[bada-boom #$]
Quando viaggiavo da solo con Elettra era tutto molto diverso, arrivavamo in un posto, cercavamo dove dormire, entravamo in questa stanza e mollavamo tutto, ci acciambellavano gli uni negli altri, ogni angolo del nostro corpo era un frammento di mandelbrot espandibile all'infinito di odori, sapori, sogni, la distanza fra di noi era talmente finita che Achille raggiungeva la testuggine e insieme formavano un nuovo superessere, un guerriero amorfo corazzato che dormiva dentro se stesso, io nel se stesso di Elettra, lei nel se stesso di Fabrizio. È qualcosa che siamo stati e siamo fortunati a poterla tenere da qualche parte dentro, come un organo interno aggiuntivo. Organo dei ricamo, dell'affetto, del ricordo.
Con i figli invece, appena arriviamo in un posto, serve una precisa organizzazione, non puoi mollare un secondo altrimenti crolla tutto, chi ha le borse con gli asciugamani? ragazzi, chi ha gli asciugamani, e i lenzuoli? tirate fuori i lenzuoli e fate i letti, chi ha la borsa con il cibo la porti in cucina e metta le cose della borsa frigo in frigo, lavatevi i denti, chi ha la borsa con gli spazzolini e dentifrici? in che senso è rimasta in macchina? andate a prendere la borsa con gli spazzolini e dentifrici, no, non abbiamo ancora un borsa spazzatura, prendete un sacchetto vuoto e usatelo come spazzatura, no, quella non è spazzatura, quella è la borsa bucato da fare, dove sono i sacchi con i libri di scuola? in che senso “che libri di scuola”?
Non puoi mollare un secondo. Ogni volta che entriamo in un appartamento io e Elettra sembriamo due generali a gestire un esercito che sta stanziandsi per un lungo assedio ad una città medievale, con tanto di draghi, principesse e massacri da compiere. Quando l'appartamento sembra avere assunto un ordine minimo di civilizzazione occidentale, ogni membro della famiglia crolla sulla cosa più vicino a lui e alla furia segue una pace irreale, gravida di tempeste. Qualcuno dovrà cucinare, qualcuno dovrà andare a parlare con chi ci ospita, qualcuno dovrà vedere dove è il supermercato più vicino e gli orari di apertura e chiusura. Essere in vacanza è per prima cosa ricostruire il proprio habitat in giro per il mondo, costituire accampamenti, perdersi.
Poniamo allora la base della nostra seconda missione, la camminata al Preikestolen, il masso granitico più famoso di Jorpeland, punto finale della camminata più gettonata del Sognefjord. E partiamo, una volta distribuiti i compiti, dopo aver mangiato e dormito, risaliamo in auto e guidiamo fino alla base del sentiero. Lì ci rendiamo conto di non essere soli. Il parcheggio è pieno e fuori ci sono centinaia di persone, venute lì per lo stesso motivo, tutte pronte per lo stesso assedio, le stesse macchine fotografiche, gli stessi zainetti, le stesse scarpe trekking.
È la sensazione di essersi dati un appuntamento, tutti, sconosciuti da ogni parte del mondo in quel posto, ognuno sceso dall'auto con lo stupore di trovare in quel piccolo piazzale della Norvegia il resto dei convenuti, un flash mob non organizzato e ricorsivo, ogni giorno, ogni ora si ritrovano queste persone che si guardano, fanno gesti simili, si salutano, si mettono in coda davanti al rubinetto dell'acqua potabile per riempire la borraccia, davanti alla macchinetta per pagare il parcheggio ed andarsene. Assomiglia a una casa degli specchi, le stesse immagini sociali ripetite e moltiplicate nello spazio.
È lì, durante la lunga passeggiata nel sentiero di montagna che porta al Preikestolen, quando mi trovo circondato da queste persone in vacanza che parlano polacco, inglese, portoghese, francese, spagnolo, tedesco e riusciamo a capirci, a sorriderci, a metterci d'accordo, è in quel momento che ho chiara l'illuminazione: io e quelle persone abbiamo qualcosa in comune che va oltre l'etnia, la lingua, la religione, la tradizione. Qualcosa di forte che ci unisce in un unico popolo transnazionale.
Siamo tutti consumatori.
Microcapitalisti, dipendenti statali, partite Iva, cococo, stop and go, contratti a tempo determinato, piccoli e medi imprenditori: siamo tutti lì ad aggiungere la nostra scaglia all'animale, a spalmare la crema solare all'ombra delle squame di quell'astrocolosso, il vortice indefinito del consumo. E io e la mia famiglia siamo identici a oro, in fila, con lo stesso atteggiamento, lo stesso modo di vedere il mondo, di fotografarlo, di ricordarlo, di raccontarlo.
Cammino per ore in mezzo al popolo di questa cittadinanza di consumatori e in fondo mi ci trovo bene, so che abbiamo sogni comuni, paure comuni, che tutti veniamo dallo stesso posto e allo stesso posto vogliamo ritornare. E mentre sono lì che cammino, e sudo, e fatico e mi immagino che forse mia figlia terzogenita è precipitata nel vuoto e soffro perché i miei figli non sono felici di quella passeggiata quanto avevo programmato che lo fossero, è lì che mi viene da pensare al consumo. Al lavoro che stiamo facendo, alla fuga che – collettivamente – facciamo dai nostri luoghi di lavoro.
Nelle riviste anni ottanta – penso mentre salgo su queste rocce millenarie – si immaginava che i robot avrebbero sostituito il lavoro umano, permettendo agli esseri umani di divertirsi e riposarsi. Il robot lavora mentre l'uomo si dedica alla caccia, al sesso, a dormire. Non era andata così. I robot avevano sostituito il lavoro umano, vero, ma facendolo con pervasività e ritmi inumani. Non avevano semplicemente sostituito il lavoro umano, ma avevano generato un tipo nuovo di lavoro, inabitabile dall'uomo. Erano diventati insostituibili, l'uomo non sarebbe potuto più tornare indietro. Altri robot erano costruiti sui primi robot e così via. Lo sviluppo era inarrestabile.
E chi traeva beneficio del lavoro dei robot non erano gli uomini, era il capitale. Una piccola porzione dell'umanità, microscopica, godeva effettivamente del lavoro dei robot. Tutti gli altri dovevano scalare, trovare altri lavori che i robot non potevano fare, lavori così miserabili che non valeva la pena impegnare un robot per quello. Lavori in cui il capitale non investiva e che restavano appannaggio di noi umani.
I robot non producevano benessere, ma beni di consumo, continuamente, a prezzi sempre più allettanti, costringendo la parte grossa dell'umanità a lavorare sempre di più, in qualunque modo, disperatamente. Per mantenere la cittadinanza di consumatori. La disperazione non era riconosciuta. Veniva scambiata per ansia, prestazione, progettazione, mantenimento degli obiettivi. Ma era disperazione.
Il turisti che mi circondano – penso mentre arrivo nei pressi del Preikestolen – stanno vivendo l'ora d'aria della loro disperazione. E io con loro. Siamo tutti fuggiti dalla routine del mondo reale e siamo lì a fingere di essere lì a scalare il monte. Non siamo davvero lì, c'è sempre un elastico che ci tiene in tensione, che ci tira verso le ansie che abbiamo lasciato ad aspettarci a casa, a controllare che non vengano i ladri, a rodere le fondamenta delle nostre abitazioni. In realtà chi sta facendo le vacanze è il nostro avatar, un personaggio identico a noi ma senza i nostri problemi, che finge di essere libero, di avere in mano la propria vita.
Vedo i miei figli, sono tutti buttati sulle rocce che guardano il vuoto. “Come vi sembra?” chiedo, e loro alzano le spalle, dicono che non ne valeva la pena, sono stanchi, hanno le vertigini. Chiudo gli occhi, li riapro. Non rispondo nemmeno alle loro critiche, vedo Elettra più lontano, la raggiungo. Anche lei ha appena parlato con i figli e mi propone di gettarli tutti e tre di sotto, abbiamo sottovalutato Sparta, mi dice, Atene è sovrastimata.
Potremmo mettere robot nella parte finale del cammino su cui poggiare i figli e un rapido tapisroulant li potrebbe far precipitare nel vuoto, penso. Svevo era morto. Dopo La coscienza di Zeno era morto, incidente stradale, una delle prime auto in Italia e lui va a fare un incidente stradale. E muore perché i medici lo curano male, il che – se vogliamo – ha della cupa ironia. Comunque, prima di morire aveva iniziato a scrivere il romanzo successivo, ne sono rimasti dei frammenti e in uno dei frammenti Svevo ideava questa cosa. Siccome il suo figlio piccolo piangeva come un ossesso disturbandolo, Svevo pensa di costruire una piccola ferrovia all'interno di casa sua, che immagino dovesse essere abbastanza grande. L'idea è di montare poi dei piccoli vagoncini da tenere a portata di mano. Appena un figlio inizia a rompere i coglioni o piangere o rovinarti la vita, si prende, si mette sul vagoncino e si fa partire la ferrovia, finché l'urlo primordiale della prole non sparisce nei meandri delle meccaniche planimetriche della villa sveviana.
È una grande insegnamento inascoltato del genio dello scrittore triestino e un utilizzo mancato dei robot.
Scendendo poi ripenso alla mia teoria capitalista, al fatto che ora sono in coda con gli stessi turisti che salivano e ora scendono e penso che – sotto sotto – lì ci sono anche io. Non il mio avatar. L'incazzatura con i miei figli, la bellezza dei massi sovrastati dal cielo primitivo, l'immagine lontana di laghi e cascate che sembrano uscire da un libro di Tolkien me le porterò dentro, cambieranno anche l'impiegato statale, l'imprenditore, il cococo e tutti gli altri qua in fila che divorano il tempo con l'esperienza di questa camminata, le pause, l'aiutare il padre anziano che non riesce a scendere, il figlio piccolo che si è addormentato nel marsupio. Abbiamo bisogno di questa distopia perché pensiamo che con questo piccolo grimaldello potremmo vedere poi in maniera diversa il nostro mondo reale, disarcionare il folklore stanco della nostra vita standard. Forse dovrei tenere scritte queste cose, mettere per iscritto tutto per non dimenticarlo.
Arrivati alla base ci fermiamo, compriamo cose per ricordare quello che abbiamo fatto, piccoli simboli calamitati da appendere al frigo pensando che magari – proprio partendo dallo spazio che il frigo occupa con la sua presenza – anche la nostra vita a rimbalzo potrebbe cambiare. Paghiamo il parcheggio, saliamo in auto, partiamo.
Ecco. È in questo momento che succede il badabùm. Che non fa esattamente badabùm, è più un “wiiiiiii”. Il suono di quando Peppa Pig si lancia con la bici giù per qualcosa di ripido. “Wiiiiiii” sento e mi giro e vedo che anche Elettra ha sentito il “wiiiiiii” e il “wiiiiiii” non viene dall'esterno, viene chiaramente dal vano motore della Citroen Nemo. “Wiiiiiii” fa il motore e subito dopo l'auto inizia a rallentare, si ferma. “Wiiiiiii”.
Scendo. Apro il cofano. Guardo i vari componenti con la stessa espressione con cui guarderei la carogna dissezionata di un'aragosta. Tiro fuori l'asta dell'olio, per sicurezza, la controllo. Pulisco, reinfilo dentro, tiro fuori di nuovo. Controllo.
Non c'è un filo d'olio. Abbiamo consumato tutto, abbiamo bruciato tutto l'olio motore mentre attraversavamo l'Europa. Il motore è fuso. Chiudo il cofano, rientro nell'abitacolo. Elettra mi guarda, la guardo. “Abbiamo bruciato il motore” dico. “Era finito l'olio e non me ne sono accorto” dico. Elettra non risponde niente, guarda davanti a sé il panorama ora immobile che si vede oltre il parabrezza. I figli – dietro – sono presi da un laocoontico e provvidenziale silenzio.
Come maschio adulto, mi sento di dover dire qualcosa al resto della famiglia, un piano, una strategia. Dopo qualche secondo “cazzo” dico. “Cazzo, cazzo” ripeto per far capire meglio il concetto. Cazzo.