La vita in famiglia è bellissima

Frammenti quotidiani di vita familiare

“A volte mi capita di uscire dal mio corpo e di vedere le cose da un punto esterno molto lontano nel tempo e nello spazio e tutto diventa molto mitico, mi vedo davanti al mio schermo 21 pollici con Neooffice che macina macro e fuori c'è un cielo color cemento, di fronte la seriale ripetizione di tanti appartamenti popolari, e -siamo verso le undici del mattino- mi viene in mente di essere qualcuno in qualche posto collegato ad una rete globale, tanto più piccolo il mio ufficio, tanto più grande è la rete globale

e poi alzo la testa e penso che adesso su nettuno stanno tendendo i cavi per la digitale, i piccoli robottini di Nettuno stanno tendendo i loro cavi ottici e penso di collegarmi ai robottini e vedere via webcam il nudo terreno gelato di Nettuno e cerco l'ip di connessione e quindi mi sento tanto piccolo e tanto sostituibile, mi sento così seriale anche io, un mondo fatto di tanti venerandi seduti alle undici e mezza a bersi il loro caffè di fronte al loro terminale pensando che quel momento, il momento in cui io penso queste cose, si potrebbe dilatare per sempre come se si allargasse una finestra del finder per uno spazio che eccede i limiti fisici del 1024 per 768, o come -in seconda istanza- come se quel momento potesse tornare di volta in volta e qui faccio un inciso,

non so se vi è mai capitato di avere dei rapporti sessuali con una persona, a me sì ne porto alcuni frutti del peccato, ma poniamo adesso che non ci siano frutti del peccato, parliamo in generale del momento ugualmente mitico dei tre minuti immediatamente successivi al rapporto sessuale, magari si resta lì a fissare il soffitto, magari uno va in bagno e l'altro controlla su internet la posta o mette su un disco di Prince o un caffè, ci siamo capiti, ecco, quel momento io lo penso come il buco che c'è sull'ago e penso che la vita sia un inanellamento di quei buchi con un filo che unisce idealmente tutti quei tre minuti post rapporto e li unisce in un unico momento della durata totale relativamente breve, in prospettiva voglio dire, ecco che c'è una vita parallela fatta da tutti questi momenti post rapporto sessuale che noi riconosciamo per il linguaggio del corpo, il nostro corpo in quei tre minuti parla una sua lingua diversa, e quindi -sto per finire- dopo ogni rapporto io riconosco il venerandi che avevo lasciato dopo l'ultimo rapporto e vedo che lui sta continuando la sua vita attraverso il tempo e di tanto in tanto torna a salutarmi, torniamo ad avere per tre minuti lo stesso respiro e il corpo fatto di fibre tanto umane, ecco la fine dell'inciso,

ritorno nell'ufficio fuori dal mio corpo, mi vedo dall'esterno che penso queste cose e sospiro e faccio un salvataggio e scendo a prendermi una focaccia al bar dell'istituto, per la cronaca questa cosa mi succede ogni volta che metto il disco Heathen di David Bowie non mi chiedete perché è anche un disco recente niente effetto madeleine proustiane, comunque io scendo al bar con il mio Powerbook sotto il braccio e vedo gli altri venerandi che lavorano, con il loro Powerbook sotto al braccio, e alcuni mi salutano, altri passano come se non mi conoscessero, e io penso che bello essere immerso in così tanti venerandi e cammino abbastanza spensierato e penso che questa cosa che mi succede è perché sto cambiando, me ne rendo conto tenendo ben stretto l'alluminio tiepido del Powerbook che questo momento mitico è il momento in cui sto cambiando e certe cose prendono tutto un altro aspetto e capisco che anche voi che state leggendo Macworld,

anche voi state cambiando e anche voi ve ne siete accorti, aprendo un'applicazione, sentendo un rumore, trovando dietro a un armadio a cassetti un floppy disk blu da tre e mezzo senza etichetta che chissà quando c'è finito lì dietro e lo guardate senza sapere cosa c'è dentro, magari c'è un pezzo di voi venerandi che è stato completamente dimenticato, cancellato, e proverete malinconia, un vuoto improvviso allo stomaco, sentirete la nostalgia del suono del modem, dei monitor a fosfori ambra, delle porte adb che è meglio non staccarle a computer acceso anche se lo fanno tutti da sempre, dei floppy disk a cinque pollici e mezzo quelli tutti molli, dell'icona a forma di disketto di Word che vuol dire salva, del dinghetto che fa quando ha salvato, di mia moglie bionda ventenne che ti chiama perché la tastiera del suo Macintosh plus non funziona più e tu venerandi vai da lei e scopri che la tastiera è solo staccata dietro e capisci che non è distrazione ma amore, di quando hai fatto per la prima volta un collegamento localtalk tra due Macintosh con il cavo stampante e hai guardato il tuo amico venerandi e la tecnologia vi brillava negli occhi,

di Vanessa Paradise che canta Joe le taxi su dj television e tu capisci che oltre al macintosh c'è dell'altro, del Sinclair Spectrum di tuo cugino che carica interminabili giochini dal registratore a cassette e tua zia da dietro che guarda e chiede se volete fare la merenda, di quei cosi che sembravano delle pinzatrici ma in realtà servivano a fare un piccolo buco rettangolare nei floppy disk da 800 k per farli diventare dischi da 1400k che poi dopo che avevi fatto il buco ne buttavi via metà perché non funzionavano più, dei primi cd 1x che sono più lenti dell'hard disk ma ci sta un sacco di roba, di te con primogenito tremesenne in braccio alle quattro di notte che con un braccio reggi il figlio tenendogli il viso premuto sul tuo petto su cui hai messo un tattico ciuccio e con la seconda mano puoi cliccare davanti al monitor dell'iMac tangerino che fa balenare nella sala la sua spettrale luce bluastra, di iTunes che manda le radio new age con suoni che non sai da dove arrivano e non sai neppure dove andranno a finire,

del momento in cui il disketto viene sputato fuori e i computer dice che no, ragazzi, non è proprio leggibile, delle incomprensibili traduzioni della Jackson nei libri per la programmazione dei microprocessori z80, del momento in cui il sistema si aggiorna e ti dice benvenuto in Macintosh e il tuo computer sembra dirti, da oggi meraviglie bello, grandi meraviglie e di tutte quelle cose che rimarranno per sempre addormentate nella ram carnale della nostra testa, cose che danno il senso di un rapporto con un prodotto di mercato che queste cose non le aveva neanche lontanamente previste, perché i computer diventano obsolescenti e si cacciano via, noi invece ci modifichiamo e l'obsolescenza ce la teniamo dentro, diventa un pezzo di noi venerandi che siamo il g5 biprocessore a 2 gigahertz e rotti, ma dentro quel g5 c'è ancora un 6502 che lavora come un muscolo incandescente e non si può proprio togliere” finisco di dire e apro la finestra perché l'acqua che bolle ha riempito la cucina di vapore, sembra di essere in piscina.

“Cioé?” mi chiede Elettra alzando la testa dall'iBook. “Cioé niente” dico io. “E' il pezzo per Macworld” “Mh” fa Elettra e scuote la testa e poi dice che Lotti questo non me lo fa passare. “Cioé -dice- già ha poco senso che uno nell'epoca di internet comperi una rivista di carta per computer, se poi la apre e ci trova cose che parlano di tutto meno che di macintosh, quello non la compera più”. Scuote ancora la testa e ritorna a guardare lo schermo dell'iBook bianco che tiene sulle gambe.

“Ecco ecco” faccio io indicandola. “Anche delle riviste di carta che parlano di computer sentiremo nostalgia. Adesso tutti a dire che sono obsoletissime, che non valgono i soldi della spesa, poi appena una muore, beh ti accorgi che non c'è più e non c'è manco più la linea che univa l'ultimo numero uscito a tutti quelli usciti prima. Quando comperi una rivista comperi anche quella linea, su internet non c'è quella linea, non c'è niente, non rimane niente. Ci sono siti che leggevo tutti i giorni che adesso non sono neppure così sicuro che siano esistiti veramente”. Tossisco.

Elettra annuisce e dice sì sì, ma intanto me lo bocciano perché non fa ridere e io le dico che semmai ci metto due o tre “cazzo!” in mezzo che di solito funziona ma capisco che Elettra non mi ascolta più, sta giocando a Solitaire 'till down, e io sento già nostalgia di Elettra con l'iBook sulle gambe che gioca le sue migliaia di partite a Solitaire 'till down: anche di questo proverò nostalgia.

E infatti, oggi, 2023, a rileggere questo racconto di più di vent'anni fa, mi sento come un foro dentro alla fotografia in movimento che ho davanti, un tunnel che mi fa vedere cose che non esistono più.

Sospiro e vado in bagno, alzo la tavoletta e vedo i colori dell'autunno: tiro la catena e il rumore dello sciacquone copre il turbinio dei rotori delle astronavi in partenza per Nettuno.

[diario dalla cucina]

Sono qua che leggo ancora Tomorrow, and tomorrow and tomorrow e – per essere un romanzo che non mi piace – non è male. Sono a un terzo, proseguo, ma senza ansie. La vicenda racconta una storia d'amore nel mondo dei programmatori di videogame, il che lo rende piuttosto atipico. Mi disturba, l'ho già detto, che i riferimenti culturali siano sempre quelli giusti, sia eliminato il rumore di fondo della vita reale, rendendolo in alcuni punti una specie di bigino uso fiction tv.

Tipo, stamattina la protagonista metteva a posto i cd della sua collezione di giochi per PC: Commander Keen, Myst, Doom, Diablo, Final Fantasy, Metal Gear Solid, Leisure Suit Larry, The Colonel's Bequest, Ultima, Warcraft, Monkey Island, The Oregon Trail e, dice, “una trentina di altri”. E io leggo la lista e mi irrito perché sono tutte strizzate d'occhio al lettore. Dove sono gli altri? Dove sono i mezzi giochi, le boiate, i lavori di passaggio? Perché fare passare l'idea che esistano solo i capolavori nella vita di una persona e che uno sappia riconoscerli e tenerli con sé con tanta facilità? Bah.

Ieri in classe ho fatto provare sette studenti a fare una breve parte di Sei personaggi in cerca d'autore senza usare il libro, a memoria. Mi sono seduto in fondo alla classe e li ho lasciati fare. Piuttosto istruttivo. Nella loro versione, siccome lo studente che faceva il capocomico non aveva studiato la parte, il dramma termina con i personaggi che scocciati lasciano il palco e vanno a cercarsi un altro capocomico in altro teatro.

Interessante vedere come si divertissero a vedersi recitare e vedere emergere il diverso impegno e le diverse paure: lo studente che davvero si è imparato tutta la parte, abbastanza bene, e fa muovere lo spettacolo verso una conclusione spostando tutti gli altri con sé; quello che in classe fa sempre casino che – sul palco – si capisce che gli dà fastidio di non sapere la parte, ha paura di essere inadeguato e cerca strategie per essere se stesso e anche il personaggio che sta recitando; gli altri che un po' prendono in giro quelli che recitano un po' sono curiosi di seguire la storia, di vedere cosa ne verrà fuori.

Ho registrato tutto con il cellulare per rivederlo e mi sono anche reso conto che a volte è utile rivedere certe cose. La mia prima impressione era che il tutto fosse andato troppo alla carlona, mentre – rianalizzandolo con calma – ecco no, i punti in cui avevano lavorato erano più di quelli che mi erano sembrati da vivo. E a un certo punto si sente nella registrazione la mia voce, uno studente m chiede perché non ho tolto la cattedra e io gli rispondo perché sta andando a pezzi. E la mia voce è terribile, balbetto, sono incerto, ho una voce orribile.

Mi riascolto a casa e mi rendo conto che per buona parte della mia giornata io parlo senza ascoltarmi, ho una orribile voce automatica che dice cose, mi succede sempre quando mi riascolto nel mio parlare quotidiano e non controllato e quando mi succede mi innervosisco e vergogno, ho una voce mutante che non prende posizione, che si piega e si mette assieme per frammentazioni.

E mi dico come è possibile che sia la stessa voce di quello che poco prima era lì, davanti a loro a declamare Vogliamo tutto di Balestrini. Non ho la registrazione di quello, ma sono sicuro che la voce era completamente diversa. In pratica in me convivono – come in tutti – decine di venerandi diversi, ognuno con la sua voce, con il suo comportamento, e sono tutti appicicaticci e nervosi.

Questo per dire che agli studenti ho detto esattamente questa cosa, la settimana scorsa, ma non dicendo che era una mia idea, ma di Pirandello. Abbiamo poi letto un pezzo dove Pirandello effettivamente dice queste cose.

Alla fine gli ho detto di prendere un foglio, di fare un cerchio, di dividerlo in spicchi e di dirmi quante personalità erano nascoste dentro di loro. Quanti Claudia, Valerio, Fabiana, Enzo ci fossero dentro di loro e quanto spazio prendesse ognuno.

Me li hanno restituiti: beh, dentro di loro convivono allegria, simpatia assieme a ansia, insoddisfazione, senso di inadeguatezza. Quello che sono quando sono a scuola, quello che sono con gli amici, quello che sono quando sono con i genitori e quello che sono quando sono da soli. Ognuno in un proprio spicchio incomunicante. Messo nero su bianco.

Che gran casino.

Ieri poi camminavo in centro, avevo portato terzogenita a canto e camminavo pensando al pezzo che avevo letto di Vogliamo tutto, la scena dell'assemblea degli operai che dicono di volere tutto, di non volere più aiutare lo stato capitalista, di non volere più piccole concessioni, piccole riforme per farli stare abbastanza bene da aiutare i padroni a continuare a fare soldi.

E camminando nel quadrilatero genovese vedevo le insegne dei negozi, le storie appese ai muri, come tutto portasse a essere singoli, soli, unici con i propri prodotti contro al mondo. Quel senso di collettivo, di assemblea, di diritti condivisi non c'era più. Se sto male, ho pensato, non c'è nessuna società dove posso andare a piangere. Il Synlab lì, di fronte a me, mi avrebbe detto se avevo qualcosa di rotto dentro, pagando. Le storie di vita del caffè appese al muro erano lì per chi il caffé se lo pagava.

C'era energia e luce e calore emanata da ogni singola particella catastale, ma quell'energia, quella luce e quel calore avevano un costo che non era collettivo. Lo storytelling, i presidi culturali, i prodotti etnici mi portavano la loro narrazione e volevano che io e la mia carta di credito entrassimo a far parte di questa bella fiction analogica.

E così torno a casa e secondogenito è lì, con il suo sorriso ambiguo che ci aspetta, terzogenita si siede anche lei accanto a lui e io mi acciambello tra di loro; partecipiamo al rito collettivo della prima partita al nuovo Zelda, il giorno dell'uscita.

E siamo con Link a correre e saltare, unire oggetti, assieme a milioni di altri come noi, invisibili e lontani.

— papà — dimmi terzogenita — mi aiuteresti a fare l'analisi grammaticale? — ok — allora, la frase è “a mia sorella ho prestato un libro” — ok, partiamo da “a” — “a” è una articolazione articolata — certo — giusto? — le articolazioni sono quelle che mi sono spaccato per colpa tua — ah — di a da in con su per tra fra — ah! — cosa sono? — preposizioni! — brava — preposizioni articolate! non avevo sbagliato tanto allora... — non è articolata — ah — mi dispiace — allora è semplice — una banale generica preposizione semplice

[secondogenito con terzogenita]

— terzogenita — eh — come si chiama più chi lavora nella carneficina? — killer — ... — ma se intendevi macelleria, macellaio — ... — ... — intendevo dire macelleria — allora macellaio

Una cosa che mi ha molto aiutato a essere lo scrittore che sono, nel bene e nel male, tra le tante cose che sono sono anche uno scrittore, ci devo convivere, e uno scrittore anche che vive alla marginalità della scrittura convenzionale e rassicurante, uno scrittore che scrive male, quando può, e che scrive da dio, quando riesce, comunque, una cosa che mi ha molto aiutato a essere quello che sono quando scrivo sono due.

La prima l'ho già raccontata, è successo quando ho iniziato a scrivere in maniera costante, fine scuole elementari inizio scuola media e ho trovato questa docente delle medie che pensava che io avessi talento nella scrittura, come nei film americani non so se avete presente, però a Manesseno, una frazione che alita provincia su Bolzaneto, fate conto una strada costruita a fianco di un torrente perennemente o in piena o in secca, un po' di case, capannoni industriali, boschi.

Lì, in questa scuola marginale questa docente leggeva i miei racconti e le mie poesie e diceva che avevo talento, mi faceva sedere in cattedra e leggere i miei racconti umoristici ai miei compagni di classe, io proto-balbuziente, mi sedevo e leggevo, nella pausa che c'era tra la partenza di questa docente dalla sede centrale all'arrivo nella succursale dove stavamo noi, in pratica facevo sia letteratura che sorveglianza.

Quando decisi di fare il classico lei mi regalò un foglio con l'alfabeto greco e una sua dedica, lo tenni per decenni con me, ora non so dove sia, forse l'ho buttato in uno dei tanti cambi di casa o di personalità. Mi chiede di dedicarle il mio primo libro perché lei era sicura che io sarei diventato uno scrittore, e io effettivamente glielo dedicai, diciassette anni dopo, più o meno.

La seconda cosa che mi ha molto aiutato è stato il fatto di avere attorno amici che sono l'esatto opposto degli yes man. Le persone che conosco da più tempo, con cui parlo delle cose che scrivo, a cui di tanto in tanto provo a fare leggere le cose che faccio mentre le faccio, quando faccio queste cose, alzano gli occhi al cielo. Non rispondono ai messaggi. Dicono “bella merda” e mi restituiscono tutto.

Decenni che mi sono vicine e quando parlo di scrittura mi annegherebbero in una pentola di acqua bollente, alzano il sopracciglio, dicono vabbè Venerandi vaffanculo e cambiano discorso, per ogni cosa che faccio vanno a vedere il punto debole e lì picchiano, saggiano il vaso con l'unghia per vedere il momento della rottura. Sono perfetti no-man, da sempre. E sono poi sostanzialmente le uniche persone che frequenti.

Quindi quando scrivo qualcosa, in genere, lo faccio assolutamente senza rete. Tanto so che è inutile. Levati i bib(h)icanti che sono invece meravigliosi, ma malati. I bib(h)icanti sono malati di vita. Siamo intellettuali ingabbiati nella vita e quindi ci raccontiamo cose incredibili, avanti dieci, venti anni rispetto a tutto il resto che abbiamo attorno. Tanto sappiamo che non le realizzeremo mai. Abbiamo idee folgoranti, come nei film americani, ma senza i fondi. Ce le raccontiamo, le progettiamo, facciamo schemi.

Poi – come spettri – svaniamo nella vita. Facciamo le nostre professioni, lavoriamo, campiamo figli, case, mutui, ravvedimenti operosi. Affetti e dolori. Poi all'improvviso, in genere è sempre così, uno dice che c'è una perfomance da fare, un incontro su un tema assurdo, chessò, la rivolta iconoclasta nella canzone pop slovacca, e dobbiamo scrivere un testo, cazzo, dobbiamo assolutamente andare e noi – ogni volta – in due o tre settimane buttiamo giù tutta la performance, le voci, i tempi, le note di scena, tutto come se fosse la cosa più naturale del mondo.

E di colpo ci vediamo, erano sei mesi, un anno che non ci vedevamo, ci vediamo, ci sorridiamo, siamo tutti invecchiati, e saliamo sul palco, se c'è un palco, su un prato, nel mezzo di una chiesa sconsacrata, per strada, dentro un pub, dipende, e ci mettiamo a leggere le nostre cose, facciamo i cori, facciamo la nostra cosa così, all'improvviso e finita la cosa ci ritiriamo, commentiamo quello che abbiamo fatto, abbiamo dei bicchieri in mano, ci sentiamo degli dei scesi in terra per mezz'ora e poi torniamo a essere spettri.

Così, in genere, le cose di scrittura le faccio con persone che non conosco. Che non ho mai visto. Lavoro per mesi all'editing dei miei romanzi con persone che non ho mai incontrato, progetto installazioni di poesie elettronica, faccio corsi di letteratronica, storie a bivi per la scolastica senza mai vedere una faccia. Documenti condivisi. Mail che iniziano con R: o RE: e vanno avanti per anni, a volte.

È una corrente che mi attraversa, sterile, non avete idea di quanto sia sterile mettersi lì e scrivere, quanto tempo rubi alla vita immaginarsi delle cose in maniera costante e programmatica, che senso di vuoto e di colpa nasca dopo una serrata sessione di scrittura. Ma è una corrente, come una bolla, avete presente le bolle sottopelle, quelle che diventano poi bianche e piene di pus.

Non si assorbe nella vita la scrittura, non puoi metterci sopra della crema. Tutto quel materiale, che tu voglia o no, si accumula. Non ha suono prima che tu lo scriva. È un pus incolore e indolore che cresce e che non sai cosa sia finché alla fine – sfinito – non ti metti lì davanti allo specchio e premi, parola dopo parola, lemma dopo lemma, e vedi cosa esce fuori, te lo trovi davanti a te che si contorce e dice, sono vivo, sono qua, sono fuori, finalmente.

[diario dal letto]

Sto leggendo questo libro che ho preso quasi per caso, avevo letto alcune righe qua sul profilo di qualcuna e poi – in chat con i poeti – Paola Malaspina me lo ha consigliato, e ieri sera ero nel letto con tutto il resto della camera spento, anche Elettra dormiva e io tenevo in mano le pagine luminose di questo ebook e mi sono trovato nel felice momento del tunnel, quando sei dentro al romanzo e tutto il resto del mondo resta fuori.

E questo mi piace del romanzi, di alcuni romanzi, di essere in fondo una specie di terapia a basso costo, vedi cosa è successo a personaggi più o meno immaginari e poi pensi alla tua vita, alle tue sfighe, alle tue – ecco – alle tue mitologie e vedi di rinforzarle, di rinfrancarle: c'è bisogno di una piccola costante dose di immaginario a pioggia nella vita di tutti i giorni per far emergere la volontà fantastica che abbiamo, altrimenti.

Altrimenti, beh, qualcuno mi ha scritto che non devo usare espressioni come ehi ragazzi, che fa molto finto film americano, ma – ehi ragazzi – se togliete questa piccola dose di immaginazione sparsa come parmigiano sulle cose della vita, rischia che altre narrazioni si facciano strada, narrazioni tossiche, piccole, pelose, narrazioni che fingono di essere la vita vera, la realtà e che non sono la realtà, sono il mondo reale raccontato male.

Non è facile raccontare il mondo e lo facciamo continuamente, anche i non scrittori, anche chi scrive post di due o tre righe o condivide foto e meme che chissà chi li ha fatti; siamo tutti lì a raccontare il mondo, tutti i santi giorni, e non è facile raccontare il mondo, anzi, diciamolo, la maggior parte delle persone racconta il mondo di merda, altro che spruzzata di immaginazione, piccoli, costanti, micro, racconti, tossici, di, merda. Continui.

Mi destreggio tra una devastazione narrativa di merda, altro che. Non si tratta qua di saper scrivere bene o male, c'è un sacco di gente che scrive da dio, si tratta di saper raccontare il mondo. Non è nemmeno la stessa partita. Si tratta di saper scrivere da dio e usare questo super-potere, costantemente, diffusamente, come certe cucce per i cani.

Quindi – niente – sono le sette e quarantasei, mi sono svegliato alle cinque e mi sono visto dall'esterno, ho pensato alle foto di me stesso viste dall'esterno e ho pensato come penso di volerci riuscire dentro, e ho pensato a momenti in cui le cose non vanno, in cui la testa va a rotoli, in cui hai dolori dentro e fuori dal corpo e ho pensato anche che quei momenti sono di preparazione all'emersione.

Non so se si vede dal bordo della nave, ecco, là, dove sto indicando con il dito, vedete le bollicine, ecco che ora si vede l'ombra e ecco che emerge davvero, eccolo, godetevi tutta la massa che esce dall'acqua, caaazzo, è davvero un grande grosso pezzo di carne che esce, fa la sua torsione del corpo, spruzza la sua parte di lessico e immaginazione, e poi ricade a peso sulla superficie dell'acqua, sulla routine standard, la sfonda una seconda volta, nel verso contrario, e poi sparisce sotto.

Basta, finito, spero lo spettacolo sia stato di vostro gradimento, a me non è dispiaciuto, sono sempre qua immobile sul letto ma ora faccio i miei sforzi, cerco le mie stampelle, cerco la ciabatta del piede buono, mi metto in posizione semiverticale, sento tutti i dolori che arrivano alle varie parti del corpo, mi aggrappo, mi rimetto in piedi e vado a mettere su un po' di tea, a farmi dei selfie, a postare e condividere, a fare lo splendido tra i fornelli e il bidoncino della differenziata.

Aggiungo, come postilla aggiunta dopo: la felicità è sempre irragionevole.

[dialoghi con i figli: neologismi]

— papà — dimmi terzogenita — ho trovato il lavoro che voglio fare se non riuscissi a fare la cantante — ah, quale? — la casalinga — uh — però non ho capito bene come vengono pagate — allora, in realtà la casalinga non viene pagata — ah — cioè, non direttamente, ci vuole qualcuno che vive con te che venga pagato dall'esterno e lui paga te — mh, allora mi dovrò trovare un marito barra a — “marito barra a”? — marito o marita — ok — si può dire “marita”? — no, ma ho afferrato il concetto

***

— secondogenito — eh — è mica passata la mamma? — non lo so — ho sentito la sua voce — non stavo pagando attenzione — ...

[diario dal divano]

Comunque ieri mi sono seduto sul divano per fare compagnia a terzogenita che – aspirante al mondo dello spettacolo – guarda con piacere il Festival, lo aspetta proprio. Serpi in seno come se piovesse. Dopo un figlio che ama la matematica pura, una figlia che vuole cantare. Comunque, tavolino di vetro, cuscino, piede sul cuscino, il festival.

È anche la prima volta che guardo la televisione da un bel po' di tempo e quindi è stato peggio. Prima del festival c'era un qualche programma che parlava del festival, una specie di propaganda che propaganda se stessa, una reclame nella reclame e – a un certo punto – intervistano qualcuno che poi avrebbe fatto qualcosa nel festival, e lo intervistano nel camerino mentre una donna le fa il phon.

E inquadrano, in primissimo piano, il phon, cioè la marca del phon. È chiaramente uno sponsor, infatti poi il marchio ritornerà nella pubblicità in maniera esplicita qualche minuto dopo, ma in quel momento era pubblcità occulta e sono rimasto sbalordito, ho guardato terzogenita che fissava lo schermo senza dire niente, aveva messo la testa sul mio petto, aveva undici anni, era felice.

Poco dopo una ragazza era su un poggiolo con la scritta enorme Generali e anche questo era uno sponsor. Tutta questa prima parte di preparazione era una specie di coro greco che commentava, ma non tra atto e atto, ancora prima dell'inizio, ma questo coro greco serviva a incassare soldi dagli sponsor.

Mi sono sentito così dentro gli anni ottanta, altro che Stranger Things.

Poi è iniziato il festival vero e proprio. La retorica, il linguaggio usato dalle persone che presentavano, era triste. Era tutto vecchio. Le facce dei presentatori sembrava che avessero le rughe già trattate con Photoshop, sulla pelle. C'era questa idea – morta – di gioventù in corso. Di disfacimento.

Ad un certo punto, uno dei presentatori ha detto la frase, parlando del palco che era stato ripulito. “Sono passate le donne delle pulizie a pulire”. E ho pensato ma che cazzo. Le donne delle pulizie. I presentatori sono maschi, le presentatrici appaiono, come spettri, bonus level di tanto in tanto. Le donne presentatrici sembrano più degli ospiti a cui i maschi concedono di fare qualcosa.

Io, giuro, non ho detto niente. Dopo un minuto terzogenita mi dice, sento la sua voce che mi esce dal petto. “Ma solo le donne puliscono? Voglio dire, solo le donne fanno i lavori di pulizia?”. E io ho detto di no, che effettivamente è un lavoro che spesso viene fatto dalle donne, ma che esistono anche uomini che puliscono. Li ho visti. Terzogenita ha detto ok.

Poi sono apparsi tre cantanti che – quando io ero un bambino e mia madre guardava il festival – erano vecchi. Qui erano più che vecchi, erano tre pezzi della televisione, intendo il tubo catodico, tre pezzi di un puzzle che a nessuno oggi passerebbe per l'anticamera del cervello di mettere insieme. E per tre quarti d'ora buoni sono rimasto a vedere questa cosa surreale, queste tre persone che impattavano.

Inconsciamente mi sono chiesto perché. Questo bisogno di avere un passato. Sarà un preludio a un qualche tipo di fascismo, mi sono chiesto, non avere più nessuna fiducia nel contemporaneo. Terzogenita era affranta. “Ma non la piantano più!” si lamentava. Lei voleva vedere i cantanti giovani. Le era piaciuto uno, poco prima, il solito dipendente dell'autotune. “Sembra un egittista” aveva detto. “Uh?”. “Uno nato in Egitto” ha spiegato. “Egittista”.

Ho tre figli che sanno l'inglese meglio dell'italiano ed è un fiorire di neologismi ogni momento. Comunque.

Ho anche cercato di difenderli i tre vecchi, ho detto a terzogenita, però senti che voce che hanno ancora, “tu che ami il canto dovresti apprezzare”. Anche se usavano tutti i trucchi che potevano per reggere, la voce c'era ancora, avevano più voce loro che i rapper ventenni di prima o i cinquantenni che sarebbero arrivati di lì a poco.

La voce sopravviveva a tutto il resto, al corpo. Si sentiva il suono della loro voce sforzata e irreale all'interno della microfonia che la amplificava mentre il corpo si disfaceva, tenuto insieme dall'esercizio e dal benessere. Erano i guerrieri invincibili richiamati alla fine di Nausicaa, che mandavano il loro raggio distruttore e poi sarebbero crollati, sotto al peso del tempo.

Poi, la finta emozione dei ragazzini, il finto rispetto verso di loro, i loro vent'anni e rotti, quel posto così piccolo, in un piccolo punto della Liguria. È normale dei baracconi essere finti, è la loro natura. Meno, la loro moltiplicazione. La diffusione massiva del loro linguaggio.

Alla fine, dopo il ritorno di due rapper normalizzati, dopo così tante canne adesso sul palco a cantare il valore del mettere la testa a posto per il mantenimento della famiglia, altri morti sul palco, ho detto a terzogenita basta, che c'era a scuola il giorno dopo. Lei ha protestato, ma pochissimo. Abbiamo spento tutto.

[Diario dal letto #2]

Ieri sera ho visto le mie dita spuntare dal gesso e ho visto che si erano macchiate di blu, ho cercato di pulirle e ho scoperto che non erano sporche, era il sangue. Si deve essere fermato in alcuni punti del piede che si sono scuriti. L'ho presa con calma, ho pensato che stavo per perdere il piede e ho cercato su internet. Pare che sopravviverò. Ho chiamato il mio medico per sicurezza.

Il mio medico l'ho soprannominato, mr. saponetta. Ogni cosa che gli chiedo la fa scivolare rapidissimamente da sé, delega, a cascata. Mi ha detto di telefonare all'ortopedico che mi ha fatto il gesso. L'ho fatto. Mi ha risposto un'infermiera. La sua voce rimbombava nel vuoto. Mi ha dato l'idea di una persona sola, in un mondo troppo grande. Un enorme ospedale e lei, in un atrio, vicino a un telefono. Le sue risposte erano afferenti all'ineluttabile. “Eh” diceva. “Guardi” diceva. “Aspetti” diceva. E poi l'eterno nulla. Ho messo giù.

Per dimenticare ho letto le prime settanta pagine di un ebook che si chiama “Matematica senza numeri”. È pieno di disegnini. Per ora è piuttosto affascinante. Parla dell'infinito, della somma di infiniti e poi di questa cosa fichissima che si chiama “continuo”. Il continuo è una specie di inchiostro denso sulla realtà, sulla materia. Così denso che puoi spalmarlo sull'infinito e quello ci resta dentro, come una iper-nutella. Questo non è esattamente quello che dice il libro, ma l'autore non mi può sentire mentre leggo. Grande consolazione dei libri. L'autore non vede cosa ci entra nella testa e come.

Arrivato invece a pagina 241 di “Storia universale delle lingue” sto continuando solo come esercizio di puro masochismo. Ogni tanto procedo di due o tre pagine, disperatamente, sottolineando, consolato solo dal fatto che le pagine, loro, non sono un continuo e non sono nemmeno infinite; prima o poi, due pagine per due pagine, una per una, prima o poi arriverò alla fine e potrò rimanere così, di fronte al finito. È una delle più grandi rotture di coglioni che mi siano finite sotto gli occhi e la voglio finire proprio come monito. Potevi finire così. Potevi diventare un linguista.

Mentre soffrivo ho guardato tutto Cunk on Earth su Netflix. Bello, ma non ci vivrei. Lei è deliziosa. Alcuni momenti comunque splendidi. Però non ci vivrei. Ci vuole troppo tempo per ridere. Ho fatto vedere una puntata a Elettra e lei mi ha detto: – venerandi – dimmi amore – sai che ci sono cose venerandi e ci sono cose Elettra – sì – Cunk on Earth è una cosa venerandi – non Elettra – decisamente non Elettra – ok

BTW mi era venuta voglia di vedermi i film che non avevo ancora visto di Greenaway, per tirarmela e ricordare gli anni di quando ero ancora un giovane ragazzo universitario e soprattutto per parlarne male, ma ho scoperto che su Primevideo sono diventati tutti a pagamento. In pratica il grosso del catalogo è diventato a pagamento tranne la merda o le serie prodotte da loro. Possono sprofondare nell'inferno del digitale, ho pensato, piuttosto torno alle VHS.

Ho ripreso invece un gioco. Ho deciso di finire Grim Fandango. L'avevo mollato perché gli enigmi, in alcuni punti erano invecchiati male male. In più ero rimasto per due o tre volte bloccato per dei bachi, oggetti che sparivano, va bene, non mi dilungo. Mi sono messo in ottica storica. Se resto bloccato in un punto per più di mezz'ora, cerco in rete degli indizi per andare avanti. È contro la mia etica. Non lo faccio mai, ma, sto invecchiando. Ho pensato che poi cricco. Preferisco morire o restare senza un piede dopo aver finito Grim Fandango. Con questo pezzo Lucasarts dentro al corpo.

Ho anche comprato The Gardens Between che era nella mia lista preferiti ed era finito in offerta. Una di quelle cose prese per intuito, leggendo la trama e guardando le immagini. Un errore. Talvolta accade. Bello, interessante, ma fuori dalle mie corde. La storia è troppo sottomessa al puzzle. Non amo i giochi in cui mi trovo davanti a un puzzle logico da risolvere e lo devo risolvere perché sì. Voglio tutta la bambagia narrativa. Il cotone rosa profumato zucchero appiccicoso della narrativa.

Ogni sera mi devo fare un'iniezione di eparina. Mi metto lì, mi stringo un pezzo di carne, infilo l'ago, schiaccio. Tolgo tutto. “Infilo l'ago” è improprio. Lo appoggio. Poi faccio una leggera pressione, poi un po' più forte, poi un po' più forte, poi ancora un po' finché non sento un piccolo dolore e sento che l'ago entra e scivola dentro, lentamente. In pratica mi faccio la puntura con la stessa tecnica con cui sto leggendo Storia universale delle lingue. Per osmosi. Fingendo di non farlo.

[Diario dal letto]

Rompersi un piede è una rottura di coglioni. Non grave, non irrimediabile se non esageri nel numero di ossa rotte, ma ti rendi conto in maniera più esplicita che sei un essere vivente sottoposto alla gravità. Non poter appoggiare un piede per terra, vuol dire che puoi spostarti saltellando sull'altro che non è abituato. Tutto il corpo si adatta per cercare di farti fare gli spostamenti minimi, e manda poi dolori peggiori di quelli del piede da proteggere.

Fa male la schiena perché sei stato ore a letto, fa male il polpaccio del piede che usi per saltellare con le stampelle, fanno male i pettorali che devono fare forza sulle stampelle, fa male un cazzo di non so quale muscolo che deve tenere sollevata la gamba mentre saltelli sull'altra, fanno male gli addominali non so perché, immagino per empatia con il resto del corpo. Andare in bagno e tornare a letto mi sembra di essere andato fino alle termopili, avere sconfitto gli spartafasci a colpi di stampelle e poi essere tornato sanguinante in Persia a riposarmi sotto le coperte.

La colpa è mia, ho trascurato il mio corpo per troppo tempo, poca attività fisica, poca ginnastica e soprattutto ho avuto la bella idea di invecchiare, superare i cinquanta, cosa cazzo avevo in testa, non potevo restare per sempre nei trenta a cazzeggiare, fare errori madornali aspettando un futuro che non sarebbe mai arrivato? Un sacco di gente lo fa. E invece no, tac, diventiamo cinquantenni, bella cazzata. Vabbè, ormai fatta.

In più uno pensa, beh sei a letto, il piede non ti fa tanto male, no? se stai immobile no, ti rilassi leggendo romanzi, stando al computer no? Cazzeggi in rete, giochi ai videogiochi, scrivi, no?

No. Vorrei sfatare questo mito. Il letto è comodo, è il metodo più economico per sentirsi benestanti, ma ecco, dopo una, due ore inizi a girarti, spostare cuscini, sentire il tuo corpo che brucia, fare errori, innervosirti, avere fastidio, prurito, sentirti sporco, avere dolori a questa o quella parte del corpo, troppo caldo, troppo freddo, col cazzo che mi rilasso nel letto.

La vescica. Parliamo della vescica. La pipì. Sei nel letto e senti che sarebbe meglio che facessi pipì. Ma tu sai che per fare la pipì devi attraversare tutto il peloponneso, fare un ponte di navi in prossimità dello stretto del Bosforo, chiamare Mardonio che ti aiuti ad aprire la porta del bagno e poi sconfiggere gli spartafasci, arrivare ad Atene, pisciarci sopra e poi tornare indietro, dolorante, nella tua amata Persia. Una impresa solo a pensarlo.

Infine internet. Internet è piccolo. Te ne rendi conto quando sei lì nel letto. Perché in realtà mentre sei lì, solo a casa, per ore e ore, tu non vuoi girare su internet, tu vuoi feedback. Notifiche. Gratificazioni. Vuoi comunicare, ah dannata abitudine umana. Comunicare. Ma non troppo, la gamma della comunicazione che non include gente che inizia a romperti i coglioni su qualcosa. Comunicazione gratificante. Creativa. Superficiale.

E quindi resti sempre sui cinque/sei siti che ti garantiscono ritorno, cuoricini, segnini rossi di spunta, notifiche. E lo fai per ore. Alla sera, dopo una giornata così social, aspetti solo di scomparire nel nulla, tu e l'umanità tutta.

Un'ultima nota: no. Non faccio parte delle persone che apprezzano se gli telefonate quando stanno male. Soprattutto se sono bloccate a letto, magari dormono distrutte e il cellulare è in un'altra stanza e quindi fanno disastrose alzate, afferramento di trampoli o come si chiamano, corse per raggiungere un cellulare da cui poi si sente una voce che dice “ah volevo solo sapere come stavi”.

Prima bene. Prima che mi telefonassi bene. Se volevi sapere come stavo usavi Facebook, l'hanno fatto apposta, non mi telefoni. Mamma.

Anche perché, se decido di sfidare la sorte e mi alzo con le stampelle, credo canadesi ho due possibilità, come nelle storie a bivi: o uso le stampelle o porto oggetti. Non posso muovermi portando con me il cellulare, o il portatile, se non facendo gravi acrobazie che nemmeno al circo Togni.

Comunque, questo per dire che per ora va tutto alla grandissima, che sto bene, non mi lamento, sono sociale, ho un carattere meraviglioso e non vedo l'ora di tornare a lavorare, grazie, altrettanto spero di voi, grazie per il vostro costante feedback, spero di morire.