La vita in famiglia è bellissima

Frammenti quotidiani di vita familiare

Nanaki ha imparato a prendere una pallina di quelle che rimbalzano, salire in cima alle scale e poi farla rimbalzare giù inseguendola e giocandoci.

Quando arriva in fondo riprende la pallina con i denti, torna in cima alle scale e ripete l'operazione. La cosa può andare avanti per ore, anche di notte.

Oggi succede la stessa cosa, la pallina arriva al pianoterra ma questa volta Irene si alza, prende tra i suoi denti la pallina e la porta nella sua cuccia. La posa lì e le si mette accanto.

Nanaki interdetta si avvicina per riprendersi la pallina. Irene ringhia. Nanaki prova qualche attacco e poi desiste.

Io sul divano immerso nelle coperte osservo tutto e mi sembra di essere in un film di Miyazaki.

[libri e memoria]

Non dovrei mai mettere a posto i libri, oppure farlo più spesso. In questi giorni che non sto benissimo mi sono preso del tempo per farlo. E sono emerse cose che – nella vita incasinata – non curo e invece.

Trovo un libro che avevo fregato a mia zia, La caduta, di Camus. L'avevo letto decenni fa, su spinta di mia zia e ancora adesso mi ricordo alcuni frammenti dell'Esilio e il regno, che era un'altra sezione del libro. Lo apro e scopro che era quello che mesi fa cercavo da mia zia, per rubarglielo. E invece lo avevo già rubato. Non tanto per Camus, ma perché ha due frontespizi. In uno c'è scritto l'autore, il titolo del libro, e sotto il nome della casa editrice. Nella pagina a fianco – letteralmente – c'è un frontespizio identico, autore, titolo del libro, e casa editrice. Solo che a sinistra la casa editrice è Bompiani, a destra è Garzanti.

Cerco di mettere tutti i Mondadori assieme, almeno quelli di narrativa, e a un certo punto prendo un Strade blu e cerco di infilarlo a fianco degli Oscar. E quello si rifiuta. È più alto. Non ci entra. Devo necessariamente metterlo due scaffali più in basso. Le braccia mi cascano lungo i fianchi. Ecco perché evito di mettere i libri in ordine, perché poi succedono queste cose. Le idee si scontrano con il legno.

E poi ci sono i libri che scompaiono. Cerco tutti i miei libri di Morovich, ogni tanto li ricontrollo perché se scompaiono è un disastro, quello chi lo ristampa. E scopro che è scomparso I giganti marini. Vado scaffale per scaffale, al piano di sopra, al piano di sotto. Scomparso. Avrò fatto la cazzata, penso, l'ho prestato. Perché è un bel libro, l'ho prestato, la cazzata. E resto così, guardo il grande acquaio della libreria, i libri sferzati dagli anni, dai traslochi, dalla polvere, dall'umidità, dai figli e penso che magari è lì, da qualche parte, come un pesce smarrito nel piccolo oceano della mia memoria.

È sparito anche Verba manent. Te pareva. Verba manent è un libro importantissimo, spiega tecnicamente come fare storia orale, è uno dei libri più importanti che abbia letto e – per farla breve – decenni fa l'avevo perso. Perso. Poi un giorno, in casa di Francesco, eccolo. L'avevo prestato a lui. Me l'ero ripreso. E ora ho rifatto la cazzata. Devo averlo riprestato a qualcuno. Possibile che non abbia imparato? Alcuni libri si devono prestare, altri no. Servono a dare conforto in casa, non vanno lasciati liberi.

Poi trovo questo libro di Beckett, già letto decenni fa e mi ricorda qualcosa la copertina, lo apro e c'è l'anno e il mese e mi ricordo. Siamo io e Elettra, ci siamo messi insieme da un mese, siamo sul lungomare ligure in agosto e andiamo alle bancarelle e io mi compro questo libro di Beckett che mi sembra uno splendore. Io ho ventiquattro anni, a fianco a me questa ragazza con uno sguardo che buca l'estate e ora sono chinato nel corridoio, nel buio della sera, davanti alla camera di mia figlia e lo richiudo e lo rimetto a posto tra gli Einaudi.

Mentre sono lì mi appare in chat una persona cara che non vedo da tanto tanto tempo mi manda una immagine. È un mio ex libris, fatto a mano. Che libro mi hai fregato le chiedo, ed è strano perché mentre le parlo mi immagino il suo viso dell'ultima volta che l'ho vista. Forse gli anni novanta. E le parlo come se avessimo smesso ieri. È Strindberg mi confessa dopo un po', mi dice il titolo. Guardo nella mia libreria, e quel libro ce l'ho uguale. Guarda – le dico – che era un modo per regalartelo. L'ex libris non ce lo avevo messo per segnare che il libro era mio, ma perché non lo era più. Lei dice, lo so.

E poi mi racconta una cosa che avevo completamente dimenticato. Mi fa impressione. Un intero episodio della mia vita di cui non ricordo quasi nulla. Siamo ad una retrospettiva su Orson Welles, sempre anni novanta. Una maratona, non so quanti film. Per chi resta fino alla fine c'è una lotteria, estraggono a sorte un biglietto. Lei a un certo punto della maratona deve andare via. Mi lascia il suo biglietto. Io resto fino alla fine. Quarto potere. L'infernale Quinlan. L'orgoglio degli Amberson. Estraggono a sorte il vincitore. Io non vinco. Ma lei sì.

Quindi sono salito sul palco, imbarazzato, ho ritirato il premio. Mi racconta tutto lei. E cosa era il premio? le chiedo. Non ricordo nulla. Lei mi risponde, una cosa bellissima, che ho tenuto fino a pochi anni fa, poi si è rotta. E cosa era? le chiedo. Spero che l'oggetto sblocchi un ricordo di questo mio pezzo di memoria. E lei me lo dice e c'è della beffa in questo ritorno indietro nel tempo, alle cose che si sono perse con l'andare degli anni.

“Una sfera di vetro con dentro la neve” mi scrive e io sorrido e le dico grazie, mi hai fatto un bel regalo stasera.

Rosebud.

— papà! — dimmi terzogenita — oggi è la mia giornata! — nel senso del tuo compleanno? Ma... — no, è la giornata dei calzini spaiati! — ... — dobbiamo tutti metterci calzini spaiati per celebrare la diversità delle persone — amore — eh — tu hai sempre i calzini spaiati — perché io ci credevo già da prima — ... — ma non sapevo perché — ecco — ora ho anche una causa! — ...

***

Primogenito ha trovato un modo per svuotare la bottiglia dell'acqua in metà del tempo, applica una forza vorticosa alla bottiglia in modo che l'acqua impieghi circa la metà del tempo normale di svuotamento. Con secondogenito hanno cronometrato il tempo necessario per svuotare la bottiglia con questo gesto a vortice e quello necessario con il normale versamento gravitazionale. Arriva terzogenita. “Secondo te” chiede primogenito alla sorella, “quale è il metodo più rapido per svuotare questa bottiglia?”. Terzogenita guarda la bottiglia, guarda il fratello e poi risponde “la butti per terra e la spacchi”. Primogenito rimane per un attimo attonito, poi ride e resta con la bottiglia in mano a fissare la sorella.

***

— papà — dimmi terzogenita — posso raccontarti delle barzellette brutte, senza senso, con dei finali deludenti? — ...

***

— papà, ma poi telefoni ai nonni? — non lo so ancora — ma se telefoni cosa gli devi dire? — terzogenita — eh — tu sei una ragazzina molto curiosa — ... — e sai che fine fanno le ragazzine troppo curiose? — ...scoprono nuove medicine? — ...

***

— buongiorno secondogenito — ciao — tutto bene? — sni — perché sni? — mi sono addormentato e ho dormito più del dovuto — bhe, ma dove è il problema? È sabato, mica hai appuntamenti oggi no? — no — e allora? — ogni secondo speso a dormire è un secondo rubato al giocare ai videogiochi — ...

***

— secondogenito, se lo vuoi ho fatto del tea — quindi se non lo voglio significa che non lo hai fatto — ma io l'ho fatto! — allora mi stai costringendo a volere del tea contro la mia volontà — ...

[la piscina]

Sono lì che giro su internet e scopro che dopodomani all'università di Avignone una persona si laurea con una tesi in cui in un capitolo si parla di me così decido di uscire e di andare in piscina alla sera dopo anni e anni che non lo facevo più.

Mentre vado in piscina con lo scooter elettrico mi rendo conto che è la prima volta in decenni che sto uscendo di casa per qualcosa che riguarda solo me. Non primogenito, non secondogenito, non terzogenita, niente di familiare, comunitario, è una cosa egoista mia che faccio, nuova, e non so cosa succederà.

C'è una luna piena nel cielo e mi sento quello spirito straniero, come se fossi uno dei tanti stranieri che abita la città e che potrebbe sparire in quartieri di Genova inesistenti, come quando avevo vent'anni e ogni zona della città era per me un continente inesplicabile e inagganciabile con il resto.

Dura poco, ma abbastanza.

Arrivo alla piscina alle sei e mezza di sera, posteggio, c'è un sacco di gente, auto posteggiate, vado alla cassa e dico salve sono venerandi sono decenni che non faccio più nuoto libero e volevo riprovare. Posso entrare gratis?

C'era infatti un form sul sito della piscina che se lo compilavi, in cambio della profilazione, ti davano un ingresso gratis. La signora dietro alla cassa sorride dice, vediamo, dice vedo il suo nome, venerandi, dice, lei era iscritto qua nel 2017.

Io inizio a pensare che sia un trucco per non farmi entrare gratis. Può darsi dico. 2017 può darsi. Non me lo ricordo assolutamente. Non ricordavo nemmeno fossi ancora vivo nel 2017. Non lo escludo. Ma se è un problema, dico. Lei dice no, aspetti. Lei ha anche compilato un form online. Nell'estate 2022.

La guardo. Dico può darsi dico. 2022 può darsi. Non ricordo di avere mai compilato niente del genere, ma può darsi. Lei guarda ancora poi dice, ma non c'è quello di questo pomeriggio. Eh no, dico io, quello è l'unico che sono sicuro che l'ho compilato. 2023 sono sicuro. Lei non dice niente, vabbé dice, comunque se me lo dice ci credo, la faccio entrare gratis, dice e io sorrido dico bene dico.

A Genova c'è sempre questa cosa che le cose di promozione non funzionano mai come a Milano. Non sono mai automatiche. Non è colpa dei genovesi, deve essere qualcosa del clima, la macaia, non so, ma le cose non funzionano mai bene. C'è sempre qualcosa che non funziona. Un timbro che manca. Un interruttore che non interruttora. Un appuntamento che però manca il custode con le chiavi. Una sala che si gela perché non si sa perché il riscaldamento non funziona.

Genova è così, fallisce in partenza. Per questo punta tutto sui pannelli illustrativi. Mostre con pannelli illustrativi. In italiano e inglese. Immagini un po' sgranate. I pannelli llustrativi non tradiscono mai.

Entro negli spogliatoi che sono sotto la piscina, una specie di polmone che respira sottoterra. Dentro ci sono figure femminili che asciugano bambini e bambine, maschi alfa che si circondano i piedi con l'asciugamano, rumori di asciugacapelli con lucine colorate verdi e rosse che scattano, rumore di cloro odore di vociare lontano, colpi nel grosso corpo dell'acqua che sta sopra di noi.

Penso a quante volte sono stato lì, a portare primogenito ranocchio, secondogenito ranocchio, terzogenita ranocchia, a vederli cambiarsi, aiutarli, scomparire dietro la chioccia istruttrice. Andare sugli spalti e vederli fare i loro fragili movimenti nell'acqua fondo azzurro mentre io – con il portatile – fingevo di essere uno scrittore, di essere da qualche altra parte e invece ero lì che bruciavo tutto.

Le vasche del nuoto libero sono piccolissime, c'è troppa gente. Resto così a fissare cercando di capire dove entrare e poi mi butto. Cerco di capire il ritmo degli altri nuotatori, mi infilo in mezzo.

Mi ricordo ancora le serate passate d'inverno nell'acqua gelida delle piscine di Serra Riccò, quanto avrò avuto. Tredici anni. Forse meno. Non esistono più. Una volta ci sono passato, decenni fa, c'era tutto il complesso in rovina. Cemento armato che si sfaldava.

Dopo due ore che nuoto alzo la testa e vedo che sono passati dieci minuti. “Cosa” penso e ansimando mi aggrappo al cordolo. Cazzo, penso, cazzo. Ma non esco, ho pagato per un'ora, penso, e almeno un'ora faccio.

Poi mi viene in mente che sono entrato gratis.

Dopo mezz'ora esco dall'acqua come un naufrago che cammina a passi tardi e lenti sulla spiaggia e si volta indietro per vedere il pericolo da cui è scampato e nel mio caso non è la piscina, ma la consuetudine e la vecchiaia. Sotto la doccia poi, mi beo di questo getto primordiale sul corpo come una pisciata divina, forte, scoordinata.

Oggi ho avuto questo ricordo, pensavo al mondo in cui sono alle cose che avevo fatto, e ho avuto questo ricordo del 2003. Quindi avevo trentatre anni. Troppo pochi. Quelli avevo. In pratica 2003 viene fuori che l'Iraq ha delle armi di distruzione di massa e Stati Uniti e Inghilterra premono per una azione di forza per rovesciare il regime di Saddam Hussein.

A questa cosa delle armi di distruzione di massa non ci crede nessuno. Quando oggi leggo i complottisti sorrido, perché non c'è bisogno di nessun complotto per fare azioni insensate e dettate dal puro potere e dagli interessi personali. In questo caso nessuno crede a queste armi di distruzione di massa e le piazze più volte si riempiono dei soliti rompicoglioni: i pacifisti, ma tanti.

Non ricordo se anche io ho parteciapato, il venerandi trentatreenne era più coglione di quello contemporaneo. Non tantissimo eh, ma abbastanza da non farmi ricordare se ero sceso o meno in piazza. Pensavo, nel 2003, che avrei avuto sempre tempo di scendere in piazza se fosse stato il caso.

Che coglione.

Comunque, che fossi sceso o meno ero davvero convinto che quella guerra non ci sarebbe stata. Voglio dire, avevano tutta l'opinione pubblica contro, tutta. Sono anche la stessa persona che ha pensato che l'iPod e l'iPhone sarebbero stati due fiaschi colossali, per dire la lungimiranza.

Ecco, quando ancora la guerra non era scoppiata e non si sapeva se sarebbe scoppiata o meno c'è stata questa cosa che oggi mi è venuta in mente mentro ero in auto e mi sono detto, appena sono a casa me la riguardo su Youtube.

Tony Blair, il primo ministro inglese, era andato su MTV a convincere i ragazzi che la guerra ci voleva, che l'Iraq aveva delle armi di distruzione di massa. Dico “convincere i ragazzi” perché di fronte non aveva un altro politico o un intervistatore, ma aveva 40 ragazzi di 16 – 24 anni, provenienti, cito dall'articolo che ho trovato in rete, da “United States, Britain, the Netherlands, France, Germany, Iraq, Israel, Italy, Kuwait, Libya, Norway, Palestine, Romania, Russia, Serbia, Spain, Sudan, Sweden and the Ukraine”.

Ecco, io quella sera ho acceso MTV e ho guardato Tony Blair rispondere alle domande di questi ragazzi MTV di tutto il mondo scioccati che l'Inghilterra e gli Stati Uniti partissero per una guerra che era chiaramente senza fondamento.

Di quella trasmissione ricordo una cosa: il volto attonito di Blair, confuso, incerto. All'epoca, sono ricordi di vent'anni fa, mi era sembrato come una mosca inchiodata dai ragazzi alla verità. Cioè: si vedeva che stava mentendo. Che stava provandoci, che ce la metteva tutta per essere convincente e le sue parole cadevano nel vuoto e rimbalzavano sui volti freddi dei ragazzi e si vedeva che lui provava imbarazzo, che non era a suo agio. Capiva che stava fallendo. Avrebbe dovuto convincere e più lo guardavo più si capiva che era tutto falso.

Ora: è un ricordo di vent'anni fa. Ero in auto, oggi, mi sono detto, magari è una deformazione della mia memoria. Magari non era stato così e all'epoca il mio giudizio sulla guerra mi ha fatto vedere in maniera pregiudiziale il tono, i gesti, la mimica di Blair.

E così sono tornato a casa e ho cercato su Youtube la registrazione di quella trasmissione, su Youtube c'è di tutto, per rivederlo e giudicare di nuovo quel momento, quell'azione politica. Magari – ho pensato – potrebbe venire bene per una lezione a scuola.

E qua arriviamo alla momento della memoria e della verità.

Su Youtube non c'è.

Ho cercato un po', ho messo anche il titolo della trasmissione, ho cercato su Google e – almeno a una rapida ricerca non ho trovato nessuna registrazione della trasmissione.

Tutto rimosso.

[se poi qualcuno la trova in qualche anfratto di internet mi avverta, grazie]

[la nuvoletta e la dinamo reloaded]

Insomma succede questa cosa tipo matrix quando i proiettili vanno lenti, io vedo la mia mano che sale con il portatile in mano chiuso nella sua second skin e al rallentatore uno spigolo del portatile urta con il bordo del tavolo e sento che il contraccolpo fa scivolare il portatile che – complice la lucida tela chimica della second skin- scivola via dalla mia mano e per il naturale peso cupertineo crolla verso il suolo mentre io urlo nooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo ed essendo l’azione al ralenty mi getto anche a volo d’angelo sempre urlando ooooooo ma essendoci sciocche leggi fisiche a reggere parte dell’apparato sensibile, prima che arrivi l’endorfina a dare il via ai muscoletti del mio corpo, il portatile è già caduto a terra e ha fatto TUNF.

TUNF.

Mi aspettavo un TUNK ma evidentemente la second skin, lungi dal proteggere effettivamente il prezioso powerbook in essa contenuto, ha almeno la capacità di modificare le consonanti finali delle cadute, trasformandole in qualcosa di più soffice, tipo la kappa in effe: TUNF.

Lo riprendo, tolgo la second skin e scopro che il powerbookino non si apre più e c’è un enorme bozzo come se lo avessi preso a martellate. Guardo il bozzo. Guardo il pavimento. Calcolo il tragitto della caduta del grave (circa 15 centimetri) e decido che quando la logica del powerbook mi darà il suo filosofico addio, prenderò il case di alluminio, lo taglierò a pezzetti con le forbici e lo metterò al microscopio per capire se è vero alluminio o solo la carta stagnola dei Brooklyn pressata con presse meccaniche di grosse proporzioni e poi lucidata con la vernice argentata del DAS.

‘No no cazzo no no no’ dico premendo più volte il pulsantino per aprire lo schermo e lo schermo non si apre e in quel momento arriva il mio collega. “Venerandi ci sarebbe...” inizia e poi mi vede lì chinato sul powerbook che premo il pulsantino sempre più nervosamente. “Venerandi che fai?” Io sto già sudando e non mi giro e poi invece cambio idea a mi giro e lo fisso negli occhi e gli dico che sto caricando il portatile. “C’è una specie di dynamo a mano, quando vedi che il portatile si sta per scaricare tu lo chiudi e premi un po’ di volte il pulsantino e la dynamo ricarica la batteria”. “Ah. Non avevo mai sentito...” “Ma sì dai, è tipo quello di Negroponte per l’africa, solo che invece della manovella c’è un pulsantino, perché apple bada molto al look e ha fatto questo micropulsantino da premere” “Capisco. Ma se quello è il pulsantino della dynamo, lo schermo del computer come lo apri?” “Con lo stesso pulsante” “Ma adesso non si sta aprendo” “C’è un sensore della temperatura, se tu sei calmo e quindi hai il sangue fresco lui apre lo schermo, se invece sei agitato stai sudando sei straincazzato perché tipo ti è caduto il portatile per terra e ora non si apre più lo schermo, allora la pressione del pulsantino carica la batteria, ok? Altre domande?” “Forse no” “Ottimo, allora lasciami con il mio dolore che devo finire di caricare la batteria” dico e continuo e premere il pulsantino e lo schermo non si apre. Il collega resta lì a guardarmi per qualche secondo poi sento che scivola via.

Io continuo a premere e inizio a fare anche un po’ di pressione per vedere se si sblocca e in quel momento squilla il telefono, guardo la lucina è il 313, che non è solo la targa dell’auto paperino, ma anche il mio interno. Tiro su la cornetta con una mano e la metto tra orecchia e spalla e con la mano libera continuo a premere il pulsantino, inizio anche a crederci un po’ a questa cosa che premendo si carica la batteria, voglio dire tutta questa energia che ci sto mettendo non può mica sparire nel nulla.

“Sì?” dico con voce infastiditissima, ma dall’altra parte sento l’economo che mi urla, adesso è apparsa! vieni! adesso! veloce che poi sparisce! e butta giù e io lascio perdere il Powerbook e mi lancio per le scale per salire fino al piano dell’economato perché è una settimana che l’economo mi dice che ad un certo punto della giornata gli appare una nuvoletta come di un fumetto, in basso a destra dello schermo gli dice ciao sono Windows e poi aggiunge cose molto importanti sulla sicurezza, c’è scritto anche attenzione e di cliccare per fare qualcosa che l’economo non capisce e ogni volta mi chiama per sapere se deve farlo e quando io arrivo la nuvoletta se ne è andata da sola e restiamo lì in silenzio ad aspettare e dopo un bel po’ l’economo mi dice, ma cazzo ti giuro che c’era e io dico ma scherzi? ti credo ma se non la vedo mentre c’è mica ci posso fare niente e me ne vado e l’economo non ha preso bene questa cosa, sta dimagrendo, si rode pensando a quella cosa a cui dovrebbe fare attenzione, ma che non sa cosa è, va giù duro di metafisica e pensa che sia un parto della sua mente che in realtà quella nuvoletta non esista e quindi io arrivo un po’ come un salvatore in fortissimo debito di ossigeno e appena entro ansimando nell’ufficio dell’economo vedo da distante il monitor e intravvedo in basso a destra una nuvoletta che non faccio tempo a dire ‘uh’ è sparita e l’economo si gira verso di me e dice eccoti! guarda! e si gira di nuovo verso il monitor e la nuvoletta non c’è più e l’economo dice nooooo! e poi si volta verso di me con il viso bianco e mi dice “l’hai vista?, cazzo l’hai vista almeno?” e io ansimo ancora un po’, mi metto una mano sul ginocchio e poi scuoto la testa e dico no. “Mi dispiace ma quando sono arrivato non c’era nessuna nuvoletta” e l’economo si mette la faccia fra le mani e lo sento gemere, e io ansimo ancora un po’ e poi gli dico, vabbè io vado di sotto, se ti capita ancora poi dimmelo eh, e lui manco mi risponde geme e basta.

Mentre scendo le scale fischietto, poi mi viene in mente del powerbook e smetto mi sembra la peggior giornata del mondo. Apro la porta del mio ufficio e vedo a) il mio powerbook con lo schermo aperto b) il mio collega di cui sopra che si sfrega l'indice sul maglione di lana, sembra voglia scaldarsi il dito o qualcosa del genere. Il suo volto tradisce una certa sofferenza. “Ma...” dico io indicando il powerbook e lui mi dice sì scusa se te lo aperto volevo provare a caricarlo ma si vede che ho la pelle fredda e quindi si è aperto, ho anche provato a scaldare il polpastrello sfregandolo ma niente, se ci provo si apre ogni volta. “Cioè questa cosa della batteria a dito è una figata e se funzionasse anche con me magari passo a Apple” Io scuoto la testa e mi avvicino a lui e gli prendo la mano in mezzo alle mie, con fare un po’ ieratico. “Hai la pelle fredda” sentenzio poi e gli mollo la mano e spiego che c’è un settaggio da fare, ma che lo fanno quando comperi la macchina. “Ogni powerbook ha un settaggio diverso, dovresti parlarne con il negoziante quando lo compri, loro prendono la tua temperatura e poi fanno il settaggio”.

“Ah” “E’ una cosa personalizzata. Si vede che tu hai la pelle fredda” “Lo dice anche mia moglie” “Vedi?” “Però lei si riferisce ai piedi” “Non andare oltre. C’è un limite oltre al quale la confidenza tra colleghi è bene che non si addentri” “Ok” “Comunque resterà fra noi” “Ok. Grazie” dice e esce un po’ furtivo e io chiudo la porta e mi siedo. Mi giro verso il powerbook, richiudo lo schermo e poi mi metto lì con il dito a ricaricare la batteria per una buona mezz’oretta.

“A volte mi capita di uscire dal mio corpo e di vedere le cose da un punto esterno molto lontano nel tempo e nello spazio e tutto diventa molto mitico, mi vedo davanti al mio schermo 21 pollici con Neooffice che macina macro e fuori c'è un cielo color cemento, di fronte la seriale ripetizione di tanti appartamenti popolari, e -siamo verso le undici del mattino- mi viene in mente di essere qualcuno in qualche posto collegato ad una rete globale, tanto più piccolo il mio ufficio, tanto più grande è la rete globale

e poi alzo la testa e penso che adesso su nettuno stanno tendendo i cavi per la digitale, i piccoli robottini di Nettuno stanno tendendo i loro cavi ottici e penso di collegarmi ai robottini e vedere via webcam il nudo terreno gelato di Nettuno e cerco l'ip di connessione e quindi mi sento tanto piccolo e tanto sostituibile, mi sento così seriale anche io, un mondo fatto di tanti venerandi seduti alle undici e mezza a bersi il loro caffè di fronte al loro terminale pensando che quel momento, il momento in cui io penso queste cose, si potrebbe dilatare per sempre come se si allargasse una finestra del finder per uno spazio che eccede i limiti fisici del 1024 per 768, o come -in seconda istanza- come se quel momento potesse tornare di volta in volta e qui faccio un inciso,

non so se vi è mai capitato di avere dei rapporti sessuali con una persona, a me sì ne porto alcuni frutti del peccato, ma poniamo adesso che non ci siano frutti del peccato, parliamo in generale del momento ugualmente mitico dei tre minuti immediatamente successivi al rapporto sessuale, magari si resta lì a fissare il soffitto, magari uno va in bagno e l'altro controlla su internet la posta o mette su un disco di Prince o un caffè, ci siamo capiti, ecco, quel momento io lo penso come il buco che c'è sull'ago e penso che la vita sia un inanellamento di quei buchi con un filo che unisce idealmente tutti quei tre minuti post rapporto e li unisce in un unico momento della durata totale relativamente breve, in prospettiva voglio dire, ecco che c'è una vita parallela fatta da tutti questi momenti post rapporto sessuale che noi riconosciamo per il linguaggio del corpo, il nostro corpo in quei tre minuti parla una sua lingua diversa, e quindi -sto per finire- dopo ogni rapporto io riconosco il venerandi che avevo lasciato dopo l'ultimo rapporto e vedo che lui sta continuando la sua vita attraverso il tempo e di tanto in tanto torna a salutarmi, torniamo ad avere per tre minuti lo stesso respiro e il corpo fatto di fibre tanto umane, ecco la fine dell'inciso,

ritorno nell'ufficio fuori dal mio corpo, mi vedo dall'esterno che penso queste cose e sospiro e faccio un salvataggio e scendo a prendermi una focaccia al bar dell'istituto, per la cronaca questa cosa mi succede ogni volta che metto il disco Heathen di David Bowie non mi chiedete perché è anche un disco recente niente effetto madeleine proustiane, comunque io scendo al bar con il mio Powerbook sotto il braccio e vedo gli altri venerandi che lavorano, con il loro Powerbook sotto al braccio, e alcuni mi salutano, altri passano come se non mi conoscessero, e io penso che bello essere immerso in così tanti venerandi e cammino abbastanza spensierato e penso che questa cosa che mi succede è perché sto cambiando, me ne rendo conto tenendo ben stretto l'alluminio tiepido del Powerbook che questo momento mitico è il momento in cui sto cambiando e certe cose prendono tutto un altro aspetto e capisco che anche voi che state leggendo Macworld,

anche voi state cambiando e anche voi ve ne siete accorti, aprendo un'applicazione, sentendo un rumore, trovando dietro a un armadio a cassetti un floppy disk blu da tre e mezzo senza etichetta che chissà quando c'è finito lì dietro e lo guardate senza sapere cosa c'è dentro, magari c'è un pezzo di voi venerandi che è stato completamente dimenticato, cancellato, e proverete malinconia, un vuoto improvviso allo stomaco, sentirete la nostalgia del suono del modem, dei monitor a fosfori ambra, delle porte adb che è meglio non staccarle a computer acceso anche se lo fanno tutti da sempre, dei floppy disk a cinque pollici e mezzo quelli tutti molli, dell'icona a forma di disketto di Word che vuol dire salva, del dinghetto che fa quando ha salvato, di mia moglie bionda ventenne che ti chiama perché la tastiera del suo Macintosh plus non funziona più e tu venerandi vai da lei e scopri che la tastiera è solo staccata dietro e capisci che non è distrazione ma amore, di quando hai fatto per la prima volta un collegamento localtalk tra due Macintosh con il cavo stampante e hai guardato il tuo amico venerandi e la tecnologia vi brillava negli occhi,

di Vanessa Paradise che canta Joe le taxi su dj television e tu capisci che oltre al macintosh c'è dell'altro, del Sinclair Spectrum di tuo cugino che carica interminabili giochini dal registratore a cassette e tua zia da dietro che guarda e chiede se volete fare la merenda, di quei cosi che sembravano delle pinzatrici ma in realtà servivano a fare un piccolo buco rettangolare nei floppy disk da 800 k per farli diventare dischi da 1400k che poi dopo che avevi fatto il buco ne buttavi via metà perché non funzionavano più, dei primi cd 1x che sono più lenti dell'hard disk ma ci sta un sacco di roba, di te con primogenito tremesenne in braccio alle quattro di notte che con un braccio reggi il figlio tenendogli il viso premuto sul tuo petto su cui hai messo un tattico ciuccio e con la seconda mano puoi cliccare davanti al monitor dell'iMac tangerino che fa balenare nella sala la sua spettrale luce bluastra, di iTunes che manda le radio new age con suoni che non sai da dove arrivano e non sai neppure dove andranno a finire,

del momento in cui il disketto viene sputato fuori e i computer dice che no, ragazzi, non è proprio leggibile, delle incomprensibili traduzioni della Jackson nei libri per la programmazione dei microprocessori z80, del momento in cui il sistema si aggiorna e ti dice benvenuto in Macintosh e il tuo computer sembra dirti, da oggi meraviglie bello, grandi meraviglie e di tutte quelle cose che rimarranno per sempre addormentate nella ram carnale della nostra testa, cose che danno il senso di un rapporto con un prodotto di mercato che queste cose non le aveva neanche lontanamente previste, perché i computer diventano obsolescenti e si cacciano via, noi invece ci modifichiamo e l'obsolescenza ce la teniamo dentro, diventa un pezzo di noi venerandi che siamo il g5 biprocessore a 2 gigahertz e rotti, ma dentro quel g5 c'è ancora un 6502 che lavora come un muscolo incandescente e non si può proprio togliere” finisco di dire e apro la finestra perché l'acqua che bolle ha riempito la cucina di vapore, sembra di essere in piscina.

“Cioé?” mi chiede Elettra alzando la testa dall'iBook. “Cioé niente” dico io. “E' il pezzo per Macworld” “Mh” fa Elettra e scuote la testa e poi dice che Lotti questo non me lo fa passare. “Cioé -dice- già ha poco senso che uno nell'epoca di internet comperi una rivista di carta per computer, se poi la apre e ci trova cose che parlano di tutto meno che di macintosh, quello non la compera più”. Scuote ancora la testa e ritorna a guardare lo schermo dell'iBook bianco che tiene sulle gambe.

“Ecco ecco” faccio io indicandola. “Anche delle riviste di carta che parlano di computer sentiremo nostalgia. Adesso tutti a dire che sono obsoletissime, che non valgono i soldi della spesa, poi appena una muore, beh ti accorgi che non c'è più e non c'è manco più la linea che univa l'ultimo numero uscito a tutti quelli usciti prima. Quando comperi una rivista comperi anche quella linea, su internet non c'è quella linea, non c'è niente, non rimane niente. Ci sono siti che leggevo tutti i giorni che adesso non sono neppure così sicuro che siano esistiti veramente”. Tossisco.

Elettra annuisce e dice sì sì, ma intanto me lo bocciano perché non fa ridere e io le dico che semmai ci metto due o tre “cazzo!” in mezzo che di solito funziona ma capisco che Elettra non mi ascolta più, sta giocando a Solitaire 'till down, e io sento già nostalgia di Elettra con l'iBook sulle gambe che gioca le sue migliaia di partite a Solitaire 'till down: anche di questo proverò nostalgia.

E infatti, oggi, 2023, a rileggere questo racconto di più di vent'anni fa, mi sento come un foro dentro alla fotografia in movimento che ho davanti, un tunnel che mi fa vedere cose che non esistono più.

Sospiro e vado in bagno, alzo la tavoletta e vedo i colori dell'autunno: tiro la catena e il rumore dello sciacquone copre il turbinio dei rotori delle astronavi in partenza per Nettuno.

[diario dalla cucina]

Sono qua che leggo ancora Tomorrow, and tomorrow and tomorrow e – per essere un romanzo che non mi piace – non è male. Sono a un terzo, proseguo, ma senza ansie. La vicenda racconta una storia d'amore nel mondo dei programmatori di videogame, il che lo rende piuttosto atipico. Mi disturba, l'ho già detto, che i riferimenti culturali siano sempre quelli giusti, sia eliminato il rumore di fondo della vita reale, rendendolo in alcuni punti una specie di bigino uso fiction tv.

Tipo, stamattina la protagonista metteva a posto i cd della sua collezione di giochi per PC: Commander Keen, Myst, Doom, Diablo, Final Fantasy, Metal Gear Solid, Leisure Suit Larry, The Colonel's Bequest, Ultima, Warcraft, Monkey Island, The Oregon Trail e, dice, “una trentina di altri”. E io leggo la lista e mi irrito perché sono tutte strizzate d'occhio al lettore. Dove sono gli altri? Dove sono i mezzi giochi, le boiate, i lavori di passaggio? Perché fare passare l'idea che esistano solo i capolavori nella vita di una persona e che uno sappia riconoscerli e tenerli con sé con tanta facilità? Bah.

Ieri in classe ho fatto provare sette studenti a fare una breve parte di Sei personaggi in cerca d'autore senza usare il libro, a memoria. Mi sono seduto in fondo alla classe e li ho lasciati fare. Piuttosto istruttivo. Nella loro versione, siccome lo studente che faceva il capocomico non aveva studiato la parte, il dramma termina con i personaggi che scocciati lasciano il palco e vanno a cercarsi un altro capocomico in altro teatro.

Interessante vedere come si divertissero a vedersi recitare e vedere emergere il diverso impegno e le diverse paure: lo studente che davvero si è imparato tutta la parte, abbastanza bene, e fa muovere lo spettacolo verso una conclusione spostando tutti gli altri con sé; quello che in classe fa sempre casino che – sul palco – si capisce che gli dà fastidio di non sapere la parte, ha paura di essere inadeguato e cerca strategie per essere se stesso e anche il personaggio che sta recitando; gli altri che un po' prendono in giro quelli che recitano un po' sono curiosi di seguire la storia, di vedere cosa ne verrà fuori.

Ho registrato tutto con il cellulare per rivederlo e mi sono anche reso conto che a volte è utile rivedere certe cose. La mia prima impressione era che il tutto fosse andato troppo alla carlona, mentre – rianalizzandolo con calma – ecco no, i punti in cui avevano lavorato erano più di quelli che mi erano sembrati da vivo. E a un certo punto si sente nella registrazione la mia voce, uno studente m chiede perché non ho tolto la cattedra e io gli rispondo perché sta andando a pezzi. E la mia voce è terribile, balbetto, sono incerto, ho una voce orribile.

Mi riascolto a casa e mi rendo conto che per buona parte della mia giornata io parlo senza ascoltarmi, ho una orribile voce automatica che dice cose, mi succede sempre quando mi riascolto nel mio parlare quotidiano e non controllato e quando mi succede mi innervosisco e vergogno, ho una voce mutante che non prende posizione, che si piega e si mette assieme per frammentazioni.

E mi dico come è possibile che sia la stessa voce di quello che poco prima era lì, davanti a loro a declamare Vogliamo tutto di Balestrini. Non ho la registrazione di quello, ma sono sicuro che la voce era completamente diversa. In pratica in me convivono – come in tutti – decine di venerandi diversi, ognuno con la sua voce, con il suo comportamento, e sono tutti appicicaticci e nervosi.

Questo per dire che agli studenti ho detto esattamente questa cosa, la settimana scorsa, ma non dicendo che era una mia idea, ma di Pirandello. Abbiamo poi letto un pezzo dove Pirandello effettivamente dice queste cose.

Alla fine gli ho detto di prendere un foglio, di fare un cerchio, di dividerlo in spicchi e di dirmi quante personalità erano nascoste dentro di loro. Quanti Claudia, Valerio, Fabiana, Enzo ci fossero dentro di loro e quanto spazio prendesse ognuno.

Me li hanno restituiti: beh, dentro di loro convivono allegria, simpatia assieme a ansia, insoddisfazione, senso di inadeguatezza. Quello che sono quando sono a scuola, quello che sono con gli amici, quello che sono quando sono con i genitori e quello che sono quando sono da soli. Ognuno in un proprio spicchio incomunicante. Messo nero su bianco.

Che gran casino.

Ieri poi camminavo in centro, avevo portato terzogenita a canto e camminavo pensando al pezzo che avevo letto di Vogliamo tutto, la scena dell'assemblea degli operai che dicono di volere tutto, di non volere più aiutare lo stato capitalista, di non volere più piccole concessioni, piccole riforme per farli stare abbastanza bene da aiutare i padroni a continuare a fare soldi.

E camminando nel quadrilatero genovese vedevo le insegne dei negozi, le storie appese ai muri, come tutto portasse a essere singoli, soli, unici con i propri prodotti contro al mondo. Quel senso di collettivo, di assemblea, di diritti condivisi non c'era più. Se sto male, ho pensato, non c'è nessuna società dove posso andare a piangere. Il Synlab lì, di fronte a me, mi avrebbe detto se avevo qualcosa di rotto dentro, pagando. Le storie di vita del caffè appese al muro erano lì per chi il caffé se lo pagava.

C'era energia e luce e calore emanata da ogni singola particella catastale, ma quell'energia, quella luce e quel calore avevano un costo che non era collettivo. Lo storytelling, i presidi culturali, i prodotti etnici mi portavano la loro narrazione e volevano che io e la mia carta di credito entrassimo a far parte di questa bella fiction analogica.

E così torno a casa e secondogenito è lì, con il suo sorriso ambiguo che ci aspetta, terzogenita si siede anche lei accanto a lui e io mi acciambello tra di loro; partecipiamo al rito collettivo della prima partita al nuovo Zelda, il giorno dell'uscita.

E siamo con Link a correre e saltare, unire oggetti, assieme a milioni di altri come noi, invisibili e lontani.

— papà — dimmi terzogenita — mi aiuteresti a fare l'analisi grammaticale? — ok — allora, la frase è “a mia sorella ho prestato un libro” — ok, partiamo da “a” — “a” è una articolazione articolata — certo — giusto? — le articolazioni sono quelle che mi sono spaccato per colpa tua — ah — di a da in con su per tra fra — ah! — cosa sono? — preposizioni! — brava — preposizioni articolate! non avevo sbagliato tanto allora... — non è articolata — ah — mi dispiace — allora è semplice — una banale generica preposizione semplice

[secondogenito con terzogenita]

— terzogenita — eh — come si chiama più chi lavora nella carneficina? — killer — ... — ma se intendevi macelleria, macellaio — ... — ... — intendevo dire macelleria — allora macellaio