[VII.2] {da bada-boom, work in progress}
Alla fine di questo viaggio tornerò nel cuore dell'Europa, uno dei tanti. Mentre sono qua a guidare verso la Scandinavia non lo so ancora, ma appena tornato a Genova ripartirò con Elettra per la Romania. Un mostro con mille cuori questa Europa. A Bucarest. Di nuovo mi troverò a fare considerazioni sulla storia che non conosco, su persone che mi passano accanto e di nuovo sentirò questo mio essere piccolo e stronzo, come te eh, ma di esserci, di prendere spazio e quindi di dover prendere posizione. Puoi saltare questo capitolo se vuoi, poi saltare anche tutto il libro se vuoi, puoi mettere via e lasciami stare. Io comunque andrò avanti.
Bucarest io c'ero stato solo nella mia testa, mentre leggevo Solenoide di Mircea Cărtărescu e me l'ero costruita tutta diversa da poi come la incontro quando ci sono. Nella mia testa era una città decadente, fatta di palazzoni socialisti e monumenti amministrativi per la nomenclatura, gli uni ammassati sugli altri come una città che sta per implodere e collassare su se stessa.
Invece la Bucarest vera mi lascia spiazzato. La prima cosa che mi colpisce sono le strade, enormi strade che sembrano scavate in orizzontale per la città, come se una forza innaturale avesse separato e allontanato i palazzi, le chiese, le architetture le une dalle altre e in mezzo avesse fatto emergere queste corsie stradali che hanno solcato la città e sulle quali le auto corrono nervose, suonando il clacson, in code e rumori di gomme che stridono sull'asfalto. Sono come i fiumi di una città, ma sono grigie e attraversate continuamente da automobili ad alta velocità. I palazzi sono come enormi caffettiere appoggiate sul limite di questa fiumana.
Inizialmente cammino per la parte della città dove ci sono gli uffici diplomatici, passo davanti all'ambasciata russa, protetto dalla polizia e più tardi camminerò davanti a quella dell'Ucraina che mostra attaccati ai cancelli le foto, ben impaginate in un grande poster, dei primi eroi di questa guerra, i morti.
Le architetture sono sempre enormi, in questa zona, e più cammino più le architetture iniziano ad implodere. Bucarest sembra un puzzle di città diverse che qualcuno ha messo assieme mescolando inavvertitamente i pezzi: alti grattacieli a specchio in cemento e vetro hanno come vicinato una piccola casetta devastata dal tempo a cui si aggrappa un condominio razionalista socialista a cui segue una improbabile ricostruzione di una villa francese. Proseguo con Elettra e indico le cose, e lei le indica a me, e dopo un po' mi rendo conto che non stiamo parlando di case, ma di storia. Bucarest è una stratificazione di ere geologiche diverse a cielo aperto, una geologia recente e dolorosa.
L'ultima, in ordine di tempo, è quella occidentale. Una glassa luminescente di video montati sui palazzi, enormi anche quelli, mostrano reclame di oggetti, luci accese ventiquattro ore su ventiquattro che bruciano risorse per farmi comprare una crema di bellezza, un'automobile, un videogioco. I palazzi occidentali sono emersi dal suolo tra relitti socialisti e palazzi di inizio novecento. Sembrano sempre dei pezzetti di America, si portano dietro i loro loghi rassicuranti, i percorsi di acquisto consolidati. Non si curano di quello che hanno attorno, a volte a una struttura contemporanea in pietra e acciaio, appena sgorgata dal terreno, prende posto di fronte a un condominio di cui restano solo alti pareti in cemento armato e detriti. Il lusso non si interessa alla storia che gli si è sgretolata attorno prima del suo arrivo. Musica a palla, entrate controllate, modelli.
Per fortuna decido di andare a visitare la parte della città di cui parla Mircea Cărtărescu nel suo romanzo. Elettra mi accompagna, andiamo a piedi fino a questa zona che – girata una curva – ci riporta indietro nel tempo. Entro davvero nella città del romanzo. Entro in una bolla e attorno cambiano i negozi, le case, le persone. I bar lounge con la loro musica cosmopolita e asettica scompaiono e lasciano il posto a negozi dalle insegne scolorite, le porte sbarrate, piccoli market dove entro con Elettra. Giro tra stanze respirando aria viziata tra bancarelle improvvisate, prodotti mai visti prima, signore anziane che sembrano uscite da un film con accanto le nipoti che passeggiano con loro in pigiama e pantofole. Bazar con quadri dipinti con stili fuori dal tempo, campi di cimiteri con impiccati, donne senza occhi con dietro di loro, nel cielo, navi aliene, immancabili camicie con fiori cuciti a mano, pizzi bianchi, microscopici ristoranti libanesi.
Una parte di storia che l'occidente sembra non voler ricordare, sono pezzi di Europa che mi ricordano posti simili che avevo visto in Croazia, in Grecia e che sono sempre più circoscritti e ghettizzati dalla confort zone creata dall'estetica occidentale, dal folklore normalizzato, dal quieto vivere delle nazioni. Dal consumo.
Ma la città è viva. Vedo la voglia di divertirsi, nel centro storico, la libertà dei ragazzi che girano per locali, bevono, fumano i narghilè nelle strette viuzze della città scampata alla demolizione fatta da Ceaușescu. Girano fuori dall'università come stanno girando milioni di altri ragazzi in Europa, per strade e piccoli vicoli con architetture simili, simboli simili, lingue simili. Con gli stessi desideri di divertirsi, lo stesso schifo per la mia generazione, per la corruzione del mondo che gli stiamo lasciando, con la voglia di cambiare o di andarsene, di cercare il proprio posto nel mondo. Camminano, barcollano e cantano per le piazze di queste città millenarie, sugli acciottolati, tra i calcinacci delle case che vanno in rovina, a fianco dei simboli nel loro passato.
Sono lì con loro e vedo questa insegna, una croce, nel mezzo della piazza che ricorda che lì gli studenti negli anni ottanta li hanno uccisi. Gli stessi che ora ascoltano musica e si divertono, poco tempo fa erano in piazza a protestare e la polizia, comunista, è arrivata e lì ha ammazzati. Non dobbiamo pensare, caro, solo con la nostra testa. Dobbiamo pensare con tutte le teste che ci sono state prima di noi. Con le aberrazioni, con le energie, con le cose che si sono scontrate da una parte e dall'altra. Giro per la strada, seguo Elettra che cerca una cosa nei negozi per i turisti, entriamo ed usciamo da diversi piccoli locali con le stesse cose in esposizione, uova decorate, t-shirt di Dracula, magneti per il frigorifero con donne in “costume tradizionale” finché in uno non mi giro e vedo le spille per il frigorifero con la faccia di Ceaușescu che sorride. Guardo Elettra, le indico la spilla sorridendo e lei non sorride.
Ad un certo punto decidiamo di andare fino al Palazzo del Popolo, costruito da Ceaușescu, che ci hanno descritto come la cornucopia dell'architettura comunista, una specie di monstrum burocratico fatto palazzo. Ci arriviamo per una strada laterale e per errore lo circumnavighiamo completamente prima di arrivare alla facciata principale. Solo per fare il giro del palazzo ci mettiamo quasi un'ora, camminiamo per chilometri. Attorno ci sono altri palazzi monumentali, immensi soprammobili posati sulla città ad annichilirla. Prima di arrivare alla facciata penso che ci sono già stato in un posto del genere. Spazi enormi, inutili. Architetture tronfie, propagandistiche. Poi mi ricordo: all'Eur, a Roma. O in certe piazze di Genova, vicino a piazza della Vittoria. Le architetture fasciste.
Quando finalmente arriviamo a vedere la facciata del Palazzo del Popolo mi fermo a prendere fiato, sono a pezzi. Resto immobile a fissarla. Guardo le colonne che sostengono trabeazioni e altre colonne, sistemi di archi che reggono finestre a coppie, piani costruiti sui piani con parti laterali aggettate verso l'esterno e finestre che si slanciano verso l'alto, corpi centrali che si snodano in quelli laterali che – a loro volta – si clonano variando spazi e volumi. È una struttura enorme e senza senso, se non la avessi sotto agli occhi crederei a qualcuno che si è divertito con i timbri di Photoshop a moltiplicare motivi architettonici gli uni sugli altri fino ad avere un pastiche abnorme, una parodia della struttura di un palazzo. E invece è lì, a occupare spazio. E tempo. Più la guardo, più dentro mi sale una domanda che poi emerge, nel rumore della piazza in cui sono. “Ma come cazzo gli è venuto in mente” dico a bassa voce e mi passo una mano sulla faccia.
E resto ancora a fissarla, mi metto a contare le colonne, le finestre, gli archi, gli elementi di trabeazione e mi immagino questa cosa, questo sogno: che ci sia un messaggio nascosto. Nella successione delle piccole finestre, nel computo degli archi acuti, nel rapporto numerico con le colonne greche, nell'alternarsi binario di parti aggettanti e rientranti, ci sia un codice matematico, un algoritmo generatore che gli architetti hanno mescolato con il marmo e la malta, una decrittazione della follia umana che chi guarda il Palazzo del Popolo deve fare, un reverse computing per arrivare alla stringa generatrice, al seme del numero casuale che poi ha iniziato a moltiplicarsi per gemmazione e dare vita alle stanze gelide, ai corridoi, alle zone inesplorate sotterranee, alle finestre a mezzaluna, ai vuoti interni della struttura.
Un messaggio nascosto impastato dentro al Palazzo del Popolo il cui significato è una specie di urlo muto. Il contraltare delle piazze dei centri storici, l'altra parte dell'Europa, che non se ne è mai andata.