La vita in famiglia è bellissima

Frammenti quotidiani di vita familiare

Oggi ho avuto questo ricordo, pensavo al mondo in cui sono alle cose che avevo fatto, e ho avuto questo ricordo del 2003. Quindi avevo trentatre anni. Troppo pochi. Quelli avevo. In pratica 2003 viene fuori che l'Iraq ha delle armi di distruzione di massa e Stati Uniti e Inghilterra premono per una azione di forza per rovesciare il regime di Saddam Hussein.

A questa cosa delle armi di distruzione di massa non ci crede nessuno. Quando oggi leggo i complottisti sorrido, perché non c'è bisogno di nessun complotto per fare azioni insensate e dettate dal puro potere e dagli interessi personali. In questo caso nessuno crede a queste armi di distruzione di massa e le piazze più volte si riempiono dei soliti rompicoglioni: i pacifisti, ma tanti.

Non ricordo se anche io ho parteciapato, il venerandi trentatreenne era più coglione di quello contemporaneo. Non tantissimo eh, ma abbastanza da non farmi ricordare se ero sceso o meno in piazza. Pensavo, nel 2003, che avrei avuto sempre tempo di scendere in piazza se fosse stato il caso.

Che coglione.

Comunque, che fossi sceso o meno ero davvero convinto che quella guerra non ci sarebbe stata. Voglio dire, avevano tutta l'opinione pubblica contro, tutta. Sono anche la stessa persona che ha pensato che l'iPod e l'iPhone sarebbero stati due fiaschi colossali, per dire la lungimiranza.

Ecco, quando ancora la guerra non era scoppiata e non si sapeva se sarebbe scoppiata o meno c'è stata questa cosa che oggi mi è venuta in mente mentro ero in auto e mi sono detto, appena sono a casa me la riguardo su Youtube.

Tony Blair, il primo ministro inglese, era andato su MTV a convincere i ragazzi che la guerra ci voleva, che l'Iraq aveva delle armi di distruzione di massa. Dico “convincere i ragazzi” perché di fronte non aveva un altro politico o un intervistatore, ma aveva 40 ragazzi di 16 – 24 anni, provenienti, cito dall'articolo che ho trovato in rete, da “United States, Britain, the Netherlands, France, Germany, Iraq, Israel, Italy, Kuwait, Libya, Norway, Palestine, Romania, Russia, Serbia, Spain, Sudan, Sweden and the Ukraine”.

Ecco, io quella sera ho acceso MTV e ho guardato Tony Blair rispondere alle domande di questi ragazzi MTV di tutto il mondo scioccati che l'Inghilterra e gli Stati Uniti partissero per una guerra che era chiaramente senza fondamento.

Di quella trasmissione ricordo una cosa: il volto attonito di Blair, confuso, incerto. All'epoca, sono ricordi di vent'anni fa, mi era sembrato come una mosca inchiodata dai ragazzi alla verità. Cioè: si vedeva che stava mentendo. Che stava provandoci, che ce la metteva tutta per essere convincente e le sue parole cadevano nel vuoto e rimbalzavano sui volti freddi dei ragazzi e si vedeva che lui provava imbarazzo, che non era a suo agio. Capiva che stava fallendo. Avrebbe dovuto convincere e più lo guardavo più si capiva che era tutto falso.

Ora: è un ricordo di vent'anni fa. Ero in auto, oggi, mi sono detto, magari è una deformazione della mia memoria. Magari non era stato così e all'epoca il mio giudizio sulla guerra mi ha fatto vedere in maniera pregiudiziale il tono, i gesti, la mimica di Blair.

E così sono tornato a casa e ho cercato su Youtube la registrazione di quella trasmissione, su Youtube c'è di tutto, per rivederlo e giudicare di nuovo quel momento, quell'azione politica. Magari – ho pensato – potrebbe venire bene per una lezione a scuola.

E qua arriviamo alla momento della memoria e della verità.

Su Youtube non c'è.

Ho cercato un po', ho messo anche il titolo della trasmissione, ho cercato su Google e – almeno a una rapida ricerca non ho trovato nessuna registrazione della trasmissione.

Tutto rimosso.

[se poi qualcuno la trova in qualche anfratto di internet mi avverta, grazie]

[la nuvoletta e la dinamo reloaded]

Insomma succede questa cosa tipo matrix quando i proiettili vanno lenti, io vedo la mia mano che sale con il portatile in mano chiuso nella sua second skin e al rallentatore uno spigolo del portatile urta con il bordo del tavolo e sento che il contraccolpo fa scivolare il portatile che – complice la lucida tela chimica della second skin- scivola via dalla mia mano e per il naturale peso cupertineo crolla verso il suolo mentre io urlo nooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo ed essendo l’azione al ralenty mi getto anche a volo d’angelo sempre urlando ooooooo ma essendoci sciocche leggi fisiche a reggere parte dell’apparato sensibile, prima che arrivi l’endorfina a dare il via ai muscoletti del mio corpo, il portatile è già caduto a terra e ha fatto TUNF.

TUNF.

Mi aspettavo un TUNK ma evidentemente la second skin, lungi dal proteggere effettivamente il prezioso powerbook in essa contenuto, ha almeno la capacità di modificare le consonanti finali delle cadute, trasformandole in qualcosa di più soffice, tipo la kappa in effe: TUNF.

Lo riprendo, tolgo la second skin e scopro che il powerbookino non si apre più e c’è un enorme bozzo come se lo avessi preso a martellate. Guardo il bozzo. Guardo il pavimento. Calcolo il tragitto della caduta del grave (circa 15 centimetri) e decido che quando la logica del powerbook mi darà il suo filosofico addio, prenderò il case di alluminio, lo taglierò a pezzetti con le forbici e lo metterò al microscopio per capire se è vero alluminio o solo la carta stagnola dei Brooklyn pressata con presse meccaniche di grosse proporzioni e poi lucidata con la vernice argentata del DAS.

‘No no cazzo no no no’ dico premendo più volte il pulsantino per aprire lo schermo e lo schermo non si apre e in quel momento arriva il mio collega. “Venerandi ci sarebbe...” inizia e poi mi vede lì chinato sul powerbook che premo il pulsantino sempre più nervosamente. “Venerandi che fai?” Io sto già sudando e non mi giro e poi invece cambio idea a mi giro e lo fisso negli occhi e gli dico che sto caricando il portatile. “C’è una specie di dynamo a mano, quando vedi che il portatile si sta per scaricare tu lo chiudi e premi un po’ di volte il pulsantino e la dynamo ricarica la batteria”. “Ah. Non avevo mai sentito...” “Ma sì dai, è tipo quello di Negroponte per l’africa, solo che invece della manovella c’è un pulsantino, perché apple bada molto al look e ha fatto questo micropulsantino da premere” “Capisco. Ma se quello è il pulsantino della dynamo, lo schermo del computer come lo apri?” “Con lo stesso pulsante” “Ma adesso non si sta aprendo” “C’è un sensore della temperatura, se tu sei calmo e quindi hai il sangue fresco lui apre lo schermo, se invece sei agitato stai sudando sei straincazzato perché tipo ti è caduto il portatile per terra e ora non si apre più lo schermo, allora la pressione del pulsantino carica la batteria, ok? Altre domande?” “Forse no” “Ottimo, allora lasciami con il mio dolore che devo finire di caricare la batteria” dico e continuo e premere il pulsantino e lo schermo non si apre. Il collega resta lì a guardarmi per qualche secondo poi sento che scivola via.

Io continuo a premere e inizio a fare anche un po’ di pressione per vedere se si sblocca e in quel momento squilla il telefono, guardo la lucina è il 313, che non è solo la targa dell’auto paperino, ma anche il mio interno. Tiro su la cornetta con una mano e la metto tra orecchia e spalla e con la mano libera continuo a premere il pulsantino, inizio anche a crederci un po’ a questa cosa che premendo si carica la batteria, voglio dire tutta questa energia che ci sto mettendo non può mica sparire nel nulla.

“Sì?” dico con voce infastiditissima, ma dall’altra parte sento l’economo che mi urla, adesso è apparsa! vieni! adesso! veloce che poi sparisce! e butta giù e io lascio perdere il Powerbook e mi lancio per le scale per salire fino al piano dell’economato perché è una settimana che l’economo mi dice che ad un certo punto della giornata gli appare una nuvoletta come di un fumetto, in basso a destra dello schermo gli dice ciao sono Windows e poi aggiunge cose molto importanti sulla sicurezza, c’è scritto anche attenzione e di cliccare per fare qualcosa che l’economo non capisce e ogni volta mi chiama per sapere se deve farlo e quando io arrivo la nuvoletta se ne è andata da sola e restiamo lì in silenzio ad aspettare e dopo un bel po’ l’economo mi dice, ma cazzo ti giuro che c’era e io dico ma scherzi? ti credo ma se non la vedo mentre c’è mica ci posso fare niente e me ne vado e l’economo non ha preso bene questa cosa, sta dimagrendo, si rode pensando a quella cosa a cui dovrebbe fare attenzione, ma che non sa cosa è, va giù duro di metafisica e pensa che sia un parto della sua mente che in realtà quella nuvoletta non esista e quindi io arrivo un po’ come un salvatore in fortissimo debito di ossigeno e appena entro ansimando nell’ufficio dell’economo vedo da distante il monitor e intravvedo in basso a destra una nuvoletta che non faccio tempo a dire ‘uh’ è sparita e l’economo si gira verso di me e dice eccoti! guarda! e si gira di nuovo verso il monitor e la nuvoletta non c’è più e l’economo dice nooooo! e poi si volta verso di me con il viso bianco e mi dice “l’hai vista?, cazzo l’hai vista almeno?” e io ansimo ancora un po’, mi metto una mano sul ginocchio e poi scuoto la testa e dico no. “Mi dispiace ma quando sono arrivato non c’era nessuna nuvoletta” e l’economo si mette la faccia fra le mani e lo sento gemere, e io ansimo ancora un po’ e poi gli dico, vabbè io vado di sotto, se ti capita ancora poi dimmelo eh, e lui manco mi risponde geme e basta.

Mentre scendo le scale fischietto, poi mi viene in mente del powerbook e smetto mi sembra la peggior giornata del mondo. Apro la porta del mio ufficio e vedo a) il mio powerbook con lo schermo aperto b) il mio collega di cui sopra che si sfrega l'indice sul maglione di lana, sembra voglia scaldarsi il dito o qualcosa del genere. Il suo volto tradisce una certa sofferenza. “Ma...” dico io indicando il powerbook e lui mi dice sì scusa se te lo aperto volevo provare a caricarlo ma si vede che ho la pelle fredda e quindi si è aperto, ho anche provato a scaldare il polpastrello sfregandolo ma niente, se ci provo si apre ogni volta. “Cioè questa cosa della batteria a dito è una figata e se funzionasse anche con me magari passo a Apple” Io scuoto la testa e mi avvicino a lui e gli prendo la mano in mezzo alle mie, con fare un po’ ieratico. “Hai la pelle fredda” sentenzio poi e gli mollo la mano e spiego che c’è un settaggio da fare, ma che lo fanno quando comperi la macchina. “Ogni powerbook ha un settaggio diverso, dovresti parlarne con il negoziante quando lo compri, loro prendono la tua temperatura e poi fanno il settaggio”.

“Ah” “E’ una cosa personalizzata. Si vede che tu hai la pelle fredda” “Lo dice anche mia moglie” “Vedi?” “Però lei si riferisce ai piedi” “Non andare oltre. C’è un limite oltre al quale la confidenza tra colleghi è bene che non si addentri” “Ok” “Comunque resterà fra noi” “Ok. Grazie” dice e esce un po’ furtivo e io chiudo la porta e mi siedo. Mi giro verso il powerbook, richiudo lo schermo e poi mi metto lì con il dito a ricaricare la batteria per una buona mezz’oretta.

“A volte mi capita di uscire dal mio corpo e di vedere le cose da un punto esterno molto lontano nel tempo e nello spazio e tutto diventa molto mitico, mi vedo davanti al mio schermo 21 pollici con Neooffice che macina macro e fuori c'è un cielo color cemento, di fronte la seriale ripetizione di tanti appartamenti popolari, e -siamo verso le undici del mattino- mi viene in mente di essere qualcuno in qualche posto collegato ad una rete globale, tanto più piccolo il mio ufficio, tanto più grande è la rete globale

e poi alzo la testa e penso che adesso su nettuno stanno tendendo i cavi per la digitale, i piccoli robottini di Nettuno stanno tendendo i loro cavi ottici e penso di collegarmi ai robottini e vedere via webcam il nudo terreno gelato di Nettuno e cerco l'ip di connessione e quindi mi sento tanto piccolo e tanto sostituibile, mi sento così seriale anche io, un mondo fatto di tanti venerandi seduti alle undici e mezza a bersi il loro caffè di fronte al loro terminale pensando che quel momento, il momento in cui io penso queste cose, si potrebbe dilatare per sempre come se si allargasse una finestra del finder per uno spazio che eccede i limiti fisici del 1024 per 768, o come -in seconda istanza- come se quel momento potesse tornare di volta in volta e qui faccio un inciso,

non so se vi è mai capitato di avere dei rapporti sessuali con una persona, a me sì ne porto alcuni frutti del peccato, ma poniamo adesso che non ci siano frutti del peccato, parliamo in generale del momento ugualmente mitico dei tre minuti immediatamente successivi al rapporto sessuale, magari si resta lì a fissare il soffitto, magari uno va in bagno e l'altro controlla su internet la posta o mette su un disco di Prince o un caffè, ci siamo capiti, ecco, quel momento io lo penso come il buco che c'è sull'ago e penso che la vita sia un inanellamento di quei buchi con un filo che unisce idealmente tutti quei tre minuti post rapporto e li unisce in un unico momento della durata totale relativamente breve, in prospettiva voglio dire, ecco che c'è una vita parallela fatta da tutti questi momenti post rapporto sessuale che noi riconosciamo per il linguaggio del corpo, il nostro corpo in quei tre minuti parla una sua lingua diversa, e quindi -sto per finire- dopo ogni rapporto io riconosco il venerandi che avevo lasciato dopo l'ultimo rapporto e vedo che lui sta continuando la sua vita attraverso il tempo e di tanto in tanto torna a salutarmi, torniamo ad avere per tre minuti lo stesso respiro e il corpo fatto di fibre tanto umane, ecco la fine dell'inciso,

ritorno nell'ufficio fuori dal mio corpo, mi vedo dall'esterno che penso queste cose e sospiro e faccio un salvataggio e scendo a prendermi una focaccia al bar dell'istituto, per la cronaca questa cosa mi succede ogni volta che metto il disco Heathen di David Bowie non mi chiedete perché è anche un disco recente niente effetto madeleine proustiane, comunque io scendo al bar con il mio Powerbook sotto il braccio e vedo gli altri venerandi che lavorano, con il loro Powerbook sotto al braccio, e alcuni mi salutano, altri passano come se non mi conoscessero, e io penso che bello essere immerso in così tanti venerandi e cammino abbastanza spensierato e penso che questa cosa che mi succede è perché sto cambiando, me ne rendo conto tenendo ben stretto l'alluminio tiepido del Powerbook che questo momento mitico è il momento in cui sto cambiando e certe cose prendono tutto un altro aspetto e capisco che anche voi che state leggendo Macworld,

anche voi state cambiando e anche voi ve ne siete accorti, aprendo un'applicazione, sentendo un rumore, trovando dietro a un armadio a cassetti un floppy disk blu da tre e mezzo senza etichetta che chissà quando c'è finito lì dietro e lo guardate senza sapere cosa c'è dentro, magari c'è un pezzo di voi venerandi che è stato completamente dimenticato, cancellato, e proverete malinconia, un vuoto improvviso allo stomaco, sentirete la nostalgia del suono del modem, dei monitor a fosfori ambra, delle porte adb che è meglio non staccarle a computer acceso anche se lo fanno tutti da sempre, dei floppy disk a cinque pollici e mezzo quelli tutti molli, dell'icona a forma di disketto di Word che vuol dire salva, del dinghetto che fa quando ha salvato, di mia moglie bionda ventenne che ti chiama perché la tastiera del suo Macintosh plus non funziona più e tu venerandi vai da lei e scopri che la tastiera è solo staccata dietro e capisci che non è distrazione ma amore, di quando hai fatto per la prima volta un collegamento localtalk tra due Macintosh con il cavo stampante e hai guardato il tuo amico venerandi e la tecnologia vi brillava negli occhi,

di Vanessa Paradise che canta Joe le taxi su dj television e tu capisci che oltre al macintosh c'è dell'altro, del Sinclair Spectrum di tuo cugino che carica interminabili giochini dal registratore a cassette e tua zia da dietro che guarda e chiede se volete fare la merenda, di quei cosi che sembravano delle pinzatrici ma in realtà servivano a fare un piccolo buco rettangolare nei floppy disk da 800 k per farli diventare dischi da 1400k che poi dopo che avevi fatto il buco ne buttavi via metà perché non funzionavano più, dei primi cd 1x che sono più lenti dell'hard disk ma ci sta un sacco di roba, di te con primogenito tremesenne in braccio alle quattro di notte che con un braccio reggi il figlio tenendogli il viso premuto sul tuo petto su cui hai messo un tattico ciuccio e con la seconda mano puoi cliccare davanti al monitor dell'iMac tangerino che fa balenare nella sala la sua spettrale luce bluastra, di iTunes che manda le radio new age con suoni che non sai da dove arrivano e non sai neppure dove andranno a finire,

del momento in cui il disketto viene sputato fuori e i computer dice che no, ragazzi, non è proprio leggibile, delle incomprensibili traduzioni della Jackson nei libri per la programmazione dei microprocessori z80, del momento in cui il sistema si aggiorna e ti dice benvenuto in Macintosh e il tuo computer sembra dirti, da oggi meraviglie bello, grandi meraviglie e di tutte quelle cose che rimarranno per sempre addormentate nella ram carnale della nostra testa, cose che danno il senso di un rapporto con un prodotto di mercato che queste cose non le aveva neanche lontanamente previste, perché i computer diventano obsolescenti e si cacciano via, noi invece ci modifichiamo e l'obsolescenza ce la teniamo dentro, diventa un pezzo di noi venerandi che siamo il g5 biprocessore a 2 gigahertz e rotti, ma dentro quel g5 c'è ancora un 6502 che lavora come un muscolo incandescente e non si può proprio togliere” finisco di dire e apro la finestra perché l'acqua che bolle ha riempito la cucina di vapore, sembra di essere in piscina.

“Cioé?” mi chiede Elettra alzando la testa dall'iBook. “Cioé niente” dico io. “E' il pezzo per Macworld” “Mh” fa Elettra e scuote la testa e poi dice che Lotti questo non me lo fa passare. “Cioé -dice- già ha poco senso che uno nell'epoca di internet comperi una rivista di carta per computer, se poi la apre e ci trova cose che parlano di tutto meno che di macintosh, quello non la compera più”. Scuote ancora la testa e ritorna a guardare lo schermo dell'iBook bianco che tiene sulle gambe.

“Ecco ecco” faccio io indicandola. “Anche delle riviste di carta che parlano di computer sentiremo nostalgia. Adesso tutti a dire che sono obsoletissime, che non valgono i soldi della spesa, poi appena una muore, beh ti accorgi che non c'è più e non c'è manco più la linea che univa l'ultimo numero uscito a tutti quelli usciti prima. Quando comperi una rivista comperi anche quella linea, su internet non c'è quella linea, non c'è niente, non rimane niente. Ci sono siti che leggevo tutti i giorni che adesso non sono neppure così sicuro che siano esistiti veramente”. Tossisco.

Elettra annuisce e dice sì sì, ma intanto me lo bocciano perché non fa ridere e io le dico che semmai ci metto due o tre “cazzo!” in mezzo che di solito funziona ma capisco che Elettra non mi ascolta più, sta giocando a Solitaire 'till down, e io sento già nostalgia di Elettra con l'iBook sulle gambe che gioca le sue migliaia di partite a Solitaire 'till down: anche di questo proverò nostalgia.

E infatti, oggi, 2023, a rileggere questo racconto di più di vent'anni fa, mi sento come un foro dentro alla fotografia in movimento che ho davanti, un tunnel che mi fa vedere cose che non esistono più.

Sospiro e vado in bagno, alzo la tavoletta e vedo i colori dell'autunno: tiro la catena e il rumore dello sciacquone copre il turbinio dei rotori delle astronavi in partenza per Nettuno.

[diario dalla cucina]

Sono qua che leggo ancora Tomorrow, and tomorrow and tomorrow e – per essere un romanzo che non mi piace – non è male. Sono a un terzo, proseguo, ma senza ansie. La vicenda racconta una storia d'amore nel mondo dei programmatori di videogame, il che lo rende piuttosto atipico. Mi disturba, l'ho già detto, che i riferimenti culturali siano sempre quelli giusti, sia eliminato il rumore di fondo della vita reale, rendendolo in alcuni punti una specie di bigino uso fiction tv.

Tipo, stamattina la protagonista metteva a posto i cd della sua collezione di giochi per PC: Commander Keen, Myst, Doom, Diablo, Final Fantasy, Metal Gear Solid, Leisure Suit Larry, The Colonel's Bequest, Ultima, Warcraft, Monkey Island, The Oregon Trail e, dice, “una trentina di altri”. E io leggo la lista e mi irrito perché sono tutte strizzate d'occhio al lettore. Dove sono gli altri? Dove sono i mezzi giochi, le boiate, i lavori di passaggio? Perché fare passare l'idea che esistano solo i capolavori nella vita di una persona e che uno sappia riconoscerli e tenerli con sé con tanta facilità? Bah.

Ieri in classe ho fatto provare sette studenti a fare una breve parte di Sei personaggi in cerca d'autore senza usare il libro, a memoria. Mi sono seduto in fondo alla classe e li ho lasciati fare. Piuttosto istruttivo. Nella loro versione, siccome lo studente che faceva il capocomico non aveva studiato la parte, il dramma termina con i personaggi che scocciati lasciano il palco e vanno a cercarsi un altro capocomico in altro teatro.

Interessante vedere come si divertissero a vedersi recitare e vedere emergere il diverso impegno e le diverse paure: lo studente che davvero si è imparato tutta la parte, abbastanza bene, e fa muovere lo spettacolo verso una conclusione spostando tutti gli altri con sé; quello che in classe fa sempre casino che – sul palco – si capisce che gli dà fastidio di non sapere la parte, ha paura di essere inadeguato e cerca strategie per essere se stesso e anche il personaggio che sta recitando; gli altri che un po' prendono in giro quelli che recitano un po' sono curiosi di seguire la storia, di vedere cosa ne verrà fuori.

Ho registrato tutto con il cellulare per rivederlo e mi sono anche reso conto che a volte è utile rivedere certe cose. La mia prima impressione era che il tutto fosse andato troppo alla carlona, mentre – rianalizzandolo con calma – ecco no, i punti in cui avevano lavorato erano più di quelli che mi erano sembrati da vivo. E a un certo punto si sente nella registrazione la mia voce, uno studente m chiede perché non ho tolto la cattedra e io gli rispondo perché sta andando a pezzi. E la mia voce è terribile, balbetto, sono incerto, ho una voce orribile.

Mi riascolto a casa e mi rendo conto che per buona parte della mia giornata io parlo senza ascoltarmi, ho una orribile voce automatica che dice cose, mi succede sempre quando mi riascolto nel mio parlare quotidiano e non controllato e quando mi succede mi innervosisco e vergogno, ho una voce mutante che non prende posizione, che si piega e si mette assieme per frammentazioni.

E mi dico come è possibile che sia la stessa voce di quello che poco prima era lì, davanti a loro a declamare Vogliamo tutto di Balestrini. Non ho la registrazione di quello, ma sono sicuro che la voce era completamente diversa. In pratica in me convivono – come in tutti – decine di venerandi diversi, ognuno con la sua voce, con il suo comportamento, e sono tutti appicicaticci e nervosi.

Questo per dire che agli studenti ho detto esattamente questa cosa, la settimana scorsa, ma non dicendo che era una mia idea, ma di Pirandello. Abbiamo poi letto un pezzo dove Pirandello effettivamente dice queste cose.

Alla fine gli ho detto di prendere un foglio, di fare un cerchio, di dividerlo in spicchi e di dirmi quante personalità erano nascoste dentro di loro. Quanti Claudia, Valerio, Fabiana, Enzo ci fossero dentro di loro e quanto spazio prendesse ognuno.

Me li hanno restituiti: beh, dentro di loro convivono allegria, simpatia assieme a ansia, insoddisfazione, senso di inadeguatezza. Quello che sono quando sono a scuola, quello che sono con gli amici, quello che sono quando sono con i genitori e quello che sono quando sono da soli. Ognuno in un proprio spicchio incomunicante. Messo nero su bianco.

Che gran casino.

Ieri poi camminavo in centro, avevo portato terzogenita a canto e camminavo pensando al pezzo che avevo letto di Vogliamo tutto, la scena dell'assemblea degli operai che dicono di volere tutto, di non volere più aiutare lo stato capitalista, di non volere più piccole concessioni, piccole riforme per farli stare abbastanza bene da aiutare i padroni a continuare a fare soldi.

E camminando nel quadrilatero genovese vedevo le insegne dei negozi, le storie appese ai muri, come tutto portasse a essere singoli, soli, unici con i propri prodotti contro al mondo. Quel senso di collettivo, di assemblea, di diritti condivisi non c'era più. Se sto male, ho pensato, non c'è nessuna società dove posso andare a piangere. Il Synlab lì, di fronte a me, mi avrebbe detto se avevo qualcosa di rotto dentro, pagando. Le storie di vita del caffè appese al muro erano lì per chi il caffé se lo pagava.

C'era energia e luce e calore emanata da ogni singola particella catastale, ma quell'energia, quella luce e quel calore avevano un costo che non era collettivo. Lo storytelling, i presidi culturali, i prodotti etnici mi portavano la loro narrazione e volevano che io e la mia carta di credito entrassimo a far parte di questa bella fiction analogica.

E così torno a casa e secondogenito è lì, con il suo sorriso ambiguo che ci aspetta, terzogenita si siede anche lei accanto a lui e io mi acciambello tra di loro; partecipiamo al rito collettivo della prima partita al nuovo Zelda, il giorno dell'uscita.

E siamo con Link a correre e saltare, unire oggetti, assieme a milioni di altri come noi, invisibili e lontani.

— papà — dimmi terzogenita — mi aiuteresti a fare l'analisi grammaticale? — ok — allora, la frase è “a mia sorella ho prestato un libro” — ok, partiamo da “a” — “a” è una articolazione articolata — certo — giusto? — le articolazioni sono quelle che mi sono spaccato per colpa tua — ah — di a da in con su per tra fra — ah! — cosa sono? — preposizioni! — brava — preposizioni articolate! non avevo sbagliato tanto allora... — non è articolata — ah — mi dispiace — allora è semplice — una banale generica preposizione semplice

[secondogenito con terzogenita]

— terzogenita — eh — come si chiama più chi lavora nella carneficina? — killer — ... — ma se intendevi macelleria, macellaio — ... — ... — intendevo dire macelleria — allora macellaio

Una cosa che mi ha molto aiutato a essere lo scrittore che sono, nel bene e nel male, tra le tante cose che sono sono anche uno scrittore, ci devo convivere, e uno scrittore anche che vive alla marginalità della scrittura convenzionale e rassicurante, uno scrittore che scrive male, quando può, e che scrive da dio, quando riesce, comunque, una cosa che mi ha molto aiutato a essere quello che sono quando scrivo sono due.

La prima l'ho già raccontata, è successo quando ho iniziato a scrivere in maniera costante, fine scuole elementari inizio scuola media e ho trovato questa docente delle medie che pensava che io avessi talento nella scrittura, come nei film americani non so se avete presente, però a Manesseno, una frazione che alita provincia su Bolzaneto, fate conto una strada costruita a fianco di un torrente perennemente o in piena o in secca, un po' di case, capannoni industriali, boschi.

Lì, in questa scuola marginale questa docente leggeva i miei racconti e le mie poesie e diceva che avevo talento, mi faceva sedere in cattedra e leggere i miei racconti umoristici ai miei compagni di classe, io proto-balbuziente, mi sedevo e leggevo, nella pausa che c'era tra la partenza di questa docente dalla sede centrale all'arrivo nella succursale dove stavamo noi, in pratica facevo sia letteratura che sorveglianza.

Quando decisi di fare il classico lei mi regalò un foglio con l'alfabeto greco e una sua dedica, lo tenni per decenni con me, ora non so dove sia, forse l'ho buttato in uno dei tanti cambi di casa o di personalità. Mi chiede di dedicarle il mio primo libro perché lei era sicura che io sarei diventato uno scrittore, e io effettivamente glielo dedicai, diciassette anni dopo, più o meno.

La seconda cosa che mi ha molto aiutato è stato il fatto di avere attorno amici che sono l'esatto opposto degli yes man. Le persone che conosco da più tempo, con cui parlo delle cose che scrivo, a cui di tanto in tanto provo a fare leggere le cose che faccio mentre le faccio, quando faccio queste cose, alzano gli occhi al cielo. Non rispondono ai messaggi. Dicono “bella merda” e mi restituiscono tutto.

Decenni che mi sono vicine e quando parlo di scrittura mi annegherebbero in una pentola di acqua bollente, alzano il sopracciglio, dicono vabbè Venerandi vaffanculo e cambiano discorso, per ogni cosa che faccio vanno a vedere il punto debole e lì picchiano, saggiano il vaso con l'unghia per vedere il momento della rottura. Sono perfetti no-man, da sempre. E sono poi sostanzialmente le uniche persone che frequenti.

Quindi quando scrivo qualcosa, in genere, lo faccio assolutamente senza rete. Tanto so che è inutile. Levati i bib(h)icanti che sono invece meravigliosi, ma malati. I bib(h)icanti sono malati di vita. Siamo intellettuali ingabbiati nella vita e quindi ci raccontiamo cose incredibili, avanti dieci, venti anni rispetto a tutto il resto che abbiamo attorno. Tanto sappiamo che non le realizzeremo mai. Abbiamo idee folgoranti, come nei film americani, ma senza i fondi. Ce le raccontiamo, le progettiamo, facciamo schemi.

Poi – come spettri – svaniamo nella vita. Facciamo le nostre professioni, lavoriamo, campiamo figli, case, mutui, ravvedimenti operosi. Affetti e dolori. Poi all'improvviso, in genere è sempre così, uno dice che c'è una perfomance da fare, un incontro su un tema assurdo, chessò, la rivolta iconoclasta nella canzone pop slovacca, e dobbiamo scrivere un testo, cazzo, dobbiamo assolutamente andare e noi – ogni volta – in due o tre settimane buttiamo giù tutta la performance, le voci, i tempi, le note di scena, tutto come se fosse la cosa più naturale del mondo.

E di colpo ci vediamo, erano sei mesi, un anno che non ci vedevamo, ci vediamo, ci sorridiamo, siamo tutti invecchiati, e saliamo sul palco, se c'è un palco, su un prato, nel mezzo di una chiesa sconsacrata, per strada, dentro un pub, dipende, e ci mettiamo a leggere le nostre cose, facciamo i cori, facciamo la nostra cosa così, all'improvviso e finita la cosa ci ritiriamo, commentiamo quello che abbiamo fatto, abbiamo dei bicchieri in mano, ci sentiamo degli dei scesi in terra per mezz'ora e poi torniamo a essere spettri.

Così, in genere, le cose di scrittura le faccio con persone che non conosco. Che non ho mai visto. Lavoro per mesi all'editing dei miei romanzi con persone che non ho mai incontrato, progetto installazioni di poesie elettronica, faccio corsi di letteratronica, storie a bivi per la scolastica senza mai vedere una faccia. Documenti condivisi. Mail che iniziano con R: o RE: e vanno avanti per anni, a volte.

È una corrente che mi attraversa, sterile, non avete idea di quanto sia sterile mettersi lì e scrivere, quanto tempo rubi alla vita immaginarsi delle cose in maniera costante e programmatica, che senso di vuoto e di colpa nasca dopo una serrata sessione di scrittura. Ma è una corrente, come una bolla, avete presente le bolle sottopelle, quelle che diventano poi bianche e piene di pus.

Non si assorbe nella vita la scrittura, non puoi metterci sopra della crema. Tutto quel materiale, che tu voglia o no, si accumula. Non ha suono prima che tu lo scriva. È un pus incolore e indolore che cresce e che non sai cosa sia finché alla fine – sfinito – non ti metti lì davanti allo specchio e premi, parola dopo parola, lemma dopo lemma, e vedi cosa esce fuori, te lo trovi davanti a te che si contorce e dice, sono vivo, sono qua, sono fuori, finalmente.

[diario dal letto]

Sto leggendo questo libro che ho preso quasi per caso, avevo letto alcune righe qua sul profilo di qualcuna e poi – in chat con i poeti – Paola Malaspina me lo ha consigliato, e ieri sera ero nel letto con tutto il resto della camera spento, anche Elettra dormiva e io tenevo in mano le pagine luminose di questo ebook e mi sono trovato nel felice momento del tunnel, quando sei dentro al romanzo e tutto il resto del mondo resta fuori.

E questo mi piace del romanzi, di alcuni romanzi, di essere in fondo una specie di terapia a basso costo, vedi cosa è successo a personaggi più o meno immaginari e poi pensi alla tua vita, alle tue sfighe, alle tue – ecco – alle tue mitologie e vedi di rinforzarle, di rinfrancarle: c'è bisogno di una piccola costante dose di immaginario a pioggia nella vita di tutti i giorni per far emergere la volontà fantastica che abbiamo, altrimenti.

Altrimenti, beh, qualcuno mi ha scritto che non devo usare espressioni come ehi ragazzi, che fa molto finto film americano, ma – ehi ragazzi – se togliete questa piccola dose di immaginazione sparsa come parmigiano sulle cose della vita, rischia che altre narrazioni si facciano strada, narrazioni tossiche, piccole, pelose, narrazioni che fingono di essere la vita vera, la realtà e che non sono la realtà, sono il mondo reale raccontato male.

Non è facile raccontare il mondo e lo facciamo continuamente, anche i non scrittori, anche chi scrive post di due o tre righe o condivide foto e meme che chissà chi li ha fatti; siamo tutti lì a raccontare il mondo, tutti i santi giorni, e non è facile raccontare il mondo, anzi, diciamolo, la maggior parte delle persone racconta il mondo di merda, altro che spruzzata di immaginazione, piccoli, costanti, micro, racconti, tossici, di, merda. Continui.

Mi destreggio tra una devastazione narrativa di merda, altro che. Non si tratta qua di saper scrivere bene o male, c'è un sacco di gente che scrive da dio, si tratta di saper raccontare il mondo. Non è nemmeno la stessa partita. Si tratta di saper scrivere da dio e usare questo super-potere, costantemente, diffusamente, come certe cucce per i cani.

Quindi – niente – sono le sette e quarantasei, mi sono svegliato alle cinque e mi sono visto dall'esterno, ho pensato alle foto di me stesso viste dall'esterno e ho pensato come penso di volerci riuscire dentro, e ho pensato a momenti in cui le cose non vanno, in cui la testa va a rotoli, in cui hai dolori dentro e fuori dal corpo e ho pensato anche che quei momenti sono di preparazione all'emersione.

Non so se si vede dal bordo della nave, ecco, là, dove sto indicando con il dito, vedete le bollicine, ecco che ora si vede l'ombra e ecco che emerge davvero, eccolo, godetevi tutta la massa che esce dall'acqua, caaazzo, è davvero un grande grosso pezzo di carne che esce, fa la sua torsione del corpo, spruzza la sua parte di lessico e immaginazione, e poi ricade a peso sulla superficie dell'acqua, sulla routine standard, la sfonda una seconda volta, nel verso contrario, e poi sparisce sotto.

Basta, finito, spero lo spettacolo sia stato di vostro gradimento, a me non è dispiaciuto, sono sempre qua immobile sul letto ma ora faccio i miei sforzi, cerco le mie stampelle, cerco la ciabatta del piede buono, mi metto in posizione semiverticale, sento tutti i dolori che arrivano alle varie parti del corpo, mi aggrappo, mi rimetto in piedi e vado a mettere su un po' di tea, a farmi dei selfie, a postare e condividere, a fare lo splendido tra i fornelli e il bidoncino della differenziata.

Aggiungo, come postilla aggiunta dopo: la felicità è sempre irragionevole.

[dialoghi con i figli: neologismi]

— papà — dimmi terzogenita — ho trovato il lavoro che voglio fare se non riuscissi a fare la cantante — ah, quale? — la casalinga — uh — però non ho capito bene come vengono pagate — allora, in realtà la casalinga non viene pagata — ah — cioè, non direttamente, ci vuole qualcuno che vive con te che venga pagato dall'esterno e lui paga te — mh, allora mi dovrò trovare un marito barra a — “marito barra a”? — marito o marita — ok — si può dire “marita”? — no, ma ho afferrato il concetto

***

— secondogenito — eh — è mica passata la mamma? — non lo so — ho sentito la sua voce — non stavo pagando attenzione — ...

[diario dal divano]

Comunque ieri mi sono seduto sul divano per fare compagnia a terzogenita che – aspirante al mondo dello spettacolo – guarda con piacere il Festival, lo aspetta proprio. Serpi in seno come se piovesse. Dopo un figlio che ama la matematica pura, una figlia che vuole cantare. Comunque, tavolino di vetro, cuscino, piede sul cuscino, il festival.

È anche la prima volta che guardo la televisione da un bel po' di tempo e quindi è stato peggio. Prima del festival c'era un qualche programma che parlava del festival, una specie di propaganda che propaganda se stessa, una reclame nella reclame e – a un certo punto – intervistano qualcuno che poi avrebbe fatto qualcosa nel festival, e lo intervistano nel camerino mentre una donna le fa il phon.

E inquadrano, in primissimo piano, il phon, cioè la marca del phon. È chiaramente uno sponsor, infatti poi il marchio ritornerà nella pubblicità in maniera esplicita qualche minuto dopo, ma in quel momento era pubblcità occulta e sono rimasto sbalordito, ho guardato terzogenita che fissava lo schermo senza dire niente, aveva messo la testa sul mio petto, aveva undici anni, era felice.

Poco dopo una ragazza era su un poggiolo con la scritta enorme Generali e anche questo era uno sponsor. Tutta questa prima parte di preparazione era una specie di coro greco che commentava, ma non tra atto e atto, ancora prima dell'inizio, ma questo coro greco serviva a incassare soldi dagli sponsor.

Mi sono sentito così dentro gli anni ottanta, altro che Stranger Things.

Poi è iniziato il festival vero e proprio. La retorica, il linguaggio usato dalle persone che presentavano, era triste. Era tutto vecchio. Le facce dei presentatori sembrava che avessero le rughe già trattate con Photoshop, sulla pelle. C'era questa idea – morta – di gioventù in corso. Di disfacimento.

Ad un certo punto, uno dei presentatori ha detto la frase, parlando del palco che era stato ripulito. “Sono passate le donne delle pulizie a pulire”. E ho pensato ma che cazzo. Le donne delle pulizie. I presentatori sono maschi, le presentatrici appaiono, come spettri, bonus level di tanto in tanto. Le donne presentatrici sembrano più degli ospiti a cui i maschi concedono di fare qualcosa.

Io, giuro, non ho detto niente. Dopo un minuto terzogenita mi dice, sento la sua voce che mi esce dal petto. “Ma solo le donne puliscono? Voglio dire, solo le donne fanno i lavori di pulizia?”. E io ho detto di no, che effettivamente è un lavoro che spesso viene fatto dalle donne, ma che esistono anche uomini che puliscono. Li ho visti. Terzogenita ha detto ok.

Poi sono apparsi tre cantanti che – quando io ero un bambino e mia madre guardava il festival – erano vecchi. Qui erano più che vecchi, erano tre pezzi della televisione, intendo il tubo catodico, tre pezzi di un puzzle che a nessuno oggi passerebbe per l'anticamera del cervello di mettere insieme. E per tre quarti d'ora buoni sono rimasto a vedere questa cosa surreale, queste tre persone che impattavano.

Inconsciamente mi sono chiesto perché. Questo bisogno di avere un passato. Sarà un preludio a un qualche tipo di fascismo, mi sono chiesto, non avere più nessuna fiducia nel contemporaneo. Terzogenita era affranta. “Ma non la piantano più!” si lamentava. Lei voleva vedere i cantanti giovani. Le era piaciuto uno, poco prima, il solito dipendente dell'autotune. “Sembra un egittista” aveva detto. “Uh?”. “Uno nato in Egitto” ha spiegato. “Egittista”.

Ho tre figli che sanno l'inglese meglio dell'italiano ed è un fiorire di neologismi ogni momento. Comunque.

Ho anche cercato di difenderli i tre vecchi, ho detto a terzogenita, però senti che voce che hanno ancora, “tu che ami il canto dovresti apprezzare”. Anche se usavano tutti i trucchi che potevano per reggere, la voce c'era ancora, avevano più voce loro che i rapper ventenni di prima o i cinquantenni che sarebbero arrivati di lì a poco.

La voce sopravviveva a tutto il resto, al corpo. Si sentiva il suono della loro voce sforzata e irreale all'interno della microfonia che la amplificava mentre il corpo si disfaceva, tenuto insieme dall'esercizio e dal benessere. Erano i guerrieri invincibili richiamati alla fine di Nausicaa, che mandavano il loro raggio distruttore e poi sarebbero crollati, sotto al peso del tempo.

Poi, la finta emozione dei ragazzini, il finto rispetto verso di loro, i loro vent'anni e rotti, quel posto così piccolo, in un piccolo punto della Liguria. È normale dei baracconi essere finti, è la loro natura. Meno, la loro moltiplicazione. La diffusione massiva del loro linguaggio.

Alla fine, dopo il ritorno di due rapper normalizzati, dopo così tante canne adesso sul palco a cantare il valore del mettere la testa a posto per il mantenimento della famiglia, altri morti sul palco, ho detto a terzogenita basta, che c'era a scuola il giorno dopo. Lei ha protestato, ma pochissimo. Abbiamo spento tutto.