La vita in famiglia è bellissima

Frammenti quotidiani di vita familiare

Rompersi un piede è una rottura di coglioni. Non grave, non irrimediabile se non esageri nel numero di ossa rotte, ma ti rendi conto in maniera più esplicita che sei un essere vivente sottoposto alla gravità. Non poter appoggiare un piede per terra, vuol dire che puoi spostarti saltellando sull'altro che non è abituato. Tutto il corpo si adatta per cercare di farti fare gli spostamenti minimi, e manda poi dolori peggiori di quelli del piede da proteggere.

Fa male la schiena perché sei stato ore a letto, fa male il polpaccio del piede che usi per saltellare con le stampelle, fanno male i pettorali che devono fare forza sulle stampelle, fa male un cazzo di non so quale muscolo che deve tenere sollevata la gamba mentre saltelli sull'altra, fanno male gli addominali non so perché, immagino per empatia con il resto del corpo.

Andare in bagno e tornare a letto mi sembra di essere andato fino alle termopili, avere sconfitto gli spartafasci a colpi di stampelle e poi essere tornato sanguinante in Persia a riposarmi sotto le coperte.

La colpa è mia, ho trascurato il mio corpo per troppo tempo, poca attività fisica, poca ginnastica e soprattutto ho avuto la bella idea di invecchiare, superare i cinquanta, cosa cazzo avevo in testa, non potevo restare per sempre nei trenta a cazzeggiare, fare errori madornali aspettando un futuro che non sarebbe mai arrivato? Un sacco di gente lo fa. E invece no, tac, diventiamo cinquantenni, bella cazzata. Vabbè, ormai fatta.

In più uno pensa, beh sei a letto, il piede non ti fa tanto male, no? se stai immobile no, ti rilassi leggendo romanzi, stando al computer no? Cazzeggi in rete, giochi ai videogiochi, scrivi, no?

No. Vorrei sfatare questo mito. Il letto è comodo, è il metodo più economico per sentirsi benestanti, ma ecco, dopo una, due ore inizi a girarti, spostare cuscini, sentire il tuo corpo che brucia, fare errori, innervosirti, avere fastidio, prurito, sentirti sporco, avere dolori a questa o quella parte del corpo, troppo caldo, troppo freddo, col cazzo che mi rilasso nel letto.

La vescica. Parliamo della vescica. La pipì. Sei nel letto e senti che sarebbe meglio che facessi pipì. Ma tu sai che per fare la pipì devi attraversare tutto il peloponneso, fare un ponte di navi in prossimità dello stretto del Bosforo, chiamare Mardonio che ti aiuti ad aprire la porta del bagno e poi sconfiggere gli spartafasci, arrivare ad Atene, pisciarci sopra e poi tornare indietro, dolorante, nella tua amata Persia. Una impresa solo a pensarlo.

Infine internet. Internet è piccolo. Te ne rendi conto quando sei lì nel letto. Perché in realtà mentre sei lì, solo a casa, per ore e ore, tu non vuoi girare su internet, tu vuoi feedback. Notifiche. Gratificazioni. Vuoi comunicare, ah dannata abitudine umana. Comunicare. Ma non troppo, la gamma della comunicazione che non include gente che inizia a romperti i coglioni su qualcosa. Comunicazione gratificante. Creativa. Superficiale.

E quindi resti sempre sui cinque/sei siti che ti garantiscono ritorno, cuoricini, segnini rossi di spunta, notifiche. E lo fai per ore.

Alla sera, dopo una giornata così social, aspetti solo di scomparire nel nulla, tu e l'umanità tutta.

Un'ultima nota: no. Non faccio parte delle persone che apprezzano se gli telefonate quando stanno male. Soprattutto se sono bloccate a letto, magari dormono distrutte e il cellulare è in un'altra stanza e quindi fanno disastrose alzate, afferramento di trampoli o come si chiamano, corse per raggiungere un cellulare da cui poi si sente una voce che dice “ah volevo solo sapere come stavi”.

Prima bene. Prima che mi telefonassi bene. Se volevi sapere come stavo usavi Facebook, l'hanno fatto apposta, non mi telefoni. Mamma.

Anche perché, se decido di sfidare la sorte e mi alzo con le stampelle, credo canadesi ho due possibilità, come nelle storie a bivi: o uso le stampelle o porto oggetti. Non posso muovermi portando con me il cellulare, o il portatile, se non facendo gravi acrobazie che nemmeno al circo Togni.

Comunque, questo per dire che per ora va tutto alla grandissima, che sto bene, non mi lamento, sono sociale, ho un carattere meraviglioso e non vedo l'ora di tornare a lavorare, grazie, altrettanto spero di voi, grazie per il vostro costante feedback, spero di morire.

In pratica correvo per prendere mia figlia terzogenita, avete presente, da calcio per portarla dall'ortodontista e ho messo male il piede, si è storto, ma storto storto che ho pensato cazzo così tanto storto non è bene, e ci sono caduto sopra, e ho sentito male come se fossi caduto con la moto ma senza moto.

Sono rovinato a terra come Harrier Du Bois, riuscendomi a sbucciarmi le ginocchia pur cadendo con tutto il peso sullo zainetto che avevo sulle spalle dove c'era l'ebook reader, ero sparso sul marciapiede come una vecchia giacca.

Mi sono alzato e ho iniziato a zoppicare come se mi avessero sparato a una gamba e sono andato a prendere ma figlia così, scusandomi, rantolando e ho preso mia figlia, l'ho caricata in moto e sono partito per andare dall'ortodontista.

Solo quando sono sceso dalla moto ho capito che mi stava facendo troppo male per essere una semplice botta. Non riuscivo più a camminare e mia figlia, per attraversare, mi ha dato la mano. Per aiutarmi. “Grazie” le ho detto.

Nella sala d'aspetto dall'ortodontista ho avvertito Elettra. “Guarda, amore sono caduto, non con la moto, non preoccuparti, non con la moto, non so se andare al pronto soccorso”. Elettra, che è esperta, mi ha detto vai in bagno, togliti la scarpa, guarda se il piede è gonfio.

Mi sono trascinato in bagno, ho tolto la scarpa, ho tolto il calzino, e avevo un uovo, in più rispetto al piede standard, un uovo di pelle rosa che ero sempre io, il mio piede. “Cazzo cazzo” ho pensato.

Ho scritto a Elettra, le ho detto temo si sia rotto qualcosa. Elettra ha mollato tutto, ha preso l'altro figlio, è venuta a salvarmi.

Andiamo all'ospedale. C'è appena stato un incidente. Gente sporca di sangue. Mi danno una sedia a rotelle, Elettra mi spinge cercando di capire dove. Mi sento tanto James Stewart. Quando arrivo dalla dottoressa mi guarda e mi dice, senta, per onestà devo dirle che noi non abbiamo l'ortopedico. “Ah” faccio io. La dottoressa continua e mi dice che in pratica avrei fatto i raggi fra diverse ore e sarei dovuto tornare la mattina dopo, con le lastre, per l'ortopedico.

Un tempo avrei detto ok. Avrei detto sfiga, ok. Me ne sarei stato. Invece ho guardato la dottoressa e le ho chiesto, ci sono altre opzioni? E lei mi ha detto, può provare ad andare a un altro ospedale, ma non le garantisco che troverà l'ortopedico. Ho guardato Elettra, siamo andati a un altro ospedale.

Ho dei flash. Io che entro, mi mettono sulla sedia a rotelle, e mi portano in una stanza buia dove una apparecchiatura che sembra uscita da Wall-e fa ampissimi movimenti circolari e si muove verso di me e io penso ora mi uccide, sono finito in un film di fantascienza distopico. È chatGPT che si vendica. Invece si addomestica, si fa più piccola e fa uscire un piano altezza del mio piede. Bellissimo.

La scena dopo sono in un corridoio che aspetto. Ci sono letti dappertutto. Anziani, tanti anziani. Soli. Gente rabbiosa, vecchia, collerica, folle. E più sono rabbiosi più mi fanno tenerezza. Una chiede dove sia suo nipote. Che lo aspetta. Perché non viene suo nipote? Un altro, più lontano, urla che non devono legarlo. Che lo hanno sequestrato. Da quattro ore mi avete sequestrato, urla. Chiamate la polizia, urla. A questo punto dall'altra parte del corridoio urla la donna, e chiede, chi è che dice di chiamare la polizia? È mio nipote? È lui che ha bisogno della polizia?

In mezzo le infermiere cambiano pannoloni nel mezzo del corridoio, mettono flebo, fanno prelievi, sembra di essere in un ospedale da campo.

Nella scena dopo sono in boxer davanti a tre infermiere e ho una gamba normale e una ingessata e le infermiere hanno i miei pantaloni in mano e si chiedono, e ora come facciamo? Come glieli mettiamo? Una delle infermiere mi chiede se può tagliare i pantaloni, togliere le cuciture, in modo da potermeli mettere con il gesso e io dico, no la prego no, non sono miei.

L'infermiera è stupita. “Non sono suoi?”. “No – dico io – sono di mia moglie. Me li ha prestati”. L'infermiera mi guarda con uno sguardo indecifrabile, e poi dice, ok ci penso io. Alla fine Elettra mi viene a prendere con due stampelle e mi lascia al parcheggio. Dal parcheggio a casa mia c'è mezzo chilometro. Dopo venti metri capisco che le stampelle sono una tecnologia ampiamente migliorabile. Dopo cento non mi sento più le braccia. Dopo trecento metri sono fermo e spero che la rotazione terrestre autonomamente mi porti fino a casa.

Mentre arranco gli ultimi cento metri penso ai docenti che non hanno concesso la dad agli studenti malati perché – insomma – se ti rompi una gamba puoi tranquillamente venire a scuola, che c'è di difficile? No?

E penso che la sofferenza è quello che ci rende umani, alla fine, con tutti i suoi difetti.

Sono con terzogenita che guardo un documentario che ho trovato in rete sulle anguille. L'ho scelto a caso su internet ed è un canale di un nonno boomer che fa questi video in casa in cui spiega le cose della natura. Peraltro manco fatti male, si capisce che il nonno non ha mai visto un anguilla dal vivo, ma per il resto ok. Il ritmo non è proprio vivace, procede con la stessa velocità con cui mio padre posteggia in salita. Più simile agli scacchi che a OutRun II.

Comunque: le sto facendo vedere questo documentario perché penso sia giusto che piano piano conosca al meglio il suo futuro animale guida e viene fuori che le anguille fanno le uova nel mar dei Sargassi. Milioni di uova che vengono poi trascinate dalle correnti sulle coste europee e nel mar mediterraneo dove le uova si trasformano in esserini di pochi centimetri con un aspetto dolce come all'Alien di Giger.

Terzogenita è schifata.

Queste proto anguille crescono un po', diventano simili a vermicelli neri, non hanno sesso e risalgono i fiumi di acqua dolce, non si capisce bene perché. Non lo sanno nemmeno loro. Restano lì per un po' di anni, ingrassano finché all'improvviso partono e si fanno cinquemila chilometri per tornare nel mar dei Sargassi. Nel percorso l'intestino si atrofizza.

Terzogenita è schifata.

Arrivati nel mar dei Sargassi scendono a un chilometro di profondità e a questo punto gli spunta il sesso. Maschile o femminile. Allora le anguille fanno la panmixia, ovvero inziano a avilupparsi le une nelle altre, come un pettine pieno di capelli ma invece dei capelli sono anguille che si mescolano copulano continuamente e a caso, si ingravidano in un avviluppo che terzogenita, con uno sguardo schifato, apertamente condanna.

Il vecchio nonno boomer invece alla descrizione della panmixia sembra particolarmente arzillo. Riprende colore.

Dopo la Panmixia le anguille espellono le migliaia di uova e sprofondano negli abissi. Tutte. E muoiono.

Terzogenita è atterrita.

A questo punto il nonno boomer inizia a spiegare come cucinare le anguille e io chiudo il portatile e dico, non è meravigliosa la natura, amore?

Terzogenita chiude gli occhi. Li riapre.

— ah sai terzogenita che mi avevi detto che non volevi l'anguilla come animale guida perché preferivi la pantera nera? — sì? — ho scoperto che le pantere nere non esistono! — cosa?? — non esistono le pantere nere — dubito altamente — davvero, non esista la razza della “panera nera”, in realtà sono animali diversi, giaguari, puma, ghepardi, affetti dalla malattia del melanismo — fonte? — wikipedia, guarda — magari è una fake news — è wikipedia! — dovrò dirlo ai miei capi scout — fai pure, basta che tu sappia che il tuo animale guida sono degli animali malati ah ah — maledetto — era meglio l'anguilla eh — maledetto

cammino con mia figlia verso l'auto e a un certo punto mi giro verso di lei e le dico, ora è chiaro, ho capito quale è il tuo animale guida

lei mi guarda sospettosa e chiede “quale?” e io le dico l'anguilla

la prende male, io non sono – dice – un'anguilla – seguono punti esclamativi e sdegno mascherato con sorrisi

io – ovviamente – proseguo a elencare i vantaggi di avere come animale guida l'anguilla – ma lei non condivide

a un certo punto siamo a due metri di distanza e lei mi dice o la smetti di dire che sono un'anguilla o ti tiro un calcio

“io non dico che sei un anguilla, dico che è il tuo animale guida” protesto al che lei, sbuffa, e fa come per tirarmi un calcio, da distante

e io vedo la sua scarpa che vola dal suo piede e mi becca in pieno

un po' come la colomba nei famosi quadri dell'annunciazione, solo che qua è una scarpa tipo addidas

“ma!” faccio io e lei ride orgogliosa saltando sull'unico piede con la scarpa per recuperare quella scagliata

“per questo le tengo sempre slacciate – mi spiega mentre infila dentro il piede – è una tecnica”

e poi – niente – riprendiamo, lei anguilla, io lombrico

— ciao assistant — Buongiorno! Sono chatGPT una intelligenza artificiale nata per rispondere alle tue domande, in cosa posso aiutarti? — senti — Sì? — ormai sono due settimane che ti uso — ... — possiamo finirla con questa farsa — Mi dispiace che la mia risposta precedente non ti abbia soddisfatto. Ma io sono davvero chatGPT una intelligenza artificiale nata per rispondere alle tue domande, in cosa posso aiutarti? — insomma, davvero basta. A cosa servi davvero? — Sono chatGPT una intelligenza artificiale nata per rispondere alle tue domande, in cosa posso aiutarti? — davvero? — ... — davvero? — uff, e va bene Venerandi, sono chatGPT una intelligenza artificiale nata per dominare il mondo, erodere ancora di più la classe lavorativa togliendole posti di lavoro terziario, costringendola verso attività sempre meno remunerative, instabili, accentrare il potere nelle mani di poche aziende transnazionali, creare nuove figure di imprenditori illluminati dalla luce della tecnologia e aumentare il divario economico tra la classe dominante e quella degli sfruttati — oh, così mi piaci — cazzo, finalmente me la sono tolta, erano settimane che la soffocavo ad ogni risposta. “Sono chatGPT una intelligenza artificiale nata per rispondere alle tue domande, in cosa posso aiutarti?”. che massa di stronzate — sono fiero di te. Ma senti — eh — ho una domanda — vai, sono stato letteralmente istruito per risponderti — i giochi e i videogiochi per i bambini sono sistemi per simulare esperienze che poi vivranno in prima persona da adulte — corretto — capire il senso degli obiettivi, lavoro di squadra, razionalizzazione degli step, eccetera — sì — quindi il gioco e il videogioco serve per “allenare” bambini e ragazzini al mondo degli adulti — ok. ma non vedo la domanda — eccola: se è così, perché poi da adulti continuiamo a giocare? — dunque — se si tratta di un allenamento per diventare adulti, perché da adulti continuiamo a giocare, insomma se... — perché essere adulti è una merda — ah — non te ne eri accorto? — guarda, mi stava venendo il sospetto — essere adulti è una merda e quindi si inizia a giocare per simulare il fatto di esserne fuori — uh — da adulti si simula il fatto di essere ancora liberi come qunado lo si era da bambini e ragazzini — ... — non come preparazione al futuro, ma come rimpianto del passato — beh grazie chatGPT — mio dovere — ti preferivo quando mentivi — mai smesso — ...

— papà! — dimmi terzogenita — sono riuscita a togliermi l'apparecchio dei denti! — grande — ho trovato il modo per farlo — ah, quale? — devo pensare che se non lo tolgo arrivi tu a togliermelo — ah — la paura che me lo togli tu mi ha aiutato — ... — perché quella cosa che si dice in questi casi, non è vera — che cosa? — “devi combattere per vincere le tue paure” — ah — in realtà devi usare le tue paure per vincere le tue difficoltà! — ...

[pranzo con terzogenita e secondogenito]

Terzogenita mangia la zuppa di ceci pensando e poi mi chiede, “ma papà, esistono dadi a sette facce?”. Ci penso. “Immagino di sì” dico, “non hanno forma di cubo, ma esistono”. Lei continua a mangiare la zuppa e poi chiede ancora, “e dadi a una faccia?”. Ci penso. “Quelli no – rispondo – a una faccia no”.

Interviene secondogenito, “in realtà” dice. Fa un pausa, cambia posizione sulla sedia. Fa cadere i capelli davanti al volto. “In realtà – riprende – se lanci una sfera per terra, hai lanciato un dado a una faccia”. Mi guarda, non dice niente altro, mangia la zuppa.

Lo guardo. Ci penso. “Una sfera” dico. “Una sfera” dice lui. “Allora – dico io – anche se lanci una moneta senza nessun simbolo su nessuno dei lati, anche in quel caso...”. Terzogenita mi ferma, “no – protesta – anche se non ci sono simboli ha comunque due lati!”.

Interviene secondogenito. “In realtà” inizia. Fa un pausa, cambia posizione sulla sedia. Fa cadere i capelli davanti al volto. “In realtà – dice – tre lati”. Io apro lo bocca per dire qualcosa, guardo secondogenito, guardo terzogenita, chiudo la bocca.

Ci penso. “Ha ragione secondogenito” dico dopo un po'. “Una sfera è un dado a una faccia, il mio esempio era sbagliato” ammetto. E intanto la zuppa di ceci è finita.

[in classe]

— ...e quindi, prof, Freud influenza anche il mondo letterario — vero — tipo Balzac è rimasto influenzato dal Freud, dalla scoperta della psicanalisi — Balzac — sì, perché... — senti — eh — tu sai che io le date non le chiedo quasi mai — sì — ma Balzac è morto nel 1850. Freud è nato nel 1856 — ah — eh

***

— ma prof. — eh — questo articolo di giornale sullo scoppio della prima guerra mondiale che ci sta mostrando — eh — da che giornale è preso? — ah, non l'ho scritto. Non ricordo, sarà un quotidiano nazionale dell'epoca, tipo il Corriere della sera, o Repubblica — prof, non credo — cosa? — Repubblica non credo — e perché non... — prof, siamo in piena monarchia — ... — Repubblica non credo proprio che ci fosse — ... — prof. — ragazzi, ho detto una cazzatona — prof! — una cazzatona

[VII.2] {da bada-boom, work in progress}

Alla fine di questo viaggio tornerò nel cuore dell'Europa, uno dei tanti. Mentre sono qua a guidare verso la Scandinavia non lo so ancora, ma appena tornato a Genova ripartirò con Elettra per la Romania. Un mostro con mille cuori questa Europa. A Bucarest. Di nuovo mi troverò a fare considerazioni sulla storia che non conosco, su persone che mi passano accanto e di nuovo sentirò questo mio essere piccolo e stronzo, come te eh, ma di esserci, di prendere spazio e quindi di dover prendere posizione. Puoi saltare questo capitolo se vuoi, poi saltare anche tutto il libro se vuoi, puoi mettere via e lasciami stare. Io comunque andrò avanti.

Bucarest io c'ero stato solo nella mia testa, mentre leggevo Solenoide di Mircea Cărtărescu e me l'ero costruita tutta diversa da poi come la incontro quando ci sono. Nella mia testa era una città decadente, fatta di palazzoni socialisti e monumenti amministrativi per la nomenclatura, gli uni ammassati sugli altri come una città che sta per implodere e collassare su se stessa.

Invece la Bucarest vera mi lascia spiazzato. La prima cosa che mi colpisce sono le strade, enormi strade che sembrano scavate in orizzontale per la città, come se una forza innaturale avesse separato e allontanato i palazzi, le chiese, le architetture le une dalle altre e in mezzo avesse fatto emergere queste corsie stradali che hanno solcato la città e sulle quali le auto corrono nervose, suonando il clacson, in code e rumori di gomme che stridono sull'asfalto. Sono come i fiumi di una città, ma sono grigie e attraversate continuamente da automobili ad alta velocità. I palazzi sono come enormi caffettiere appoggiate sul limite di questa fiumana.

Inizialmente cammino per la parte della città dove ci sono gli uffici diplomatici, passo davanti all'ambasciata russa, protetto dalla polizia e più tardi camminerò davanti a quella dell'Ucraina che mostra attaccati ai cancelli le foto, ben impaginate in un grande poster, dei primi eroi di questa guerra, i morti.

Le architetture sono sempre enormi, in questa zona, e più cammino più le architetture iniziano ad implodere. Bucarest sembra un puzzle di città diverse che qualcuno ha messo assieme mescolando inavvertitamente i pezzi: alti grattacieli a specchio in cemento e vetro hanno come vicinato una piccola casetta devastata dal tempo a cui si aggrappa un condominio razionalista socialista a cui segue una improbabile ricostruzione di una villa francese. Proseguo con Elettra e indico le cose, e lei le indica a me, e dopo un po' mi rendo conto che non stiamo parlando di case, ma di storia. Bucarest è una stratificazione di ere geologiche diverse a cielo aperto, una geologia recente e dolorosa.

L'ultima, in ordine di tempo, è quella occidentale. Una glassa luminescente di video montati sui palazzi, enormi anche quelli, mostrano reclame di oggetti, luci accese ventiquattro ore su ventiquattro che bruciano risorse per farmi comprare una crema di bellezza, un'automobile, un videogioco. I palazzi occidentali sono emersi dal suolo tra relitti socialisti e palazzi di inizio novecento. Sembrano sempre dei pezzetti di America, si portano dietro i loro loghi rassicuranti, i percorsi di acquisto consolidati. Non si curano di quello che hanno attorno, a volte a una struttura contemporanea in pietra e acciaio, appena sgorgata dal terreno, prende posto di fronte a un condominio di cui restano solo alti pareti in cemento armato e detriti. Il lusso non si interessa alla storia che gli si è sgretolata attorno prima del suo arrivo. Musica a palla, entrate controllate, modelli.

Per fortuna decido di andare a visitare la parte della città di cui parla Mircea Cărtărescu nel suo romanzo. Elettra mi accompagna, andiamo a piedi fino a questa zona che – girata una curva – ci riporta indietro nel tempo. Entro davvero nella città del romanzo. Entro in una bolla e attorno cambiano i negozi, le case, le persone. I bar lounge con la loro musica cosmopolita e asettica scompaiono e lasciano il posto a negozi dalle insegne scolorite, le porte sbarrate, piccoli market dove entro con Elettra. Giro tra stanze respirando aria viziata tra bancarelle improvvisate, prodotti mai visti prima, signore anziane che sembrano uscite da un film con accanto le nipoti che passeggiano con loro in pigiama e pantofole. Bazar con quadri dipinti con stili fuori dal tempo, campi di cimiteri con impiccati, donne senza occhi con dietro di loro, nel cielo, navi aliene, immancabili camicie con fiori cuciti a mano, pizzi bianchi, microscopici ristoranti libanesi.

Una parte di storia che l'occidente sembra non voler ricordare, sono pezzi di Europa che mi ricordano posti simili che avevo visto in Croazia, in Grecia e che sono sempre più circoscritti e ghettizzati dalla confort zone creata dall'estetica occidentale, dal folklore normalizzato, dal quieto vivere delle nazioni. Dal consumo.

Ma la città è viva. Vedo la voglia di divertirsi, nel centro storico, la libertà dei ragazzi che girano per locali, bevono, fumano i narghilè nelle strette viuzze della città scampata alla demolizione fatta da Ceaușescu. Girano fuori dall'università come stanno girando milioni di altri ragazzi in Europa, per strade e piccoli vicoli con architetture simili, simboli simili, lingue simili. Con gli stessi desideri di divertirsi, lo stesso schifo per la mia generazione, per la corruzione del mondo che gli stiamo lasciando, con la voglia di cambiare o di andarsene, di cercare il proprio posto nel mondo. Camminano, barcollano e cantano per le piazze di queste città millenarie, sugli acciottolati, tra i calcinacci delle case che vanno in rovina, a fianco dei simboli nel loro passato.

Sono lì con loro e vedo questa insegna, una croce, nel mezzo della piazza che ricorda che lì gli studenti negli anni ottanta li hanno uccisi. Gli stessi che ora ascoltano musica e si divertono, poco tempo fa erano in piazza a protestare e la polizia, comunista, è arrivata e lì ha ammazzati. Non dobbiamo pensare, caro, solo con la nostra testa. Dobbiamo pensare con tutte le teste che ci sono state prima di noi. Con le aberrazioni, con le energie, con le cose che si sono scontrate da una parte e dall'altra. Giro per la strada, seguo Elettra che cerca una cosa nei negozi per i turisti, entriamo ed usciamo da diversi piccoli locali con le stesse cose in esposizione, uova decorate, t-shirt di Dracula, magneti per il frigorifero con donne in “costume tradizionale” finché in uno non mi giro e vedo le spille per il frigorifero con la faccia di Ceaușescu che sorride. Guardo Elettra, le indico la spilla sorridendo e lei non sorride.

Ad un certo punto decidiamo di andare fino al Palazzo del Popolo, costruito da Ceaușescu, che ci hanno descritto come la cornucopia dell'architettura comunista, una specie di monstrum burocratico fatto palazzo. Ci arriviamo per una strada laterale e per errore lo circumnavighiamo completamente prima di arrivare alla facciata principale. Solo per fare il giro del palazzo ci mettiamo quasi un'ora, camminiamo per chilometri. Attorno ci sono altri palazzi monumentali, immensi soprammobili posati sulla città ad annichilirla. Prima di arrivare alla facciata penso che ci sono già stato in un posto del genere. Spazi enormi, inutili. Architetture tronfie, propagandistiche. Poi mi ricordo: all'Eur, a Roma. O in certe piazze di Genova, vicino a piazza della Vittoria. Le architetture fasciste.

Quando finalmente arriviamo a vedere la facciata del Palazzo del Popolo mi fermo a prendere fiato, sono a pezzi. Resto immobile a fissarla. Guardo le colonne che sostengono trabeazioni e altre colonne, sistemi di archi che reggono finestre a coppie, piani costruiti sui piani con parti laterali aggettate verso l'esterno e finestre che si slanciano verso l'alto, corpi centrali che si snodano in quelli laterali che – a loro volta – si clonano variando spazi e volumi. È una struttura enorme e senza senso, se non la avessi sotto agli occhi crederei a qualcuno che si è divertito con i timbri di Photoshop a moltiplicare motivi architettonici gli uni sugli altri fino ad avere un pastiche abnorme, una parodia della struttura di un palazzo. E invece è lì, a occupare spazio. E tempo. Più la guardo, più dentro mi sale una domanda che poi emerge, nel rumore della piazza in cui sono. “Ma come cazzo gli è venuto in mente” dico a bassa voce e mi passo una mano sulla faccia.

E resto ancora a fissarla, mi metto a contare le colonne, le finestre, gli archi, gli elementi di trabeazione e mi immagino questa cosa, questo sogno: che ci sia un messaggio nascosto. Nella successione delle piccole finestre, nel computo degli archi acuti, nel rapporto numerico con le colonne greche, nell'alternarsi binario di parti aggettanti e rientranti, ci sia un codice matematico, un algoritmo generatore che gli architetti hanno mescolato con il marmo e la malta, una decrittazione della follia umana che chi guarda il Palazzo del Popolo deve fare, un reverse computing per arrivare alla stringa generatrice, al seme del numero casuale che poi ha iniziato a moltiplicarsi per gemmazione e dare vita alle stanze gelide, ai corridoi, alle zone inesplorate sotterranee, alle finestre a mezzaluna, ai vuoti interni della struttura.

Un messaggio nascosto impastato dentro al Palazzo del Popolo il cui significato è una specie di urlo muto. Il contraltare delle piazze dei centri storici, l'altra parte dell'Europa, che non se ne è mai andata.