La vita in famiglia è bellissima

Frammenti quotidiani di vita familiare

[in classe]

— ...e quindi, prof, Freud influenza anche il mondo letterario — vero — tipo Balzac è rimasto influenzato dal Freud, dalla scoperta della psicanalisi — Balzac — sì, perché... — senti — eh — tu sai che io le date non le chiedo quasi mai — sì — ma Balzac è morto nel 1850. Freud è nato nel 1856 — ah — eh

***

— ma prof. — eh — questo articolo di giornale sullo scoppio della prima guerra mondiale che ci sta mostrando — eh — da che giornale è preso? — ah, non l'ho scritto. Non ricordo, sarà un quotidiano nazionale dell'epoca, tipo il Corriere della sera, o Repubblica — prof, non credo — cosa? — Repubblica non credo — e perché non... — prof, siamo in piena monarchia — ... — Repubblica non credo proprio che ci fosse — ... — prof. — ragazzi, ho detto una cazzatona — prof! — una cazzatona

[VII.2] {da bada-boom, work in progress}

Alla fine di questo viaggio tornerò nel cuore dell'Europa, uno dei tanti. Mentre sono qua a guidare verso la Scandinavia non lo so ancora, ma appena tornato a Genova ripartirò con Elettra per la Romania. Un mostro con mille cuori questa Europa. A Bucarest. Di nuovo mi troverò a fare considerazioni sulla storia che non conosco, su persone che mi passano accanto e di nuovo sentirò questo mio essere piccolo e stronzo, come te eh, ma di esserci, di prendere spazio e quindi di dover prendere posizione. Puoi saltare questo capitolo se vuoi, poi saltare anche tutto il libro se vuoi, puoi mettere via e lasciami stare. Io comunque andrò avanti.

Bucarest io c'ero stato solo nella mia testa, mentre leggevo Solenoide di Mircea Cărtărescu e me l'ero costruita tutta diversa da poi come la incontro quando ci sono. Nella mia testa era una città decadente, fatta di palazzoni socialisti e monumenti amministrativi per la nomenclatura, gli uni ammassati sugli altri come una città che sta per implodere e collassare su se stessa.

Invece la Bucarest vera mi lascia spiazzato. La prima cosa che mi colpisce sono le strade, enormi strade che sembrano scavate in orizzontale per la città, come se una forza innaturale avesse separato e allontanato i palazzi, le chiese, le architetture le une dalle altre e in mezzo avesse fatto emergere queste corsie stradali che hanno solcato la città e sulle quali le auto corrono nervose, suonando il clacson, in code e rumori di gomme che stridono sull'asfalto. Sono come i fiumi di una città, ma sono grigie e attraversate continuamente da automobili ad alta velocità. I palazzi sono come enormi caffettiere appoggiate sul limite di questa fiumana.

Inizialmente cammino per la parte della città dove ci sono gli uffici diplomatici, passo davanti all'ambasciata russa, protetto dalla polizia e più tardi camminerò davanti a quella dell'Ucraina che mostra attaccati ai cancelli le foto, ben impaginate in un grande poster, dei primi eroi di questa guerra, i morti.

Le architetture sono sempre enormi, in questa zona, e più cammino più le architetture iniziano ad implodere. Bucarest sembra un puzzle di città diverse che qualcuno ha messo assieme mescolando inavvertitamente i pezzi: alti grattacieli a specchio in cemento e vetro hanno come vicinato una piccola casetta devastata dal tempo a cui si aggrappa un condominio razionalista socialista a cui segue una improbabile ricostruzione di una villa francese. Proseguo con Elettra e indico le cose, e lei le indica a me, e dopo un po' mi rendo conto che non stiamo parlando di case, ma di storia. Bucarest è una stratificazione di ere geologiche diverse a cielo aperto, una geologia recente e dolorosa.

L'ultima, in ordine di tempo, è quella occidentale. Una glassa luminescente di video montati sui palazzi, enormi anche quelli, mostrano reclame di oggetti, luci accese ventiquattro ore su ventiquattro che bruciano risorse per farmi comprare una crema di bellezza, un'automobile, un videogioco. I palazzi occidentali sono emersi dal suolo tra relitti socialisti e palazzi di inizio novecento. Sembrano sempre dei pezzetti di America, si portano dietro i loro loghi rassicuranti, i percorsi di acquisto consolidati. Non si curano di quello che hanno attorno, a volte a una struttura contemporanea in pietra e acciaio, appena sgorgata dal terreno, prende posto di fronte a un condominio di cui restano solo alti pareti in cemento armato e detriti. Il lusso non si interessa alla storia che gli si è sgretolata attorno prima del suo arrivo. Musica a palla, entrate controllate, modelli.

Per fortuna decido di andare a visitare la parte della città di cui parla Mircea Cărtărescu nel suo romanzo. Elettra mi accompagna, andiamo a piedi fino a questa zona che – girata una curva – ci riporta indietro nel tempo. Entro davvero nella città del romanzo. Entro in una bolla e attorno cambiano i negozi, le case, le persone. I bar lounge con la loro musica cosmopolita e asettica scompaiono e lasciano il posto a negozi dalle insegne scolorite, le porte sbarrate, piccoli market dove entro con Elettra. Giro tra stanze respirando aria viziata tra bancarelle improvvisate, prodotti mai visti prima, signore anziane che sembrano uscite da un film con accanto le nipoti che passeggiano con loro in pigiama e pantofole. Bazar con quadri dipinti con stili fuori dal tempo, campi di cimiteri con impiccati, donne senza occhi con dietro di loro, nel cielo, navi aliene, immancabili camicie con fiori cuciti a mano, pizzi bianchi, microscopici ristoranti libanesi.

Una parte di storia che l'occidente sembra non voler ricordare, sono pezzi di Europa che mi ricordano posti simili che avevo visto in Croazia, in Grecia e che sono sempre più circoscritti e ghettizzati dalla confort zone creata dall'estetica occidentale, dal folklore normalizzato, dal quieto vivere delle nazioni. Dal consumo.

Ma la città è viva. Vedo la voglia di divertirsi, nel centro storico, la libertà dei ragazzi che girano per locali, bevono, fumano i narghilè nelle strette viuzze della città scampata alla demolizione fatta da Ceaușescu. Girano fuori dall'università come stanno girando milioni di altri ragazzi in Europa, per strade e piccoli vicoli con architetture simili, simboli simili, lingue simili. Con gli stessi desideri di divertirsi, lo stesso schifo per la mia generazione, per la corruzione del mondo che gli stiamo lasciando, con la voglia di cambiare o di andarsene, di cercare il proprio posto nel mondo. Camminano, barcollano e cantano per le piazze di queste città millenarie, sugli acciottolati, tra i calcinacci delle case che vanno in rovina, a fianco dei simboli nel loro passato.

Sono lì con loro e vedo questa insegna, una croce, nel mezzo della piazza che ricorda che lì gli studenti negli anni ottanta li hanno uccisi. Gli stessi che ora ascoltano musica e si divertono, poco tempo fa erano in piazza a protestare e la polizia, comunista, è arrivata e lì ha ammazzati. Non dobbiamo pensare, caro, solo con la nostra testa. Dobbiamo pensare con tutte le teste che ci sono state prima di noi. Con le aberrazioni, con le energie, con le cose che si sono scontrate da una parte e dall'altra. Giro per la strada, seguo Elettra che cerca una cosa nei negozi per i turisti, entriamo ed usciamo da diversi piccoli locali con le stesse cose in esposizione, uova decorate, t-shirt di Dracula, magneti per il frigorifero con donne in “costume tradizionale” finché in uno non mi giro e vedo le spille per il frigorifero con la faccia di Ceaușescu che sorride. Guardo Elettra, le indico la spilla sorridendo e lei non sorride.

Ad un certo punto decidiamo di andare fino al Palazzo del Popolo, costruito da Ceaușescu, che ci hanno descritto come la cornucopia dell'architettura comunista, una specie di monstrum burocratico fatto palazzo. Ci arriviamo per una strada laterale e per errore lo circumnavighiamo completamente prima di arrivare alla facciata principale. Solo per fare il giro del palazzo ci mettiamo quasi un'ora, camminiamo per chilometri. Attorno ci sono altri palazzi monumentali, immensi soprammobili posati sulla città ad annichilirla. Prima di arrivare alla facciata penso che ci sono già stato in un posto del genere. Spazi enormi, inutili. Architetture tronfie, propagandistiche. Poi mi ricordo: all'Eur, a Roma. O in certe piazze di Genova, vicino a piazza della Vittoria. Le architetture fasciste.

Quando finalmente arriviamo a vedere la facciata del Palazzo del Popolo mi fermo a prendere fiato, sono a pezzi. Resto immobile a fissarla. Guardo le colonne che sostengono trabeazioni e altre colonne, sistemi di archi che reggono finestre a coppie, piani costruiti sui piani con parti laterali aggettate verso l'esterno e finestre che si slanciano verso l'alto, corpi centrali che si snodano in quelli laterali che – a loro volta – si clonano variando spazi e volumi. È una struttura enorme e senza senso, se non la avessi sotto agli occhi crederei a qualcuno che si è divertito con i timbri di Photoshop a moltiplicare motivi architettonici gli uni sugli altri fino ad avere un pastiche abnorme, una parodia della struttura di un palazzo. E invece è lì, a occupare spazio. E tempo. Più la guardo, più dentro mi sale una domanda che poi emerge, nel rumore della piazza in cui sono. “Ma come cazzo gli è venuto in mente” dico a bassa voce e mi passo una mano sulla faccia.

E resto ancora a fissarla, mi metto a contare le colonne, le finestre, gli archi, gli elementi di trabeazione e mi immagino questa cosa, questo sogno: che ci sia un messaggio nascosto. Nella successione delle piccole finestre, nel computo degli archi acuti, nel rapporto numerico con le colonne greche, nell'alternarsi binario di parti aggettanti e rientranti, ci sia un codice matematico, un algoritmo generatore che gli architetti hanno mescolato con il marmo e la malta, una decrittazione della follia umana che chi guarda il Palazzo del Popolo deve fare, un reverse computing per arrivare alla stringa generatrice, al seme del numero casuale che poi ha iniziato a moltiplicarsi per gemmazione e dare vita alle stanze gelide, ai corridoi, alle zone inesplorate sotterranee, alle finestre a mezzaluna, ai vuoti interni della struttura.

Un messaggio nascosto impastato dentro al Palazzo del Popolo il cui significato è una specie di urlo muto. Il contraltare delle piazze dei centri storici, l'altra parte dell'Europa, che non se ne è mai andata.

Che poi per me essere nerd era qualcosa che aveva a che fare con il mondo nascente dell'informatica. I ragazzini come me chiusi in camera con quell'home computer collegato a un televisore e un joystick, riviste con listati incomprensibili, libri di linguaggi di programmazione ineseguibili. Ero lì, in quel posto, e non in un altro. Non avevo mai considerato, in quegli anni, quelli che entravano a guardare Guerre Stellari come dei nerd. Quelli che guardavano Gundam, o Goldrake. Erano clienti di prodotti di massa. Non stavamo giocando la stessa partita. Oggi, nel negozio nerd, siamo tutti assieme, appiattiti in un'unica classe di consumatori. Siamo nerd, abbiamo l'etichetta.

Dovrei fare un abiura: andare da quei ragazzi e quelle ragazze e confessargli guardate, scusate: non sono più un nerd. Dirgli che quello che è lì in vendita non ha niente a che fare con le fotocopie di applesoft basic che copiavo senza sapere bene cosa fossero. Che i gadget colorati con i milioni di Mario che salta riprodotti in serie non hanno niente a che fare con le immagini bitmap di cui scrivevo gli zero e gli uno a colpi ciechi di poke. La maggioranza, ora, con un cellulare in mano a condividere foto sui social non è nerd, non lo sono le serie fiction, i muli bastonati per fare camminare un immaginario collettivo di quaranta anni fa. Tutto attorno a me è così iconico. E io non lo sono mai stato, iconico. Mi sento straniero, adesso, in quella patria nerd infinita. Forse ho smesso di essere nerd quando esserlo è diventato un marchio, un prodotto di massa. Un labirinto di specchi.

[da bada-boom, appunti per una seconda stesura]

[bada-boom #00]

Ad un certo punto arriviamo a Goteborg, non ricordo se c'è la luce o buio, siamo svegli solo io e Elettra. Guidiamo in silenzio, vediamo le case venire verso di noi, affrontarci, e poi siamo dentro la città; seguiamo le indicazioni meccaniche di Google, arriviamo alla stazione. “Primogenito, preparati, siamo arrivati” diciamo a bassa voce a nostro figlio che apre gli occhi, si guarda attorno, guarda dall'altra parte del finestrino. All'interno dell'abitacolo cerca di capire dove è, dove deve andare, poi si riscuote, inizia a prendere le sue cose. Quando ci salutiamo davanti alla stazione siamo tutti addormentati, lo abbracciamo, gli diciamo di scriverci appena arrivato a Stoccolma, gli chiediamo se ha già fatto il biglietto, lo guardiamo e intanto ci stiriamo la schiena fa effetto, dico, fa effetto vedere tuo figlio che prende lo zaino e se ne va e non hai idea di quando lo rivedrai.

Risaliamo in auto, torniamo a guidare. Anche questa missione, penso, è compiuta. Per ore tutto attorno a noi si trasforma, le luci, il tempo. Non mettiamo musica, non vogliamo svegliare gli altri figli. Quando arriviamo ad Älmhult Elettra mi indica le cose, guarda tutto, dice che non è come quando l'ha lasciata. Ci tiene a farmi vedere i posti in cui aveva vissuto senza di me e io la seguo in questi percorsi con affetto. È come quando trovo una sua foto da ragazzina o un foglio con un suo disegno fatto da bambina, cerco di entrare in quel periodo della sua vita in cui io non c'ero, una specie di furto temporale. Tutto l'affetto che posso avere per la vita che ha vissuto senza di me.

Arriviamo alla banca che è metà mattinata. È ancora aperta. Elettra scende dall'auto, chiama con sé secondogenito e insieme entrano nella banca per chiudere il conto. Io resto con terzogenita fuori, camminiamo e non pensiamo. Io sono a pezzi. Non so quanto ho guidato, ma sono a pezzi. Guardiamo la città come si potrebbe guardare un panorama lontano, ma ci siamo dentro. La scena successiva siamo al campeggio di Älmhult, quello dove avevamo prenotato e che avevamo dovuto abbandonare perché si era fuso il motore. Elettra mi spiega il funzionamento del campeggio, mi fa vedere la casetta dove saremmo dovuti andare, il lago dove anni fa lei aveva fatto il bagno con terzogenita e dei serpenti marini erano spuntati nell'acqua e le avevano inseguite. Io sorrido, come in un sogno.

La scena successiva sono dentro al lago, con terzogenita. Se metto la testa sotto l'acqua vedo solo una foschia rossa. Nuoto così, con la testa sott'acqua e gli occhi aperti in questa nuvola rossa schiacciata dentro al lago. Mi immagino che da un momento all'altro da questa foschia rossa appaia un mostro, una delle mie tante paure della notte, e che mi divori, mi assalga. Ma non succede. È solo un lago, solo acqua rossa in cui nuoto. Non ci sono mostri marini, non ci sono pericoli che non siano quelli che conosco già. La scena successiva sono sdraiato su un asciugamano e quella ancora dopo sono in auto che guido, stiamo lasciando la Svezia.

Nel viaggio di ritorno ascoltiamo quasi tutto Il sentiero dei nidi di ragno. Non essendoci più primogenito c'è più spazio nell'auto. Nella scena successiva sono seduto dietro mentre secondogenito è davanti con Elettra che le dice delle cose. Calvino o chi per lui racconta e io chiudo gli occhi e crollo.

È stato solo un viaggio. Tutti abbiamo avuto la stessa cortesia umana di quando sei dentro a un supermercato, e invece era l'Europa. Quando sono arrivato a Genova sono sceso dall'auto e ho iniziato a scrivere. Dentro di me c'è una lingua che parla sempre, dentro la mia testa, parla e lecca. Ogni cosa che faccio ho dentro sempre questa lingua che parla, più sono solo più quella racconta cose, lecca i bordi della mia testa e parla. Ho scritto tutto un libro su questa lingua che ho dentro alla testa. Appena scendo dalla macchina quella prende a parlare, a dirmi di scrivere. Dimenticherai tutto, mi dice.

Dimenticherai Kassel, dimenticherai i russi nella cucina degli ospiti, dimenticherai il museo del Petrolio, dimenticherai il negozio nerd, dimenticherai l'odore dei tuoi vestiti bagnati, l'isola delle capre, la voce del meccanico dimenticherai il tuo dolore alla schiena, dimenticherai Elettra, i tuoi tre figli, quello che hanno fatto, quello che hanno detto, lo stai già dimenticando adesso. La nuvola rossa dentro al lago, il caffè di merda, dimenticherai tutti. Diventeranno frammenti, aneddoti, niente. Alcuni diventeranno niente. La mia lingua nella testa parla e mentre parla racconta e mentre racconta cancella.

È una bella merda: più racconta più lecca, e più lecca e più cancella. Sostituisce quello che mi è successo con il racconto di quello che mi è successo e poi il secondo rimpiazza del tutto il primo. Alla fine non mi ricordo più la mia vita, mi ricordo solo il racconto che ne ho fatto. Come mia nonna prima di me, come l'umanità prima di mia nonna. Tutti abbiamo una lingua nella testa che ci parla e ci consola, ricostruisce quello che abbiamo vissuto e lo mette a posto, usa la saliva come collante, mette in ordine, ci fa stare bene, rimuove con dei colpi duri di lingua le cose che non funzionano e poi si mette lì a raccontare. Tutti abbiamo un audiolibro della nostra vita nella testa, che continua le sue puntate quotidiane e più racconta più la nostra vita non esiste, la lingua la trasforma in un format, un serial, una fiction a cui ci aggrappiamo, che condividiamo, che diventa la nostra storia personale, pubblica. Bella merda ragazzi.

E io scrivo, sono ancora in viaggio che già scrivo dentro la mia testa, continuamente, mi segno quello che la lingua mi dice, scrivo tutto e poi a Genova mi siedo e inizio dico così siamo partiti ragazzi, io, adolescente di cinquanta e passa anni e mio figlio adolescente e mia moglie adolescente anche lei, mia figlia, altra adolescente e l'altro ancora, adolescente di mezzo, tutti e cinque seduti nella Citroen Nemo che brilla chilometro dopo chilometro, tutti con il proprio bagaglio personale, sacchi di roba, zaini, vestiti, cibo, tutti pronti per partire da Genova e diretti a Jorpeland, il nome è di fantasia, migliaia di chilometri di Europa da superare, scrivo tutto questo e poi vado avanti, giorno dopo giorno, mi metto lì e mi segno tutto quello che la lingua mi dice.

Finché — a un certo punto — la lingua è esausta. È secca. È molla, come se fosse venuta e non riuscisse più ad alzarsi, a muoversi dentro la mia testa. Ha detto tutto quello che poteva dirmi e mi ha lasciato così, l'adolescente di cinquant'anni con la sua storia scritta dietro a voltarsi e chiedersi. Ho detto tutto quello che potevo dire? L'ho detto bene? E poi la grande domanda: ma se ora rileggo tutto quello che ho scritto, cambierà qualcosa? Se rileggo tutto cancellerò davvero per sempre la mia vita, quella vera, sovrascrivendoci sopra questa invenzione di quel muscolo sfinito che è lì nelle ossa della mia testa?

È stato solo un viaggio e ora ricomincia la vita e piano piano sparirà. Verrà via come la pelle d'estate quando si brucia e tu la prendi, la tiri via e te la metti in bocca.

[bada-boom #mm]

Il viaggio è lunghissimo, durerà molto di più delle dodici ore previste, chilometro dopo chilometro diventa notte e ci muoviamo in una atmosfera irreale. Alle strade si alternano gallerie che si rivelano poi tunnel che procedono verso il basso, per tempi lunghissimi. Sembra di entrare nelle viscere della terra. Le auto per strada diventano sempre meno e Google Maps inizia a portarci in posti inesistenti, accessi autostradali che sono chiusi al traffico, svincoli bloccati. Dietro dormono tutti tranne primogenito che cerca percorsi alternativi, costringe Google Maps alla realtà e ci ritroviamo in strade secondarie a tentare di superare i tratti che — in Norvegia come nel resto del mondo — di notte sono inaccessibili per lavori. “Anche qua le autostrade fanno schifo” dice, nel cuore del buio, Elettra e un po' questa cosa ci rassicura.

Non è la prima volta che succede nel viaggio. Quando siamo in Italia abbiamo una visione del resto del nord Europa come un luogo di perfezione, mentre poi — alla prova dei fatti — è un posto dove alcune cose funzionano e altre non funzionano. È tutto un grosso impasto questa parte del mondo, ci sono cose che passano le frontiere, altre no. Ci sono correnti, venature che solcano persone che parlano lingue differenti, mangiano cose diverse, credono altre divinità; sono come lingue di metallo che tengono unito un continente e sono liquide, scorrono e mutano continuamente.

Nel cuore della notte finalmente siamo instradati verso Goteborg, ho messo della musica per non dormire e il resto della macchina crolla nel sonno. Anche Elettra che non dorme mai adesso è lì vicino a me con gli occhi socchiusi e la bocca leggermente aperta a mostrarmi i denti della stanchezza. Prince grida dalle casse che lui è un testimone dell'accusa e io mi infilo in questa ennesima galleria che — appena iniziata — comincia anche lei a scendere verso il basso. C'è solo la nostra macchina sulla careggiata, ai lati ci sono cartelli che indicano la distanza dall'ingresso o dall'uscita ma sono troppo stanco per mettermi a leggere, guido — semplicemente — guardando avanti.

Più scendo verso il basso più il panorama muta. Le pareti della galleria smettono di essere in cemento armato e adesso sembrano scavate nella roccia. Come se dita di un essere non umano avessero graffiato le pareti per fare questo tunnel che procede inesorabile verso il basso. Ad un certo punto la strada attraversa una specie di grotta, tutto intorno si allarga e piccoli faretti azzurri illuminano quello che ha tutta l'aria di un antro fantastico. “Avete visto?” chiedo a bassa voce, ma gli altri dormono. La strada attraversa l'antro e prosegue ancora verso il basso. Ora le luci dei neon sono sparite, guido solo con gli anabbaglianti dell'auto che illuminano la strada e il soffitto scavato nella pietra. Anche l'asfalto sembra cambiare: ora è fatto di un materiale compatto, indefinito.

Poi dal soffitto iniziano a cadere di tanto in tanto grosse gocce d'acqua. I muri lungo la strada adesso mandano come un bagliore verde, innaturale. Sulle pareti vedo incisioni, bassorilievi. Più andiamo verso il basso più emergono dalla terra quelle che inizialmente mi sembrano rocce ma poi capisco essere ossa di un corpo gigantesco, millenario. Le dita hanno ancora anelli infilati, capelli grigi accompagnano l'andamento del teschio in lontananza: è un enorme soldato colosso, un barbaro rimasto schiacciato dal continente. Un proto longobardo, germanico o qualche altra etnia romanizzata. La Citroen Nemo è circondata ora da un'aria ghiaccia, ogni tanto devo mettere i tergicristalli per fare saltare la brina che si crea sul vetro. La strada passa in mezzo alle coste del corpo e poi risale — finalmente — passando a fianco della mandibola, oltre il tappeto secco dei capelli morti.

Cambio marcia perché la strada adesso è una salita decisa, butto un occhio ai bassorilievi mentre guido e intravedo scene di battaglie, genti con il segno del Cristo che ammazzano altri con il medesimo segno, contadini zappare nei campi e attorno a loro il nulla stradale, arabeschi islamici vandalizzati da incisioni e graffiti con il logo del Mac Donald, masse di popoli che lasciano case, terra, preghiere e si muovono a forza verso altre parti della terra, e poi parole, caratteri, font di lingue diverse, incompatibili le une con le altre e frammenti di storie, che non riesco a capire, leggende, storie, lettere d'amore e di guerra, volti che rimbalzano in un labirinto occidentale. Tutto mi scorre vicino e io vado avanti senza fermarmi finché all'improvviso scompare, torna il cemento armato, l'intonaco che copre la galleria, la luce inespressiva nei neon e le indicazioni rassicuranti con le loro frecce, gli omini che corrono, simboli del fuoco, divieti autostradali.

Alla fine esco fuori e non vedo le stelle. Il cielo è coperto dalle nuvole o forse la luce dei lampioni qua è troppo forte per farmele vedere. Elettra — d'improvviso — si riscuote, apre gli occhi. “Va tutto bene?” mi chiede stirandosi e cercando di cambiare posizione. Io le dico tutto alla grande, amore, alla grande.

[bada-boom #!%]

Quando arriviamo con la Volvo dal campeggio scendiamo e ci comportiamo come se fossimo al primo giorno della nostra vacanza e non l'ultimo. Prendiamo possesso del bungalow, organizziamo il trasporto delle varie borse, ci insediamo con la stessa serietà e determinazione di una famiglia all'aprirsi dell'estate. Primogenito va a esplorare il lago, secondogenito si chiude nella stanza del bungalow, terzogenita prova a fare amicizia con qualsiasi forma di vita che abbia più o meno la sua età. Io e Elettra proviamo a fare un'aperitivo, a festeggiare il fatto di essere ancora lì e non avere ucciso nessuno. Giriamo, andiamo in cerca di una birra ma inutilmente: fuori dal campeggio c'è la natura, la natura norvegese. Niente birra.

Alla sera cammino nel campeggio, guardo le piccole casette, le tende piantate. Vado fino al lago e lo vedo lì, schiacciato dalla grande mano dell'atmosfera, livellato dalla gravità mentre la luce del sole – lentamente – inizia a trasformarsi in quella strana luce bianca che hanno i paesi del nord nelle ore serali. Si sentono i rumori, singolarmente, il suono improvviso di qualcosa che si è mosso nell'acqua, il muoversi della canoa ormeggiata vicino alla spiaggia.

Continuo a camminare e vado nella zona più lontana del campeggio, dove ci sono altri bungalow, ma molto diversi dal nostro, sembrano delle piccole case. Davanti ci sono degli uomini e delle donne, spesso anziani, seduti nelle loro sdraio che parlano o mi guardano. Non so da dove vengano. I bungalow sembrano qua delle vere e proprie case, con un abbozzo di guardino, fiori, piccole costruzioni ornamentali. Le persone che sono lì davanti si comportano come se fosse casa loro, vedo uno che sta riparando qualcosa, mi fissano mentre passo, come se fossi uno straniero che sta camminando nella loro città e non come un turista identico a loro. Finché, a un certo punto lo vedo.

In ogni casetta, infilata dentro, c'è una roulotte o un camper. Un relitto di roulotte che ha fiorito il resto della casa e ora ne è rimasta sommersa e nascosta. Torno indietro e riguardo tutte le casette per capire se ho visto bene e — sì — tutte le casette che vedo sono gemmazioni di un camper o di una roulotte che è incastonata dentro. A volte il corpo spunta dal fondo della casa, a volte ne intuisco la porta e la forma spiando da una delle finestre, altre volte una ruota emerge dal corpo centrale, come un arto di insetto rimasto pietrificato all'interno di un enorme parassita. Rimango a fissare quel processo, mi immagino la legislazione che ha contribuito a quella specie di mutazione planimetrica e ne sono affascinato. Sono case viaggianti che a un certo punto si sono fermate e hanno iniziato a crescere, a mettere radici. I viaggiatori che le guidavano ora tornano tutte le estati a rimetterle in vita, ma non partono più. È un viaggio statico che fanno ormai mentre quelle — di anno in anno — metamorfizzano, crescono, sbocciano nuove stanze, partoriscono altri ingressi.

La mattina dopo ci sparpagliamo per il campeggio, aspettiamo tutti la telefonata del meccanico. Puliamo la casa, rimettiamo tutti i bagagli nella Volvo, ma senza avere il coraggio di partire. Se il pezzo non arrivasse nemmeno oggi, dovremmo fermarci ancora un giorno, o — altra ipotesi — salire tutti sulla Volvo e lentamente immergerci nel lago, come in un film di Wes Anderson andare nelle profondità del lago per scoprire e fare amicizia con mostri e spiriti norreni, incagliarci sul fondo di questi laghi millenari e lì restare a fissare il mondo subacqueo finendo di leggere i romanzi che ci siamo portati in viaggio e ascoltando dall'autoradio la musica degli abissi.

Il meccanico non chiama. Passa l'una e non ha ancora chiamato, e a questo punto diciamo a primogenito di chiamare lui e primogenito prende il telefono come se pesasse tonnellate e si allontana tra gli alberi, noi da distante lo vediamo parlare mentre passeggia per il campeggio, annuisce, dice qualcosa con serietà e poi mette via il cellulare e torna da noi, si siede dice che il tracking dice che il pacco è in arrivo. È lì, è oggettivamente più vicino al meccanico che al resto del mondo, anche se ancora non è arrivato. Ma il meccanico confida che ormai arriverà, che è davvero improbabile che non arrivi, a meno che il corriere non abbia un incidente a sua volta, ma è un ipotesi piuttosto remota, dice, ormai è questione di poco e il pacco con dentro il nostro turbo arriverà. Appena il turbo arriverà, il meccanico ci chiamerà e poi monta il turbo, piuttosto non chiude l'officina, paga una pizza ai ragazzi per restare fino a cena, ma ci monta il turbo.

'Sempre che questa volta gli abbiano mandato il pezzo giusto' penso tra me e me ma decido che questa botta di ottimismo me la tengo per me. Non sia mai che poi succede davvero e mi sento pure in colpa per averlo pensato. Restiamo lì, a muoverci attorno al lago, camminiamo come formiche a cui abbiano tolto la briciola di pane e ora non sappiano bene se restare ad aspettare che ricada o se meglio tornare al formicaio, un antropologo potrebbe scrivere un saggio breve sulla famiglia venerandi in questa giornata, le tensioni, i meccanismi di autodifesa, di controllo dell'ansia, dell'amore. E poi il telefono squilla. Primogenito risponde, annuisce, mette giù. “È arrivato” dice. A queste parole mi commuovo, guardo con gli occhi che sorridono gli altri che sono contenti, cazzo, sono contenti anche loro e cammino un'ultima volta sul bordo del lago e mi sento come Nanni Moretti, mi metterei ad urlare “epidurale per tutti!” solo per il gusto di sentire la mia voce che rimbalza sulla superficie dell'acqua.

Quando, quattro ore dopo, il meccanico ci restituirà la nostra Citroen Nemo, ci confesserà che la notte non aveva dormito. L'ho anche già scritto. “Non ho dormito pensando al turbo” ha detto, “a voi che lo aspettavate”. “Anche noi” gli abbiamo risposto, e abbiamo riso tutti nervosamente.

A questo punto partiamo, siamo tutti e cinque di nuovo nella Nemo, di nuovo in viaggio con due missioni ancora da compiere e senza tempo per portarle a termine. “Andiamo diretti ad Älmhult a chiudere il conto in banca” diciamo ai tre figli nei sedili posteriori. È quasi sera e partiamo. “Dove ci fermiamo a dormire?” chiede primogenito da dietro dopo un po' che stiamo andando. Io e Elettra ci voltiamo a guardarlo. L'auto sbanda per un attimo. “Nessuno ha parlato di fermarci” dice Elettra. Primogenito deglutisce, piano. “Ma da Jorpeland a Älmhult ci sono mille chilometri, saranno almeno dodici ore di viaggio” protesta. Mi schiarisco la voce. “Almeno” dico. “Ma è facile che ci metteremo qualcosa di più. La nostra missione comunque è arrivare ad Älmhult entro mezzogiorno di domani, prima della chiusura delle banche. Non possiamo fermarci a dormire”. Primogenito si butta all'indietro contro il sedile. Forse vuole protestare ma a quel punto parla Elettra. “Non preoccuparti, comunque. Tu ad Älmhult non ci arrivi. Ti molliamo a Goteborg. Stanotte. Hai un treno alle quattro che ti porterà a Stoccolma” e sorride. Abbiamo di nuovo un piano. Sorrido anche io. “Mettiamo un po' di Svevo?” chiedo accendendo l'autoradio. Gli sventurati non rispondono.

[bada-boom #%%]

Non so come dirlo al resto della famiglia, mi metto a scrivere diversi messaggi che poi cancello e alla fine vado diretto, condisco tutto con dei “cazzo cazzo” perché sono un grande scrittore e non voglio mancare anche in questo caso di dare – oltre al dato spiccio – anche la mia partecipazione emotiva. Il succo, comunque, è che il meccanico ha ricevuto il pezzo sbagliato. Non è il turbo giusto. Il meccanico me lo ha detto soffrendo, ma il pezzo proprio non era quello giusto, un errore dovuto al fatto che la nostra macchina non era norvegese e quindi, da da da, seguono almeno trenta secondi di spiegazione in inglese tecnico-settoriale che non ho capito ma il succo è che quel pezzo non va bene. C'è un problema di alimentazione, qualcosa del genere.

E il pezzo giusto, il turbo giusto arriverà solo lunedì. Tra cinque giorni. Cinque giorni bloccati in un piccolo paese tra i fiordi norvegesi. Lo scrivo a Elettra che dopo un po' mi risponde anche lei con dei cazzo, e poi decidiamo di andare tutti e cinque dal meccanico. Negazione, rabbia. Il meccanico ci accoglie affranto, spiega a Elettra quello che ha già spiegato a me. Elettra chiede se non possiamo andare a prenderlo noi il pezzo, partiamo in auto e andiamo a prenderlo noi e lo portiamo sicuramente prima di cinque giorni e il meccanico adesso sembra il cuoco pasticcere di quel racconto di Carver, una piccola cosa buona, se potesse ci darebbe dei dolci per farci stare meglio, ma non ha dolci e quindi alla fine ci dice di pensarci, se possiamo aspettare cinque giorni e aspettare il pezzo, lui deve saperlo per farlo arrivare.

Di quello che succede dopo ho dei flash. Giriamo per il paese pensando a soluzioni alternative, prendere un'auto a noleggio per portare primogenito a Stoccolma e andare a chiudere il conto ad Älmhult, tornare tutti in treno e abbandonare l'auto al suo destino, addio piccola Citroen Nemo, smontare l'auto e vendere i pezzi come ricambi, abbandonare tutto e restare in Norvegia, cullati dal suo sistema previdenziale. Facciamo mille ipotesi e le distruggiamo e poi le ricreiamo di nuovo. La nostra vacanza sembra essere diventata una storia a bivi, sono saltati tutti i programmi che avevamo fatto, telefoniamo al campeggio già prenotato di Älmhult per dire che non arriveremo mai più.

So che a un certo punto arriva terzogenita sorridente che dice che la mamma, Elettra, ha trovato la soluzione: ha detto che se la vita ti dà del limone, ovvero qualcosa di acido che ti fa soffrire, bisogna trasformarlo in limonata. “Quindi?” faccio io. Terzogenita alza le spalle e dice, “restiamo cinque giorni in più qua e cerchiamo di godercela”. Appare anche Elettra con primogenito che parlottano, in lontananza con un sorriso un po' triste, un po' no, e mia moglie mi sembra – tra tutti – la persona più matura e che vede più lontano. Non tra i venerandi: in generale. Poi terzogenita dice che se però la limonata riuscissimo anche a venderla ci potremmo pagare il turbo.

Così inizia questa parte della vacanza non programmata, fermarci in Norvegia per cinque giorni, perché non possiamo andarcene, il motore è bruciato. Vado con primogenito a noleggiare un'auto per muoverci in quei cinque giorni e troviamo un tipo, lo descrivo meglio. Mi sono fatto un'idea di lui, ragazzotto bello, giovane, muscoloso, faccia di uno che non gliene frega niente di niente, appassionato di moto, tatuaggi, pulito ben rasato, ogni domanda che gli facciamo lui risponde come se la risposta fosse di una semplicità impressionante, gli chiediamo se possiamo avere un'auto a noleggio, lui dice sì, gli chiediamo per quanto, ci dice il prezzo, noi gli diciamo che allora la prendiamo e lui ci dà le chiavi. Tutto molto semplice. L'auto è fuori, dice. È una Volvo. Una Volvo di età indefinita, probabilmente era la testa di serie di diverse generazioni di auto fa.

Quando entriamo e ci sediamo ci sembra di essere comodi, ma non di una comodità come la pensiamo oggi nel 2023, ma di come si pensava si dovesse essere comodi negli anni settanta. È una specie di macchina del tempo. Raggiungiamo il resto della famiglia, abbiamo l'auto, penso, ora dobbiamo trovare un letto.

[...]

Il giorno che deve arrivare il turbo per la Cirtroen Nemo siamo tutti in attesa, giriamo attorno al meccanico come le mosche attorno a una carogna che però può ancora tornare in vita, come un gesùcristo qualsiasi e invece il pezzo non arriva. Il meccanico ci chiama, risponde primogenito e vedo subito che sta zitto per un tempo preoccupantemente lungo e poi dice tomorrow, altro silenzio, not today dice ancora e poi dopo un po' tomorrow. Non so se lo dica più a noi che a se stesso che al meccanico ma capiamo, il pezzo è ancora in viaggio. “In genere — ci riporta primogenito dopo aver buttato giù — sarebbe dovuto arrivare oggi ma si vede che il corriere è in ritardo”. Non osiamo parlare. Non osiamo pensare, non in maniera lineare. La nostra testa è una ramificazione di ipotesi per uscire da questa situazione e tutte vanno a scontrarsi con il fatto che ci serve il pezzo, a questo punto ci serve il pezzo. Più tardi andremo dal meccanico a fargli capire che questo ritardo per noi è un disastro e se domani il pezzo non arriva è più che un disastro, non so se esiste un termine per definire qualcosa che è più di un disastro ma è quello, più che un disastro.

Il fatto che la Norvegia sia ricca per il suo petrolio fa sì che — a cascata — sia anche economicamente svantaggiosa, se vieni dall'Italia. Il cambio è piuttosto facile: tutto costa più o meno il doppio. Se vuoi comprare qualcosa devi calcolare che spenderai il doppio di quello che avevi pensato. Devi stare attento a cosa pensi. Una volta che hai capito come funziona il cambio diventa semplice vivere in Norvegia, se sei norvegese. In tutti gli altri casi meglio vederne, goderne, e poi spostarsi. Paradossalmente anche la benzina e il diesel sono più cari che nella vecchia e tossica Italia.

Cerchiamo di fare capire al meccanico che dobbiamo tornare in Italia anche perché dobbiamo tornare a lavorare, e lui ci confessa che ci capisce e poi aggiunge, guardandoci negli occhi, che nel fine settimana ha pensato a noi tutto il tempo. É davvero dispiaciuto che non sia arrivato il pezzo, soffre anche questa volta. Ci dice — per consolarci – che se domani il pezzo arriva, in qualunque ora del giorno arrivi, lui non chiuderà l'officina finché il turbo non sarà montato sulla nostra Citroen Nemo e noi partiti per la Svezia. Di più non può fare.

Noi usciamo dall'officina come un onda dopo aver assediato uno scoglio, ma alla fine lo scoglio resta terra e il mare torna a essere liquido e instabile.

Ad un certo punto, mentre Elettra cerca un posto, un ennesimo posto dove dormire ancora una notte, io mi giro verso i miei tre figli che continuano ormai da una settimana a seguirci in questa serie di cambi improvvisi di programma, incertezza, casino, nervosismo, scazzo e gli dico grazie. Mi fermo proprio e dico ragazzi vorrei dire che vi ringrazio, che in questo momento di difficoltà per noi adulti siete sempre stati utili, non avete protestato, avete capito la tensione del momento, vi siete adattati alla situazione incasinata e — niente — non era scontato che lo faceste. Vorrei ringraziarvi, dico. E loro alzano le spalle, mi guardano, guardano Elettra, restano seri mentre parlo e quello che sto dicendo sento che lo capiscono, lo mettono in prospettiva, ognuno a suo modo. Poi vanno avanti, continuano a fare le cose che gli abbiamo chiesto di fare, spostare zaini, prendere le cose per dormire perché nel frattempo Elettra ha trovato un posto, questa notte si dorme in campeggio, un bungalow sulla riva di un lago.

[bada-boom #ff]

Tra la zona del porto dove siamo noi e la parte opposta c'è una specie di enorme palazzo. Un condominio, ci toglie completamente la vista. È una grande nave, una nave da crociera, ormeggiata nel piccolo porto di Stavenger. Io e terzogenita la guardiamo in silenzio, mentre finiamo di riposarci. Osservo le singole parti di cui è composta, sembrano i balconi di centinaia di appartamenti, vedo anche qua e là qualche omino piccolissimo, appoggiato alla balaustra della sua piccolissima abitazione, che ci guarda. È un condominio sull'acqua.

Mi giro verso terzogenita. “È grossa” dico e lei annuisce. Non fa commenti. “Pensa – le dico – quanto deve inquinare”. Terzogenita si volta verso di me. Non so se sto dicendo la cosa giusta. Forse dovrei dirle “guarda come è bella. Come deve essere bello viaggiare su un condominio nel mare”, ma non mi riesce. Più guardo quegli appartamenti più penso ai tubi, alle centinaia di tubi che devono essere lì dentro a raccogliere cose, merda, scarti, spazzatura per poi scaricarli in mare. Visto così, enorme, di fronte a noi, penso che deve essere una quantità impensabile di scorie che in ogni momento quel colosso scarica. “Pensa – dico a mia figlia – quanta energia deve servire per muoverla, per tenere accese tutte le luci, tutto il riscaldamento, l'elettricità per cucinare, un intero palazzo. Quante risorse vengono bruciate per fare in modo che questa cosa funzioni. Perché quelli lì dentro siano felici”. Terzogenita torna a fissare la nave, non dice niente. Annuisce. Poi fa uno scatto e corre via da Elettra.

Forse dovevo dirle “pensa quanto sarà bello quando ci viaggerai per la prima volta”. Ho sbagliato. Parlare è una storia a bivi, devo fare una scelta. Ogni scelta è sbagliata. Guardo terzogenita, si sono mossi tutti, risaliamo verso la parte dei negozi, le nuvole ora sono cariche di pioggia.

È sempre a Stavanger che a un certo punto io e i miei figli ci fermiamo davanti a un negozio, in vetrina c'è un cartello che dice, in sostanza, “di giorno studentessa, di notte nerd”, e il testo accompagna il disegno comic di una ragazza nella mise giornaliera da studentessa e quella notturna da nerd.

Entriamo e ci troviamo in un tripudio di materiale che riconosciamo subito: manga giapponesi, dadi da gioco di ruolo, manuali, giochi in scatola, libri nerd per bambini in età prescolare, tipo “la fisica quantistica spiegata a mio figlio”, modellini di personaggi Marvel e DC, anime, gadget legati al mondo dei videogame, magliette di film di Miyazaki, tazze di Zelda, edizioni giapponesi di merendine europee con gusti coloratissimi, bicchieri con cibo giapponese liofilizzato, fumetti americani, internazionali, spade Jedi di Star Wars, spille ispirate a qualche cose di raro e sconosciuto del mondo nerd che qualcuno, da qualche parte, riconoscerà nella giacca in cui le avrai infilate. Siamo letteralmente a casa e ci muoviamo come in una specie di paradiso e – notiamo dopo un po' che giriamo – non c'è niente scritto in norvegese.

Siamo usciti dalla Norvegia: tutti i testi sono in inglese. Tutti i libri, i fumetti, i manga, sono nell'edizione inglese, chiunque li può comprare. Siamo in una zona franca, siamo in quella zona transnazionale che unisce persone che non si sono mai viste e che – ora – in quel posto trovano una piccola ambasciata del loro stato, rassicurante, con i confini ben precisi, ricco di simboli condivisi.

È lì, mentre cammino per i corridoi, mentre vedo la faccia di Totoro con la sua espressione indecifrabile su una t-shirt, la sagoma di Pac-Man, la skyline di qualche città del Signore degli anelli da ricostruire con i Lego o il volto tormentato del giovane Harry Potter su uno zainetto, è lì che mi rendo conto di come tutto quello che mi circonda sia affascinante e grottesco nello stesso tempo. Mi vedo dall'esterno, un uomo di cinquantaquattro anni che gira con lo sguardo entusiasta nel mezzo di colonne di merchandising identiche a quelle che potrebbe trovare nei negozi nerd di Genova, di New York, di Tokyo.

Quello che ho attorno non è lo stato transnazionale che sognavo, non è una comunità che si ritrova e si riconosce ma sono sempre le stesse scaglie del capitalismo, preparate con cura per colpire proprio me, mettendo assieme i relitti della mia infanzia, i residui della mia nostalgia degli anni ottanta, reloaded, ricaricati e rilucidati per farli sembrare più affascinanti e per colpire anche i miei figli, di rimbalzo.

Quando mi trovo davanti all'enorme pupazzo giallo di Pikachu capisco che è lui che tiene in mano la pallina rossa e bianca e dentro ci siamo noi, siamo lì davanti a lui a combattere per ottenere quello che basta per prendere la dose quotidiana di Pokemon, di volumetti manga, delle action figure di JoJo. Siamo lì a combattere nell'arena per tenere vivo questo regno Pokemon fatto per noi, adolescenti di tutte le età. Mia figlia di dieci anni, mio figlio di diciassette, quello di ventuno, e io, l'adolescente vecchio di cinquantaquattro che continuerebbe a comprare giocattoli come li comprava da piccolo, che vorrebbe continuare a mettere questa roba vicina al modellino di Gundam che si era preso nel 1982, quando aveva dodici anni.

Sono lì, ma potrei essere in qualunque altra parte del mondo. Per questo avevo – a fatica – scritto le mie sei o sette righe di Assembly negli anni ottanta? Per questo, da ragazzo, ero andato a vedere al cinema Akira, il primo cartone animato violento, il primo cartone animato per adulti? Per finire a girare in un supermercato di gadget in Norvegia? Per vedere la ricostruzione in vitro degli anni ottanta di Stranger Things?

Il consumo mi insegue per l'Europa, è un fantasma che si aggira colorato e non c'è niente che possa farlo diventare blu con la faccia terrorizzata se non se stesso. Quello che provo è un sentimento secco di amore e di estraneità per quello che ho attorno. Quelle non sono le mie passioni, sono la parodia delle mie passioni. Quel paradiso nerd è l'opposto del documenta che avevo visitato qualche giorno prima a Kassel. Là c'erano negozi ricostruiti con merci immangiabili e loghi internazionali, cibo trasformato in marmo e bronzo dal capitale. C'era l'artigianato spezzato di cose che non si possono comprare. Qua sono circondato da volti amichevoli, infantili, rassicuranti che vogliono la mia carta di credito, in maniera sfacciata.

Mi sento un traditore, lì in mezzo, a non essere felice. Continuo a girare per i corridoi per cercare lì in mezzo qualcosa di vero, qualcosa che mi faccia sentire che quella massa di materiale ha delle fibre animali, ma non le trovo. Sono sommerse dal resto. Mi sento un traditore perché so che quel mercato finge di essere implacabile ma è fragile. È letale nel suo complesso, ma ogni singola scaglia si potrebbe spezzare in un secondo. È già successo. E se qualcosa – tra le cose esposte sotto i faretti – scomparisse, so che ci soffrirei. Sono un traditore e sorrido lì in mezzo, prendendo le cose in mano, soppesandole e rimettendole a posto.

Quando andiamo verso l'uscita mi aspetto di trovarmi in un punto random dell'occidente nerd. Come se queste ambasciate fossero canali di comunicazione tra territori diversi, uniti e collegati assieme dai loghi degli animaletti antropomorfi visti prima, dai maghi adolescenti, soldati imperiali. E invece ci ritroviamo ancora a Stavanger, battuta finalmente da una pioggia fredda e vera nella quale ci precipitiamo per cercare di raggiungere la Volvo.

[bada-boom #xF]

Mentre sono lì seduto guardo questi studenti di Stavanger che urlano, gridano felici, si sdraiano nel porto a creare una catena umana, dicono cose ai passanti che non capisco, ma capisco perché i loro costumi sono simili ai miei e li sento prossimi, vicini, siamo tutti occidentali, abituati a consumare, a sognare, a chiudere gli occhi dalla gioia per non vedere da dove viene questa gioia, abituati a crollare, negli interstizi sociali, quasi di nascosto perché crollare, in occidente, non si può. Li sento prossimi e mi chiedo quanta parte sia diversa da me, quante sovrastrutture la famiglia, l'ambiente, la scuola, il lavoro abbia creato o creerà dentro di loro distanziandoli da quello che sono io, quello che penso io, quello che pensa la mia famiglia.

E mi volto, guardo i miei figli seduti sulla panchina e mi chiedo quanta di quella differenza tocchi loro che non sono io e che non hanno vissuto quello che ho vissuto io. Posso passare tutto il tempo che voglio a scrivere di Pac-Man, della resistenza, del sessantotto, delle esplosioni in Jugoslavia, di Miyazaki, dei ragazzi bastonati al G8 dalla polizia, posso metterci tutto lo sforzo del mondo ma quelle cose loro non le hanno vissute e molte non le ho vissute nemmeno io. Le trasmetto, provo a trasmetterle, ma quello che gli arriva è tutta letteratura. Il materiale di cui sono composti, il loro continuo mutare, pensare e trasformarsi, è fatto di pezzi di cose che hanno sentito loro, che hanno pensato loro, che hanno usato come moneta di scambio con i loro coetanei in cambio di un posto dove essere abbracciati, dove ferire senza rabbia, dove essere qualcosa di nuovo e inaspettato.

A qualche migliaio di chilometri di distanza, in città non troppo diverse da quella in cui sono ora, ragazzi vengono chiamati dalla nazione per andare ad ammazzare altri ragazzi. Guardo questi studenti per terra che urlano un po' ubriachi e penso a quelli simili a loro che andranno in giro per le campagne in Ucraina a farsi saltare in aria, a perdere arti, a fare saltare pezzi di carne di altri ragazzi. La letteratura non insegna, penso. Il potere scuote dal capitale e muove strumenti più forti della letteratura. Relitti del passato, enormi soldati colosso emergono dalla storia e sono sempre lì, evocati da piccoli uomini a sollevare masse e rivoltarle sotto terra. Sono relitti tossici, fonti fossili che si tirano dietro un vocabolario ancestrale fatto di bellezza e di morte, capace di mostrare il fascino di interrompere, di sfondare, di annientare. Guardo i ragazzi e penso che anche lì – in pieno occidente – in mezzo a loro, c'è chi proverebbe il gusto della guerra, il sovvertimento sociale, l'inquadramento e l'avventura.

Anche lì, nel mezzo dell'occidente, mi sento uno straniero a casa. Non sento come mie le pietre della mia patria, non sento mio il linguaggio che uso, non sento mia la storia e la cultura che mi hanno raccontato i miei nonni. So che mentivano, tutti. Li ho interrogati, mi sono messo di fronte a loro e gli ho fatto delle domande, ho registrato tutto quello che dicevano, l'ho sbobinato tutto e trascritto, l'ho confrontato con quello che diceva la storia. La voce di mia nonna che raccontava la sua infanzia, l'inumana durezza delle famiglie contadine del primo dopoguerra, l'avvento del fascismo, l'arrivo della guerra, il salire degli alleati. Tutti mentivano: mentiva mia nonna, mentiva la storia. Messi uno a fianco dell'altro uscivano incongruenze e mistificazioni, silenzi e menzogne.

La tradizione non esiste, è solo quello che oggi ci fa comodo ricordare del nostro passato. Facciamo selezioni violente di quello che siamo e che siamo stati, rimuoviamo quello che ci imbarazza, togliamo tutto. Se proprio dobbiamo tramandare una letteratura, che sia fiction, seriale, commerciale. Cerchiamo di vendere la nostra storia al meglio, come se fosse un bel romanzo. Così del fascismo mia nonna ricordava cose che non aveva vissuto: ad andare a incalzare ricordava cose che poi ho scoperto aveva visto in televisione decenni dopo. I tedeschi, pazzi, furiosi. Ma alcuni di loro bellissimi, dolci, quasi dei fratelli che dopo la guerra erano tornati nelle Marche, dalla Germania, a cercare le ragazze che avevano abbandonato. E Mussolini, da bastardo, a scavare diventava un poveraccio. Uno che era stato fregato. E gli alleati che arrivavano dal sud, gli americani salvatori, i valorosi inglesi, sulla linea gotica erano tutti alti, con la pelle olivastra e con capelli bellissimi che scendevano lungo la schiena: erano indiani. O piccoli, neri, scuri, africani che chissà da dove venivano. E man mano che salivano saltavano in aria, mia nonna li vedeva passare in barelle improvvisate senza una gamba, urlando in lingue inintelleggibili per lei, marchigiana. E quelli che non saltavano in aria andavano nei casolari a violentare le ragazze. La tradizione, la letteratura.

Ora a Stavanger dov'erano quei racconti? Quanto di quella tradizione sanguinante restava tra i valori fondanti dell'occidente? Cosa poteva davvero arrivare a quei ragazzi che non sembrasse quello che sembrava a me: fiction, materiale per narrazione. Pezzi tagliati male, fatti che non collimavano con altri fatti ma che — comunque — la vita, la società, l'occidente ti chiedeva di fare collimare. La storia, la mia storia, più vado avanti più nella mia testa è un casino in pieno svolgimento e i pezzi del puzzle sono io che poi, a posteriori, li affianco, agganciarli non se ne parla, li affianco in modo che il disegno di insieme non sia troppo vergognoso. Dopo una certa età non pensi alla morte come una liberazione dal dolore, ma dalla vergogna. Dall'inconsistenza della tua interfaccia. Per fortuna, poi, arriva anche il dolore.

[bada-boom #x0]

Il meccanico ci dice che il pezzo del turbo non ce l'ha, ma gli arriverà, l'ha ordinato e gli arriverà, domani. O dopodomani, dice. Il meccanico siede davanti a una scrivania con un monitor enorme, semicircolare, che la occupa tutta. Il meccanico è empatico, mentre ci dice le cose soffre, si vede. Gli spiace che il turbo della nostra macchina si sia rotto. Gli spiace che vada cambiato e che costi così tanto. Gli spiace che ci siano da aspettare due giorni e che dobbiamo cercare da dormire. Gli spiace, si vede. Quando gli dico che non abbiamo ancora trovato un posto per la notte, chiama sua moglie, guarda se potrebbe ospitarci a casa sua. Quando gli chiedo se hanno un auto di cortesia mi dice che in quel momento non la hanno, ma gli spiace di non averla, mi offre la sua auto, basta che gliela riporto per tornare a casa, dalla sua famiglia. Nei giorni che verranno confesserà che avrà pensato a noi tutto il fine settimana, che non avrà dormito di notte pensando a noi, al pezzo del nostro turbo.

Quando capiamo che dovremo dormire almeno una notte in più a Jorpeland ci viene questa idea. Mentre passeggiamo nell'isola delle capre vediamo un cartello in cui ci sono scritte le regole per poter stare nell'isola e una delle prime regole dice che il campeggio è permesso, per legge. “Elettra — dico — abbiamo una tenda, abbiamo qualche sacco a pelo, siamo stati tutti scout, perché non dormiamo una notte nell'isola?”. Ci sono le casette per mangiare alla griglia, c'è un bagno, acqua potabile, potemmo passare una notte lì. L'idea piace. Terzogenita è entusiasta e anche gli altri geniti accettano la cosa con una leggerezza inaspettata. Mentre organizziamo e pensiamo quali pezzi dovremmo comprare per la notte, faccio ancora un giro dell'isola per scegliere il posto migliore per mettere la tenda e durante la circumnavigazione terrestre dell'isola mi rendo conto che c'è qualcosa che non va.

Ritorno nel gruppo che – mi fa sempre impressione – per tre quinti è carne uscita da me e Elettra.

“Ragazzi — dico — c'è una cosa che non mi convince”. Elettra si volta verso di me, mi guarda. “Cosa?” chiede. Io alzo le spalle, mi giro e indico l'isola. “Non ci sono tende. In tutta l'isola. Siamo a due passi dal Preikestolen che ieri era pieno di turisti in coda, siamo in un isola da sogno, gli appartamenti sono tutti presi e qua non c'è nemmeno una tenda” spiego. Elettra dopo averci pensato un attimo dice che in effetti è strano. Magari abbiamo tradotto male il cartello con le regole. Torniamo tutti a leggerlo, lo ritraduciamo — cioè — lo ritraduce Google, e continua a venire fuori che per legge è permesso fare camping. Ma nessuno lo sta facendo. “Sarebbe intelligente chiedere conferma all'ufficio turistico” dice Elettra e io dico buona idea e mi volto verso primogenito, anche Elettra si volta verso primogenito, così anche secondogenito e terzogenito.

Primogenito fa come un passo indietro, dice no, io non ci vado. “Sei quello con l'inglese migliore” dico io, per captatio benevolentiae, ma primogenito non ha fatto la Divina Commedia, dice col cavolo. Segue animata discussione che si conclude con primogenito che entra nell'ufficio turistico mentre il resto dei Venerandi aspetta fuori. Dal vetro lo vediamo parlottante, agitare la mano con eleganza, mi immagino il tono che usa quando parla inglese, vedo dei gesti rapidi e netti della donna che sta dall'altra parte del bancone, poi primogenito esce e ci raggiunge. “Allora?” chiede Elettra. Primogenito ha una specie di sorriso strano sulla faccia.

“Allora” inizia, e fa una pausa. “Se vogliamo andare nell'isola e mettere una tenda, possiamo farlo, per legge possiamo farlo”. “Bene” dico io. Primogenito alza una mano come a fermarmi, per farmi capire che non ha finito di parlare. “Possiamo farlo — prosegue — ma lei ce lo sconsiglia, caldamente. Sottolineo il «caldamente»”.

“Ah” faccio io. “E perché?” chiedo.

Primogenito chiude gli occhi, fa di nuovo il sorriso strano e dice che la ragazza gli ha spiegato che se noi mettessimo la tenda nell'isola andremmo contro le regole non scritte della comunità. Che la legge ci permette di mettere la tenda, ma quell'isola è molto amata dagli abitanti di Jorpeland, è qualcosa che fa parte della comunità, della parte sacra che tiene unita una comunità come quella e se noi piantassimo una tenda e dormissimo sull'isola, ecco, gli abitanti di Jorpeland la prenderebbero come un'offesa. La riterrebbero una cosa davvero davvero inappropriata.

Rimaniamo tutti in silenzio. Mentre siamo lì che pensiamo mi vengono in mente, non so perché, diversi film dell'orrore che mi ha fatto vedere negli anni secondogenito nei quali alcuni stranieri arrivano in piccole comunità rurali, e infrangono senza saperlo qualche regola non scritta della comunità e in genere i film finiscono male, di notte, con gli stranieri che vengono chiusi in gabbie antropomorfe e bruciati, divorati da uomini lupo, sacrificati a qualche sconosciuta divinità nordica. E mentre sono lì a ricordare questi lungometraggi horror non posso non immaginarmi i venerandi che piantano la loro tenda, bruciano la loro carne sfrigolante nel barbecue, vanno a dormire e — nel cuore della notte — gli abitanti di Jorpeland aprono gli occhi, li vedete?, si alzano lentamente e vanno nelle loro enormi cucine, prendono dei coltelli da taglio osso e escono di casa, si incontrano tutti per strada, nel silenzio della notte, tutti in pigiama, in accappatoio, in vestaglia, in tuta, tutti con il loro coltello da cucina e tutti diretti verso l'isola delle capre per fare giustizia, per punire chi ha osato piantare una tenda nella loro isola sacra. I venerandi.

Il mio sguardo incrocia quello di Elettra che non so se ha pensato le stesse cose ma dice quello che sto pensando io. “Meglio soprassedere” dice e io annuisco. “Ma gli hai anche chiesto se allora ti dice un posto dove possiamo andare in tenda?” chiedo a primogenito che annuisce. “«Dappertutto» mi ha risposto” spiega primogenito. “Dappertutto” ripeto io. “Dappertutto” conferma lui. “Ma dappertutto non è un posto. È un avverbio” protesto. Primogenito alza le spalle. Tanto lui fa matematica. “Dappertutto nella natura, ha detto” precisa meglio. “Dappertutto nella natura” ripeto io e mi giro verso secondogenito. Secondogenito, sempre molto preciso, dice che quell'informazione è deficitaria di una definizione di “natura”. Cosa è la natura? “Dobbiamo definire cosa è natura e cosa no, per sapere se possiamo piantarci una tenda” dice. Primogenito aggiunge: “dobbiamo definire cosa è natura in Norvegia: non è detto che il concetto sia universale”. Interviene anche terzogenita: “cerchiamo su internet”.

Scopriamo su internet che il concetto di natura e di campeggio in Norvegia è formalizzato da una legge norvegese del 1957: tutti possono avere libero accesso nella natura, anche nella proprietà privata altrui. In una proprietà privata però solo per due giorni. Poi devi chiedere permesso al proprietario. Bisogna anche stare attenti che la tenda sia almeno a 150 metri da una abitazione. Finito di leggere restiamo di nuovo in silenzio e io mi vedo di nuovo a piantare una tenda in proprietà privata per due giorni e poi mani che di notte mi prendono e mi conducono su una grossa pira sacrificale. “Non me la sento” ammetto e sento un sospiro di sollievo da parte un po' di tutti.

Così troviamo un posto per dormire normale, un po' lontano dall'officina. È una specie di tenda piantata in un bosco, solo che dentro la tenda ci sono dei letti, una stufetta, una cassa bluetooth, delle luci di atmosfera. È un posto carino e ci porto la mia famiglia andando con l'auto con il turbo rotto, che – facendo il suo wiiiiii terrificante – riesce a muoversi a trenta chilometri orari, con l'acceleratore a tavoletta. Resto con loro fino a tardi e poi vado a dormire in auto, devo svegliarmi all'alba.

Alla mattina alle sette, infatti, riporto l'auto dal meccanico. Lui mi saluta, prende le chiavi, è dispiaciuto che io abbia dormito così poco ma dice che gli è arrivato il turbo, che ora lo montano, sono tre ore di lavoro, alle dieci – massimo undici – la nostra auto sarà pronta. Potremo ripartire e seguire i piani con due soli giorni di ritardo, lasciare mio figlio a Stoccolma, andare a chiudere il conto bancario in Svezia. La nostra missione è ancora attiva, ha solo avuto un piccolo ritardo.

Mentre aspetto che il meccanico mi chiami per dire che l'auto è pronta vado nell'isola delle capre. Il resto della città ancora dorme, come la mia famiglia che ho lasciato in questo paesino a nord di Jorpeland. Tutti dormono e io vado nell'isola delle capre, mi cerco uno scoglio e cerco di godermi il silenzio del primo mattino, lo sciabordare lento dell'acqua, il rumore dei primi uomini e prime donne che approdano all'isola per fare jogging, gli uccelli che si gettano in acqua e poi escono e si gettano in cielo. E io lì sullo scoglio con il mio ebook reader leggo e mi sembra di essere in un sogno, in una realtà irreale. Sento il tempo che mi passa attorno come una massa d'aria, come una articolazione delle luci e della carne. Mi godo il fatto di esserci, di essere ancora lì vivo, di avere avuto attorno Elettra, i miei figli, in un momento di crisi e di difficoltà, di essere stati un impasto, ancora, una cosa poligenerata. Di avere superato anche quella piccola avversità.

È in quel momento che il cellulare suona, e non sono le dieci, non sono nemmeno le undici, sono le otto e mezza e il cellulare suona, e io guardo il numero ed è il meccanico, riconosco il numero del meccanico e dico cazzo, non ho ancora tirato su e dico cazzo, perché il motore non può essere già pronto, perché se mi chiama ora vuol dire che qualcosa è andato storto e io rispondo e sento una voce in inglese che mi saluta, mi dice che è il meccanico, mi dice che soffre, che gli spiace, dice solo due parole che capisco bene “bad news”, I have bad news dice e io mi siedo e ora non c'è più l'isola non c'è più la massa d'aria, non c'è più il tempo e l'impasto, ci sono solo io e la voce del meccanico che dice bad news e poi aggiunge altre cose e io mi metto una mano fra i capelli.