone che non hanno un cane che dorme nel loro cuore. Non sanno che cosa si perdono! Ora scusatemi, devo andare a piangere.

[Ernest Mountague, trad.] #Divita

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Le notti registrano tutto quello che ho perduto, lasciato a Milano o spazzato via dal virus, e poi svolgono il nastro impresso nei sogni. Ho perduto due gruppi di meditazione, trentaquattro persone. Da tanti anni incontravamo la meditazione insieme, con avvicendarsi di persone diverse ma con la stessa passione. Due sere alla settimana per sentire il diritto di cittadinanza del silenzio e della lentezza, del sentire del sottosuolo, dell’esitazione. Ho perduto la scuola, centinaia di bambine e bambini a cui portare semi di poesia e spuntavano parole indelebili dai più muti, dai non visti. Come J. che per una poesia sugli alberi, ha scritto solo, con scrittura tremolante: Lattuga.

E ho lasciato la mia casa piena di libri, la mia coinquilina amica, che sapeva di me e io di lei, i libri che ti vengono in mente in un preciso momento e non puoi aspettare, le finestre e tutta la piccola cattiveria umana che mi ha circondato nelle strade e nei negozi. E le vie, le piazze, le fontanelle vedovelle nascoste nei parchi, i passi sotto la luna con paura di donna e avventura di bambina. Le tante vite che ho vissuto, i morti, la famiglia che è scivolata via. La persona che sapeva ascoltarmi e accogliermi senza correzioni. L’illusione che ti dà la città di poter sempre fare un nuovo incontro, di poter sempre iniziare da capo. Mentre la campagna è realtà della ripetizione. 

Io ho perso una vita e adesso ne ho un’altra. Di notte lo so. Certe volte detesto la mia forza di scampata, quel farcela senza neanche mettercela tutta, farcela e basta, quasi non costasse sforzo, quasi seguendo un calco.

Ma oggi ho letto questi versi di Anna Achmatova: “Veglia su altri l’insonnia-infermiera,” ah quindi l’insonnia si prende cura di me. Eh sì, mi fa uscire tutti i veleni inghiottiti di giorno in silenzio facendo finta di niente, poi ecco che di notte bussano alle palpebre e io le apro e vedo. Questo è un buon tempo per vedere, che è una forma del pensare ma senza capitano. Lasciare che i pensieri arrivino e osservarli come sono, brutti se sono brutti e belli se sono belli, senza discutere, senza credergli. Ma non pilotarli. Si trasformano da soli, se è il loro tempo. 

Mi accorgo che spesso vivo senza entrare davvero nel tessuto del vivo, come un po’ distratta, come se avessi sempre altro da fare, poi di notte, per non soccombere, diventa necessario entrare nelle stoffe della vita: vuol dire imparare a sentire. È una forma di conoscenza diversa dal pensare, è pensare sentendo i pensieri nel corpo. Arrivano i pensieri e noi li respiriamo, possono fare molto male o molto bene ma il respiro è un distillatore preciso, assaggia e tiene solo l’essenziale e si impara così a non scegliere, a sentire tutto salendo in groppa al respiro.

Non accidentalmente però, se no verremmo sbalzati via, ma con saldezza, entrare nel respiro come in un’altra dimensione e poi non perdersi. Lasciare che i pensieri, le faccende, i temi e i problemi arrivino al cospetto del respiro che ci entra fiero e pacato e ne apre la trama, assapora, vede e sente. E avvertire anche uno sfondo. I pensieri hanno sempre uno sfondo e il più delle volte sta lì paziente e spassionato lasciandoli passare. “Sfondo, posso appoggiarmi un pochino a te e guardarli passare anch’io?”

“Ma certo!” risponde sempre lo sfondo.

Chandra Livia Candiani #Divita

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In questo paese io vivo così. Mi alzo presto e lavoro tutta la mattina, traduco, scrivo, studio e leggo.

E poi, dopo pranzo, comincio a sentire il richiamo del bosco. Una volta che ho fatto finta di non sentirlo, è arrivata una poiana a mugugnare fin sopra il vicolo dove abito. Ho un testimone. Ho dovuto dire: “Scusa, il bosco è arrivato fin qui a chiamarmi, devo andare.” Il bosco sta a non più di cinque minuti a piedi dalla cascina in cui vivo. Spero quindi che i vigili saranno clementi. Ha molta acqua, proprio tanti ruscelli, e alberi, soprattutto castagni, e muschio tantissimo. Ci sono anche gli ontani bianchi. E le querce. Poi in primavera ha avuto tanti fiori e foglie da smarrirsi, quasi non lo riconoscevo, perché sono arrivata che era ancora inverno. D’estate è stato zeppo di zanzare e tafani, è stata dura non frequentarlo per un po’, poi ho deciso di portarmi uno zampirone e di  sventolarmelo davanti alla faccia e alle spalle, un po’ faticoso, ma me la sono cavata.

Ho visto un sacco di animali finché noi umani dovevamo sparire in casa, ho visto: rospi e ramarri, una cerva, vari cerbiatti, cinghiali e cinghialini, un ratto, volpi, aironi, poiane, ghiandaie, cornacchie e gazze, un serpente. Quasi tutti avevano un punto di domanda negli occhi. 

Ora si sta spogliando, il bosco, fa rumore, mi fa fare dei soprassalti. Sono caduti vari alberi per il diluvio. L’albero con cui ho più confidenza, ma una confidenza da scolara a Maestro, è un vecchissimo ciliegio selvatico. Alto che ti fa male il collo a guardarlo e largo, molto largo. Lo abbraccio e appoggio l’orecchio al tronco e dopo un po’ mi lascia degli insegnamenti. Mi ha detto di guardare i ruscelli e imparare a ruscellare. Mi ha detto, dopo una brutta ferita da taglio al cuore, di lasciar salire tutte le memorie e il male e le bruciature, senza spavento perché sarebbero finite presto. Mi ha anche detto nel frattempo di stare ferma, ma come un albero, non come un sasso.

In genere, mi dice di lasciare gli umani sospesi, di non inseguirli in cerca di spiegazioni. Quando non riuscivo più a scrivere perché avevo un killer di precisione che mi sparava alle parole, mi ha detto: “Lasciati essere diversa da tutti quanti.” È tornata la poesia.

Io qui ho solo il bosco, perché non so guidare e quindi faccio casa bosco casa. Non mi sento mai sola. Certi dicono: “Ma fai sempre lo stesso percorso?” Beh no, ce ne sono almeno quattro ma io ne prediligo uno. Comunque, è una corbelleria credere che ci possa essere un sentiero sempre uguale, cambia continuamente ed è una sorpresa a ogni passo. Nel bosco imparo a guardare e ad ascoltare. All’inizio mi ha sgridato molte volte perché ci andavo con in testa un mucchio di persone e guardavo solo dentro di me. Allora ho imparato a lasciare tutti a casa e a guardare fuori o se porto qualcuno con me è per farlo guarire insieme a me. Perché nel bosco non c’è niente da fare, fa tutto lui o loro che siano, ti guariscono, ti trasformano e meno fai, più possono lavorarti.

Nel bosco canto e ballo, tanto non c’è nessuno e comunque prima mi guardo intorno.  I primi mesi ho fatto anche la spazzina del bosco, ho raccolto tutta la plastica, il ferro, la carta che c’era. Ho tolto tante bottiglie di plastica bianca infilate su paletti e dopo il mio compagno mi ha detto: “Oddio Chandra, hai tolto i confini degli appezzamenti dei contadini…” Finora però non mi ha detto niente nessuno. Non so se sull’autocertificazione potrei scrivere ‘spazzina dei boschi’.

E poi c’è il capitolo asini. Prima di tutti, Pippo che ho ribattezzato Pippo Magique, perché è veramente veramente magico. È un grande asino bianco. Assomiglia molto  a un unicorno. Certe volte mi corre incontro a tutta velocità ragliando al cielo. Altre volte fa quasi finta di non vedermi. Una volta si è messo a correre in diagonale e io ho corso seguendo un’altra diagonale, poi abbiamo virato e ci siamo abbracciati. Un’amica mi ha detto: “Sono testimone di aver visto un asino che ti abbracciava e non solo tu che abbracciavi un asino.” Non lo vedo da un po’, il suo padrone lo tiene segregato ora, in un prato inaccessibile e recintato. Sembra proprio che io debba imparare a perdere.

Non come opposto di vincere ma di tenere.

Per ora la città non mi manca affatto, se mi chiamano persone un po’ serie o ciniche, la magia del bosco trema, vacilla, ma poi torna in piedi, salda, appena ritorno a essere bosco insieme al bosco. Forse anche scriverne è un rischio, forse. 

Cerco di ricordarmi il più spesso possibile di dedicare tutte le meraviglie a chiunque mi venga al cuore. Come una carezza, che non si sa da dove venga. Faccio un elenco improvvisato e invio. Alle 18,30 ogni sera medito, qualcuno da lontano medita con me. Sento il respiro, lo seguo e lo assaporo, e invio il bene a tutti gli esseri che sono in emergenza. Gli esseri, non solo le persone. Tanti fili sottili coprono il mondo e io ne faccio parte.

Chandra Livia Candiani #Difilosofia #Divita

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In questo momento, mi spaventa parlare e tanto più scrivere. Se dico che non voglio collaborare con i contagi e sto attenta a non andare in giro per non mettere a rischio gli altri ma anche me che sono vecchina e ho avuto varie polmoniti, mi abbaiano che però le persone devono lavorare, che chiudere i bar uccide chi ci lavora, che c’è chi vive di teatro, che i piccoli ristoranti … “Eh lo so”, rispondo timidamente a occhi bassi. Come se non lo sapessi … ma si sa che se dici una parola restano in disparte tutte le altre. Mi sento in colpa di essere delicatamente viva e di non uscire di scena per lasciare spazio a chi è forte e “il covid è solo un’influenza”.

Se dico che la vita non può più essere ‘normale’ e che la rinuncia non è un danno permanente e forse insegna anche qualcosa e fa salire tutto l’incompiuto che stava assopito in noi, sbraitano che gli adolescenti non possono più toccarsi e diventeranno tutti autistici. Se accenno genericamente ai bambini, inveiscono che ci sarà una generazione di ignoranti. Spavento.

Eppure, Marina Cvetaeva che ha vissuto sempre con la febbre a quaranta e a 200 all’ora, in un’epoca feroce, scriveva che tutta la sua poesia nasceva dalla Rinuncia. Con la erre maiuscola. Una forza vitale, sembrerebbe.

Va beh, sai cosa? Io sto zitta. Ma come sarà una scrittura zitta? E se scrivo dal mio minuscolo punto di vista, dal bosco e dalle foglie, mi sento di mettere in piazza, tra gli inferociti, la delicatezza di una vita che si preserva a stento.

Se parlo di come la meditazione mi insegna a non dividere il bene dal male e ad accogliere tutto così com’è con compassione e con il senso del non permanere delle condizioni, mi ammoniscono che no, bisogna trovare sempre il positivo e il significato profondo e agire. Oppure che un vero poeta ha solo la poesia e non si mette a fare il salvatore. Veramente io mi sento un ciarlatano.

Ci sono anche quelli che non dicono niente, ma spariscono, perché disapprovano, e non si accorgono che le opinioni sono i travestimenti dei nostri attaccamenti, giusti o sbagliati che siano, ma perché renderli delle prese di posizione anziché dire: “Non posso farne a meno”?  Ho già vissuto periodi in cui parlare era sempre un rischio, di colpo diventavi un nemico per una parola scorretta, non eri dalla parte giusta.

E poi c’è stata anche l’infanzia, un padre che ti lasciava scegliere di bere il caffelatte da qualunque tazza, tranne la sua. Solo che la sua cambiava. Senza preavviso. Non sbagliare era un vero azzardo. E dopo erano guai.

Insomma, lo smarrimento è sempre stata la mia Via, e finire dalla parte sbagliata anche. E tacere pure. Un silenzio non quieto né sereno, ma la bocca cucita perché qualsiasi cosa dici sbagli.

Il fatto è che le cose sono complesse e se vedi un lato ne manchi un altro e non ho parole rotonde.

Tutto sommato, credo che ascolterò e basta, lascerò dire a ognuno la sua e intanto respirerò. Certe volte, così facendo, qualcuno mi dice: “Grazie, mi fa bene parlare con te.” 

“A me invece fa bene respirare,” penso io, un po’ malinconicamente.

Chandra Livia Candiani #Difilosofia #Divita

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E così sta ricominciando. Abbiamo ricostruito per un po’ lo scenario di una vita ‘normale’ e ora si ricomincia con l’emergenza, con il non poter più fare come se. 

Sono fortunata, non ho mai avuto una vita normale. Sempre fatto tanta fatica in tutto. Quelli come me erano da schivare perché sono quelli scassati che ti ricordano la fragilità e l’andare a pezzi, quelli che vedono il re nudo.

Adesso che il re è evidentemente nudo non si può rivestirlo.

Da otto mesi vivo in campagna, ma non basta, ho deciso di non tornare. Perché man mano è salita la solitudine gigante in cui vivevo. Quanto mi faceva male passeggiare facendomi timidamente largo tra i corridori. Una volta una signora dietro di me si è messa a sbuffare e poi mi ha detto: “Ma lei non tiene la carreggiata, va di qui e poi di là!” “Ma sono a piedi!” le ho risposto io esterrefatta, pensando mi avesse scambiata per un mezzo di trasporto. Quale poi? Sono piccolissima. Un monociclo?

Ora vivo in un piccolo paese piemontese, un paese senza case di villeggiatura ma con parecchie case abbandonate. In questi mesi ho sentito e pensato tanto e non ho dimenticato niente. Certe volte vedo delle immagini di Milano, strade qualunque, slarghi trafficati, qualche chiesa, sono pezzi di me rimasti lì, momenti di consapevolezza che non sono partiti con me. Forse.

Qui c’è il bosco, il mio Maestro. Non ho più nessuna vita sociale, tanto non ne ero capace. Qualche amica e amico sì però, ci si scrive o ci si telefona. Anche qualche parente cattivo che non ha capito di aver perso il bersaglio: sono andata via!

Per un po’ mi hanno fatta sentire vile, una scampata, ma ora i pensieri degli altri non pesano più così tanto. Perché gli alberi mi parlano. E anche gli asini, più che altro gli asini mi corrono incontro e ci abbracciamo, soprattutto uno, Pippo Magique.

Non trascuriamo gli altri regni, ci sono gli alberi dovunque siamo, qualche animale c’è sempre ovunque, se non altro i cani salvavita delle città. Sono stanchi, un saluto gli fa bene.

Non trascuriamo il respiro, c’è ancora, non è garantito, fa bene ricordarlo, sentirlo, lasciarlo libero, prolungare un po’ l’espirazione, imparare a lasciare. Ogni respiro insegna a lasciare. Inspirare prende, ma sa farlo da sé, espirare invece lascia, esce nel mondo, insegna a mollare la presa.

Nel bosco porto sempre con me la mascherina, se incontro qualcuno (è raro, ma nei periodi in cui si può prendere qualcosa, castagne, funghi, spuntano gli umani) se li incrocio anche per pochissimo, mi infilo la mascherina e gli sorrido, un po’ come un tempo gli uomini che alzavano il cappello, un segno di rispetto, per la comune fragilità.

Imparare a salutarci, a onorarci perché stiamo passando.

Chandra Livia Candiani #Difilosofia #Divita

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Vi sconcerta non riuscire a vedere la gente della Valle?

– Beh, sì, – balbettò il Mago. – Finora sono sempre riuscito a vedere tutte le persone che ho incontrato.

I bambini vogliono essere tutti visti. Per questo parlano, si muovono, e per questo si nascondono e stanno in silenzio.

I bambini desiderano tantissimo essere invisibili. Certe volte solo l’invisibilità salva le cose sacre, come la nostra faccia che non vedendola possiamo sentirci abitanti di un paese invisibile e affacciarci alle finestre, gli occhi. Perdere la faccia davanti agli altri salva la faccia sulla porta dell’invisibile, apre una prospettiva nuova. Noi siamo nascosti dentro. Invisibili. E chi lo sa lancia occhiate agli altri. Ci si riconosce, nell’invisibilità.

Una volta un’amica filippina mi ha detto: “A me non lasciano il posto in metrò, Chandra, io sono invisibile.” E lo diceva come dire io sono inglese. Quindi c’è un’invisibilità che protegge e una che uccide.

Spesso gli invisibili sono invisibili agli intelligenti che poi magari scrivono tanti pensieri intelligenti sull’invisibile e anche sui suoi abitanti. Essere invisibili può fare molto male. Ma i cani vedono quasi sempre gli invisibili, i gatti assolutamente sempre. Come i morti, per esempio.

Nei libri considerati per l’infanzia, l’invisibile è abitabile anche quando non è nominato. Molte impossibilità sono probabili quando lo sfondo, l’amato sfondo degli invisibili dove fare quietamente tappezzeria, è l’accogliente spazio dell’invisibile. L’invisibile è casa. Perché i bambini sono arrivati da poco nel visibile e si ricordano molte cose di laggiù, lassù, là attorno.

Le ferite sono invisibili, soprattutto a scuola e soprattutto con gli adulti spaventati dal cuore. Il cuore è amico dell’invisibile, è attaccato per un filo al visibile, se tiri troppo si spezza e vola via e va a bussare alla foresta dell’invisibile dove si sono salvati tutti gli animali e ogni albero e tutte quante le ferite. Chi vede l’invisibile è impossibile che si dia arie. Speriamo solo che invisibile non sia una parola che sta diventando frequente per accaparrarsi una nuova esclusività, speriamo che non finisca come la luna, con una bandiera ficcata nel collo.

Chandra Livia Candiani #Difilosofia #Divita

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Ho letto una storia Sufi: “Un giorno l’asino di un contadino cadde in un pozzo. Non si era fatto male, ma non poteva piú uscirne. L’asino continuò a ragliare sonoramente per ore, mentre il proprietario pensava al da farsi. Infine, il contadino prese una decisione crudele: concluse che l’asino era ormai molto vecchio e che non serviva piú a nulla, che il pozzo era ormai secco e che in qualche modo bisognava chiuderlo. Non valeva pertanto la pena di sforzarsi per tirare fuori l’animale dal pozzo. Al contrario, chiamò i suoi vicini perché lo aiutassero a seppellire vivo l’asino. Ognuno di loro prese un badile e cominciò a buttare palate di terra dentro al pozzo. L’asino non tardò a rendersi conto di quello che stavano facendo e pianse disperatamente. Poi, con gran sorpresa di tutti, dopo un certo numero di palate di terra, l’asino rimase zitto. Il contadino allora si decise a guardare verso il fondo del pozzo e rimase sorpreso da quello che vide. A ogni palata di terra che gli cadeva addosso, l’asino se ne liberava, scrollandosela dalla groppa, facendola cadere e salendoci sopra. In questo modo, in poco tempo, l’asino riuscí ad arrivare fino all’imboccatura del pozzo, oltrepassare il bordo e uscirne trottando”.

Meditare non è cercare vie d’uscita, ma piuttosto vie d’entrata. È questo che fa l’asino. Entra nella sua situazione, sente la disperazione, grida, poi accoglie quello che sta succedendo, non ne resta sommerso, non è vittima della situazione, si scrolla di dosso la terra e quella stessa terra diventa la sua risorsa.

Chandra Livia Candiani da 'Il silenzio è cosa viva' #Dibuddismo #Divita

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Gli animali domestici, a quanto pare, hanno anche loro gli ultimi desideri prima di morire, ma conosciuti solo dai veterinari che fanno addormentare animali vecchi e malati. L'utente di Twitter Jesse Dietrich ha chiesto a un veterinario quale fosse la parte più difficile del suo lavoro.

I veterinari chiedono ai proprietari di stare vicino agli animali fino alla fine. È inevitabile che muoiano prima di te. Non dimenticare che eri tu il centro della loro vita. Forse erano solo una parte di te. Ma sono anche la tua famiglia. Non importa quanto sia difficile, non lasciarli.

Non lasciateli morire in una stanza con uno sconosciuto in un posto che non gli piace. È molto doloroso per i veterinari vedere come gli animali domestici non riescano a trovare il loro padrone negli ultimi minuti di vita. Non capiscono perché il proprietario li abbia lasciati. Del resto, avevano bisogno della consolazione del loro padrone.

I veterinari fanno tutto il possibile affinché gli animali non siano così spaventati, ma siano completamente estranei. Non essere codardo perché è troppo doloroso per te. Pensa all'animale domestico. Sopporta questo dolore per il loro bene. Stai con loro fino alla fine. 

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