La vita in famiglia è bellissima

Frammenti quotidiani di vita familiare

[bada-boom #90]

Con me ci sono i miei figli, dietro che guardano fuori dal finestrino, abbandonati nei letti, in giro per strada. Si muovono, dicono cose, vedo i loro volti che parlano lontano con Elettra e non sento cosa dicono. Mi abbracciano all'improvviso, mi guardano male, si allontanano da me. Ho paura – a volte – di loro, di infrangere il debole patto per il quale io sono loro padre e loro i miei figli. Non c'è niente nella carne che debba fare funzionare questa cosa, ma è così che ci svegliamo e addormentiamo, vicini o lontani che siamo. Sono loro padre e sono un adolescente come loro, solo che sono stato ferito più volte, ho visto più cose, ho fatto più errori, ho meno roba in circolo nel corpo. Ho visto più cose cambiare, sentito più volte le cose infrangersi. Mi sono sfasciato più volte di loro, per ora.

Delle persone che non sono i miei figli, quelle che incontro per il mondo, anche il meccanico che incontrerò a Jorpeland, il tipo indiano dietro al bancone del Peppes Pizza, la norvegese che ci ospita nel suo appartamento del piano di sopra e che incontro sempre in ciabatte e accappatoio, anche quando è fuori che porta fuori il cane e piove, di tutte queste strane persone io mi faccio una idea. Mentre mi parlano io ascolto, sorrido e piano piano mi faccio una idea. Come una pallina del Pachinko che scende per i passaggi binari e alla fine trova un suo posto, così io ascolto e parola dopo parola faccio scendere la pallina che alla fine si ferma, e quel posto è l'idea che mi sono fatto della persona. Gentile, avido, scassacazzo, geniale, riflessivo, attento, completamente idiota, pericoloso, tossico, a.i.u.t.o., dolorante, energico, tonico, ad ognuno affibbio la mia etichetta, ancora mentre stanno parlando.

Si tratta, è chiaro, di una forma di autodifesa. Quelle persone non sono davvero l'idea che mi sono fatto di loro, ma a me serve quell'idea per poterle gestire. Spesso andando avanti mi rendo conto di dover fare piccole aggiustature o vere e proprie retromarce e a volte mi dispiace. Faccio errori anche grossolani perché mi ero affezionato alla prima idea che mi ero fatto, era più bella la prima persona che avevo inventato dentro di me e ora, di fronte alla persona reale mi rifiuto di adeguarmi. Continuo a fingere di essere con quell'idea prima.

Durante il viaggio mi rendo conto che con i miei figli non ci riesco. Sono lì attorno a me per tutto il tempo della mia giornata, lo sono da anni, li ho visti tutti e tre uscire dalla pancia della loro madre, li ho visti diventare dei mutaforma, perdere denti, capelli, fare sbucare sessi, allungare la spina dorsale, mutare la voce, li ho visti piangere, cercarmi, ridere fino allo sfinimento, dormire con la mia mano tra i loro capelli, ma non mi sono ancora fatto una idea su di loro. Quando gli parlo, la pallina di Pachinko diventa sempre più trasparente man mano che scende, diventa una forma pura e anche il labirinto colorato e luminoso si contorce fino a diventare una stella mutante e un dedalo di cui di tanto in tanto riconosco parti del mio passato comune con loro, altre volte sono uno straniero in viaggio, che passa in paesi di cui non riesce nemmeno a leggere bene il nome del cartello stradale. Dei miei figli non ho una idea.

Mentre scrivo vorrei stereotipizzarli, farli diventare dei personaggi e non ci riesco. Sto scrivendo un libro e tre personaggi principali non vogliono avere né descrizioni dirette né indirette, niente narratore onniscente che ci fa entrare nella loro testa e nei loro pensieri, niente oggetti magici, antagonisti, niente spannung. Questi tre figli sono nelle mie parole, infilati nelle cose che scrivo, ma non sono né protagonisti né comparse. Sono ognuno in un loro romanzo personale, illeggibile, quando fissano il vuoto senza dire niente, quando ridono a qualcuno che non vedo, quando saltano sull'altalena e hanno gli occhi dello stesso colore del cielo norvegese coperto dalle grosse nuvole che arrivano dall'atlantico.

Quando avevo iniziato questo libro avevo pensato che avrei scritto un sacco di dialoghi con loro, le cose folli che fanno, le scene che accadono nella famiglia che a volte sembrano uscire fuori da un televisore. Invece ci siamo trovati così vicini, per così tanto tempo, siamo stati silenziosi, attenti, durante il bàdabùm senza perdere la testa, che alla fine anche noi cinque ci ritroviamo ad essere un impasto, una materia messa assieme che va in giro e di cui non riesci a farti una idea. È l'ultimo momento della nostra vita in cui viaggiamo tutti e cinque assieme, man man che passano i giorni ce ne rendiamo conto. C'è stato un momento magico in cui siamo stati una famiglia di cinque persone, e questo momento sta passando, ora.

Adesso mentre sono in piedi con la pistola in mano a fare l'ennesimo pieno di diesel, provando la sgradevole sensazione che tutti quei litri che sto infilando dentro l'auto bruceranno tutti, li consumeremo per andare avanti, per non smettere di muoversi. Adesso che Elettra apre il finestrino e mi chiede se è il caso di controllare l'olio, che sente odore come di bruciato e io le dico no, ho fatto il cambio tre giorni prima, alla partenza, ne abbiamo sicuramente ancora un sacco.

[bada-boom #ò]

Il meccanico di Jorpeland dice che il rumore che fa la mia auto non è un bel rumore. Non è un bel segno, dice. Dice che deve smontarlo ma è quasi sicuro che si sia rotto il turbo. Dal rumore dice che non ci saranno buone notizie. Dice che possiamo andare, mentre aspettiamo, in un isola che c'è vicino a Jorpeland, ci si può andare a piedi, fare passeggiate, vedere la natura. Lui ci consiglia di andare mentre smonta la macchina così possiamo smettere di pensare all'auto. È meglio che smettiate di pensare all'auto dice, guardare la natura, rilassarvi, dice. È molto meglio.

Noi ci allontaniamo dalla nostra Citroen Nemo come ci si allontana da una tomba di un caro, ci voltiamo a guardarla e non parliamo, non facciamo ancora progetti su come gestire questo casino, aspettiamo che il meccanico ci dica qualcosa e intanto andiamo a cercare l'isola di cui ci ha parlato.

La cosa che mi colpisce di Jorpeland è che queste piccole città norvegesi non hanno un centro, sono così abituato ad avere da qualche parte una chiesa e poi intorno delle case riunite in un incastro scoordinato che poi via via digrada in zone sempre più regolari e infine in asettiche zone residenziali che lì mi sento perso. Non c'è un centro vero e proprio, è come se la città fosse emersa dalla terra il giorno prima, con le sue case residenziali, i centri commerciali, le scuole, ma non troviamo i nodi interni all'albero cittadino, tutto sembra sullo stesso livello, giriamo di strada in strada senza riuscire a percepire la parte vecchia e quella nuova. È come se ci trovassimo in una città ricorsiva dove le case si succedono alle case e poi – all'improvviso – la città finisce. L'uniformità dà un senso di smarrimento, sento proprio la mancanza fisica della storia.

Probabilmente, mi dice Elettra, non esiste una città vecchia. “Qua era tutto di legno” aggiunge. Le chiese erano di legno, le case erano di legno. Questo era un grosso villaggio che si è ritrovato città, all'improvviso, con l'arrivo del mondo contemporaneo. Forse quello che c'era prima è bruciato durante l'occupazione nazista.

Primogenito cerca intanto l'isola con Google Maps, noi lo seguiamo camminando e guardandoci attorno finché non ci ritroviamo all'interno di un cantiere in costruzione. Primogenito continua a camminare convinto tra i calcinacci, io sono affascinato e spaventato di come i miei figli abbiano fiducia negli algoritmi e nella scienza. Primogenito cammina tra i calcinacci e tra i cancelli di metallo del cantiere mentre tutto intorno gli urla che siamo nel posto sbagliato, tranne il suo cellulare. Lo smartphone continua a ricevere dati e a descrivere percorsi che l'algoritmo costruisce cieco attorno a noi. “Siamo nel posto sbagliato” gli dico e lui si volta e mi guarda come se mi vedesse per la prima volta. Fa gli occhi grossi, mi indica le mappe vettoriali di Maps. Proseguiamo con piena fiducia in Google finché la nostra strada non è interrotta da una babele di tondini di metallo arrugginito. Primogenito è là, davanti a tutti, che fissa l'orizzonte oltre i tondini, come il famoso quadro dell'uomo sugli scogli e davanti a lui l'oceano.

Torniamo indietro.

Continuiamo a seguire percorsi, ognuno guarda il suo smartphone e confronta le proprie mappe con quelle degli altri, come se davvero potessero essere diverse, ci ritroviamo di nuovo in una zona che urla “andatevene, folli, non è questo il posto che cercate!”, grossi palazzoni, uffici grigi, desolate zone parcheggio a delimitare ipermercati. “Eppure deve essere qua” dice ancora primogenito, anche Elettra è con lui che discute, girano, camminano e poi – improvvisamente – dietro all'ennesimo palazzone anonimo, c'è un piccolo ponte pedonale colorato di rosso e – attaccato al ponte – un'isola, come se fosse un enorme pesce verdeggiante preso all'amo. È letteralmente un ponte in mezzo al niente, nessun cartello turistico, niente. Si passa da una zona che in Europa del sud avrei definito “periferia suburbana” a questa isola piena di alberi a cui arriviamo dopo aver attraversato il ponte.

L'isola è un posto fuori dal mondo. Appena entriamo siamo circondati da decine e decine di capre che passeggiano libere, mangiano l'erba, cagano i loro piccoli pallini su un percorso che fa l'intera circumnavigazione dell'isola. C'è un parco giochi costruito nel verde, panchine, diverse piccole casette di legno con tutto pronto per farsi il barbecue la sera, un bagno pubblico, un percorso per giocare a golf, ma con il frisbee. Tutto aperto, gratuito. E c'è la gente che passeggia, fa jogging, prepara la brace per cenare assieme con altre famiglie. È un posto che trasuda civiltà e mi fa sentire in imbarazzo. Penso che se ci fosse un isola del genere in Italia nel giro di due giorni le capre sarebbero sparite, i bagni sfondati e lucchettati dall'amministrazione pubblica per dimenticarli, le zone barbecue usate come bagno e vandalizzate, gli attrezzi per il golf con il frisbee divelti e gettati in acqua. Cammino per l'isola e mi sembra di essere in un futuro distopico, in una specie di fiction.

Mi sento anche in colpa di pensare quelle cose, quello che penso dell'Italia è uno stereotipo, ma lo sento terribilmente vero. Qualche settimana dopo sarò tornato a Genova, nella strada che porta a casa mia e vedrò i rifiuti che la gente scarica da anni abusivamente nella strada sopra la mia, spinti dalle piogge fino alla strada sottostante e camminerò tra rottami, sporcizia, relitti. Scarti. Mi ricorderò di quell'isola, di quel modo di vedere il mondo. Chissà mi chiedo quanta energia servirebbe per trasformare anche il posto in cui vivo in un posto che trasuda civiltà. Sospiro. Suona il cellulare.

È il meccanico ma per telefono ho difficoltà a capire. Chiamo primogenito che ha un inglese infinitamente migliore del mio, gli chiedo se può farmi da traduttore. Primogenito non è felice di usare il suo inglese, di cui si compiace tanto, per cose rozze e meschine come parlare di motori di auto. Ma capisce la situazione e inizia a parlare con il meccanico, e di tanto in tanto ci traduce il vaticinio. Primogenito dice che il meccanico dice che aveva ragione. Primogenito dice che il meccanico dice che è il turbo. È certamente il turbo. Primogenito dice che il meccanico dice che non è una bella notizia, ma nemmeno la peggiore. Si può sostituire, è caro, ci dice. Annuisco, guardo Elettra. Primogenito dice che il meccanico dice ora gli dice la cifra. Primogenito ci dice la cifra. Scopriremo poi che per un errore di traduzione primogenito aveva aggiunto uno zero in fondo al preventivo e ci viene un infarto. Elettra chiede quanto costerebbe bruciarla invece o farla brillare. Primogenito evita di tradurre e richiede la cifra per sicurezza e questa volta ci dice l'importo esatto. Sospiriamo, tutti, anche terzogenita. Diciamo a primogenito di dire al meccanico che ci pensiamo un attimo e poi gli ritelefoniamo. Primogenito dice anche un po' di frasi in inglese, per sicurezza, poi butta giù.

Nel 1969, Elizabeth Kübler-Ross ha descritto cinque fasi popolari del dolore, comunemente denominate diniego, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione, pare dopo aver fuso il motore del suo diesel in un piccolo paese del sud della Norvegia.

[bada-boom #$]

Quando viaggiavo da solo con Elettra era tutto molto diverso, arrivavamo in un posto, cercavamo dove dormire, entravamo in questa stanza e mollavamo tutto, ci acciambellavano gli uni negli altri, ogni angolo del nostro corpo era un frammento di mandelbrot espandibile all'infinito di odori, sapori, sogni, la distanza fra di noi era talmente finita che Achille raggiungeva la testuggine e insieme formavano un nuovo superessere, un guerriero amorfo corazzato che dormiva dentro se stesso, io nel se stesso di Elettra, lei nel se stesso di Fabrizio. È qualcosa che siamo stati e siamo fortunati a poterla tenere da qualche parte dentro, come un organo interno aggiuntivo. Organo dei ricamo, dell'affetto, del ricordo.

Con i figli invece, appena arriviamo in un posto, serve una precisa organizzazione, non puoi mollare un secondo altrimenti crolla tutto, chi ha le borse con gli asciugamani? ragazzi, chi ha gli asciugamani, e i lenzuoli? tirate fuori i lenzuoli e fate i letti, chi ha la borsa con il cibo la porti in cucina e metta le cose della borsa frigo in frigo, lavatevi i denti, chi ha la borsa con gli spazzolini e dentifrici? in che senso è rimasta in macchina? andate a prendere la borsa con gli spazzolini e dentifrici, no, non abbiamo ancora un borsa spazzatura, prendete un sacchetto vuoto e usatelo come spazzatura, no, quella non è spazzatura, quella è la borsa bucato da fare, dove sono i sacchi con i libri di scuola? in che senso “che libri di scuola”?

Non puoi mollare un secondo. Ogni volta che entriamo in un appartamento io e Elettra sembriamo due generali a gestire un esercito che sta stanziandsi per un lungo assedio ad una città medievale, con tanto di draghi, principesse e massacri da compiere. Quando l'appartamento sembra avere assunto un ordine minimo di civilizzazione occidentale, ogni membro della famiglia crolla sulla cosa più vicino a lui e alla furia segue una pace irreale, gravida di tempeste. Qualcuno dovrà cucinare, qualcuno dovrà andare a parlare con chi ci ospita, qualcuno dovrà vedere dove è il supermercato più vicino e gli orari di apertura e chiusura. Essere in vacanza è per prima cosa ricostruire il proprio habitat in giro per il mondo, costituire accampamenti, perdersi.

Poniamo allora la base della nostra seconda missione, la camminata al Preikestolen, il masso granitico più famoso di Jorpeland, punto finale della camminata più gettonata del Sognefjord. E partiamo, una volta distribuiti i compiti, dopo aver mangiato e dormito, risaliamo in auto e guidiamo fino alla base del sentiero. Lì ci rendiamo conto di non essere soli. Il parcheggio è pieno e fuori ci sono centinaia di persone, venute lì per lo stesso motivo, tutte pronte per lo stesso assedio, le stesse macchine fotografiche, gli stessi zainetti, le stesse scarpe trekking.

È la sensazione di essersi dati un appuntamento, tutti, sconosciuti da ogni parte del mondo in quel posto, ognuno sceso dall'auto con lo stupore di trovare in quel piccolo piazzale della Norvegia il resto dei convenuti, un flash mob non organizzato e ricorsivo, ogni giorno, ogni ora si ritrovano queste persone che si guardano, fanno gesti simili, si salutano, si mettono in coda davanti al rubinetto dell'acqua potabile per riempire la borraccia, davanti alla macchinetta per pagare il parcheggio ed andarsene. Assomiglia a una casa degli specchi, le stesse immagini sociali ripetite e moltiplicate nello spazio.

È lì, durante la lunga passeggiata nel sentiero di montagna che porta al Preikestolen, quando mi trovo circondato da queste persone in vacanza che parlano polacco, inglese, portoghese, francese, spagnolo, tedesco e riusciamo a capirci, a sorriderci, a metterci d'accordo, è in quel momento che ho chiara l'illuminazione: io e quelle persone abbiamo qualcosa in comune che va oltre l'etnia, la lingua, la religione, la tradizione. Qualcosa di forte che ci unisce in un unico popolo transnazionale.

Siamo tutti consumatori.

Microcapitalisti, dipendenti statali, partite Iva, cococo, stop and go, contratti a tempo determinato, piccoli e medi imprenditori: siamo tutti lì ad aggiungere la nostra scaglia all'animale, a spalmare la crema solare all'ombra delle squame di quell'astrocolosso, il vortice indefinito del consumo. E io e la mia famiglia siamo identici a oro, in fila, con lo stesso atteggiamento, lo stesso modo di vedere il mondo, di fotografarlo, di ricordarlo, di raccontarlo.

Cammino per ore in mezzo al popolo di questa cittadinanza di consumatori e in fondo mi ci trovo bene, so che abbiamo sogni comuni, paure comuni, che tutti veniamo dallo stesso posto e allo stesso posto vogliamo ritornare. E mentre sono lì che cammino, e sudo, e fatico e mi immagino che forse mia figlia terzogenita è precipitata nel vuoto e soffro perché i miei figli non sono felici di quella passeggiata quanto avevo programmato che lo fossero, è lì che mi viene da pensare al consumo. Al lavoro che stiamo facendo, alla fuga che – collettivamente – facciamo dai nostri luoghi di lavoro.

Nelle riviste anni ottanta – penso mentre salgo su queste rocce millenarie – si immaginava che i robot avrebbero sostituito il lavoro umano, permettendo agli esseri umani di divertirsi e riposarsi. Il robot lavora mentre l'uomo si dedica alla caccia, al sesso, a dormire. Non era andata così. I robot avevano sostituito il lavoro umano, vero, ma facendolo con pervasività e ritmi inumani. Non avevano semplicemente sostituito il lavoro umano, ma avevano generato un tipo nuovo di lavoro, inabitabile dall'uomo. Erano diventati insostituibili, l'uomo non sarebbe potuto più tornare indietro. Altri robot erano costruiti sui primi robot e così via. Lo sviluppo era inarrestabile.

E chi traeva beneficio del lavoro dei robot non erano gli uomini, era il capitale. Una piccola porzione dell'umanità, microscopica, godeva effettivamente del lavoro dei robot. Tutti gli altri dovevano scalare, trovare altri lavori che i robot non potevano fare, lavori così miserabili che non valeva la pena impegnare un robot per quello. Lavori in cui il capitale non investiva e che restavano appannaggio di noi umani.

I robot non producevano benessere, ma beni di consumo, continuamente, a prezzi sempre più allettanti, costringendo la parte grossa dell'umanità a lavorare sempre di più, in qualunque modo, disperatamente. Per mantenere la cittadinanza di consumatori. La disperazione non era riconosciuta. Veniva scambiata per ansia, prestazione, progettazione, mantenimento degli obiettivi. Ma era disperazione.

Il turisti che mi circondano – penso mentre arrivo nei pressi del Preikestolen – stanno vivendo l'ora d'aria della loro disperazione. E io con loro. Siamo tutti fuggiti dalla routine del mondo reale e siamo lì a fingere di essere lì a scalare il monte. Non siamo davvero lì, c'è sempre un elastico che ci tiene in tensione, che ci tira verso le ansie che abbiamo lasciato ad aspettarci a casa, a controllare che non vengano i ladri, a rodere le fondamenta delle nostre abitazioni. In realtà chi sta facendo le vacanze è il nostro avatar, un personaggio identico a noi ma senza i nostri problemi, che finge di essere libero, di avere in mano la propria vita.

Vedo i miei figli, sono tutti buttati sulle rocce che guardano il vuoto. “Come vi sembra?” chiedo, e loro alzano le spalle, dicono che non ne valeva la pena, sono stanchi, hanno le vertigini. Chiudo gli occhi, li riapro. Non rispondo nemmeno alle loro critiche, vedo Elettra più lontano, la raggiungo. Anche lei ha appena parlato con i figli e mi propone di gettarli tutti e tre di sotto, abbiamo sottovalutato Sparta, mi dice, Atene è sovrastimata.

Potremmo mettere robot nella parte finale del cammino su cui poggiare i figli e un rapido tapisroulant li potrebbe far precipitare nel vuoto, penso. Svevo era morto. Dopo La coscienza di Zeno era morto, incidente stradale, una delle prime auto in Italia e lui va a fare un incidente stradale. E muore perché i medici lo curano male, il che – se vogliamo – ha della cupa ironia. Comunque, prima di morire aveva iniziato a scrivere il romanzo successivo, ne sono rimasti dei frammenti e in uno dei frammenti Svevo ideava questa cosa. Siccome il suo figlio piccolo piangeva come un ossesso disturbandolo, Svevo pensa di costruire una piccola ferrovia all'interno di casa sua, che immagino dovesse essere abbastanza grande. L'idea è di montare poi dei piccoli vagoncini da tenere a portata di mano. Appena un figlio inizia a rompere i coglioni o piangere o rovinarti la vita, si prende, si mette sul vagoncino e si fa partire la ferrovia, finché l'urlo primordiale della prole non sparisce nei meandri delle meccaniche planimetriche della villa sveviana.

È una grande insegnamento inascoltato del genio dello scrittore triestino e un utilizzo mancato dei robot.

Scendendo poi ripenso alla mia teoria capitalista, al fatto che ora sono in coda con gli stessi turisti che salivano e ora scendono e penso che – sotto sotto – lì ci sono anche io. Non il mio avatar. L'incazzatura con i miei figli, la bellezza dei massi sovrastati dal cielo primitivo, l'immagine lontana di laghi e cascate che sembrano uscire da un libro di Tolkien me le porterò dentro, cambieranno anche l'impiegato statale, l'imprenditore, il cococo e tutti gli altri qua in fila che divorano il tempo con l'esperienza di questa camminata, le pause, l'aiutare il padre anziano che non riesce a scendere, il figlio piccolo che si è addormentato nel marsupio. Abbiamo bisogno di questa distopia perché pensiamo che con questo piccolo grimaldello potremmo vedere poi in maniera diversa il nostro mondo reale, disarcionare il folklore stanco della nostra vita standard. Forse dovrei tenere scritte queste cose, mettere per iscritto tutto per non dimenticarlo.

Arrivati alla base ci fermiamo, compriamo cose per ricordare quello che abbiamo fatto, piccoli simboli calamitati da appendere al frigo pensando che magari – proprio partendo dallo spazio che il frigo occupa con la sua presenza – anche la nostra vita a rimbalzo potrebbe cambiare. Paghiamo il parcheggio, saliamo in auto, partiamo.

Ecco. È in questo momento che succede il badabùm. Che non fa esattamente badabùm, è più un “wiiiiiii”. Il suono di quando Peppa Pig si lancia con la bici giù per qualcosa di ripido. “Wiiiiiii” sento e mi giro e vedo che anche Elettra ha sentito il “wiiiiiii” e il “wiiiiiii” non viene dall'esterno, viene chiaramente dal vano motore della Citroen Nemo. “Wiiiiiii” fa il motore e subito dopo l'auto inizia a rallentare, si ferma. “Wiiiiiii”.

Scendo. Apro il cofano. Guardo i vari componenti con la stessa espressione con cui guarderei la carogna dissezionata di un'aragosta. Tiro fuori l'asta dell'olio, per sicurezza, la controllo. Pulisco, reinfilo dentro, tiro fuori di nuovo. Controllo.

Non c'è un filo d'olio. Abbiamo consumato tutto, abbiamo bruciato tutto l'olio motore mentre attraversavamo l'Europa. Il motore è fuso. Chiudo il cofano, rientro nell'abitacolo. Elettra mi guarda, la guardo. “Abbiamo bruciato il motore” dico. “Era finito l'olio e non me ne sono accorto” dico. Elettra non risponde niente, guarda davanti a sé il panorama ora immobile che si vede oltre il parabrezza. I figli – dietro – sono presi da un laocoontico e provvidenziale silenzio.

Come maschio adulto, mi sento di dover dire qualcosa al resto della famiglia, un piano, una strategia. Dopo qualche secondo “cazzo” dico. “Cazzo, cazzo” ripeto per far capire meglio il concetto. Cazzo.

[bada-boom #Ù]

Quando arriviamo in Scandinavia mi rendo conto che la pandemia non esiste più. Nessuno porta mascherine, nessun disinfettante, addirittura in Norvegia nel supermercati non ci sono i guanti per prendere la frutta e la verdura. La civiltà è un po' come l'idea che ognuno di noi ha dell'igiene. Molto personale. David Foster Wallace aveva usato un paragone del genere, ma sicuramente più geniale. Incidentalmente mentre giriamo per la Norvegia sto leggendo La nube purpurea, un curioso libro di fantascienza degli inizi del '900 in cui si racconta di una intossicazione letale che uccide completamente, o quasi, l'umanità. E mentre sono a Jorpeland il libro racconta di come il protagonista arrivi a Stavenger, la città di fronte a noi, e la trovi piena di cadaveri. Tutto è morto, intossicato.

La nostra pandemia invece è come l'idea di guerra che racconta Celine. Anche se ci sei dentro non ti rendi conto di esserci. Ti sparano in pancia, dice, e tu pensi al fatto che devi cambiarti le scarpe che si sono sporcate. Non dice esattamente questo, ma il concetto è simile. Anche Zeno a un certo punto racconta una cosa del genere, quando parla della guerra. Sa che c'è la guerra, da qualche parte, ma non la vede davvero finché dei soldati non lo fermano per strada e gli fanno capire che quella strada, che lui percorreva per farsi una passeggiata, non è più percorribile. Lui insiste, cerca di far capire che deve raggiungere la famiglia che lo aspetta. E la risposta inizia a essere violenta. La guerra è arrivata davvero, come la pandemia, come la nuvola viola di Shiel. Non si passa più. Tutti i morti sono invisibili finché qualcuno non scoperchia le bare.

La guerra in Ucraina dopo e la pandemia prima hanno mostrato il pantano in cui è finita la rete. Sono stati due avvenimenti che hanno fatto letteralmente implodere i social network, li hanno trasformati in una parodia del digitale. Gli algoritmi che macinavano dati e creavano bolle per indurre a creare contenuti e che irradiavano sollecitazioni continue hanno lentamente ma inesorabilmente prodotto delle polarizzazioni sociali sempre più forti e radicate. Non che prima non ci fossero, ma la pandemia e la vaccinazione sono stati due catalizzatori importanti. La guerra in Ucraina è stato poi un processo che è scivolato su meccanismi ormai consolidati.

Ogni gruppo ha elaborato una strategia per continuare a divertirsi, a sentirsi utile. I thread, le discussioni infinite, i flame infuocati non sono andati avanti perché la gente è ignorante, ma perché è divertente stare in rete a litigare. È appagante, ti dà una ragione per promuovere le tue idee, ti aiuta a capire da che parte stare, ti spinge a cercare più informazioni per sostenere la tua tesi. La post-truth, la malinformazione, il debuking, i trollaggio, sono cose emozionanti. Danno adrenalina, non pensi ad altro, aspetti i commenti degli antagonisti e intanto elabori le possibili risposte che potresti dare. Tutta questa spazzatura con cui popoliamo i database on line è eccitante. Giustifica tutto il tempo che passiamo in rete.

Elettra ha scritto qualche tempo fa un libro sul disordine informativo, un libro molto bello che tutti dovrebbero leggere. Ha avuto questa idea di prendere la comunicazione dei social e andare a vedere quali strumenti retorici e quali fallacie della comunicazione la gente usa in maniera più o meno inconscia mentre discute in rete. Mentre leggevo le bozze, che gentilmente mi dava da controllare, ero impressionato nel ritrovare nelle discussioni che seguivo in rete tutte queste meccaniche che Elettra raccontava e che erano vecchie di secoli.

Dal mondo virtuale al mondo reale, questa polarizzazione è esondata: ogni tanto andando a scuola vedo sui muri simboli e slogan degli antivaccinisti. Una W cerchiata, le stampe delle foto prese in rete di gente morta per il vaccino. Dicono loro. Quello che caratterizza il linguaggio di ogni bolla è l'intransigenza, l'assolutismo, il sarcasmo dei partecipanti nei confronti di chi non la pensi esattamente come loro. Che siano per i vaccini, contro il nucleare, per l'Ucraina o contro le adozioni da parte degli omosessuali, quello che è un dato costante è la violenza verbale, la difesa estrema di una idea fatta, spesso, danneggiando le ragioni di chi la pensa in maniera opposta. Bullizzando, disprezzando.

La seconda cosa è la sfiducia. Le fonti crollano e si trascinano dietro l'autorevolezza. Nessuno è più autorevole. Se credi in qualcosa, da qualche parte troverai un documento, un esperto, un gruppo che sostiene quello che pensi tu. Non sei più solo contro il pensiero dominante. Ogni singolo pensiero è una legione, transnazionale, distribuita, antagonista, ma è una legione. Tutto è possibile, con tanto di pezze giustificative.

Da ragazzino usavo il computer al posto della televisione, pensavo che l'informazione, la cultura, nuovi linguaggi sarebbero passati dai computer soppiantando il messaggio piatto della televisione commerciale. Mi ritrovo invece oggi in un mondo dove la televisione commerciale è entrata nel computer, ha cambiato veste, si è distribuita. Un po' come l'agente Smith quando prende il posto di una persona nella matrice, in Matrix. La televisione ha mutato il suo aspetto, ha cambiato anche il suo linguaggio e si è fatta babele. Lo spirito di quella tv commerciale che era entrata in ballo negli anni ottanta andando a demolire l'autorevolezza delle reti uniche. La sua fame disperata di intrattenimento, di reclame, di consumatori.

Ora che sono a Jorpeland, in Norvegia, mi sorregge questa illusione datami dall'ignoranza. Sono lì seduto in un bar circondato da persone che parlano a bassa voce. Non capisco una parola del loro linguaggio, non so cosa stiano dicendo. E allora inizio a immaginarmelo: dal tono della voce, dalle espressioni del volto. E li faccio tutti più intelligenti. Potendomi inventare i dialoghi, tutti questi norvegesi stanno parlando di cose civili, di amore, di rispetto, di sociale. Tanto non capisco. Mi trovo in una nazione civilissima, perché me la sto inventando. L'ignoranza mi protegge dalle loro vere parole, dalle bolle in cui anche loro sono sicuramente finiti, dalle volgarità da bar, dai razzismi, dalle paure di cui – se le capissi – mi vergognerei uscendo fuori all'aria aperta.

[bada-boom #k]

Tra la Danimarca e la Svezia c'è un ponte che – a un certo punto – si immerge sottoterra e diventa un lungo tunnel subacqueo. Si chiama Øresund e quando arrivi nella parte che si immerge sotto all'acqua fai tutta questa parte con l'ansia che sopra di te c'è una enorme massa d'acqua, invisibile e pesante. È lì che succede. Lo stiamo percorrendo con calma, cerco di tenere il motore a regime senza superare il limite di velocità, nessuno parla e guardiamo fuori dal finestrino la strada che prosegue nella galleria da una parte e dall'altra nella luce innaturale ed elettrica. Ad un certo punto, improvviso un rumore, enorme, secco, atlantico. Mi giro e vedo i ragazzi che si guardano attorno con nervosismo, non capiscono, e poi Elettra che si volta e dice o mio dio e allora vedo, nello specchietto retrovisore, i massi di cemento armato che cedono, che crollano sulla strada e poi le luci che iniziano a lampeggiare e – dietro – l'acqua, feroce, scura, rapidissima, il frastuono dell'acqua che sta prendendo spazio, tutto lo spazio mentre io premo l'acceleratore a tavoletta e non penso a niente.

Succederà la stessa cosa quando saremo sul Preikestolen, questo masso a precipizio sul vuoto. Dopo aver camminato un'ora buona mi fermo un attimo per bere e allora passa secondogenito e io gli chiedo dove è sua sorella, terzogenita. E lui mi risponde che è già andata avanti. “Da sola?” dico io e secondogenito alza le spalle e io riprendo a camminare, la cerco con gli occhi e non la vedo, dovrebbe essere lì davanti a me e invece non c'è, inizio a correre nel pezzo finale, e più mi avvicino al masso che dà nel vuoto più cresce la mia ansia di non vedere mia figlia, finché non arrivo a questo questo crocicchio di turisti sul bordo che urlano, una ragazza piange mentre il fidanzato l'allontana e io chiedo cosa è successo, in inglese, what's happened? e il ragazzo si gira per un attimo e dice che una bambina, avrà avuto dieci anni, si è sporta ed è precipitata di sotto era da sola, si è sbilanciata per vedere di sotto, ha perso l'equilibrio ed è caduta nel vuoto. E io mi avvicino, sono terrorizzato, non so se guardare anche io di sotto e riconoscere il suo vestito cobalto e quando arrivo dove ci sono i turisti tutti si voltano verso di me e dicono, ecco, è arrivato il padre.

Così. Mentre guido, cammino, mentre sono nell'appartamento a cucinare, di tanto in tanto succede. Tutte le cose a cui voglio bene scompaiono. I figli, Elettra. Più entriamo nell'Europa, giriamo per le sue strade, ci allontaniamo dalla routine, più mi rendo conto della fragilità di cui siamo fatti. Delle paure e dei terrori che hanno costruito le impalcature dentro la mia anima, anno dopo anno. È una cosa irrazionale, che non fa suono, che viene – esplode – e poi se ne va lasciando delle finte macerie che però qualche consistenza ce l'hanno. Come quei pesci dell'acquario di Konrad Lorenz che più si allontanano dalla loro tana tanto più perdono coraggio, più entro nell'Europa più mi rendo conto che la mia integrità è una cosa sottilissima. La paura che ho verso i miei figli è una forma tossica del volere bene, che controllo per fortuna, ma che mi resta dentro. Un parassita.

E – chiuso nell'abitacolo dell'auto – ogni tanto ritrovo pezzi di me in quei tre ragazzi nei sedili dietro. Ogni tanto dico qualcosa e un Fabrizio femmina fa la sua battuta sarcastica, un diciassettenne chiosa un ragionamento inatteso, un ventiduenne inizia a fare un discorso con Elettra in cui mi riconosco, non nelle cose che dice, nel tono, negli atteggiamenti, nel disprezzo ingiusto ed assoluto che avevo alla sua stessa età. Costretti nel medesimo spazio questi tre animali mandano il loro odore, si staccano da quello che sono, mostrano la loro autonomia e lo scarto rispetto a quello che sono e quello che sono stato. Ma ogni tanto – come i Visitors – si strappano la pelle dalla faccia e sotto ci vedo un pezzo della mia faccia, qualcosa che gli ho buttato addosso e che gli è rimasto come un segno che faticheranno, lo so, a rimuovere del tutto. Una presenza di me che apparirà chissà quando, magari una sera chiusi in bagno a guardarsi allo specchio, o mentre diranno qualcosa a loro figlio e non sapranno perché lo stanno dicendo. Un relitto che resta dentro.

Dentro di loro, lo so, covano come germi tutti gli errori che ho fatto. Tutte le cose che anche io ho detto perché le avevo sentite quando ero un bambino. Tutte le paure, mie, che ho trasmesso a loro. Tutti i miei meccanismi di difesa da adolescente vecchio. Anche quelli li ho usati contro di loro. Quando nella notte guido e so che sono la dietro che non parlano, che cercano scampo nel silenzio e nell'indifferenza li amo e ho paura per loro.

E li ferisco, ancora, come un tempo. Ho in mente tutti gli errori che gli ho buttato addosso, le cose che ho detto e che ho fatto e mentre le facevo o le dicevo uscivo dal mio corpo, mi vedevo da fuori e pensavo, ma cosa cazzo sto dicendo. Ma cosa cazzo sto facendo. Eppure andavo avanti, fino a fine corsa, preso dalla rabbia, dalla paura, dai pezzi grossi dell'ignoranza. Vedevo i loro occhi spaventati, o non abbastanza spaventati, i loro corpi che subivano o venivano agitati dalle mie parole e poi tornavano dritti. E io mi allontanano in preda ancora della rabbia ma piano piano capivo che ero rabbioso con me, per quello che avevo detto o fatto, per come avevo detto o fatto quelle cose ai miei figli, perché non era quello che volevo. Perché lo vedevo che era un errore, era palese. E alcuni errori emergevano naturalmente nel momento in cui li facevo, altri no, ci voleva del tempo, perché accettassi il fatto di averli fatti, così, come un cretino.

E non puoi tornare indietro, cancellare, fare l'annulla. Le cose che dici e che fai ai tuoi figli ritornano, ti ritrovi anni dopo a vedere tuo figlio morfare lentamente, prendere la tua faccia, la tua voce e fare lo stesso sbaglio, dire la stessa cosa a suo fratello o a un estraneo e tu guardi questo e ti vedi da fuori, ragazzino, e soffri.

Così a Oslo, al parco Vigeland. Non ho mai letto niente di Vigeland su nessun libro di arte. Non so perché, me lo sono sempre chiesto. La prima volta che c'ero stato ero rimasto colpito dalla bellezza di queste statue realistiche ma nello stesso tempo surreali, simboliche. Affascinato dall'opera di un solo uomo, dalla grande quantità di queste opere apparentemente sparse nel parco, ma in realtà in relazione tra di loro, anche a distanza. Coppie che si abbracciano, padri che picchiano i figli, ragazzine colte nel fiore della loro adolescenza, vecchi solitari, madri statuarie che allattano: un intero parco dedicato all'umanità e al tempo, alle connessioni tra le persone, ai nuclei che si creano e si distruggono nel corso degli anni. Forse troppo didascalico, troppo realistico, troppo popolare, di Vigeland non ho mai studiato nulla, è come un posto fuori dal tempo.

Quando ci torniamo con i tre figli io e Elettra giriamo come se questo posto l'avessimo scoperto ieri e ci fossimo tornati subito il giorno dopo, per farlo vedere ai figli, invece sono passati trent'anni. E le sculture sono lì, come ce le ricordavamo. Una copia di quelle opere era rimasta in una parte della nostra memoria, come un calco. Gli originali sono ancora lì, e rimango impressionato, stupidamente, per la persistenza dei materiali.

E io e Elettra siamo entusiasti ancora come la prima volta e vorremmo passare questo entusiasmo ai nostri figli, che invece non si entusiasmano. Non fa parte della loro storia, non adesso. Forse proprio il nostro entusiasmo li rende più apatici, scostanti. Forse sono solo stanchi per il viaggio. Forse – semplicemente – non gli piacciono le statue. Ma più camminiamo nel parco, più l'indolenza e l'insofferenza dei nostri figli ci ferisce. Io e Elettra avevamo immaginato una bella storia che non sta succedendo. Primogenito sparisce, secondogenito gira tra le statue guardando il suo smartphone, terzogenita chiede di andare in un parco giochi lì vicino. Le nostre aspettative vanno in palla.

E un certo punto succede. Chiedo a terzogenita di guardare con me dei bassorilievi e lei gira e ride guardando nel vuoto, sta pensando ai fatti suoi, passa davanti ai bassorilievi senza guardarli e io sbotto, la prendo di petto, le urlo di tornare indietro e guardare i bassorilievi, che abbiamo fatto più di mille chilometri per vedere quel parco e ora lei mi fa il piacere di tornare indietro e guardare i bassorilievi e più parlo, più urlo, più vedo il suo volto terrorizzarsi e piangere, più esco dal mio corpo e mi vedo da fuori e dico che cazzo stai facendo, Venerandi, ma cosa cazzo stai dicendo. E lei torna indietro in lacrime e io resto solo, e poi appare Elettra con la figlia in lacrime e mi dice delle cose. “Bravo” mi dice. E poi mi dice altre cose.

Anche Zeno Cosini in un momento del suo romanzo fa una piccola elissi. Zeno dice tutto, confessa tutto, mente, ma confessa ogni cosa che fa e che dice, non ha nessuna vergogna, mai. Tranne che in un punto, un dialogo con Ada, la donna che lui ama, a modo suo. In quel punto Ada si rivolge a Zeno e gli dice delle cose terribili e Zeno rimane travolto da quelle parole e scrive candidamente : “io feci del mio meglio per dimenticarle e vi riuscii”. E non le scrive, è una cancellazione, un pezzo della memoria di Zeno che non abbiamo, che non è rimasta.

Per sopravvivere mettiamo le parole che fanno più male in una zona della memoria che possa cancellarle, lenirle.

Io lì invece le prendo perché sono giuste. Perché nel momento che ero scattato contro terzogenita sapevo che stavo facendo una violenza, un errore. Elettra è arrivata e lo ha corretto, per tempo. È tornata indietro, è riuscita a ricucire, è entrata nel corpicino di terzogenita, rotto dai singhiozzi e ha ricostruito l'ambiente. Le ha mostrato il nostro e il suo dolore, ha preso le distanze, ha fatto in modo che il parco tornasse a essere un posto in cui stare assieme. Se devo pensare a cosa è una famiglia è questa capacità di vedere la sofferenza di chi ti sta vicino e trovare una strategia per empatizzare, per circoscrivere, per neutralizzare la causa del dolore. Per prenderne consapevolezza, per combatterlo assieme.

Elettra l'ha fatto, lì, circondati dalle statue di padri, madri, figlie e adolescenti siamo anche noi un piccolo gruppo scultoreo che cammina, si abbraccia, ride, fatica. Sa che la linea tra la soddisfazione e il dolore è fragile e umana.

[bada-boom #z]

Provo a leggere. Durante queste vacanze mi sono portato solo l'ebook reader carico di romanzi. Niente libri di carta, niente portatile per scrivere, solo questo tablet a inchiostro elettronico carico di romanzi. Una decina di romanzi, classici che dovrei aver letto e che non ho mai letto. La vita è piena di romanzi che dovresti aver letto e che non hai letto, per quanto tu ti sforzi di leggere tutto, ci sarà sempre qualcuno che ti rimprovererà di non aver letto qualcosa. Ma dai, Venerandi, come è possibile che tu non abbia mai letto... segue nome di un romanzo che tu, cioè io, non ho mai letto. È pieno di libri che avrei dovuto aver letto e non ho mai letto, liste interminabili. È un po' la sberla che il padre di Zeno Cosini getta in faccia al figlio in punto di morte, il senso di colpa. E per quanto io mi metta a leggere furiosamente romanzi, sempre ce ne saranno di nuovi da leggere, è una battaglia impari.

Così, questa estate, ne ho messi una decina sul lettore e ho iniziato a snocciolarli senza pietà. Calvino, Fante, Carrere, Schnitzler, Lussu, Shiel, Moravia, Camus, Celine, Lewis, tutti questi grandi classici che avrei dovuto aver letto e che ora leggo, calma ragazzi, non vedete che li sto leggendo? Non mi state addosso, sono qua che li leggo, proprio quelli che avete detto che devo, assolutamente devo aver letto. E più li leggo più mi ci sento dentro, come se fossi caduto in un impasto.

Gia a Genova, prima della partenza mi ero svegliato, ero andato in cucina, e mentre facevo colazione avevo aperto tutta la decina di ebook che mi ero comprato per il viaggio, tutti, avevo impostato la grandezza corretta del font, i margini, avevo disattivato la sillabazione e avevo iniziato a leggerli tutti e undici, la prima mezza pagina.

E mentre ero lì che passavo da Calvino a Celine, da Moravia a Fante, venivo colpito dalla materia, dalla forma mobile della scrittura, delle parole, del suono. L'incipit è un po' come entrare in un flusso, avvicinarsi al bordo della piscina e guardare l'acqua sapendo – dentro di te – che se fai il salto poi cambia tutto, ma per ora sei ancora salvo, sei un terrestre che fissa una massa d'acqua. L'impasto era tutta la glassa, il sovrapporsi di tecniche di quegli ometti che avevano passato ore, giorni, anni a scrivere cose che potessero mentirmi, intreccio, scene, personaggi, pause, idioletti e che ora – aprendo il libro – portavano il senso di sé, del loro essersi messi lì a trascriversi, a compitare il loro modo di ingannarmi e farmi perdere tempo. Sentire – da lontano – la consistenza della loro lingua, quella che leccava e si muoveva nella loro testa.

Era la sensazione strana di trovarmi davanti a codici, a declinazioni di quella tecnologia nata per tenere conto del bestiame e delle anfore d'olio, che ora veniva distorta per raccontare cose inesistenti che permangono nel tempo. Una tecnica inventata per memorizzare cose reali, dati, usata ora per descrivere l'irreale e il fiabesco. La narrativa è un allungamento deforme delle fiabe delle buona notte, una versione per lenire, anche per gli adulti gli orrori del giorno. Così come la musica popolare, gli incastri della trap come gli accordi base del rock, altro non sono che una versione portatile – negli anni – delle ninne nanne, i jingle con cui le femmine del pianeta ci hanno rassicurato nel momento di chiudere gli occhi, così fragili, nel buio. Quelle per innamorarci, quelle per danzare.

Decine di incipit come odori personali, questo ingombro dell'autore, la scheda personale, la prefazione dello scrittore contemporaneo, la seconda, la terza e la quarta di copertina, la voce che ritorna lì, nero su bianco, a raccontartela, a costiparti la testa di una leggera frenesia che si accumula, periodo dopo periodo, finché non sei saturo e dici basta, basta e chiudi tutto, salvando lo stato, per riprendere appena possibile, una volta esauriti gli altri infiniti antipasti dell'anima di cui siamo circondati.

E ora – con la schiena a pezzi – con le parole di Svevo ancora nelle orecchie, mi muovevo all'interno di quei fragili labirinti narrativi. Fragili, la scrittura è di una fragilità disarmante. Richiede uno sforzo da parte di chi legge, andare avanti, riga dopo riga, parola dopo parola, staccarsi da tutto quello che si ha attorno. Trovavo dei pezzi, li sottolineavo, cercando di mangiare, di fare cannibalismo di questi autori invisibili, essere anche io un po' Fante, un po' Carrere, un po' Celine. Divorare questa spiaggia allucinante, con il sole che annienta ogni cosa e in piedi ci sono io con la pistola in tasca, me la sento fra le dita, lucida e dura e cammino verso quell'arabo per terra, l'acqua dietro di lui. Le arance che ho messo sotto al letto, ne ho divorate e decine e ora ho la pancia gonfia, mi viene da vomitare mentre fisso il prato verde, appena fuori dalla finestra aperta del mio appartamento. Tutto mangio, divoro, cambio forma ogni secondo.

Leggere è una metamorfosi, una droga. Un side effect della comunicazione inaspettato e provvidenziale. E poi succede questa cosa, che alcune cose che aveva iniziato a dirmi Svevo, finisce di dirmele Celine. Mettono tasselli a una terza narrazione che non è più quella di Svevo né quella di Celine. È la mia, è interna, quando vuole salta le righe di questi morti senza nemmeno leggerle e poi si ferma e divora una frase, una parola, così, come un banchetto dove posso mangiare quello che voglio, evitare certe pietanze, tirare fuori dalla bocca i resti di un lemma e ributtarli nel piatto, così, piene di legacci e legami interni del mio corpo.

A un certo punto penso che nella mia testa è una tempesta di copia e incolla dei diversi romanzi, sberle di queste storie e prese come una sola, vedo entrare il Bandini di Fante nella provincia francese di Celine, vedo gli esseri senza tempo di Calvino che incontrano con l'ultimo uomo sulla terra di Shiel, un personaggio si sposta all'interno di una descrizione, è un centone in cui tutto questo impasto si incontra per un attimo, prima di crollare, come la mia schiena, che mentre sono lì che tento di leggere, faccio uno spostamento su di un gomito e quella manda le sue urla atroci nella carne, altro che Zeno, questo è un dolore reale. Il dolore nella vita reale fa male, davvero. Chiudo l'ebook reader, non riesco a leggere.

Alla fine la letteratura è fragile, ha molta meno forza di quello che crediamo. Basta un mal di schiena per fare tornare i segni sulla forma della pagina, per renderli degli ostacoli per occhi, dei semplici simboli messi gli uni davanti agli altri. Inutili, spenti. Quando arriva il dolore, anche quello interno, non della carne, tutta la forza della fiction decade. Ogni organo del tuo corpo inizia a pesare mille quintali, dentro di te. Ogni cosa fuori è lì immobile per ferirti. La cosa migliore è stare nel letto, coprirsi con un lenzuolo e fare la magia del prestigiatore: scomparire dall'umanità, dalla stanza, dalla famiglia. Chiudo gli occhi. Li riapro: davanti a me c'è Elettra. “Io non me la sento di ripartire domani” le dico. Lei annuisce. Pensa. “Domani vediamo di fare qualcosa per te” dice e io rispondo “occhei”. Come in un romanzo americano, occhei e sento tutto il fastidio del mondo che si gratta attorno a me, oltre lo spazio interno all'appartamento, sopra il tetto fuori nel vento nero della notte norvegese che smuove rami e terra e più in là, per l'intera circonferenza del globo, a scuotere capelli, finestre, masse immani d'acqua scura.

[bada-boom #y]

La missione che abbiamo, partendo da Genova, non è però visitare Kassel. Documenta è solo una tappa del percorso. La missione reale è quella di lasciare primogenito in Svezia, per il suo anno di Erasmus, visitare il Lysefjord in Norvegia, possibilmente salendo fino al famoso Preikestolen, un precipizio, e – infine – passare per Älmhult, la patria dell'Ikea, per chiudere un conto bancario che Elettra aveva aperto quando insegnava alla scuola internazionale svedese. Per fare queste cose io e Elettra abbiamo programmato un percorso serrato a tappe, che comprende anche Oslo, per mostrare ai nostri figli le statue di Vigeland che io e lei avevamo visto quando eravamo seriamente innamorati, voglio dire, di quel tipo di innamoramento che fa girare il cielo e precipitare in un mondo di roba liquida fosforescente. Quando non eravamo ancora né padri né madri e giravamo la Scandinavia come due pezzi di un corpo, due ragazzi con l'Interrail in mano. Mille anni fa.

Fa senso pensare che giravo con Elettra per la Scandinavia e non c'erano i miei figli, le torri gemelle erano ancora in piedi, niente internet di massa, la Jugoslavia era in tutte le cartine geografiche, appena infuocata, la Apple puntava forte sulle linee Quadra e Performa, Berlusconi aveva da poco fatto la sua discesa in campo, Occhetto lucidava la sua gioiosa macchina da guerra, e io ero già lì innamorato a vedere le statue a Oslo, leggendo le sceneggiature di Bergman e andando a visitare i posti dove Strindberg aveva scritto i suoi romanzi ed ero un ragazzino cretino come adesso, vicino a Elettra che mi guardava e non so cosa vedesse, non lo so nemmeno adesso. Mille anni fa, girano in fretta. Chissà, mi chiedo, che effetto mi farà rivedere quelle statue a decenni di distanza con i miei tre figli? Ci saranno ancora? Ogni tanto mi chiedo anche: ma c'erano già state davvero? È passato così tanto tempo che potrei essermi immaginato tutto.

In auto ci facciamo tirate da dieci, dodici ore di seguito. I figli, dietro, dormono, tappano, guardano fuori dal finestrino, ascoltano la musica, la voce di Zeno Cosini che racconta la sua vita. Man mano che prosegue il racconto di Svevo io confesso ai figli, vedete, Zeno sono io. Quando sento La coscienza di Zeno sono come quel personaggio di Tre uomini in barca, quello che legge i libri di medicina e più li legge più capisce di avere tutte le malattie del mondo. Io uguale con Zeno: più quello racconta, più capisco che parla di me, confessa i miei difetti, i miei modi di mentirmi, di sopravvivere. La coscienza di Zeno non è un grande classico della narrativa perché scava all'interno dell'uomo moderno, o perché scoperchia i processi psicanalitici, ma perché Svevo parla di me, in maniera palese. Spiego la cosa ai ragazzi mentre guido, la malattia di Zeno, i suoi dolori, sono tutti i miei.

La sera, dopo questa confessione, succede questa cosa. Guido fino alla casa che abbiamo prenotato, arriviamo alla sera, conosciamo il nostro ospite che ci saluta e ci spiega come entrare in questo piccolo appartamento, grazioso, costruito sopra un garage nel mezzo di un bosco. Posteggio, tutti scendono dall'auto, io spengo l'auto, metto il freno a mano, apro la portiera, metto fuori le gambe, faccio lo sforzo per alzarmi e parte un dolore, enorme, profondo. La schiena manda una fitta precisa, assoluta e io ripiombo dentro l'auto. Uso le mani, mi aggrappo al volante, riesco a mettermi in piedi e cerco di capire cosa cazzo mi è successo. Non dico niente a Elettra, inizialmente, voglio prima capire cosa ho.

Dopo un po' di tentativi, di analisi e di test di movimento capisco che quello che ho è che sono vecchio. Sono un adolescente, certo, ma vecchio. E la schiena mi sta mandando delle fitte atroci, non riesco nemmeno a slacciarmi le scarpe. Confesso dopo un po' la cosa a Elettra e anche lei cerca di capire cosa possa essere e dopo un po' capisce che il male che ho è che sono vecchio. Per fortuna Elettra ha portato con sé, oltre ai suoi medicinali salvavita, anche dell'Oki, un antinfiammatorio. Così mi siedo sul letto soffrendo come un cane e mi sento Zeno Cosini con il suo male alla gamba, identico, vedete figli, dico, anche io come Zeno ho una malattia. Si chiama corpo. Bevo il mio antinfiammatorio e provo, inutilmente a sdraiarmi e penso che adesso dovranno portarmi in ospedale, che potrò solo che peggiorare, che con il mio stupido essere malato rovinerò la vacanza di tutta la famiglia.

La colpa non è mia, ma di Svevo. Delle venti ore di audiolibro di Svevo. Evidentemente la sua malattia dell'anima è contagiosa. Passa. Dalla sua gamba è passata alla mia schiena, penso, sdraiato a fissare il soffitto obliquo del sottotetto. La mia figura distorta di padre di famiglia, di uomo alfa ha chiamato in soccorso subito il male, la malattia, per tornare a essere rapidamente un preadolescente, una persona non sufficiente, che ha bisogno di essere curata, accudita, che necessità di continue attenzioni. Ecco. Il latte, l'Oki, le copertine sulle spalle, il bacio della buona notte.

Casco male, ogni figlio pensa ai fatti suoi, cercano la rete, mettono le cose in carica, non si accorgono nemmeno che ogni tanto tento di rimettermi seduto e non ci riesco e mi ribalto indietro contro il materasso. Porca puttana, penso anche. Torno a fissare il soffitto. Lo tocco. Sospiro.

[bada-boom #x]

A Kassel arriviamo alla mattina. Documenta, la mostra d'arte è distribuita, in varie parti della città, un po' come una cuccia diffusa per cani. Appena riesco ad entrare in uno degli edifici capisco di aver sbagliato tutto. Cammino e mi rendo conto che non c'è niente di eclatante, non ci sono opere che mi sbalordiscono, ma è pieno di cose. A centinaia. Abbiamo previsto tre o quattro ore di visita alla mostra, ma quando sono dentro capisco che dovrei starci dei giorni, da solo, girando e cercando informazioni. Una persona su Facebook mi dirà poi che a Kassel troverò più artigianato che arte, ma in quel momento non me ne frega niente. Mi sento come quando, negli anni ottanta, andavo quattordicenne da Genova a Milano per lo SMAU, la fiera dell'elettronica e dell'informatica, e giravo frenetico per i padiglioni a cercare gli home e i microcomputer che stavano assaltando l'occidente con la novità del loro linguaggio. Sono sempre lo stesso ragazzino, vecchio, che gira e guarda tutto con uno sguardo disposto a farsi affascinare, solo che questa volta non dalla tecnologia: sono davanti a cose che nascono per non servire a niente.

Cammino e mi ritrovo in sale buie dove vedo proiettati dei ragazzi orientali, seduti a terra, che fanno qualcosa che non capisco, per lunghissimo tempo, video dove neonati occidentali gattonano all'interno di stanze chiuse, televisioni di cartone, a decine, disegnate a mano con l'immagine di Fidel Castro, elaboratissimi meccanismi in legno e metallo che non fanno nulla, ricostruzioni di cinema africani che mandano i blockbuster girati in Africa, negozi che espongono vasetti di Nutella di marmo bianco, banane Chichita in bronzo, frutta immangiabile che morfizza in arma, torri trasparenti, maschere con i volti stilizzati di desaparecidos, manifesti di rivolta e antagonismo scritti con caratteri che non posso nemmeno leggere, chiese cattoliche piene di cadaveri vodoo, stamperie, gente che scolpisce scritte con i chiodi su carcasse animali, mia figlia su uno skate all'interno di una pista, zone per disegnare, scritte sui muri, simboli, cartelli che volteggiano nell'aria, idee. Centinaia di idee e ognuna potrebbe prenderti e catturarti.

Non mi sento in un posto in esposizione, mi sembra invece di essere all'interno di un enorme laboratorio aperto, in cui sei quasi spinto a partecipare, a informarti, a fare anche tu qualche cosa. E con un forte messaggio politico, sociale. Siamo tutte queste parti di mondo non occidentale, questi frammenti di tradizioni, storie, civiltà diverse, le une sovrapposte alle altre, cancellando e nascondendo. E siamo il mondo, la terra concreta, l'energia dell'acqua e del vento, la massa di aria che ci avvolge, sottilissima. Penso che abbiano ragione tutti e due i gruppi dei miei amici, questa mostra è una merda ed è bellissima. Ogni tanto vedo Elettra che gira, uno dei miei figli che osserva le cose e non dice niente. Capisco che questa cosa che sento, questo entusiasmo irrazionale è incomunicabile. Sono affascinato dal fatto che un posto del genere esista, che attiri persone, che crei connessioni per il mondo.

E io sono lì, ci sono sempre stato. Questo interesse per la cosa che non gira, per l'esclusione, per la stranezza, per l'inconsueto fa parte di me. Non è uno standard che posso applicare a chi amo, alle persone con cui parlo. La letteratura, l'arte, la comunicazione sono da qualche parte dentro di noi. Sono nel nostro dna, o non ci sono. Sono legami simbolici che possiamo curare, far riconoscere a chi ci circonda, fare emergere o nascondere, ma sono parti animali di quello che siamo. Non si tratta di intelligenza o di un dono, è più uno scatto muscolare che prende atto. Una fame chimica che arriva o non arriva. La bellezza è la presenza di una forma nello spazio, quello spazio e solo per noi. Poi segue lo studio, la formalizzazione, le ore passate all'Università a guardare le diapositive delle nature morte, la frutta, le formiche, i violini e le viole abbandonate, gli uccelli uccisi e appesi ai ganci davanti a me. Ma se ero lì era perché qualcosa dentro di me rispondeva, un muscolo.

La prima volta era successo al liceo Classico, il professore di Arte, non so bene perché, ci aveva portato in un'aula a vedere un film, in bianco e nero. Il professore d'Arte quando spiegava guardava sempre nel vuoto: uno dei due occhi non funzionava più, era sbrincio. Gli studenti lo sfottevano, di nascosto, vedendo che nel viso, dalla parte dell'occhio cieco, si vedevano i peli della rasatura sbagliata. È l'unica cosa che ricordo di tutte le sue lezioni di arte, la barba tagliata male e quella mattinata passata a vedere un film in bianco e nero. Entriamo nell'aula, lui fa partire il film. Il film, scoprirò poi, è “La dolce vita” di Fellini. Man mano che il film andava avanti io restavo a fissare lo schermo. Le immagini, le inquadrature, tutto mi entrava dentro e io restavo immobile, rapito, completamente rapito. Nell'aula vecchai, con le tende strappate, le sedie inadatte a stare seduti, io ero entrato dentro lo schermo. Ogni tanto mi voltavo per vedere i miei compagni e nessuno stava guardando il film, non come lo stavo guardando io. Chiacchieravano, guardavano fuori dalla finestra, si facevano scherzi, cazzeggiavano. Io tornavo dentro Fellini, quei bianchi e neri assoluti. Alla fine il professore spegne tutto, ci dice che dobbiamo tornare in classe e io mi alzo, come se mi fossi svegliato da un sogno profondissimo. Non torno in classe, vado da lui che sta ancora armeggiando per spegnere il proiettore e gli dico qualcosa del tipo, professore, ma questa cosa è bellissima. Ricordo ancora che lui si è tirato indietro, ha preso spazio per quello che gli stavo dicendo. Questa cosa è bellissima. Ha sorriso, mi ha detto qualcosa che non ricordo. È in quel momento che ho capito che tutte quelle due ore di cineforum erano servite forse solo a me, probabilmente solo a me. Che ogni tanto certe cose succedono per andare a toccare un muscolo, una resistenza mentale, una piccola parte umida dentro una singola persona, e che è uno sforzo immane quello della letteratura, dell'arte, del cinema, dei videogiochi. Della scuola.

Così, ora a Kassel mi sento protetto, ma anche un traditore. Ogni volta che lascio un padiglione, di corsa quasi per passare a quello successivo e vedere più cose possibile prima di andarmene, provo un senso di colpa e di paura. Come se stessi passando da turista all'interno di un mostro che in quel momento è vivo, con le sue viscere che pulsano, le sue contraddizioni, le sue poveracciate, ma che poi non ci sarà più. Sono un Achab dentro questo corpo e più avanzo più lo sto perdendo. Più passano le ore, più vengo espulso fuori, verso il resto del viaggio. E penso che anche questo sentimento di vuoto e di perdita devo conservarlo con cura, portarmelo dietro.

È dentro quel budello che penso alla cittadinanza. La mia generazione non è determinata dall'età, la mia patria non ha niente a che vedere con il luogo di nascita. Dentro a quell'organo animale, a Kassel, sono circondato da gente della mia generazione, esseri simili a me. Ragazzini tatuati, donne dai capelli grigi, gli occhiali delicati e lo sguardo acceso. Quella cuccia diffusa è un pezzo della mia patria, come si è andata formando per decenni, prendendo i pezzi per il mondo. La tradizione è lì, in quel continuo spostare le cose per distruggerla. Benvenuti in Europa, penso, mentre la bestia, il continente, si immerge nelle profondità della storia.

Poi – ecco – vedo uno dei figli grandi, gli chiedo, che ne pensi, ti piace? Quello alza le spalle, dice boh. Alzo le spalle anche io. Boh.

[bada-boom #8]

Per fortuna Elettra riesce a trovare un posto dove dormire, quattro notti. Non ci siamo mai fermati così tanto. Mentre io guido questa Volvo preistorica, lei allo smartphone zomma, cerca i dati della strada, mi dà delle indicazioni. Dobbiamo spostarci a Sandnes. Inizialmente avevo capito Sadness e avevo pensato ad una città che ci avrebbe liberato dalle nostre preoccupazioni. “Non è un appartamento” mi spiega poi Elettra, “è un Hotel”. Mi guarda.

In genere cerchiamo di andare a dormire in appartamenti, perché è più comodo e puoi usare la cucina. Avere la cucina è importante perché puoi fare colazione, mangiare un po' quando vuoi e non sei costretto ad andare ogni sera al ristorante o – peggio – mangiare cose prese nelle grandi catene del cibo d'asporto. In scandinavia fare colazione al mattino però non è semplice. Una volta, in un piccolo paese, sono uscito alle otto del mattino per andare a prendere un cappuccino o un caffè, anche di quelli loro lunghi, e portarne uno a Elettra. Mi sono ritrovato in una città fantasma. Tutto era chiuso. Andavo di insegna in insegna per scoprire che lì tutto apriva alle undici del mattino. Anche le caffetterie. Il tempo di vita è completamente diverso, devi cambiare anche tu. Avere una cucina ti permette di non cambiare, di restare turista, passare sopra la realtà che hai intorno. Viaggiamo ma ascoltiamo musica americana, italiana, siamo a scrivere messaggi sugli stessi social network che usavamo a Genova. La nostra bolla ci segue man mano che viaggiamo, si mette tra noi e la realtà fuori dal finestrino. Ogni gruppo di turisti è chiuso in una bolla invisibile con cui si protegge, cerca di rassicurarsi, di sentirsi come a casa. Il cappuccino, gli spaghetti al sugo, le foto su Facebook, i like.

L'Hotel ha il tipico aspetto dell'Hotel generico dell'occidente. Reception, check in, tessera magnetica come chiave, ascensore anche solo per andare al primo piano, la numerazione delle centinaia immaginarie. Moquette per terra e quadri anonimi alle pareti. Mentre camminiamo per i corridoi potremmo essere in qualunque parte del mondo. Poi entriamo ed esplodiamo: ognuno crolla nel suo letto, tutti i geniti si mettono a tappare i loro schermi, io ed Elettra cerchiamo le prese della stanza per mettere in carica tutto quello che possiamo caricare. Stacchiamo la televisione, tutto quello che non ci serve per tenere attiva la nostra parte di tecnologia. Tablet, smartphone, sigarette elettroniche, ebook reader, Nintendi, tutto emerge a galla per prendere boccate di energia, spasmodiche. Controlliamo il bagno, guardiamo dove sono gli asciugamani, le lenzuola, cerchiamo i dati per connetterci al wi-fi. L'essenziale.

A un certo punto esco, vado avanti e indietro dall'auto per portare le valigie e le sacche con i vestiti, i pigiami, le altre cose che ci servono per stare quattro giorni in quel posto. Devo anche spostare la Volvo più lontano, non c'è parcheggio lì attorno se non quello a pagamento.

Mentre vado avanti e indietro vedo questa porta sul nostro piano, un po' distante dalle altre. Non ha il numero, c'è una scritta sopra che inizialmente non riesco a leggere perché è troppo lontana, ma poi prendo e mi avvicino e vedo che c'è scritto “guest kitchen”. Rimango come elettrizzato. Cucina per gli ospiti. Finisco di portare le borse e annuncio ad Elettra la mia scoperta. “C'è una cucina degli ospiti” dico. Elettra alza la testa dal suo cellulare. “E noi siamo ospiti?” chiede. Alzo le spalle. Lo ignoro.

Esco e vado a parcheggiare la Volvo più lontano dall'Hotel. Giro senza navigatore in questa città che non ho mai visto prima, piccole casette bianche che digradano dalla collina e istintivamente salgo sempre più in ato fino ad arrivare ad una grossa costruzione sulla cima: un centro olimpico. Parcheggio di fronte al centro, scendo, chiudo la portiera mentre attorno a me tutto ruota. Si è alzato un vento fortissimo accompagnato da rapide scosse di pioggia e io a passo veloce mi dirigo dove – credo – possa essere l'Hotel. Nel centro olimpico ci sono dei ragazzi, in cerchio, che ridono e fanno qualche gioco mentre la tempesta sbatacchia i loro completi sportivi. Li guardo, cerco di farmi una idea di che tipo di società sia quella in cui mi trovo, che abitudini abbiano questi ragazzi.

Inizio a scendere verso il basso e le abitazioni sono quasi tutte unifamiliari. Fa impressione vedere le singole case, ognuna con il proprio giardino, il proprio posto auto. Tutto è regolare, pulito, nell'erba continuano a ronzare muti i robot tagliaerba. Pochissima gente per strada. Lo spazio tra le persone è incomparabile con quello a cui sono abituato a Genova dove le case sono costruite le une sulle altre, dighe di appartamenti fondate nel fango, auto incolonnate nelle strade troppo strette, espansione verso l'alto. Lo spazio e il tempo mi sembrano qua completamente diversi.

Arrivo all'Hotel e invece che salire di sopra vado alla reception per chiedere cosa sia la Guest Kitchen e la ragazza ascolta il mio terribile inglese e mi dice certo, la cucina è disponibile per tutti e lascia il bancone, mi segua, mi dice e mi precede al piano di sopra, arriva fino alla porta serrata e avvicina il suo polso alla maniglia che scatta elettronicamente: un braccialetto lasciapassare. Si apre allora la porta che rivela la cucina: fornelli, lavatrici, frigoriferi, pentole, lavandini, posate, piatti e bicchieri: sembra di entrare in una di quelle cucine che si vedono nei polizieschi americani quando uno dei personaggi scappa inseguito da un altro e nelle sue corse finisce nelle cucine dei ristoranti. La ragazza mi sorride e mi dice che posso usare tutto quello che voglio. Che sono felici se uso la loro cucina. In inglese chiedo se devo pagare qualcosa, e lei fa una faccia come se avessi detto un'assurdità. Si senta libero di usare quello che vuole, dice e mi sorride ancora e se ne va, lasciandomi lì, a guardarmi attorno.

Iniziamo a girare per i supermarket. Anche quelli hanno orari improbabili, ma con un po' di attenzione riusciamo a comprare i materiali per cucinare, carne per chi mangia la carne, verdure per chi mangia le verdure. Il Nescafé al cappuccino continua ad accompagnare il nostro viaggio. In cucina incontro diverse persone: un gruppo di lavoratori, forse russi, molto taciturni, vengono a lavare i loro vestiti nella lavatrici e a cucinare, alla sera tardi piatti che lasciano poi nel piano un odore acre e irrespirabile. Un ragazzo francese il giorno dopo mi chiede come funzioni la lavatrice e io rido e gli dico che è meglio che se lo faccia spiegare da qualcun altro.

In quella cucina, ad un certo punto, sono felice. Una cosa molto rapida, non più di cinque minuti. Sono seduto sul margine di una finestra da cui vedo lo skyline della città, è mattina, sto bevendo il mio cappuccino e guardo fuori. Ho parlato da poco con il ragazzo francese e per un attimo ho pensato a quella come la normalità: un posto non mio, che non mi appartiene, che posso usare per mangiare, in cui appaiono persone come me che vengono da nazioni diverse, che non parlano la mia lingua e io non parlo la loro, con abitudini e tradizioni che non conosco. La normalità di non dover difendere qualcosa, di dover pulire immediatamente quello che ho usato per farlo usare dagli altri, essere continuamente a contatto con gente completamente diversa. È una felicità ingenua che arriva dal passato, i residui di quando andavo negli ostelli, quando davvero pensavo al mondo come una comunità di gente ragionevole, capace di abbandonare il proprio interesse particolare per un nuovo modo di abitare il mondo. Come se fosse una cosa che si sarebbe dovuta creare da sé, per il semplice fatto che una nuova generazione di ragazzi stava prendendo spazio, portando nuove idee, nuovi modi di fare. È una sensazione che mi prende, non più di cinque minuti, una specie di speranza, una parte del mio essere adolescente, vecchio, che però ancora non si è irrigidita, che ancora crede nella mobilità delle cose.

[bada-boom #5]

Nel mio zainetto portatile ho messo il mio ebook reader, carico di romanzi, questa estate voglio leggere romanzi, e le medicine di Elettra. Sono i farmaci salvavita che deve prendere tutti i giorni, per anni, perché qualche anno fa le hanno asportato un tumore da un seno.

La prima volta che Elettra mi ha detto che aveva un tumore al seno, era distrutta e io la consolavo dicendo cose che – a posteriori – erano delle cazzate. Non avevo idea di cosa volesse dire avere un tumore. La consolavo con parole piene di una speranza che era tutta artificiale, dettata dalla mia ignoranza. Le dicevo che la avrebbero curata, che avrebbero tolto il tumore, che era piccolo, che anche il medico le aveva detto che – tra i tumori – non era uno dei tipi peggiori, che era controllabile. Che – insomma – era un momento duro ma lo avremmo superato.

Quello che ho imparato invece, nei mesi successivi, durante tutte le visite, durante tutte le rabbie, le paure che hanno accompagnato Elettra durante la preparazione all'operazione e poi dopo durante la chemioterapia e la radioterapia, è che un tumore ti cambia la vita. C'è una vita prima del tumore, dove hai dei sogni, degli obiettivi, che sai di poter contare su alcuni aspetti del tuo carattere e del tuo corpo, e c'è una vita dopo il tumore, dove i sogni, gli obiettivi, gli aspetti del suo carattere e del tuo corpo su cui puoi contare sono completamente cambiati.

Il tumore entra nella tua vita e inizia a prendere spazio, i tuoi pensieri, inizia a rivedere con te le prospettive che ti eri data, prende il futuro e ci si mette dentro. Anche quando viene rimosso, quando la carne viene presa e portata via, quando vengono tolti anche i tuoi linfonodi, quando ti cadono i capelli, quando ti senti debole e sola, quando le radiazioni ti bruciano la pelle e dentro per fare in modo che quel tumore sia eradicato da te, anche lì il tumore in realtà lascia il suo segno. Rimane nella paura costante della recidiva, nel suo sequel possibile. Resta nel cercare in rete le persone che sono come te, le microcomunità di donne che hanno vissuto o stanno vivendo quello che hai vissuto tu e che – di mese in mese – cambiano il loro assetto. Alcuni nuovi membri entrano nei gruppi, terrorizzati e in cerca di informazioni, altri escono, annunciano il ritorno del tumore, raccontano lo stadio finale, lasciano tutto.

Nel mio zaino ci sono le medicine che accompagnano Elettra da anni e ancora per anni l'accompagneranno, medicine che le alterano il corpo, l'umore, l'energia. Che le salvano la vita e le deformano la vita di tutti i giorni. La stancano. Quando le avevo detto che era un momento duro ma lo avremmo superato, mi facevo carico di una cosa su cui non avevo nessun potere, una cosa che che resta personale. Il tumore è tutto suo. Non è empatico, non è infettivo. Io posso solo mettermi lì, vicino a lei, e cercare di capire la cosa migliore da fare in un momento. Aspettare di capire cosa potrebbe essere utile per lei, in quella piccola ora che passiamo assieme, in quel frammento di vita. Frammento per frammento, momento per momento.

Non dare consigli. Non dare speranze. Non dire “dài, poi tornerà tutto come prima”. Non mettersi a organizzare la sua vita. Non scomparire. Non scomparire. Non sottovalutare il suo dolore, il suo fastidio, la sua stanchezza in tutti gli step dello stress della pre-operazione, il panico che – mese dopo mese – lui è lì nel tuo seno che cresce e l'ospedale non ti chiama. La routine meccanica delle infermiere e dei medici che ti trattano come uno dei tanti anelli della catena di montaggio e non si rendono conto che non è facile restare lì ad aspettare. Non trovare informazioni. Non trovare modo di comunicare il tuo essere irrazionale, il tuo diritto – cazzo – di essere irrazionale. Le ore passate ad attendere i preparati per la chemio senza sapere quanto manchi al tuo turno, perché non arrivino, perché uno sia passato prima di te. Andare a vedere le parrucche, i foulard per i tumorati che fanno chemio, scoprire i negozi specializzati anche in questo. Tornare a casa furenti perché la macchina per la radioterapia è guasta, piangere. Incazzarsi.

Volere soltanto il modo migliore per passare questo momento peggiore della vita. Dignità, civiltà, ascolto. Cose che si frantumano nei tagli, nei corridoi deserti, nelle code infinite, nello stress, nei banconi dove non c'è nessuno con cui parlare, gli uffici chiusi. Ogni piccola tagliola diventa un muro, un impedimento ad andare avanti. L'indifferenza.

È irraccontabile. Quando le persone vengono e parlano con Elettra, e si parla di queste cose, capisco che è irraccontabile. Non si percepisce la svolta, il cambiamento che prende la tua vita. Il fatto che la tua vita comunque continua, e puoi ancora fare cose incredibili, ma non è quella di prima, è un'altra cosa. Ed è un'altra cosa quello che dici tu che le stai parlando, è un'altra cosa avere dei figli, è un'altra cosa pensare a cosa farai tra cinque anni, tra dieci. È un'altra cosa il peso di quello che ti circonda, anche la merda, la sfiga, quando ti colpisce è un'altra cosa. Sei più debole, ma nello stesso tempo sei anche più resistente. Hai un tumore, hai vissuto cose che sono irraccontabili e sei ancora qua. In prospettiva, hai spianato montagne.

Anche lì in auto, tra me e Elettra che ora dorme, c'è il tumore, nei medicinali, nei pensieri, anche lui sta facendo con noi le vacanze, zitto, eradicato, decorticato, ci segue in Germania, in Svezia, in Norvegia. Il viaggio di Elettra è un viaggio più profondo del mio e dei nostri figli, sta viaggiando in un pezzo di Europa che è fatta anche dal suo corpo, dal suo odore, dal suo esserci e dal suo volerci essere. Se il mio viaggio è solo un viaggio il suo è una presenza. La guardo, di tanto in tanto, quando non mi vede poi di colpo si risveglia. Si guarda attorno, mi vede. “Vuoi il cambio?” mi chiede e io dico, grazie, alla prossima pausa, grazie.